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[info-unponteper] notizie dal ponte n.1-2003
Subject: [info-unponteper] notizie dal ponte n.1-2003
Numero 1 Anno 2
gennaio 2003
PRONTI PER LA GUERRA, FRA PREPARATIVI ONU E CONTRADDIZIONI USA
Guerra per il petrolio? No, grazie di Michael Renner
Media con l’elmetto: la ITN e la guerra all’Iraq
Iraq: il punto sulle ispezioni
Ex-ministro esteri GB: guerra a Iraq aumenterà il terrorismo
Annan: attacco a Iraq adesso ingiustificato
Warren Cristopher: Corea del Nord e terrorismo minacce più gravi dell’Iraq
Ong inglesi: guerra colpirà i civili
Oil for Food: più controlli sulle importazioni
Lettera a un guerriero di Elias Amidon
Al Cairo Conferenza internazionale contro la guerra
Bambini iracheni: cartoline di Natale a Blair contro la guerra
Delegazioni religiose Usa in Iraq contro la guerra
Lettera a Bush e altri leader mondiali contro una guerra all’Iraq
____________________
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PRONTI PER LA GUERRA, FRA PREPARATIVI ONU E CONTRADDIZIONI USA
di Ornella Sangiovanni
L’allarme per le conseguenze umanitarie di una guerra contro l’Iraq è stato
lanciato da tempo da varie agenzie e organizzazioni umanitarie
internazionali, ma adesso tocca alle Nazioni Unite.
L’organismo internazionale esce finalmente allo scoperto e - un po’
ufficialmente, un po’ attraverso le immancabili "fughe di notizie" - rivela
di stare mettendo a punto piani di emergenza e dà le cifre del possibile
disastro.
In caso di guerra, sarebbero milioni di iracheni che rischierebbero di
morire di fame a meno di non ricevere immediatamente aiuti alimentari.
Secondo i piani approntati dall’Onu, il loro numero sarebbe compreso fra i
4 milioni e mezzo e i 9 milioni e mezzo su una popolazione di circa 22
milioni di abitanti.
I piani - confidenziali ma rivelati in parte dalla Reuters e in parte dal
quotidiano londinese Times il 23 dicembre scorso - ipotizzano un collasso
del programma Oil for Food, il blocco della produzione di petrolio, che
priverebbe l’Iraq dei fondi per acquistare cibo e generi umanitari, e la
paralisi dei trasporti, che ne renderebbe estremamente difficile la
distribuzione.
A questo si aggiungerebbe un enorme problema di rifugiati: sarebbero
900.000, secondo le stime dell’Onu, gli iracheni che verrebbero spinti
verso i paesi vicini, 100.000 circa dei quali avrebbero bisogno di
assistenza immediata.
Altre centinaia di migliaia rimarrebbero in Iraq come sfollati. L’accesso a
questi potrebbe essere reso particolarmente difficile a causa dei
combattimenti.
Piani di emergenza segreti ma non troppo
L’Onu è al lavoro da diverse settimane per preparare piani di emergenza per
una eventuale guerra, su richiesta del Segretario Generale, Kofi Annan.
Finora però la notizia non era stata diffusa per timore che i preparativi
potessero essere interpretati come un segnale di sfiducia nei confronti
della possibilità che le ispezioni in corso riescano a evitare la guerra.
Il suo portavoce, Fred Eckhard, ha ammesso ufficialmente l’esistenza di
tali preparativi il 23 dicembre, senza però fornire cifre, a cominciare
dall’ammontare dei fondi richiesti.
Qualcosa però è iniziato a trapelare dopo una riunione fra un gruppo di
agenzie dell’Onu e i rappresentanti dei paesi "ricchi" , che si è svolta
verso metà dicembre a Ginevra. Nell’occasione sarebbero stati chiesti 37,4
milioni di dollari per finanziare la fase iniziale dell’emergenza.
Eckhard ha detto soltanto che la maggior parte del denaro andrebbe per la
pianificazione e l’approntamento delle forniture di emergenza (cibo, tende,
coperte e medicinali) nei paesi vicini all’Iraq: una fase che è già iniziata.
Uno scenario più dettagliato, e perciò ancora più drammatico, è quello che
emerge dalle "rivelazioni" del quotidiano londinese Times, che avrebbe
avuto accesso a "documenti interni" e a documenti di pianificazione
"confidenziali° delle Nazioni Unite. In essi si prevede che una guerra
bloccherebbe tutta la produzione petrolifera irachena, "danneggerebbe
gravemente" la rete elettrica del paese, con ripercussioni sulla capacità
di tutti i settori, in particolare il trattamento delle acque e il sistema
di smaltimento dei rifiuti e la sanità. Previsto il collasso anche per
trasporti e comunicazioni, con il blocco del porto di Umm Qasr, e
l’interruzione dei trasporti sia stradali che ferroviari a causa del
bombardamento dei ponti. La distruzione dei ponti, inoltre, renderebbe
particolarmente difficili gli spostamenti fra l’est e l’ovest del paese.
Inoltre, secondo i documenti visti dal Times, e a cui anche noi siamo
riusciti ad avere accesso, i combattimenti più intensi si verificherebbero
nelle tre provincie centrali e attorno alla capitale Baghdad.
Particolarmente grave sarebbe la situazione dell’acqua, con la necessità
immediata di fornire acqua potabile a circa 4 milioni di persone, solo
nelle provincie meridionali (senza contare gli sfollati e i potenziali
rifugiati ancora in Iraq) secondo stime fatte dall’UNICEF.
Si prevede inoltre che la mancanza di acqua potabile causerà un aumento di
malattie - con possibilità che si verifichino epidemie se non addirittura
pandemie - che renderà inadeguati gli stock di medicinali esistenti (che al
momento hanno in teoria una autonomia di quattro mesi, però in condizioni
normali).
