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La nonviolenza e' in cammino. 472
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO
Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it
Numero 472 del 10 gennaio 2003
Sommario di questo numero:
1. Nanni Salio, perche' le guerre?
2. Emanuela Citterio intervista Pietro Pinna
3. Maria G. Di Rienzo, Ancora sul "relativismo culturale"
4. Zvi Schuldiner, terroristi
5. Ileana Montini: Israele e Palestina, contro tutte le uccisioni
6. Mao Valpiana: Israele e Palestina, la scelta della nonviolenza
7. Un incontro con Johan Galtung a Torino
8. Mohandas Gandhi, un cammino chiaro
9. La "Carta" del Movimento Nonviolento
10. Per saperne di piu'
1. EDITORIALE. NANNI SALIO: PERCHE' LE GUERRE?
[Ringraziamo Nanni Salio (per contatti: regis@arpnet.it) per questo
intervento. Nanni Salio, nato a Torino, segretario dell'Ipri (Italian Peace
Research Institute), si occupa da diversi anni di ricerca, educazione e
azione per la pace, e' tra le voci piu' autorevoli della nonviolenza in
Italia. Opere di Giovanni Salio: Difesa armata o difesa popolare
nonviolenta?, Movimento Nonviolento, Perugia; Scienza e guerra (con Antonino
Drago), Edizioni Gruppo Abele, Torino 1982; IPRI, Se vuoi la pace educa alla
pace, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1983; Le centrali nucleari e la bomba,
Edizioni Gruppo Abele, Torino 1984; IPRI, I movimenti per la pace, Edizioni
Gruppo Abele, Torino 1986-1989; Progetto di educazione alla pace, Edizioni
Gruppo Abele, Torino 1985-1991; Le guerre del Golfo, Edizioni Gruppo Abele,
Torino 1991; Il potere della nonviolenza, Edizioni Gruppo Abele, Torino
1995; Elementi di economia nonviolenta, Movimento Nonviolento, 2001]
Dopo tantissime riflessioni, studi, speculazioni teoriche, la questione
sembra essere ancora irrisolvibile: perche' ci sono le guerre?
*
Intanto, che cosa intendiamo per guerra? Il Sipri, l'autorevole istituto di
ricerca per la pace svedese, individua tre diverse tipologie di conflitti
armati maggiori: a bassa intensita' (o minori), a media intensita' (o
intermedi), e le guerre vere e proprie.
Per chi subisce la violenza della guerra l'intensita' e' sempre troppo alta,
comunque la si definisca, ma e' bene distinguere tra i diversi livelli con
cui essa si manifesta, per non fare di tutt'erba un fascio e rischiare di
cadere nel classico dilemma del "tutto o niente", che porta molti a
concludere che "le guerre ci sono sempre state...". Di qui ad accettare
qualsiasi cosa il passo e' breve, ma assai pericoloso e tutt'altro che
necessario.
Stando alla definizione adottata dal Sipri, la guerra e' un conflitto armato
nel corso del quale si verificano piu' di 1.000 vittime in un anno durante i
combattimenti.
In un conflitto armato intermedio si hanno piu' di 1.000 vittime
complessive, ma meno di 1.000 in un singolo anno.
Infine, nei conflitti armati minori vi sono piu' di 25 vittime in un anno,
ma meno di 1.000 in totale.
Non tutti gli istituti e i programmi di ricerca adottano queste definizioni.
Le diverse scelte sono determinate dall'attenzione che si presta alle
molteplici forme di violenza diretta che si possono manifestare nel corso
dei conflitti armati, e alla diversa tipologia dei soggetti coinvolti
(istituzionali e non, organizzati in eserciti o in formazioni irregolari).
Il quadro d'insieme e' complesso e per chi voglia approfondirlo si possono
consultare alcuni lavori piu' specialistici (Armed Conflict 1946-99: A New
Dataste, www.pcr.uu.se/Gleditsch_Strand_Uppsala.pdf; The World Conflict and
Human Rights Map 2000, www.pcr.uu.se/paperjongman.doc).
*
Possiamo riassumere i dati che emergono da questi lavori nei seguenti punti
essenziali.
Negli ultimi vent'anni le guerre (intese in senso lato, come conflitti
armati maggiori che comprendono le tre categorie elencate sopra) sono
diventate quasi esclusivamente guerre intrastatali (dentro lo stesso stato,
o guerre civili, o meglio "guerre contro i civili") e sempre meno guerre
interstatali (tra gli stati).
Questo puo' essere interpretato osservando che:
a) le guerre tra gli stati sono sempre piu' distruttive;
b) nella seconda meta' del secolo scorso l'Onu e' riuscita a costruire un
sistema di diritto internazionale che ha permesso di regolare le dispute tra
gli stati senza fare ricorso alla guerra. Questo sistema di regole non e'
risultato altrettanto efficace per le guerre interne e rischia ora di essere
messo in discussione dalle scelte di politica estera degli Usa.
Durante la prima guerra mondiale il numero di vittime fu dell'80% tra i
militari e 20% tra i civili. Man mano le vittime tra i civili sono cresciute
passando dal 50% nella seconda guerra mondiale sino a oltre il 90% nelle
guerre interne (civili) degli anni '90.
La funzione di difesa dei civili e' venuta via via meno e oggi essi sono
l'obiettivo principale, non solo nelle guerre interne ma anche in quelle
definite ambiguamente e strumentalmente come "guerre umanitarie".
Nella guerra contro l'Iraq del 1991 e in quella contro la Serbia del 1999
furono colpite volutamente infrastrutture civili, consapevoli delle gravi
conseguenze che si sarebbero verificate sulle popolazioni.
Nell'impossibilita' di fronteggiare apertamente forze armate molto piu'
potenti, si sono sviluppate forme di lotta armata basate sulla guerriglia e
sul terrorismo.
Mentre la prima e' prevalentemente orientata contro le forze militari
avversarie (ma non sempre, come avviene ormai nelle situazioni piu'
caotiche, per esempio in Colombia), il terrorismo colpisce direttamente
anche i civili.
Esistono dunque due forme di terrorismo: quello "dal basso", praticato da
forze irregolari (che se un domani conquisteranno il potere non saranno piu'
considerate alla stregua di terroristi, ma onorati come eroi) e quello
"dall'alto", praticato da forze armate regolari, ovvero dagli stati, contro
popolazioni civili (questo tipo di terrorismo fu avviato su larga scala, ben
superiore a quella dal basso, con i bombardamenti della seconda guerra
mondiale su Dresda, Amburgo, Tokyo, culminati con il lancio delle bombe
atomiche su Hiroshima e Nagasaki).
Sulle conseguenze delle guerre che durano a lungo dopo che sono formalmente
terminate, con effetti disastrosi sulle popolazioni civili, si veda: Donovan
Webster, Le terre di Caino. Quel che resta della guerra, Corbaccio, Milano
1999.
Contrariamente a quanto sostengono i fautori della difesa militare, il mondo
e' diventato via via piu' insicuro. Le dottrine strategiche e militari hanno
fallito totalmente i loro obiettivi (come dimostrano in ultimo gli eventi
dell'11 settembre), sperperando somme gigantesche che avrebbero potuto
essere destinate a rimuovere alla base le radici autentiche dei conflitti.
*
A partire da questi dati, possiamo tentare di rispondere alla domanda
iniziale: perche' le guerre?
La risposta generale, strutturale, e' relativa al concetto di potere.