Le agenzie dell’Onu si stanno comunque preparando all’emergenza. Il World
Food Programme ha detto di aver approntato cibo sufficiente per 900.000
persone per un mese, mentre l’UNICEF ha iniziato a spostare in Iraq e in
quattro paesi vicini, dai suoi depositi in Danimarca, rifornimenti per
550.000 persone all’interno dell’Iraq e per altre 160.000 che si prevede si
riverseranno nei paesi confinanti.
Il malcontento delle ong americane
Nel frattempo si è fatta paradossale la situazione delle organizzazioni
umanitarie americane, fra le quali si registra un malcontento diffuso per
l’impossibilità di pianificare interventi di assistenza a causa delle
sanzioni Usa contro l’Iraq, che impediscono qualunque attività, anche
quella di ricognizione.
Secondo le leggi vigenti, i cittadini americani che vogliono recarsi in
Iraq devono ottenere il permesso dall’Office of Foreign Assets Control
(OFAC), l’ufficio del Dipartimento del Tesoro che amministra le sanzioni.
Da mesi - la denuncia è di Kenneth Bacon, presidente di Refugees
International (RI), una ong con sede a Washington che dal 1979 si occupa di
assistenza a rifugiati e sfollati - l’OFAC ha reso impossibile a tutti,
fatta eccezione per un numero assai ridotto di agenzie, l’invio di
personale in Iraq per verificare la situazione umanitaria. Una
impossibilità di accesso che finora ha impedito qualunque pianificazione.
Il divieto riguarda tutto l’Iraq - compreso il nord sotto controllo kurdo -
e anche il vicino Iran.
E una esenzione immediata dalle sanzioni per le agenzie umanitarie perché
possano iniziare i preparativi per una emergenza in Iran e nel nord
dell’Iraq è quanto chiede al governo americano George Rupp, presidente
dell’International Rescue Committee (IRC), una delle maggiori
organizzazioni mondiali di assistenza ai rifugiati.
Il paradosso sta nel fatto che il Dipartimento di Stato ha recentemente
concesso fondi per un ammontare di 6 milioni di dollari a diverse ong per
progetti di assistenza umanitaria in Iraq (vedi Notizie dal Ponte no.13-14).
Solo che il Dipartimento del Tesoro, che amministra le sanzioni, rifiuta di
consentire loro l’ingresso nel paese per poter iniziare a lavorare, secondo
quanto ha dichiarato Jim Bishop, direttore degli interventi umanitari di
InterAction.
Fatta la legge, trovato l’inganno …
Ecco quindi che le organizzazioni umanitarie americane hanno deciso di
appoggiarsi ad agenzie straniere minori che hanno accesso in Iraq. Fra gli
esempi, CARE, con sede ad Atlanta, che lavora attraverso la sua sezione
australiana, e Mercy Corps, di Portland, Oregon, che si affida a
Peacewinds, il suo partner giapponese.
Ma le polemiche sembrano destinate a continuare. "Non crediamo che lo scopo
delle sanzioni economiche fosse quello di impedire la pianificazione di
interventi umanitari", protesta Sandra Mitchell, vice presidente dell’IRC,
sottolineando che il divieto del governo agli operatori umanitari di
entrare in Iraq peggiora la situazione.
Al Dipartimento del Tesoro però non si scompongono, e dicono che i permessi
alle agenzie umanitarie vengono rilasciati in modo tempestivo dopo un esame
approfondito.
"Non è l’OFAC che stabilisce la politica di sanzioni Usa, è il Congresso",
ha dichiarato il vice assistente del Segretario al Tesoro, Rob Nichols. Con
buona pace delle ong.
GUERRA PER IL PETROLIO? NO, GRAZIE
di Michael Renner
Il controllo delle fonti energetiche in generale e delle risorse
petrolifere della regione del Golfo in particolare sono da tempo un asse
portante della politica estera Usa. Questa strategia ha ricevuto una
accelerazione con l’Amministrazione Bush, ed è alla base dei suoi piani per
una guerra all’Iraq che porti al cosiddetto "cambiamento di regime".
Questo articolo, tratto dal sito Usa The Globalist, che pubblichiamo nella
traduzione italiana, lo chiarisce in modo esemplare. Il suo autore -
Michael Renner - è senior researcher al Wordwatch Institute.
Ci sono molti segnali che i giacimenti di petrolio nel mondo si stanno
esaurendo - e che si stanno facendo progressi nello sviluppo di fonti di
energia alternative. E tuttavia la politica energetica di Bush
ciononostante rimane tenacemente dedicata al consumo di petrolio.
Questo desiderio di mantenere una economia basata sul petrolio può far
intuire il motivo che è alla base dell’attuale interesse degli Stati Uniti
per l’Iraq.
Le vere questioni coinvolte in questo sforzo vanno molto al di là di
qualunque affermazione semplicistica secondo la quale l’Amministrazione
Bush starebbe solo cercando di rendere il mondo sicuro per le società
petrolifere.
La situazione reale è più complessa. Ma il petrolio, sembra, è sempre
all’origine di tutto.
Non che una occupazione vittoriosa dell’Iraq non creerebbe un clima
migliore per gli affari per l’industria petrolifera statunitense. Dopo anni
di sanzioni, l’industria petrolifera irachena è solo l’ombra di quello che era.
Mentre le società russe, francesi e cinesi si sono posizionate per trarre
profitto dal petrolio iracheno una volta finite le sanzioni, sono le
società americane, finora lasciate da parte, che potrebbero trarre il
maggior vantaggio da un cambiamento di regime a Baghdad.
Riabilitare questi impianti sarebbe un lavoro redditizio per l’industria
dei servizi petroliferi, compresa l’ex-società del vice-presidente Cheney,
la Halliburton.
Ma coloro che prendono le decisioni politiche in America hanno altro per la
testa. Una invasione vittoriosa dell’Iraq potrebbe dare a Washington una
enorme influenza sul mercato petrolifero mondiale. Essa indebolirebbe
inevitabilmente l’OPEC, e limiterebbe l’influenza di altri produttori, come
la Russia, il Messico e il Venezuela.
Il controllo del petrolio iracheno permetterebbe, fra l’altro, agli Stati
Uniti di ridurre l’influenza dell’Arabia Saudita sulla politica petrolifera.
Dall’11 settembre 2001, sono comparse spaccature fra Washington e Ryadh, e
queste possono ben allargarsi, dato che la popolazione sempre più restia
dell’Arabia Saudita è scossa dalla crisi economica.
Ecco perché, sia nel Medio Oriente che in altre regioni, il garantirsi
l’accesso al petrolio va sempre più di pari passo con una presenza militare
degli Usa in veloce espansione.
Dal Pakistan all’Asia Centrale al Caucaso, e dal Mediterraneo orientale al
Corno d’Africa, è emersa una /fitta rete di strutture militari americane.
Sono state create molte basi in nome della "guerra al terrorismo". Ma ciò
che esse hanno davvero in comune è la vicinanza a importanti impianti di
produzione del petrolio o oleodotti di importanza strategica.
In Colombia, nel frattempo, si sono create le condizioni perché gli Stati
Uniti vengano coinvolti anche più profondamente nella guerra civile del
paese. L’Amministrazione Bush ha deciso di fornire addestramento ed
equipaggiamento a truppe colombiane.
Perché? Non è, come si potrebbe pensare, solo a causa dell’esportazione di
droga dal paese verso gli Stati Uniti. In realtà, queste truppe sostenute
dagli Usa stanno anche proteggendo un oleodotto per l’esportazione del
petrolio contro frequenti bombardamenti da parte delle forze ribelli.
Questo, allora, è anche il modo in cui la politica irachena
dell’Amministrazione Bush si inserisce nello schema più ampio della sua
politica estera. Certo, esistono preoccupazioni legittime sulle capacità di
armamenti di Saddam come sulle droghe prodotte in Colombia. Ma, in entrambi
i casi, nel coinvolgimento americano c’è di più di quanto l’Amministrazione
Bush non dica.
E non si tratta solo di Saddam Hussein. In un senso più ampio, la politica
Usa mira a rafforzare l’affidarsi dell’economia mondiale al petrolio - e a
un sistema energetico il cui garante sono gli Stati Uniti.
Naturalmente, la disponibilità di petrolio a buon mercato indebolisce gli
sforzi per sviluppare fonti di energia rinnovabile, aumentare l’efficienza
energetica e controllare le emissioni di gas serra.
Fin dal principio, queste sono state ragioni impellenti in sé e per sé per
porre fine all’epoca del petrolio.
E c’è un’altra ragione impellente: dalla fine del XIX° secolo, sono state
combattute troppe guerre, troppi milioni di persone sono morte e troppe
regioni del mondo sono state militarizzate e destabilizzate - tutto alla
ricerca dell’ "oro nero".
L’enfasi dell’Amministrazione Bush sul petrolio tiene la politica estera
Usa in ostaggio di una fonte energetica che è, molto semplicemente, quella
sbagliata.
Nessuna guerra è davvero buona. Ma una guerra combattuta per il petrolio -
che è il motivo essenziale dell’avventura irachena - è peggio, perché
rafforza una politica energetica che porterà a più guerre e problemi
ambientali. Adesso è il momento di dire "no" al petrolio - e alla guerra
per il petrolio.
MEDIA CON L’ELMETTO - LA ITN E LA GUERRA ALL’IRAQ
Non si può mai sottolineare abbastanza il ruolo cruciale che giocano i
mass-media nel preparare l’opinione pubblica ad accettare se non
addirittura a sostenere la guerra.
Anche la Gran Bretagna, patria presunta del giornalismo "obiettivo", non fa
eccezione, anzi. Solo che qui i meccanismi sono assai sofisticati e
destrutturarli non è facile.
E’ il servizio - davvero impagabile - che svolge Media Lens: un Media Watch
- ovvero un osservatorio sui media - on line, gestito con grande passione,
e soprattutto competenza, da volontari, che tiene sotto tiro soprattutto i
media cosiddetti "liberal", o presunti tali - come i quotidiani Guardian e
Independent, il settimanale Observer, e persino la tanto celebrata BBC -
smontandone appunto i sofisticati meccanismi di manipolazione.
Da quando i tamburi della guerra all’Iraq hanno iniziato a rullare, il sito
ha dedicato numerosi Media Alert al ruolo dei media e alla loro
responsabilità - nella manipolazione dell’opinione pubblica.
Il contributo che segue - che pubblichiamo nella traduzione italiana - è
uscito il 19 dicembre 2002.
Messaggio dall’America - La ITN dichiara guerra all’Iraq
Qualunque idea residua secondo la quale abbiamo un sistema dei media libero
e indipendente si sta certamente volatilizzando sotto il gran peso delle
prove che emergono mentre Stati Uniti e Gran Bretagna manipolano e
ingannano il loro cammino verso una guerra per il controllo del petrolio
iracheno.
Prendiamo il servizio incredibile di stasera nelle news delle 18.30 sull’ITN.
La conduttrice - Katie Derham - ha aperto il servizio sull’Iraq, dichiarando:
"Saddam Hussein ha mentito alle Nazioni Unite e il mondo è un passo più
vicino a una guerra con l’Iraq. Questo è il messaggio stasera dall’America,
mentre il capo degli ispettori dell’Onu ha ammesso che nel dossier di
Saddam sugli armamenti non c’è nulla di nuovo. La Casa Bianca ha confermato
poco fa che il presidente Bush sta ora andando velocemente verso un
attacco." (19 dicembre 2002)
Ancora una volta, il ruolo dei media è semplicemente quello di riferire il
punto di vista del potere.