Esistono quattro forme principali di potere, ciascuna delle quali puo'
diventare causa di guerra: politico, militare, economico, culturale. Il caso
peggiore si ha quando le quattro forme di potere sono concentrate in un
unico soggetto, come nei paesi totalitari, durante il nazifascismo, e oggi
con la concentrazione di potere nella ristretta elite che governa gli Usa.
Si e' soliti dire che le democrazie non fanno guerre tra loro e sono in
grado di controllare il potere militare attraverso il potere politico. Ma
questa affermazione e' vera solo se si verificano alcune condizioni.
Gli Usa, formalmente una democrazia, sono il paese piu' bellicoso del mondo:
circa duecento interventi diretti o coperti nel corso della loro storia (si
veda il cap. 17, Breve storia degli interventi americani nel mondo, dal 1945
a oggi, di William Blum, Con la scusa della liberta', Tropea, Milano 2002),
la piu' alta spesa militare, il piu' distruttivo sistema di sterminio di
massa mai esistito, responsabile della disseminazione in tutto il mondo di
ogni sorta di armi convenzionali e non.
Gia' Eisenhower, all'inizio degli anni '60, aveva messo in guardia
dall'allora nascente complesso militare-industriale.
Oggi la popolazione Usa, e indirettamente quella degli altri paesi del
mondo, e' ostaggio del complesso
militare-industriale-scientifico-petrolifero (si veda: Gore Vidal, Le
menzogne dell'impero e altre tristi storie, Fazi, Roma 2002) che esercita un
potere "fuori controllo" (Paul Rogers, Fuori controllo, Derive/Approdi, Roma
2002).
Díaltro canto e' noto lo stato di incredibile ignoranza in cui viene
mantenuta la popolazione statunitense in fatto di politica estera (da un
potentissimo sistema mediatico di intrattenimento, istupidimento e
propaganda, come si puo' vedere da Jurgen Elsausser, Menzogne di guerra, La
citta' del sole, Napoli 2002) ed e' altrettanto noto il deficit di
democrazia partecipativa, se si tiene conto che il loro attuale presidente
e' stato eletto all'incirca con il voto di un/a cittadino/a su cinque (meno
del 20%).
Ciononostante, proprio dagli Usa vengono alcune delle piu' significative
esperienze di dissenso e di controinformazione, che dobbiamo sostenere per
costruire una nuova e piu' autentica esperienza di democrazia (Noam Chomsky
e' il piu' noto e strenuo critico con un'amplissima produzione di ottimo
livello. Sui temi qui trattati si veda la raccolta dei suoi saggi curata da
Peter R. Mitchell e John Schoeffel, Capire il potere, Tropea, Milano 2002.
Come altro esempio, si veda la newsletter on-line gratuita al sito
www.truthouth.org).
Se non si vuole entrare in un altro "secolo di guerre" (intervista a Gabriel
Kolko, Gli Usa alla guerra totale, nel quotidiano "Il manifesto" del 4
gennaio 2003) e' necessario smantellare questo sistema di potere attraverso
forme di decentramento e di costruzione di un "potere dal basso" basato
sull'empowerment personale e sul people power (o potere della nonviolenza)
collettivo.
*
Rispetto a ciascuna delle quattro forme di potere esistono delle alternative
nonviolente che passano attraverso la ripresa del controllo del potere
politico mediante la democrazia partecipativa.
Spesso sentiamo dire che "occorre non votare". Anche se idealmente condivido
l'ideale di una societa' autenticamente anarchica capace di autogovernarsi,
oggi vediamo che il non voto, proprio la' dove viene praticato in massa, non
fa che il gioco dei potenti. Questo non significa affatto che basta votare
per cambiare le cose.
Occorre contestualmente organizzarsi politicamente e usare il voto nel breve
periodo come una possibilita', dando vita a esperienze partecipative capaci
di impedire le derive antidemocratiche che si sono verificate negli ultimi
anni.
Quello del sistema sociale piu' idoneo a garantire un'autentica
distribuzione decentrata del potere e' un problema aperto, di cui parla
estesamente Brian Martin in Nonviolence versus capitalism (l'intero testo
puo' essere scaricato da www.uow.edu.au/arts/sts/bmartin/pubs/01nvc).
Secondo la formula classica di La Boetie (ripresa da Gene Sharp in Politica
dell'azione nonviolenta, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1986, vol. 1), il
potere si regge sul consenso, che oggi viene costruito astutamente mediante
il sistema mediatico.
Per scalzare questo sistema e' necessario al contempo promuovere forme di
disobbedienza civile sui vari fronti: da quella al servizio militare e alla
ricerca militare, alla disobbedienza che si manifesta con il "consumo
critico e responsabile", alla disobbedienza nei confronti del sistema
televisivo imperante, all'acquisizione di un grado maggiore di autonomia e
autogoverno (anche economico) con forme di vita piu' comunitarie e
autocentrate.
Eí, in breve, il programma della "campagna di obiezione/opzione di coscienza
del/la cittadino/a" lanciata dal Movimento Internazionale della
Riconciliazione, dal Movimento Nonviolento e dalla Rete di Lilliput, la cui
segreteria operativa e' presso il MIR-MN, via Garibaldi 13, 10122 Torino con
uno specifico sito Internet all'indirizzo
www.retelilliput.org/scelgolanonviolenza.asp
2. MAESTRI. EMANUELA CITTERIO INTERVISTA PIETRO PINNA
[La seguente intervista a Pietro Pinna compare nell'ultimo numero del
settimanale "Vita" (consultabile anche in rete: www.vita.it). Ringraziamo
Mao Valpiana per avercene inviato copia. Emanela Citterio e' giornalista di
"Vita" (per contatti: e.citterio@vita.it). Pietro Pinna, primo obiettore di
coscienza nel 1950, collaboratore di Aldo Capitini e di Danilo Dolci,
infaticabile promotore della nonviolenza, e' una delle figure di riferimento
per i movimenti e le iniziative per la pace. Opere di Pietro Pinna:
fondamentale e' La mia obiezione di coscienza, Edizioni del Movimento
Nonviolento; numerosi suoi contributi sono stati pubblicati in vari volumi]
Pietro Pinna e' stato il primo obiettore di coscienza italiano. Ha pagato
questa sua scelta anche con il carcere.
Il suo rifiuto alla guerra e' ancora assoluto, testardo, appassionato. Le
sue parole hanno conservato la lucidita' e la freschezza di tanto tempo fa,
quando, a soli vent'anni, divenne il primo vero "caso" di obiezione di
coscienza in Italia. Pietro Pinna, il primo obiettore, oggi ha 75 anni.
Nonostante da qualche tempo abbia scelto la solitudine e la lontananza da
ogni movimento pubblico, ha accettato di parlare ancora. In favore della
pace.
- "Vita": Quest'anno si festeggiano trent'anni di obiezione di coscienza in
Italia, dopo l'approvazione della prima legge del 1972. Per lei che e' stato
il primo, che significato ha l'obiezione alle armi?
- Pietro Pinna: Il mio e' stato il primo caso con il quale il problema
dell'obiezione di coscienza e' entrato nell'opinione pubblica italiana.
Prima, i soli casi noti erano quelli dei testimoni di Geova. La loro
obiezione pero' aveva una dimensione solo personale e religiosa, escludevano
di farne una questione politica. Io invece impostai la mia obiezione come
gesto pubblico. Obiezione di coscienza significa ripudio assoluto della
guerra. Intende? Assoluto. Significa di ogni guerra e fatta da chiunque e
per qualsiasi ragione. Si tratti anche dei valori piu' nobili. Per nessuna
ragione l'obiettore di coscienza intende tenere in piedi la realta' della
guerra.