Dato che le cose stanno così, il potere è libero di fare esattamente ciò
che vuole: al pubblico verrà detto ciò che il potere ritiene giusto,
sbagliato, buono e cattivo. Senza nessuna contestazione razionale,
ignorando tutti gli altri punti di vista come non pertinenti, il pubblico
non sarà in grado di contraddire il "messaggio dall’America".
La Derham ha passato la parola al caposervizio esteri, Bill Neely, che ha
chiesto: "Che cosa manca?" nel dossier iracheno sugli armamenti. Questa la
risposta:
"L’Iraq non dà conto delle centinaia di granate di artiglieria riempite di
iprite che gli ispettori sanno che possedeva. L’Iraq in passato ha detto di
averle perdute!".
Non c’è bisogno di mettere in discussione se queste granate mancanti
vengono proposte in tutta serietà come motivo per lanciare una guerra
imponente. Non c’è bisogno di mettere in discussione se l’uso di queste
armi terrificanti - descritte dagli ispettori come armi di importanza
minima sul campo di battaglia - potrebbe venire scoraggiato dalle 6.144
testate nucleari degli Stati Uniti. Non c’è bisogno di mettere in
discussione perché, se queste armi sono una minaccia così spaventosa, agli
ispettori è stato permesso di andare e venire a loro piacimento in Iraq.
Parlando sotto un grafico intitolato "Verso la guerra", il conduttore della
ITN, Nicholas Owen, ha detto:
"Sembra che la questione non sia più se attaccheremo l’Iraq, ma quando e
come. Quindi, che cosa succederà adesso? Qual è il percorso verso la guerra?"
Tutte le domande che potrebbero essere fatte da qualunque individuo
ragionevole in questo momento critico possono essere allora lasciate
tranquillamente cadere, con il giudizio che una guerra imminente è ora
semplicemente un fatto concreto che deve essere accettato. Se i potenti
hanno deciso una linea di azione, chi siamo noi per mettere in discussione
o contestare ciò che hanno deciso di fare?
Owen ha continuato:
"A differenza dell’ultima guerra del Golfo, non esiste l’opzione di
lasciare l’Iraq con Saddam Hussein ancora al potere. Questa guerra ci sarà
e ci si sbarazzerà di Saddam, e questo messaggio arriva dall’alto."
(Nicholas Owen)
Ancora una volta, il "messaggio dall’America", questa volta dal presidente
stesso, è: guerra!
E così Owen dichiara la guerra una certezza e preannuncia la caduta di
Saddam Hussein.
Il lavoro dei media è semplicemente quello di trasmettere il messaggio:
preoccupazioni razionali e morali non hanno interesse per la nostra libera
stampa.
Owen è passato poi a discutere "i rischi", sotto un titolo con le stesse
parole, che indicavano la possibile necessità di combattimenti corpo a
corpo nelle strade di Baghdad:
"Un incubo di guerra urbana nel quale potrebbero esserci molte vittime …
Una strategia rischiosa per qualunque presidente Usa in un paese che non è
pronto ad accettare che i suoi soldati tornino a casa dentro sacchi di
plastica."
Immaginate se una grande superpotenza straniera stesse prendendo in
considerazione combattimenti corpo a corpo nelle strade di Londra. Ben
altri i rischi che potrebbero venire in mente.
Ma, come in Afghanistan, gli orrori che ha di fronte una popolazione
prigioniera schiava di un dittatore e nel mirino delle nostre bombe non
sono una nostra preoccupazione.
Quindi, l’inviato John Irvine, da Baghdad:
"Stasera in News at Ten, parlerò dei problemi che qualunque forza di
invasione potrebbe trovarsi di fronte in questo paese. Dopo la guerra del
Golfo, gli americani hanno esperienza di combattimenti nel deserto. Ma
questa volta il premio finale sarà diverso: la conquista di questa città,
Baghdad."
Si noti che Irvine, che si trova nella capitale bersaglio, in mezzo a una
popolazione civile completamente schiacciata da guerre precedenti (ad
esempio, dalle 88.500 tonnellate di bombe sganciate durante la guerra del
Golfo: l’equivalente di sette bombe del tipo di Hiroshima) e da un decennio
di sanzioni genocide, può riferirsi a problemi solo ai problemi cui si
troverà a far fronte una "forza di invasione".
I problemi cui si troveranno a far fronte centinaia di migliaia di persone
attorno a lui - come quello di restare mutilati, inceneriti e uccisi - non
sono ora e non sono mai stati un tema per i nostri media.
Sotto un grafico intitolato "Guerra contro Saddam", Owen ha proseguito:
"Come ha detto, John ci dirà di più su una Guerra contro Saddam stasera
nelle News at Ten."
A poche ore dall’annuncio degli Usa di una "violazione sostanziale", anche
mentre il ministro degli Esteri, Jack Straw, insiste ingannevolmente che
ciò non significa automaticamente guerra, la ITN ha deciso, nella sua
infinita sapienza, e servilità, che questa è adesso una "Guerra contro Saddam".
Infine, Robert Moore da Washington ha dichiarato:
"La conclusione qui alla Casa Bianca, certamente, è che il presidente Bush
ritiene che Saddam Hussein abbia perduto la sua ultima opportunità di
salvare il suo regime."
Perciò, con perfetta simmetria, il servizio è finito come era cominciato,
con un "messaggio dall’America", dai potenti: l’unico messaggio che conta
in un mondo dei media totalmente perduto nell’ignoranza, brutalità
indifferente e servilità.
IRAQ: IL PUNTO SULLE ISPEZIONI
Le ispezioni sugli armamenti non convenzionali in Iraq sono iniziate il 27
novembre 2002, dopo una interruzione di circa 4 anni. Gli ispettori vennero
infatti ritirati nel dicembre 1998, alla vigilia dell’operazione militare
Desert Fox e da allora non erano più rientrati nel paese.
Il 7 dicembre 2002 (con un giorno di anticipo sulla scadenza prevista dalla
risoluzione Onu 1441 (2002)) l’Iraq ha consegnato la dichiarazione sui suoi
programmi di armamenti: un dossier imponente, composto da oltre 12.000
pagine, suddiviso in quattro parti: nucleare, chimico, biologico e balistico
Il 9 dicembre 2002 è stato reso pubblico un indice di 9 pagine
Hans Blix, Direttore Esecutivo dell’UNMOVIC, e Mohammed El Baradei,
Direttore Generale dell’IAEA, hanno fatto un rapporto preliminare al
Consiglio di Sicurezza il 19 dicembre 2002.
Il 28 dicembre 2002 l’Iraq ha consegnato una lista con i nomi di oltre 500
scienziati che hanno lavorato ai suoi programmi di armamenti. La lista è
attualmente all’esame di Blix e El Baradei che decideranno tempi, luoghi e
modalità con cui essi dovranno essere intervistati.
L’Iraq ha inviato una lettera a Hans Blix, invitandolo a recarsi a Baghdad
"per fare un esame degli aspetti della cooperazione avuta sinora e delle
prospettive per migliorarla nei mesi a venire".
Blix ha accettato l’invito, dichiarando che approfitterà dell’occasione per
discutere alcune questioni che derivano dalla lettura del dossier iracheno.
La visita di Blix e El Baradei in Iraq potrebbe svolgersi fra il 18 e il 20
gennaio.
Attualmente (al 29 dicembre 2002) sono 110 gli ispettori dell’Onu presenti
in Iraq: 100 dell’UNMOVIC e 10 dell’IAEA. Essi sinora hanno ispezionato
circa 230 siti. Di recente è stato aperto un ufficio a Mosul, nel nord del
paese.
Prossime scadenze:
9 gennaio 2003: Data prevista per il rapporto finale di Hans Blix e
Mohammed El Baradei al Consiglio di Sicurezza sul dossier iracheno.
27 gennaio 2003: Primo rapporto ufficiale al Consiglio di Sicurezza sui
risultati delle ispezioni, secondo quanto previsto dalla risoluzione 1441
(2002)
(a cura di Ornella Sangiovanni)
EX-MINISTRO ESTERI GB: GUERRA A IRAQ AUMENTERA’ IL TERRORISMO
Londra, 3 gennaio 2003 - La politica degli Stati Uniti in Medio Oriente è
un esempio sbalorditivo di illusione, e una guerra contro l’Iraq potrebbe
aumentare il terrorismo contro l’Occidente.
E’ quanto scrive l’ex ministro degli esteri britannico Douglas Hurd in un
articolo pubblicato sul quotidiano Financial Times.
Secondo Hurd, che è stato ministro degli esteri dei premier conservatori
Margaret Thatcher e John Major dal 1989 al 1995, è necessario valutare "gli
indubbi benefici di un rovesciamento di Saddam Hussein contro il rischio di
trasformare il Medio Oriente in un serbatoio inesauribile di reclutamento
per il terrorismo anti-occidentale".
"Certo" - prosegue - "in una guerra Hussein verrebbe rovesciato e il suo
programma di armamenti smantellato. Ma dopo di questo una analisi diffusa a
Tel Aviv e Washington predice che gli Arabi in tutta la regione sarebbero
incoraggiati a sbarazzarsi dei loro leader non democratici , ad abbracciare
una democrazia di tipo occidentale e a fare la pace con Israele. Questa
previsione mi colpisce come un esempio sbalorditivo della capacità umana di
illudersi".
ANNAN: ATTACCO A IRAQ ADESSO INGIUSTIFICATO
New York, 31 dicembre 2002 - Una azione militare contro l’Iraq prima che
gli ispettori presentino il loro rapporto al Consiglio di Sicurezza sarebbe
ingiustificata. Lo ha dichiarato il Segretario Generale dell’Onu, Kofi
Annan, in una intervista alla radio militare israeliana.
"L’Iraq sta cooperando e gli ispettori sono in grado di svolgere il loro
lavoro senza impedimenti, perciò non vedo argomenti a sostegno di una
azione militare adesso", ha dichiarato.
Fonti: Reuters, Associated Press
WARREN CHRISTOPHER: COREA DEL NORD E TERRORISMO MINACCE PIU’ GRAVI DELL’IRAQ
New York, 30 dicembre 2002 - La ripresa del programma nucleare da parte
della Corea del Nord, assieme alla minaccia incessante del terrorismo
internazionale, rappresentano una minaccia di gran lunga più grave di
quella posta dall’Iraq. E’ quanto afferma l’ex Segretario di Stato
americano Warren Christopher in un articolo scritto per il New York Times.
Secondo Christopher, che è stato Segretario di Stato dal 1993 al 1997 -
l’esperienza dimostra che, contrariamente a quanto affermato di recente, in
politica estera gli Stati Uniti sono "cronicamente incapaci" di gestire più
di una crisi alla volta. Ne deriva che non potrebbero fare una guerra
contro l’Iraq e mantenere il focus necessario sulla Corea del Nord e il
terrorismo mondiale. Un attacco all’Iraq - scrive Christopher - farà
passare in secondo piano tutti gli altri problemi di politica estera per
almeno un anno.
Certamente - prosegue - il mondo starebbe meglio senza Saddam Hussein, "ma
dobbiamo riconoscere che lo sforzo per rimuoverlo adesso può distrarci
dall’affrontare minacce più gravi". Quelle rappresentate dalla Corea del
Nord e dal terrorismo internazionale sono più imminenti di quella posta
dall’Iraq e presentano ragioni impellenti perché il presidente Bush arretri
dalla sua "fissazione" di attaccare l’Iraq.