- "Vita": Quindi nemmeno le guerre preventive di oggi?
- Pietro Pinna: Eh, se mi comincia a mettere degli aggettivi siamo fritti.
Scriva la definizione che le ho detto: "ogni guerra", "fatta da chiunque per
qualsiasi ragione". E aggiunga: "combattuta con qualsiasi arma". Prendiamo
le bombe a tappeto, quelle sono legittime, no? Non vengono considerate armi
di distruzione di massa, anche se usate comportano la morte di centinaia di
migliaia di persone, come e' accaduto durante la seconda guerra mondiale a
Dresda, Monaco, Tokyo. E anche oggi: le armi di distruzione di massa che si
suppone abbia Saddam sono da condannare, mentre le altre no, sono benedette
da Dio e dalla Costituzione americana. Il rifiuto assoluto della guerra
implica il disarmo u-ni-la-te-ra-le. Il rifiuto non solo delle armi nucleari
o di distruzione di massa, ma di tutte le armi. Anche delle frecce e delle
cerbottane. Dunque, riscrivo la formula: disarmo unilaterale, integrale,
immediato. Cioe' a partire da qui e subito. Non domani, perche' il domani
non esiste. Noi viviamo solo nel presente, no? E poi unilaterale. Perche'
attendendo il disarmo multilaterale, cioe' concordato, abbiamo avuto una
prima guerra mondiale, una seconda e ne stiamo preparando una terza. Piu'
tutta una serie di guerre locali che ci cadono dalle tasche come tanti
spiccioli da un buco nei pantaloni. Se ripudiamo la guerra, come sta scritto
nella nostra Costituzione, dobbiamo ripudiarne lo strumento principale,
cioe' l'esercito. Questo e' il senso e la portata dell'obiezione di
coscienza.
- "Vita": In che clima maturo' la sua scelta di obiezione?
- Pietro Pinna: La mia scelta nacque in una condizione di assoluta
ignoranza. Io stesso non usai il termine di obiezione di coscienza, perche'
non lo conoscevo. Nacque da ragioni morali, religiose e politiche. Questo e'
quanto dichiarai in seguito per motivare la mia decisione. Una volta che si
comincio' a comprendere cosa significasse "obiezione di coscienza", ci fu
all'inizio irrisione, poi rifiuto, quindi disprezzo e solo dopo almeno un
ventennio si diffuse una certa considerazione.
- "Vita": Come reagi' la sua famiglia?
- Pietro Pinna: In un certo senso fui fortunato. I miei genitori erano
illetterati. Mio padre veniva da una famiglia di braccianti, mia madre era
analfabeta. Non opposero delle ragioni. Sapevano che mi ero comportato
onestamente fino ad allora e mi diedero fiducia anche in questa scelta.
- "Vita": Da quali incontri nacque la sua consapevolezza di voler obiettare
al servizio militare? Dove trovava i valori spirituali di cui parla?
- Pietro Pinna: Fondamentalmente nella religione cattolica. Proprio per
questo non potevo tollerare che il nome di Dio fosse mischiato con una
faccenda impura come la guerra. Nelle chiese, invece, si levavano preghiere
per la vittoria della patria in armi, a favore del nostro re, e cosi' via.
Nel Natale del '42 mi capito' di sentire per radio che il presidente degli
Stati Uniti, l'odiata potenza contro cui stavamo combattendo quella guerra
benedetta da Dio, aveva invitato il popolo a levare una preghiera a Dio per
la vittoria della patria. Che imbarazzo! Ognuno chiedeva a Dio di prendere
la parte di un popolo nello sterminio di altri suoi figli. Avevo solo 15
anni e i miei furono forse ragionamenti infantili. Ma anche oggi non mi
sembrano tanto sbagliati.
- "Vita": Come arrivo' a prendere una posizione inedita senza il sostegno di
nessuno?
- Pietro Pinna: Fu naturale per me, almeno dal punto di vista spirituale.
Dal punto di vista intellettuale fu invece molto difficile. A quel tempo
l'obiezione di coscienza era una posizione non conosciuta, per di piu'
sembrava sovvertire tutti i principi e gli orientamenti della societa'.
Anche la posizione della Chiesa nei confronti della guerra era quella di una
realta' "dolorosa ma necessaria". Questo era cio' che i cappellani militari
mi riferivano quando venivano a trovarmi in carcere. Allora, nella mia
cella, parlavo a Dio e gli dicevo: "I tuoi rappresentanti mi dicono che tu
la pensi cosi'. Ma io sento altrimenti, sono qui e non posso fare
diversamente". E cosi' ho continuato.
- "Vita": Il suo gesto di obiezione come e' avvenuto?
- Pietro Pinna: Avvenne al momento del giuramento, dopo due mesi dal mio
ingresso al corso allievi ufficiali. Il fatto di essermi trovato la' merita
qualche spiegazione: avevo appena cominciato a lavorare quando mi chiamarono
per il servizio militare. Grazie al mio stipendio la mia famiglia, che era
molto povera, si stava risollevando. Avevamo comprato la legna per
l'inverno, dei mobili, la prima bicicletta. La richiesta per il corso
ufficiali mi aveva permesso di ottenere la proroga di un anno e di saldare i
debiti. Anche se da anni maturavo il pensiero del rifiuto del servizio
militare, non ero ancora giunto a una decisione effettiva. Fu il giuramento
a farmi fare il passo decisivo. In me il senso di lealta' era molto forte. E
sentii che non potevo dichiarare solennemente la mia fedelta' a un impegno
in cui non credevo. Quello stesso giorno andai dal comandante dicendogli che
rifiutavo il servizio militare.
- "Vita": Come reagirono le gerarchie militari?
- Pietro Pinna: Il comandante mi tratto' paternamente. Mi disse che avrebbe
fatto di tutto per spostarmi a un servizio nell'infermeria dell'esercito.
Credeva che la mia decisione fosse motivata solo da una repulsione per l'uso
delle armi. Mi consiglio' di tornare a casa per Natale (mi trovavo a Lecce)
e di parlare con il confessore spirituale. Dopo quindici giorni ritornai e a
quel punto, vedendomi determinato, mi fece dimettere dal corso e fui
richiamato come soldato semplice.
- "Vita": Quella scelta le costo' due processi e un anno di prigione. Come
li visse?
- Pietro Pinna: Fui gia' fortunato. Ad altri, come i testimoni di Geova,
ando' peggio. Attorno al mio caso si creo' un interessamento a livello
internazionale. Alcuni parlamentari inglesi interpellarono De Gasperi,
facendo notare che in Inghilterra l'obiezione era da tempo un diritto. Ci fu
l'appoggio di Aldo Capitini e di altri intellettuali.
- "Vita": Chi, fra Chiesa, intellettuali e forze politiche vi segui' su
questa strada?
- Pietro Pinna: La Chiesa all'inizio sosteneva una posizione di avversione
all'obiezione di coscienza. Quando il parlamentare democristiano Igino
Giordani accetto' di firmare con il socialista Calosso il primo progetto di
legge sull'obiezione di coscienza, "La civilta' cattolica" usci' con un
articolo di condanna. Poi avvenne che alcuni cattolici, come Giuseppe
Gozzini, fecero obiezione motivando la scelta da un punto di vista
cristiano. Allora la posizione della Chiesa fu quella di lasciare la
decisione all'iniziativa individuale. Fu solo con il Concilio vaticano II
che l'apertura divenne piu' esplicita. Ma in sostanza fu la posizione
coraggiosa di persone come don Milani e La Pira a portare l'obiezione nel
mondo cattolico.