ONG INGLESI: GUERRA COLPIRA’ I CIVILI
Londra, 21dicembre 2002 - "E’ difficile immaginare come si potrebbe fare
una guerra contro l’Iraq senza violare il diritto internazionale umanitario
e aumentare le sofferenze fra la popolazione civile".
E’ quanto scrivono i direttori del British Overseas Aid Group, una
coalizione di cinque ong britanniche che lavorano nel campo dell’assistenza
umanitaria, in una lettera pubblicata sul quotidiano Financial Times.
Ricordando che l’articolo 54 del Protocollo Addizionale 1 alle Convenzioni
di Ginevra proibisce gli attacchi a "oggetti indispensabili alla
sopravvivenza della popolazione civile", e che nel caso dell’Iraq, per la
sua particolare situazione provocata da 12 anni di sanzioni, questi
comprendono porti, strade, ferrovie e linee elettriche, essenziali per la
distribuzione per la distribuzione dei viveri da cui dipende una gran parte
della popolazione, essi invitano a considerare "le conseguenze di qualsiasi
azione militare" dal punto di vista delle vite dei civili.
Fanno parte del British Overseas Aid Group Action Aid, CAFOD, Christian
Aid, Oxfam, e Save the Children.
OIL FOR FOOD: PIU’ CONTROLLI SULLE IMPORTAZIONI
Inasprite le sanzioni all’Iraq. Il 30 dicembre 2002 il Consiglio di
Sicurezza ha approvato una risoluzione che amplia la lista delle merci
(GRL) la cui importazione da parte dell’Iraq richiede l’approvazione dell’Onu.
La risoluzione 1454 (2002) è stata approvata con 13 voti a favore e due
astensioni: quelle della Russia e della Siria.
L’ ampliamento della GRL entro 30 giorni era la condizione che aveva
convinto Stati Uniti e Gran Bretagna a votare la proroga di sei mesi del
programma Oil for Food il 4 dicembre scorso (vedi Notizie dal Ponte 23-24).
Gli Usa, appoggiati dalla Gran Bretagna, avevano chiesto di aggiungere alla
GRL (che già comprende oltre 400 pagine) una cinquantina di articoli fra
cui diversi medicinali come l’atropina, e attrezzature che potrebbero avere
"duplice uso" (civile e militare).
La GRL è stata introdotta come parte delle nuove procedure entrate in
vigore in base alla risoluzione 1409 (2002), approvata dal Consiglio di
Sicurezza il 14 maggio 2002.
Nota: Dal 1 gennaio 2003 sono entrati a far parte del Consiglio di
Sicurezza 5 nuovi membri non permanenti: Germania, Spagna, Pakistan, Cile e
Angola.
Questi paesi sostituiscono i cinque membri uscenti - Colombia, Irlanda,
Mauritius, Norvegia e Singapore - che hanno terminato il loro mandato biennale.
LETTERA A UN GUERRIERO
di Elias Amidon
Baghdad, 22 dicembre 2002
Elias Amidon è un pacifista di Boulder (Colorado), che si trova attualmente
a Baghdad assieme all’Iraq Peace Team.
La lettera che segue - di cui pubblichiamo la traduzione italiana - è stata
scritta in risposta al messaggio inviatogli da un militare della US Navy,
Terrence Graves, che diceva testualmente:
"Sarei felice di unirmi alla vostra delegazione di pace in Iraq, appena
riporteremo quella dittatura brutale all’età della pietra a furia di
bombardamenti".
Caro Terrence,
sono lieto di apprendere che prenderesti in considerazione di partecipare
alla nostra delegazione di pace: sei più che benvenuto. Tuttavia, le
condizioni che poni mi sconcertano: non capisco come possiamo far tornare
questa dittatura all’età della pietra a furia di bombardamenti senza
colpire un gran numero di persone innocenti qui, e causare ferite che
provocheranno ancora più violenza in futuro, avvelenando proprio quella
speranza che vorresti portare alla delegazione di pace.
So che la tua è la speranza di tante guerre: determinare le condizioni
della pace, uccidendo coloro che, a nostro giudizio, la ostacolano. Lo hai
espresso in modo molto conciso nella tua lettera di una sola frase. E se io
potessi essere convinto che questa tattica porterebbe davvero la pace e
libererebbe il mondo da brutali dittatori, allora direi assieme a te: "Via
con le bombe!".
Ma non porta la pace. Porta sofferenza, rabbia, e morte, e semina le
condizioni di più dittature, più guerre, più bombe.
Tu sei in Marina. Forse sei su una di queste portaerei che sono nel Golfo
pronte a lanciare attacchi aerei su questo paese. Immagina cosa accade
quando quelle bombe e quei missili lucenti che vedi fissati sul fondo dei
jet vengono sganciati sui cieli dell’Iraq, cosa accade quando colpiscono -
diciamo anche quando colpiscono i loro bersagli designati, non quando vanno
a colpire aree civili come succede a molti di essi.
Immagina che tu abbia dipinto a spray su uno dei missili: "Saddam, torna
all’età della pietra!" e questo colpisca l’edificio del Ministero
dell’Informazione qui a Baghdad, certamente un bastione della dittatura
brutale.
Immagina quel momento. Fuori, vicino all’ingresso, c’è un bambino di otto
anni: si chiama Ahmed. Lucida le scarpe per aiutare la famiglia a tirare
avanti in questi tempi difficili. Potrebbe essere tuo figlio.
Ha questi occhi profondi: li hai visti. Il missile si schianta contro il
lato nord dell’edificio - è il momento in cui l’immagine sulla CNN dal
mirino del missile scompare, e milioni di telespettatori negli Usa
avvertono un piccolo sussulto di orgoglio nazionale per la nostra
sorprendente mira esatta, la nostra tecnologia chirurgicamente accurata.