- "Vita": Che clima si respirava in quegli anni?
- Pietro Pinna: Gradualmente il tema pacifista aveva suscitato interesse.
Negli anni '60 i movimenti nati attorno ai processi riuscivano a radunare
per una manifestazione qualche migliaio di persone. E questo impensieriva.
Persino i tribunali militari si trovavano a disagio a mandare in galera
ragazzi stimabili per le motivazioni che portavano alla loro scelta, e
invitavano le forze politiche a prendere in considerazione il problema. Ci
fu una corsa da parte di tutti i partiti, per presentare progetti di legge,
salvo il Partito comunista a sinistra e il Movimento sociale a destra.
- "Vita": A trent'anni di distanza, di tutto quel fervore cosa e' rimasto?
- Pietro Pinna: Quasi niente. Oggi vado cercando un parlamentare che parli
di antimilitarismo e non lo trovo.
- "Vita": E i movimenti pacifisti?
- Pietro Pinna: Il Movimento nonviolento ha un patrimonio di idee, di
esperienze, di cultura. Produce pubblicazioni molto valide e rimane un punto
di riferimento. Ma non ha avuto la forza di crescere adeguatamente e ha
ridotto progressivamente il suo spirito di iniziativa. Oggi a parlare, nei
momenti critici, sono alcuni politici o i rappresentanti di altre
associazioni. Che pero' si mobilitano solo in occasione dei venti di guerra,
non sono antimilaristi in senso assoluto. Io dico che sono pacifisti
relativi. L'ideale della nonviolenza, dell'obiezione di coscienza, implica
l'opposizione alla preparazione della guerra, agli eserciti.
- "Vita": Eppure in occasione della guerra contro l'Iraq sono in molti a
chiedere la pace...
- Pietro Pinna: Il guaio e' che nessuno si mobilita per il disarmo in tempo
di pace. Di fronte ai venti di guerra, i gruppi si mobilitano per cercare di
arrestarli. Ma come si puo' presumere oramai di arrestare le forze immani
che ci sono in campo? A me capita di rimanere impressionato nel vedere solo
le immagini di preparazione dell'eventuale guerra all'Iraq: aerei, navi, poi
finanze, poi interessi... immani forze, militari, politiche, economiche.
Crede che si possano arrestare con una petizione, una marcetta, una
manifestazione, cioe' quello che possono fare laggiu' questi movimenti per
la pace? E' come voler arrestare un turbine con una reticella da farfalle.
- "Vita": Qual e' l'alternativa?
- Pietro Pinna: Creare dal basso. Partire dalla singola persona. Che dice:
la guerra e' una cosa orribile, abominevole sul piano umano. Appellarsi ai
governi non e' mai servito. Bisogna partire dalle scelte individuali. Con la
consapevolezza che, se e' vero che la guerra e' il massimo dei mali,
qualunque cosa sara' un male minore.
3. RIFLESSIONE. MARIA G. DI RIENZO: ANCORA SUL "RELATIVISMO CULTURALE"
[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: dirienzo@tvol.it) per questo
intervento, che prosegue una comune riflessione avviata da un intervento
dell'intellettuale iraniana Maryam Namazie pubblicato nel n. 464 di questo
foglio. Maria G. Di Rienzo e' una prestigiosa intellettuale femminista,
saggista, giornalista, regista teatrale e commediografa, ha svolto rilevanti
ricerche storiche sulle donne italiane per conto del Dipartimento di Storia
Economica dell'Universita' di Sidney (Australia); e' impegnata nel movimento
delle donne, nella Rete di Lilliput, in esperienze di solidarieta' e in
difesa dei diritti umani, per la pace e la nonviolenza]
"Fui portata in una stanza buia, e spogliata. Mi bendarono. Fui costretta
con la forza a giacere sulla schiena da quattro donne, di cui due mi
tenevano ferme le gambe. Un'altra donna mi si sedette sul petto, per
impedire alla parte superiore del mio corpo di muoversi. Un pezzo di stoffa
mi fu ficcato in bocca per farmi smettere di gridare... Quando cominciarono
a tagliare il dolore fu terribile. Io continuavo a lottare per liberarmi,
percio' fui tagliata male ed in altre parti. Persi moltissimo sangue. Tutte
le donne che presero parte all'operazione erano mezzo ubriache".
Hannah Koroma, ghanese, membro di Amnesty International, aveva dieci anni
quando le accadde questo.
Zeinab e Nafisa, sudanesi, di anni ne avevano sei.
Soraya Mire, somala, ne contava tredici.
Tutte queste donne, oggi, si battono contro la pratica delle mutilazioni
genitali nei loro paesi.
In Eritrea il 96% dei musulmani e l'83% dei cristiani praticano la
mutilazione genitale delle donne; i protestanti, che sono la comunita'
religiosa di minoranza, sono contrari.
La stessa situazione si presenta in Kenya.
*
Ricerche effettuate da organismi internazionali (Onu, Inter-African
Committee, Oms) hanno riscontrato che i principi e le autorita' religiose
hanno ben poco a che fare con le motivazioni di chi e' favorevole a tali
pratiche.
La risposta piu' frequente e' che si tratterebbe di "una buona tradizione"
(dal 70% al 90% sul totale delle risposte).
Perche' sia buona, al di la' delle fedi, giacche' ne' la Bibbia ne' il
Corano ne parlano (negli hadith, i detti attribuiti al Profeta, vi e' invece
la testimonianza contraria: "Non distruggere - dice in essi Maometto -. Non
distruggere e' meglio per l'uomo e rende luminoso il volto di una donna"),
lo spiegano gli intervistati durante le ricerche citate: "Le parti che
vengono tagliate via sono disgustose e generano ribrezzo in chi le guarda.
La sutura e' molto piu' bella"; "In questo modo la donna conservera' un buon
profumo e suo marito sara' contento. Se non fosse mutilata, puzzerebbe e le
crescerebbero i vermi nella vagina"; "Una donna mutilata e' molto piu'
attraente, sessualmente, per il marito. Piu' e' cucita stretta, piu' piacere
lui prova".
*
Le piu' alte percentuali di mortalita' infantile si registrano nelle regioni
dove la mutilazione e' maggiormente praticata. Le donne sottoposte
all'operazione hanno il doppio di probabilita', rispetto alle altre, di
morire durante il parto, o di dare alla luce nati morti. La seconda fase del
travaglio di una donna infibulata dura, mediamente, 5 volte piu' del normale
e causa danni cerebrali al nascituro per mancanza di ossigeno. Ogni 33 madri
che partoriscono all'Ospedale di Benadir, in Somalia, 5 bambini nascono
morti e 21 soffrono di danni cerebrali.
Giovera' anche ricordare che, fino agli anni Cinquanta del secolo appena
concluso, la mutilazione genitale era comunemente usata in Europa e negli
Usa come "trattamento" per il lesbismo, l'isteria, la masturbazione,
l'epilessia e, in genere, le "deviazioni comportamentali femminili": la
medicina e la scienza prescrivevano cio', ma esse, come le societa' e le
culture, fortunatamente possono cambiare (e chi e' amico della nonviolenza
lotta proprio perche' societa' e culture cambino).
Ecco perche' il paragone fra la sterilizzazione volontaria di un'adulta o di
un adulto e la mutilazione di una bambina di 6 anni non regge.
Ho un'amica che e' un concentrato di tatuaggi e piercing e, devo ammettere
che a volte trovo inquietante la sua sola immagine, ma nessuno l'ha
costretta: maggiorenne e vaccinata, come si usa dire, ha scelto, ed io
rispetto la sua scelta anche se non la imiterei.
La nostra cultura italiana, occidentale e patriarcale, ha prodotto
ovviamente la mia stessa famiglia d'origine, in cui la violenza e l'abuso
erano all'ordine al giorno e in cui un padre-padrone ha fatto impazzire due
figli su tre (e la terza, la scrivente, e' fuggita di casa per evitare
quella sorte).
*
Ho sentito il bisogno di puntualizzare sul tema delle mutilazioni, ma la
semplice riflessione di Maryam, il punto di partenza del nostro dialogo, non
ne parlava.
La questione che lei poneva era in sintesi un'altra: possiamo giustificare
la violenza, la morte, l'abuso, e in che casi, e come? In nome delle
culture, del sacro, della tradizione? Ma queste, perdonatemi, sono parole,
per quante maiuscole vogliamo metterci. La fanciulla che mori' bruciata in
Germania era un corpo vivo, una mente viva, un seme di speranze e di
potenzialita' che ora non c'e' piu'. E tanto piu' derubata e povera mi sento
io.
4. RIFLESSIONE. ZVI SCHULDINER: TERRORISTI
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 7 gennaio 2003. Zvi Schuldiner e' un
prestigioso intellettuale che interviene spesso sul quotidiano italiano]
Fino a poche ore prima, la scena politica israeliana era dominata dalle
truffe scoperte nel Likud. La corruzione, i voti comprati, i probabili
implicati, tutto sembrava una versione israeliana della "mani pulite"
italiana. Il Likud nelle ultime settimane cominciava a perdere voti e gia'
si pensava a chi avrebbe potuto trarne profitto.
Su tutto questo si agitava il velo dell'apartheid e la discussione sulla
discussione di vari rapprensentanti arabi israeliani si e' convertita nel
campo di battaglia della sinistra e delle forze liberali del paese.
*
Tutto e' passato in secondo piano quando due palestinesi si sono suicidati a
Tel Aviv, nelle vicinanze della vecchia stazione degli autobus. Il primo
bilancio parla di 23 morti, oltre cento feriti, di cui 68 ancora ricoverati
in ospedali, alcuni in gravi condizioni.
E' difficile sapere quanti sono realmente i feriti per una ragione semplice
e terribile: le bombe sono esplose in una parte della citta' dove la maggior
parte dei passanti sono lavoratori stranieri, molti illegali. Alcuni hanno
collaborato a recuperare i feriti, li hanno portati all'ospedale e poi sono
fuggiti. La polizia e i ministri promettono che non saranno espulsi o
arrestati e li invitano a ricorrere all'assistenza sanitaria, ma alcuni di
loro temono le conseguenze.
L'Autorita' palestinese ha criticato energicamente l'attentato ma questo non
vuol dire che la rappresaglia israeliana sara' meno feroce.
*
Nelle ultime settimane il terrorismo di stato israeliano si e' rafforzato e
i morti palestinesi sono la routine quotidiana. Israele occupa tutti i
territori e Arafat praticamente non ha nessun controllo sulla societa'
palestinese.
Hamas e il Jihad islamico - entrambi si disputano l'attentato ma sembra che
la vera rivendicazione lo attribuisca al Jihad - non credono ad un cessate
il fuoco e sostengono che a loro non importa se gli israeliani espellono
Arafat e tanto meno sono interessati agli effetti del terrorismo sulle
elezioni israeliane.
Peggio ancora, mentre scriviamo si sta diffondendo una nuova attribuzione
seria dell'attentato alle Brigate al Aqsa di al Fatah. Secondo militanti
politici palestinesi di questi movimenti, non c'e' differenza tra destra e
sinistra in Israele e la scelta del terrorismo e' un'opzione strategica e
non tattica, che portera' gli israeliani alla disperazione e alla resa.
*
Per il momento pagano tutti, israeliani, palestinesi e lavoratori stranieri.
Ma il prezzo piu' alto sicuramente lo paga la societa' palestinese.
Il terrorismo, che sembrava il prodotto di bande sporadiche in una societa'
palestinese estremamente frammentata, si sta trasformando in un fenomeno
organizzato.
La necessita' politica creata dalle campagna elettorale rende ancora piu'
probabile una reazione militare di grandi proporzioni.
L'unica garanzia per la sopravvivenza di Arafat in questi giorni sarebbe
rappresentata dalla promessa che gli americani sarebbero riusciti ad
ottenere da Sharon, che si e' visto costretto da Bush a rinunciare al
tentativo di espellere Arafat.
L'interesse bellicista del presidente americano, che non desidera irritare
ulteriormente i suoi fragili alleati nella regione prima dell'attacco
all'Iraq, lo porta a moderare il premier israeliano.
Ma con 23 morti e decine di feriti gravi, e' difficile sapere quale sara' il
peso di questo compromesso tra i due "uomini di pace", Bush e Sharon.
L'istinto criminale di entrambi potrebbe portare all'autorizzazione di
qualsiasi avventura nei territori occupati.
*
La destra israeliana puo' inviare un telegramma di ringraziamenti ai
fondamentalisti che hanno ordinato l'attentato di domenica. Nei prossimi
giorni potremo dimenticarci la corruzione del Likud, si discutera' meno
dell'apartheid che stava preparando la destra e le forze che avevano
iniziato a reagire energicamente contro l'ondata della destra si vedranno
ulteriormente indebolite.
Nella Commissione elettorale centrale la settimana scorsa si e' arrivati
alla cancellazione dall'iscrizione alle elezioni della lista del deputato
arabo israeliano Azmi Bishara. E' stata annullata anche la candidatura di
Ahmad Tibi, che era entrato a far parte della coalizione con il Partito
comunista israeliano.
Il calcolo della destra e' molto semplice e non nuovo.
Negli ultimi due anni e' stata portata avanti una campagna per l'esclusione
degli arabi dal sistema politico israeliano.
L'annullamento delle candidature di cui abbiamo parlato potrebbe provocare
la grande astensione dell'elettorato arabo in Israele e questo indebolirebbe
la sinistra e il suo bacino elettorale, mentre rafforzerebbe la destra.
Gli effetti della cancellazione di queste candidature saranno enormi.
Solo la Corte suprema potrebbe annullare questa decisione. Se non lo fara',
si stabilira' di fatto un apartheid dalle pesanti conseguenze.
L'intidafa nei territori occupati sarebbe il preludio a uno sgretolamento
dei vincoli fondamentali nello stato e porterebbe a uno scontro serio
all'interno di Israele. La popolazione araba in Israele, esclusa dal sistema
democratico, prendera' altre strade che potranno portare a un caos che il
paese non ha ancora conosciuto.
*
Negli ultimi giorni diverse forze democratiche hanno organizzato una
campagna contro la decisione del Comitato elettorale.
Questa mattina e' convocata una manifestazione davanti alla Corte suprema.
L'ottimismo che alcuni nutrono lascera' spazio ai prevedibili effetti
dell'attentato.
Molti resteranno a casa e non parteciperanno a una protesta che segna una
nuova mobilitazione di liberali e pacifisti.