Ahmed, che è seduto vicino all’ingresso est sulla sua latta di pittura
vuota, guarda in su, giusto in tempo per ricevere in faccia una raffica di
detriti. Viene gettato all’indietro e misericordiosamente perde i sensi
battendo la testa sul selciato. Lo trovano sotto le macerie circa un’ora
più tardi e lo portano in un ospedale sommerso di vittime. E’ cieco, un
lato del volto bruciato dall’esplosione, e gli manca un piede. Ma è vivo,
in un modo o nell’altro, in un modo mozzato, molto più indietro dell’età
della pietra. Potresti vederlo fra qualche anno nelle strade di Baghdad,
quando verrai qui per quella delegazione di pace. Metti dei dinari nel suo
bicchiere di carta.
Terrence, come senti sono aspro, e per questo ti chiedo pazienza. Ho
vissuto quasi 60 anni, e in questo periodo il mio paese, il mio grande caro
paese i cui principi fondatori io sottoscrivo con tutto il cuore, ha
perseguito politiche estere fondate più sul sospetto, sulla dominazione, e
sulla violenza che sull’intelligenza o sulla benevolenza.
La nostra nazione è sommamente potente tramite la sua forza militare, ma è
potente dal punto di vista morale?
Sono cresciuto credendo che il nostro paese sostenesse "libertà e giustizia
per tutti".
Chiedi in giro: è questa l’impressione che la maggioranza della gente nel
mondo ha oggi degli Stati Uniti d’America?
So che la risposta comune alle storie degli "Ahmed" è che essi sono i danni
collaterali sfortunati di una guerra necessaria che alla fine salverà più
vite.
Quando le venne chiesto dei 500.000 bambini che, secondo stime dell’Onu,
erano morti come diretta conseguenza delle sanzioni all’Iraq, l’ex-
Segretario di Stato Madeleine Albright rispose in modo famoso: "Ne vale la
pena".
Che strano calcolo è questo? Cinquecentomila Ahmed! Non può essere
descritto come genocidio?
Ci meravigliamo che qui la gente consideri che gli Stati Uniti dettano
legge brutalmente sulle loro vite?
Ieri notte abbiamo fatto una veglia a lume di candela in una centrale
elettrica qui a Baghdad. Eravamo circa 60, tutti con le candele in mano, i
nostri volti belli nella luce tremula. Sembrava una rappresentazione
natalizia.
Con noi c’erano i nostri tassisti e i lavoratori della centrale: questi
uomini coi baffi che tenevano davanti a sé le candele come bambini,
guardando nel buio.
In piedi vicino a me c’era una madre irachena con tre bambini. Si chiamava
Amara. Ha partorito il maggiore dei suoi figli durante i bombardamenti di
Baghdad nel 1991.
I giornalisti là radunati le spingevano di fronte quasi una dozzina di
microfoni mentre lei balbettava in inglese sgrammaticato: "Per favore, dite
al governo americano, per favore, basta bombe. Basta bombe. Vogliamo vivere
in pace."
Terrence, non mi aspetto di cambiare il tuo punto di vista con queste poche
parole, ma sono grato per l’opportunità che il tuo messaggio mi dà di
esprimere ciò che ho nel cuore.
Sono qui in Iraq per dar voce agli Ahmed e alle Amare, almeno per evocare
le loro immagini nelle nostre menti così che riconosciamo che queste sono
persone reali le cui vite sono preziose come le nostre.
Credo che tu, come guerriero, e tutti i tuoi colleghi nell’esercito, e
tutti i nostri concittadini e concittadine, dobbiate costantemente tenere
questo fatto nella mente e nel cuore, sia che vogliamo fare la pace che la
guerra.
Tu puoi dire che questo è un bel sentimento e che sei perfino d’accordo, ma
che non è pratico per affrontare il male. Penso che qui è il nostro punto
di maggior disaccordo: non nel nostro comune desiderio di pace, ma su come
seminare i semi reali di una vera pace.
Tu dici che questi semi sono le bombe. Io dico che abbiamo provato a
seminarle e il raccolto non c’è mai.
E se, invece di finanziare più bombe, i bravi cittadini del nostro ricco
paese decidessero di destinare, diciamo un terzo (circa 120 miliardi di
dollari) del nostro enorme bilancio militare ogni anno per aiutare a
contenere l’AIDS in Africa, fornire acqua pulita e cibo adeguato ai bambini
del mondo, e creare scuole, università e ospedali in tutto il mondo? Questo
non creerebbe una base più stabile per la nostra sicurezza come nazione?
Se offrissimo di finanziare le Nazioni Unite al livello necessario? Se
promuovessimo scambi di studenti e cittadini fra tutti i paesi, in modo che
attraverso i contatti diretti fra le persone la paura di coloro che sono
diversi da noi svanisse? Se smettessimo di inondare il mondo di armi
pericolose, e lavorassimo attraverso le Nazioni Unite e altri organismi
internazionali per sradicare le armi di distruzione di massa dagli arsenali
di tutte le nazioni?
Se sostenessimo in ogni modo possibile la Dichiarazione Universale dei
Diritti Umani, la Carta della Terra, e tutte le risoluzioni dell’Onu? Se,
invece di dominare il mondo con la paura, lo guidassimo con l’ispirazione?
Azioni come queste farebbero di più per garantire la nostra sicurezza di
tutte le guerre che potremmo tentare. Naturalmente, ci sarebbero ancora
prepotenti e dittatori da contenere e armi da smantellare.
Noi, assieme alla grande maggioranza delle nazioni del mondo, affronteremmo
questi problemi con tutti gli strumenti diplomatici e non violenti a nostra
disposizione. Nel far questo avremo aiutato a trasformare tutto il contesto
in cui la comunità delle nazioni lavora assieme per il bene comune.
Diventeremmo l’amico, il buon vicino, dei popoli del mondo. Sicuramente ne
vale la pena.