Diverse organizzazioni hanno dato la loro adesione a un manifesto che sara'
pubblicato oggi. Centinaia di dimostranti hanno gia' partecipato sabato a
una manifestazione indetta da Peace now e altre organizzazioni a
Gerusalemme, il giorno prima una vasta partecipazione, di israeliani e
arabi, si era vista in un appuntamento simile a Nazareth.
*
Il terrorismo ha colpito ancora una volta e come al solito non solo scorre
il sangue ma aumenta il prezzo che le due societa' devono pagare.
Mentre Bush prosegue la sfrenata corsa verso una guerra criminale guidata e
basata su cinici, sinistri calcoli imperiali, quando sembrava che nessuno
volesse scatenare una guerra dalle conseguenze dolorose per tutta la regione
e non solo per l'Iraq, l'attacco di al Aqsa o del Jihad, o di Hamas, non e'
altro che un contributo criminale e sanguinoso alla recrudescenza del fuoco.
Come se non si fossero gia' sparsi fiumi di sangue a sufficienza, la
viscerale sensazione di vendetta ha aggiunto un altro anello alla catena
tragica della azione e reazione, terrore e controterrore.
Per il momento questo consolida solo la brutale occupazione di Israele,
aumenta la violenza dell'esercito, aiuta la crescita dell'odio per
alimentare questa catena di vendetta e controvendetta.
5. RIFLESSIONE. ILEANA MONTINI: ISRAELE E PALESTINA, CONTRO TUTTE LE
UCCISIONI
[Ringraziamo Ileana Montini (per contatti: ileana.montini@tin.it) per questo
intervento. Questo foglio, come e' noto, fin dalla sua nascita sostiene la
tesi che il conflitto israelo-palestinese richiede da parte nostra piena
solidarieta' e sostegno a tutte le forze di pace in Israele e in Palestina;
ci siamo sembre battuti contro chi assume atteggiamenti ambigui sulla
violenza, ed abbiamo sempre espresso un'opposizione assoluta ad ogni
ideologia sacrificale e ad ogni prassi assassina. Un omicidio e' sempre un
omicidio, ogni vita umana e' unica e preziosa, tutti i popoli e tutte le
persone hanno diritto a vivere in pace, liberta', dignita', sicurezza. Di
Ileana Montini, prestigiosa intellettuale femminista, riproduciamo qui di
seguito una breve autopresentazione che ebbe la gentilezza di scrivere su
nostra richiesta nel dicembre scorso: "Sono nata nel 1940 da genitori
romagnoli. Ho studiato a Ravenna e all'Universita' di Urbino, presso la
prima scuola di giornalismo in Italia e poi sociologia. Ho cominciato tra i
23-24 anni a collaborare, come corrispondente e in terza pagina, sul
quotidiano cattolico "L'Avvenire d'Italia" che si stampava a Bologna,
diretto, negli anni sessanta, da Raniero La Valle. Sono stata, fino al 1971,
nella DC, per poi uscire e aderire al Manifesto. Nella DC ho ricoperto
cariche regionali nel Movimento Femminile e ho fatto parte del Comitato
Nazionale. Appartenevo alla sinistra di Donat Cattin. Ho collaborato e fatto
parte di varie redazioni di periodici. Per esempio: della rivista di ricerca
e studio del Movimento Femminile DC, insieme a Tina Anselmi, a Lidia
Menapace, a Rosa Russo Jervolino, a Paola Gaiotti. Ho condiviso il lavoro
redazionale di "Per la lotta" del Circolo "Jacques Maritain" di Rimini. Ho
collaborato a "Nuova Ecologia" diretta da A. Poggio. Ma ho fatto parte anche
della redazione della rivista "Jesus Charitas" della "famiglia dei piccoli
fratelli e delle piccole sorelle" insieme a fratel Carlo Carretto. Ho poi
collaborato al "Manifesto". Attualmente collaboro al "Paese delle donne". Il
mio primo libro, edito da Bertani, e' stato La bambola rotta. Famiglia,
chiesa, scuola nella formazione delle identita' maschile e femminile (1975),
cui ha fatto seguito Parlare con Dacia Maraini. Nel 1978 e' uscito, presso
Ottaviano, Comunione e liberazione nella cultura della disperazione. Nel
1992, edito dal Cite lombardo, e' uscito un libro che racconta un'esperienza
per la prevenzione dei drop-out di cui avevo fatto il progetto e curato la
supervisione delle operatrici: titolo: "... ho qualche cosa anch'io di
bello: affezionatrice di ogni cosa". Recentemente e' uscito un libro d'arte
della editrice Stellecadenti di un paese della provincia di Viterbo, che
racconta (mia e' la prefazione) l'esperienza del Laboratorio psicopedagogico
delle differenze di Brescia, luogo di formazione psicopedagogica delle
insegnanti e delle donne che operano nelle relazioni d'aiuto; titolo:
Attraverso il silenzio, di Nicoletta Crocella. Il Laboratorio e' nato a
Brescia da un mio progetto e con alcune donne alla fine degli anni ottanta.
Era stato preceduto dalla fondazione, insieme ad altre donne, della
"Universita' delle donne Simone de Beauvoir". Un'esperienza come altre
all'interno dell'universo femminista. Nel 1987 sono stata capolista alle
elezioni per la Camera dei deputati per il collegio di Brescia/Bergamo per
la prima lista dei Verdi. Da anni, conclusa la professione d'insegnante,
sono psicologa-psicoterapeuta"]
Mi e' accaduto di ricevere o leggere documenti e appelli intonati alla
scelta della nonviolenza che mi hanno sollecitato qualche perplessita'. Dopo
l'ultimo attentato degli uomini-bomba in Israele, vorrei che se ne
discutesse di nuovo.
Mi riferisco a quei documenti (o appelli) a favore incondizionato della
causa palestinese, dove si denuncia (giustamente) l'insensata violenza
guerresca degli israeliani.
Questi appelli, o documenti, sono prodighi nell'elencare le nefandezze
israeliane nei territori palestinesi, anche per affermare la propria
risoluta opposizione a questi strumenti per dirimere questioni territoriali
e altro.
Contestualmente pero' evitano di esprimersi nei riguardi delle modalita' di
difesa assunte dalla seconda Intifada con il ricorso alle "azioni di
martirio".
Se interpellati rispondono, per esempio, che i palestinesi sono nettamente
meno potenti in quanto a mezzi e strumenti militari. E quindi che altro
dovrebbero fare se non usare qualsiasi strumento, compreso il corpo, per
difendersi e costringere alla negoziazione?
Ho anche letto un articolo dove si tentava un paragone tra il martirio dei
cristiani e il "martirio" dei giovani palestinesi.
Ne deduco che anche nell'ambito di aree che si ritengono vicine alla
nonviolenza vi sia chi e' propenso a fare qualche sconto. In quanto ci si
identifica, tout court, con le tesi degli interessati i quali sostengono che
l'esasperazione nella quale si trovano, induce per forza a questa reazione
che comporta l'uccisione di civili, non importa se bambini, vecchi, donne o
uomini inermi.
Chiedo: allora non sempre e comunque e' possibile sostenere un'azione
collettiva nonviolenta?
E ancora: e' doveroso comprendere la psicologia degli altri, cioe' capire
che l'esasperazione puo' produrre reazioni anche collettive e su larga
scala, organizzate e pianificate; ma identificarsi e' un'altra cosa.
Identificarsi tanto dal poter fare un paragone con un pezzo della propria
cultura storica, quella dei martiri cristiani, vuol dire addirittura
annullare le differenze, cosa che non e' mai utile a nessuno.
In un dizionario della lingua italiana alla voce "martire" leggo: "testimone
della fede"; cristiano dei primi secoli che, sopportando le persecuzioni e
la morte, testimoniava la sua fede. Chi si sacrifica e soffre o muore per un
ideale (i martiri del Risorgimento). Chi sopporta con rassegnazione dolori,
sofferenze, ingiustizie...".
Il martire e' dunque, nella nostra storia collettiva, un individuo che
assume un certo comportamento passivo, di non rifiuto della sofferenza fino
all'estremo del dare la vita per una causa.
Ma non s'intende mai uno che sacrifica la propria vita, sacrificando anche
quella di altri.
Ora credo che sarebbe piu' aderente a un convincimento nonviolento evitare
l'identificazione con questa parte dei palestinesi e assumere invece la
responsabilita' (e il limite) della propria storia e identita' collettiva,
condannando senza mezzi termini anche tali strumenti di lotta e invitando ad
azione nonviolente.
6. RIFLESSIONE. MAO VALPIANA: ISRAELE E PALESTINA, LA SCELTA DELLA
NONVIOLENZA
[Ringraziamo Mao Valpiana, amico carissimo e direttore di "Azione
nonviolenta" (per contatti: e-mail: azionenonviolenta@sis.it, sito:
www.nonviolenti.org) per averci inviato questo suo articolo che compare nel
numero di gennaio della rivista "Popoli", mensile internazionale della
Compagnia di Gesu', consultabile anche nel sito: www.gesuiti.it/popoli]
Ogni sera, nelle nostre case, attraverso la televisione, entra la violenza
sempre piu' feroce e cruda di cio' che accade in quella che una volta era la
Terra Santa, e oggi rischia di diventare una "terra maledetta".
Da una parte la follia omicida/suicida dei kamikaze palestinesi che
colpiscono vigliaccamente, dall'altra la follia militare dell'esercito
israeliano che umilia un popolo, abbatte le case e spara sui bambini: una
spirale di violenza che sembra non avere fine.
I mezzi blindati dell'esercito israeliano e i kamikaze palestinesi sono le
due facce della stessa medaglia.
In questo quadro dovremmo rifiutarci di dare ascolto a giornalisti
improvvisati, inviati di guerra che parlano dallo loro stanza d'albergo,
politologi che non hanno mai messo piede in un villaggio dei territori
occupati, ed organizzare una obiezione televisiva per dare invece la voce ai
protagonisti della tragedia: far parlare loro, le migliori forze di Israele
e le migliori forze della Palestina che oggi sono le "donne in nero" che da
una parte e dall'altra cercano il dialogo e la solidarieta'.
Il primo passo da fare e' quello di rimettere al centro le persone, la
gente, i popoli di quella Terra.
*
Il metodo nonviolento: capire
Un intellettuale ebreo, David Mehnagi, dice che "occorre prima sapere e
capire, anche perche' si puo' fare del male pensando di fare del bene. E la
prima massima per chi vuole fare del bene e' capire, cioe' la cosa piu'
dolorosa che esista".
E' per questo che dobbiamo sforzarci di affrontare seriamente l'analisi del
conflitto in corso. Dobbiamo comprendere bene le ragioni dell'una e
dell'altra parte. Senza pregiudizi e senza i retaggi della storia; senza
schieramenti e senza ideologie.
E' una premessa fondamentale senza la quale non si puo' costruire una
verita' e non si potra' mai comprendere perche' due popoli fratelli cosi'
vicini, sono oggi cosi' lontani.
Lo scrittore pacifista israeliano Amos Oz dice dice: "Loro vogliono questa
terra perche' credono sia loro, e noi vogliamo questa stessa terra perche'
crediamo sia nostra".
Sette anni fa veniva ammazzato Yitzhak Rabin, il primo ministro che diceva
di voler conquistare la pace piuttosto che i territori. Ma il suo sogno fu
spezzato dall'estremismo fanatico.
Un altro sogno svanito e' quello dell'Intifada che in lingua araba significa
"risveglio". Quindici anni fa essa aveva portato la speranza di un nuovo
corso. E' ricordata come la guerra delle pietre, ma fu in realta' una vera e
propria strategia preparata anche grazie al lavoro del Centro Palestinese
per la Nonviolenza di Mubarak Awad.
Furono messe in atto forme nonviolente di resistenza: il boicottaggio, lo
sciopero, la serrata dei commercianti, l'obiezione fiscale, il non pagamento
degli affitti, i piccoli orti domestici come forma di economia di guerra. Fu
un movimento che conquisto' la simpatia del mondo, perche' ricordava la
lotta di Davide contro Golia.
Se non proprio la nonviolenza, in quei mesi si raggiunse certamente
l'esercizio piu' basso possibile della violenza nell'ambito di un conflitto.
Ma la strategia di lotta nonviolenta prevede tempi lunghi, e nelle
organizzazioni politiche palestinesi prevalsero i falchi, che volevano
vedere risultati immediati. Gli amici della nonviolenza furono presto messi
ai margini, e poi perfino additati come traditori, espulsi. La scena e'
tornata ad essere occupata dal terrorismo.
*
11 settembre 2001: non tutti in Palestina hanno fatto festa
Mentre il mondo rabbrividiva di fronte all'attacco contro le torri gemelle,
tv e giornali ci hanno mostrato alcune manifestazioni di giubilo in
Palestina. Nessuno ci ha informato invece delle manifestazioni pacifiche di
fronte al consolato americano di Gerusalemme, ognuno con una candela accesa
in segno di solidarieta' per le vittime, mentre dal Comune di Beit Sahour,
nei territori occupati, giungeva una dichiarazione di cordoglio e
solidarieta': "Esprimiamo il dolore piu' profondo all'intero popolo
americano. Condividiamo il cordoglio di tutte le famiglie delle vittime e
preghiamo Dio affinche' lasci che si lavori insieme per fermare questi atti
di terrorismo in tutto il mondo, mano nella mano per stabilire un mondo
sicuro in cui vivere".
Cio' che la stampa non dice mai, sono le testimonianze sempre piu' numerose
del desiderio di pace che si propaga in entrambi i popoli, di resistenza
nonviolenta, dalla distribuzione di aiuti nei piccoli villaggi superando
l'appartenenza etnica e religiosa, fino alla raccolta comune delle olive.
I semi posti anni fa dall'Intifada hanno dato ora i loro frutti. La
nonviolenza, si sa, fa bene a chi la fa ma anche a chi la riceve.
Cosi' in Israele oggi stanno crescendo generazioni di pacifisti seriamente
impegnati, non solo a parole.
Sono i cosiddetti refusnik: i soldati che si rifiutano di obbedire a comandi
ingiusti contro il popolo palestinese.
Questa la dichiarazione che sottoscrivono con la conseguenza di essere
processati ed incarcerati: "Noi sottoscritti, giovani cresciuti e educati in
Israele resisteremo con forza alla distruzione dei diritti umani da parte di
Israele. La sicurezza personale dei cittadini sara' raggiunta solo
attraverso un giusto accordo di pace tra il governo israeliano e il popolo
palestinese. Percio' noi obbediremo alla nostra coscienza e rifiuteremo di
prendere parte ad atti di oppressione contro il popolo palestinese.
Invitiamo le persone della nostra eta', i giovani di leva, i soldati in
servizio e i riservisti a fare lo stesso".