Coi i migliori saluti, e in pace
Elias Amidon
AL CAIRO CONFERENZA INTERNAZIONALE CONTRO LA GUERRA
Si è svolta al Cairo il 18 e 19 dicembre 2002 una conferenza internazionale
contro la guerra all’Iraq.
Alla Conferenza, dal titolo "Campagna Internazionale del Cairo contro
l’aggressione all’Iraq", hanno partecipato varie personalità internazionali
fra i quali l’ex-ministro della giustizia Usa, Ramsey Clark, gli
ex-coordinatori umanitari in Iraq, Denis J. Halliday e Han von Sponeck, e
il parlamentare laburista britannico George Galloway. Molte le personalità
anche dall’Egitto e dal mondo arabo, fra cui l’analista politico Mohammed
Hassan Heikal, l’economista Samir Amin, il parlamentare arabo-israeliano
Azmi Bishara e il leader algerino Ahmed Ben Bella, che ha presieduto i lavori.
La conferenza è stata organizzata dalla Egyptian Popular Campaign to
Confront US Aggression (EPCCUA) e finanziata interamente con contributi non
governativi, provenienti da uomini d’affari egiziani.
La Egyptian Popular Campaign to Confront US Aggression (EPCCUA) è una vasta
coalizione di attivisti e intellettuali egiziani creata alcuni mesi fa. Fra
i suoi fondatori l’ex-funzionario delle Nazioni Unite e oggi docente
universitario Ashraf El Bayoumi.
BAMBINI IRACHENI: CARTOLINE DI NATALE A BLAIR CONTRO LA GUERRA
Londra, 24 dicembre 2002 - Sette bambini iracheni hanno consegnato al Primo
ministro britannico Tony Blair delle cartoline di Natale giganti
chiedendogli di non fare una guerra all’Iraq.
Le cartoline - sulle quali erano una foto di un bambino iracheno ferito e
le frasi "Non attaccate l’Iraq" e "Date una possibilità alla pace" -
contenevano migliaia di messaggi e firme di cittadini britannici contrari a
un sostegno del loro paese alla posizione di Bush contro l’Iraq.
Ai bambini iracheni, di età compresa fra gli 8 e i 15 anni, si sono uniti
due fratelli egiziani e un ragazzo palestinese.
L’iniziativa è stata organizzata dalla Stop the War Coalition.
DELEGAZIONI RELIGIOSE USA IN IRAQ CONTRO LA GUERRA
Una delegazione di leader religiosi cattolici americani è stata in Iraq
nella seconda metà di dicembre per portare un messaggio di pace e fare
appello ai propri concittadini perché non permettano che venga fatta una
guerra.
La delegazione, composta da 11 membri, fra cui il direttore nazionale di
Pax Christi Usa - David Robinson - ha celebrato una messa nella Chiesa
Caldea di S. Giuseppe a Baghdad, alla quale hanno assistito circa 200 iracheni.
In un messaggio letto durante la funzione, e rivolto "a tutte le persone di
buona volontà negli Stati Uniti", i leader religiosi hanno implorato i loro
compatrioti " di guardare negli occhi gli iracheni ... gente che condivide
le nostre speranze e i nostri sogni per un mondo di pace [che] ... ha
sofferto negli ultimi dodici anni sotto le sanzioni più totali della storia
moderna [e] che il nostro governo si prepara a sacrificare come ‘danni
collaterali’ in una guerra irragionevole", invitando "le persone di buona
volontà" a insistere perché "il nostro governo ponga fine a questa pazzia e
si impegni in un percorso di risoluzione attiva non violenta."
A questa delegazione ne è seguita un’altra, organizzata dal National
Council of Churches (Usa) e guidata dal suo Segretario Generale Bob Edgar.
La delegazione, arrivata a Baghdad il 30 dicembre e composta da 12 membri
fra leader religiosi ed esperti, ha avuto numerosi incontri e ha visitato
scuole e ospedali per avere informazioni di prima mano sugli effetti delle
sanzioni. "La guerra può essere evitata": questo il messaggio al presidente
Bush lanciato in una conferenza stampa prima della partenza.
Il National Council of Churches è l’organo che guida la cooperazione
ecumenica fra i cristiani negli Stati Uniti.
Fonti: Agence France Press, Reuters
LETTERA A BUSH E ALTRI LEADER MONDIALI CONTRO UNA GUERRA ALL’IRAQ
Più di 300 singoli e organizzazioni hanno inviato una lettera indirizzata
al presidente americano Bush e ad altri leader mondiali - fra i quali il
presidente russo Putin, il Primo Ministro britannico Blair, il Presidente
francese Chirac, e il Cancelliere tedesco Schroeder - esortandolo a evitare
una guerra contro l’Iraq.
La lettera - firmata da pacifisti, ambientalisti, militanti anti-nucleari e
politici da circa 40 paesi e dai cinque continenti - chiede a Washington di
non lanciare un attacco preventivo contro l’Iraq, che sarebbe privo di basi
nel diritto internazionale, e di cercare una soluzione pacifica al suo
scontro con l’Iraq attraverso le Nazioni Unite.
Essa afferma inoltre che gli stati che possiedono armi nucleari, in
particolare gli Stati Uniti, devono smantellare i propri arsenali prima di
affrontare le armi di distruzione di massa di altri paesi.
Il documento, inviato il 25 novembre 2002, due giorni prima della ripresa
delle ispezioni sugli armamenti in Iraq, è stato firmato fra gli altri
dalle organizzazioni internazionali International Physicians for the
Prevention of Nuclear War (IPPNW), Women’s International League for Peace
and Freedom (WILPF), International Association of Lawyers Against Nuclear
Arms (IALANA), World Conference of Religions for Peace (WCRP).
Fra i firmatari anche diversi parlamentari, fra cui 4 deputati laburisti
britannici e gli italiani Luisa Morgantini (europarlamentare) e Mauro
Bulgarelli (deputato dei Verdi).
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