Solo se queste forze di pace riusciranno, anche con il sostegno
internazionale, a persuadere i loro popoli sulla necessita' storica della
nonviolenza, quella Terra tornera' davvero ad essere Santa.
Informazioni aggiornate quotidianamente sulle iniziative di pace in Israele
e Palestina, sono consultabile sul sito del Movimento Nonviolento:
www.nonviolenti.org
7. INCONTRI. UN INCONTRO CON JOHAN GALTUNG A TORINO
[Dal Centro studi "Sereno Regis" di Torino (per contatti: regis@arpnet.it)
riceviamo e diffondiamo. Johan Galtung e' nato in Norvegia nel 1930,
fondatore e primo direttore dell'Istituto di ricerca per la pace di Oslo,
docente, consulente dell'Onu, e' a livello mondiale il più noto studioso di
peace research; tra le molte opere di Johan Galtung segnaliamo almeno le
seguenti: Ambiente, sviluppo e attivita' militare; Ci sono alternative;
Gandhi oggi; Buddhismo. Una via per la pace; tutti presso le Edizioni Gruppo
Abele, Torino; Sulla educazione alla pace, Quaderni degli Insegnanti
Nonviolenti, Torino; Palestina-Israele: una soluzione nonviolenta?, Sonda,
Torino; I diritti umani, Esperia, Milano. Marco Revelli e' docente alla
facolta' di scienze politiche dell'Universita' di Torino; tra le sue opere:
Lavorare in Fiat, Garzanti, Milano; Le due destre, Bollati Boringhieri,
Torino; La sinistra sociale, Bollati Boringhieri, Torino;
Fascismo/antifascismo (con Giovanni De Luna), La Nuova Italia, Firenze; un
suo importante saggio e' in Ingrao, Rossanda, Appuntamenti di fine secolo,
Manifestolibri, Roma; i sembra molto interessante anche la sua "cronaca da
un campo rom", Fuori luogo, Bollati Boringhieri, Torino; recentemente ha
pubblicato Oltre il Novecento, Einaudi, Torino]
Martedi 14 gennaio 2003, alle ore 17,30, presso la sala del Consiglio di
facolta' del Politecnico di Torino, in Corso duca degli Abruzzi 24, si
terra' una conferenza di Johan Galtung sul tema: "Iraq: una guerra
annunciata".
Moderatore Marco Revelli.
Organizza il Centro Studi Sereno Regis in collaborazione con il Centro
Interateneo di Studi per la Pace e il Master in Peacekeeping Management
dell'Universita' di Torino.
Per informazioni: Centro Studi Sereno Regis, via Garibaldi 13, 10122
Torino, tel. 011532824; fax: 0115158000, e-mail: regis@arpnet.it, sito:
www.arpnet.it/regis
8. MAESTRI. MOHANDAS GANDHI: UN CAMMINO CHIARO
[Da Mohandas Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, Einaudi, Torino
1973, 1996, p. 121. Mohandas Gandhi e' il fondatore della nonviolenza. Nato
a Portbandar in India nel 1869, studi legali a Londra, avvocato, nel 1893 in
Sud Africa, qui divenne il leader della lotta contro la discriminazione
degli immigrati indiani ed elaboro' le tecniche della nonviolenza. Nel 1915
torno' in India e divenne uno dei leader del Partito del Congresso che si
batteva per la liberazione dal colonialismo britannico. Guido' grandi lotte
politiche e sociali affinando sempre piu' la teoria-prassi nonviolenta e
sviluppando precise proposte di organizzazione economica e sociale in
direzione solidale ed egualitaria. Fu assassinato il 30 gennaio del 1948.
Sono tanti i meriti ed e' tale la grandezza di quest'uomo che una volta di
piu' occorre ricordare che non va mitizzato, e che quindi non vanno
occultati limiti, contraddizioni, ed alcuni aspetti discutibili - che pure
vi sono - della sua figura, della sua riflessione, della sua opera. Opere di
Gandhi: essendo Gandhi un organizzatore, un giornalista, un politico, un
avvocato, un uomo d'azione, oltre che una natura profondamente religiosa, i
suoi scritti devono sempre essere contestualizzati per non fraintenderli;
Gandhi considerava la sua riflessione in continuo sviluppo, e alla sua
autobiografia diede significativamente il titolo Storia dei miei esperimenti
con la verita'. In italiano l'antologia migliore e' Teoria e pratica della
nonviolenza, Einaudi; si vedano anche: La forza della verita', vol. I,
Sonda; Villaggio e autonomia, Lef; l'autobiografia tradotta col titolo La
mia vita per la liberta', Newton Compton; La resistenza nonviolenta, Newton
Compton; Civilta' occidentale e rinascita dell'India, Movimento Nonviolento;
La cura della natura, Lef. Altri volumi sono stati pubblicati da Comunita':
la nota e discutibile raccolta di frammenti Antiche come le montagne; da
Sellerio: Tempio di verita'; da Newton Compton: e tra essi segnaliamo
particolarmente Il mio credo, il mio pensiero, e La voce della verita'.
Altri volumi ancora sono stati pubblicati dagli stessi e da vari altri
editori. I materiali della drammatica polemica tra Gandhi, Martin Buber e
Judah L. Magnes sono stati pubblicati sotto il titolo complessivo Devono gli
ebrei farsi massacrare?, in "Micromega" n. 2 del 1991 (ma su questo
argomento si veda anche la riflessione di Giuliano Pontara in uno dei suoi
ultimi libri). Opere su Gandhi: tra le biografie cfr. B. R. Nanda, Gandhi il
mahatma, Mondadori; il recente accurato lavoro di Judith M. Brown, Gandhi,
Il Mulino; il recentissimo libro di Yogesh Chadha, Gandhi, Mondadori. Tra
gli studi cfr. Johan Galtung, Gandhi oggi, Edizioni Gruppo Abele; Icilio
Vecchiotti, Che cosa ha veramente detto Gandhi, Ubaldini; ed i volumi di
Gianni Sofri: Gandhi e Tolstoj, Il Mulino (in collaborazione con Pier Cesare
Bori); Gandhi in Italia, Il Mulino; Gandhi e l'India, Giunti. Cfr. inoltre:
Dennis Dalton, Gandhi, il Mahatma. Il potere della nonviolenza, Ecig. Una
importante testimonianza e' quella di Vinoba, Gandhi, la via del maestro,
Paoline. Per la bibliografia cfr. anche Gabriele Rossi (a cura di), Mahatma
Gandhi; materiali esistenti nelle biblioteche di Bologna, Comune di Bologna.
Altri libri utili disponibili in italiano sono quelli di Lanza del Vasto,
William L. Shirer, Ignatius Jesudasan, George Woodcock, Giorgio Borsa,
Enrica Collotti Pischel, Louis Fischer. Un'agile introduzione e' quella di
Ernesto Balducci, Gandhi, Edizioni cultura della pace. Una interessante
sintesi e' quella di Giulio Girardi, Riscoprire Gandhi, Anterem]
Nei miei metodi non c'e' niente di segreto. Non conosco altra diplomazia che
quella della verita'. Non ho altra arma che quella della nonviolenza.
9. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.
10. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti, la e-mail e': azionenonviolenta@sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: lucben@libero.it;
angelaebeppe@libero.it; mir@peacelink.it, sudest@iol.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it. Per
contatti: info@peacelink.it
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO
Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it
Per non ricevere piu' questo notiziario e' sufficiente inviare un messaggio
con richiesta di rimozione a: nbawac@tin.it
Numero 472 del 10 gennaio 2003