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La nonviolenza e' in cammino. 464



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it

Numero 464 del 2 gennaio 2003

Sommario di questo numero:
1. Benito D'Ippolito, una sera di Chico Mendes
2. Maryam Namazie: il relativismo culturale, fascismo odierno
3. Madame de Vandeul, il primo passo
4. Abraham Joshua Heschel, il grigio, lo splendido, la fame
5. bell hooks: lo sguardo, il nome
6. Enrico Peyretti, la "Pacem in terris" e i segni dei tempi
7. Rosa Luxemburg: la guerra, i dividendi, i proletari
8. Le ragioni della nonviolenza in alcuni scritti di Giuliano Pontara,
9. Riletture: Laura Balbo, Luigi Manconi, I razzismi reali
10. Riletture: Laura Balbo, Luigi Manconi, Razzismi. Un vocabolario
11. Riletture: Duccio Demetrio, Graziella Favaro, Immigrazione e pedagogia
interculturale
12. Riletture: Gisele Halimi, La causa delle donne
13. La "Carta" del Movimento Nonviolento
14. Per saperne di piu'

1. MEMORIA. BENITO D'IPPOLITO: UNA SERA DI CHICO MENDES
[Era intendimento del Centro di ricerca per la pace di Viterbo realizzare il
22 dicembre una iniziativa di commemorazione di Chico Mendes (sindacalista,
ecologista, amico della nonviolenza, martire, 1944-1988) ricorrendo
l'anniversario della sua uccisione. Ma una impreveduta vicenda occorsa a uno
dei nostri amici e compagni di lotta piu' cari il giorno innanzi in questa
anaforica antica citta' di Viterbo fece si' che di altro, di necessario e
urgente, ci si dovette anche quella domenica occupare: altro, ma coerente
con la lotta per la dignita' umana che fu anche di Chico Mendes. E lo
ricordammo quindi non piu' esteriormente, incontrandoci in suo nome, bensi'
interiormente, intimamente, impegnandoci quel giorno e nei giorni appresso e
ancora in una necessaria e urgente azione di solidarieta' concreta, che e'
il modo di ricordarlo che Chico Mendes avrebbe preferito. Ma il nostro buon
Benito D'Ippolito (hidalgo de los de lanza en astillero eccetera) ha voluto
comunque consentirci di rendere umile un pubblico omaggio al generoso,
tenero e intrepido seringueiro, scrivendo le righe che di seguito si
pubblicano]

"Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho serbato la
fede"
(2 Tm 4, 7)

La selva e nella selva l'altra selva
quella nei laghi neri del cuore
quella ove incontri lupe, leoni, lonze
e i killer prezzolati dai padroni.

La selva e nella selva vivi gli alberi
e sotto la corteccia il sangue loro
ed e' mestieri di cavarne stille,
fratelli alberi, abbiamo fame anche noi.

La selva e nella selva gli abitanti
della selva. Ed ecco stabiliamo
un patto nuovo tra noi della foresta,
fratelli umani che dopo noi vivrete.

La selva e noi, le donne antiche e gli uomini
antichi e gli uomini e le donne che eccoci.
Stringiamo un patto, sorelle piante, ci diciamo
parole di rispetto e di dolore, fratelli alberi
abbiamo fame anche noi, hanno fame anche altri, tutti
vogliamo vivere.

La selva e nella selva io Chico Mendes
e tre proiettili che passo dopo passo
di ramo in ramo di talento in talento
dal portafogli e dalla scrivania
fino alla tasca e alla cintura e alla fondina
e' tanto che mi cercano, e cercano me
Chico Mendes, il sindacalista
l'amico della foresta, l'amico della nonviolenza.

Ed e' gia' questo ventidue dicembre
del mille novecento ottantotto
questa e' la porta di casa mia, sono
le cinque e tre quarti. E mi sotterreranno
nel giorno di Natale antica festa.
Piangono nella selva lente lacrime
di caucciu' le piante, piange l'indio
piange Ilzamar, Sandino ed Elenira
piangono e piangono i compagni tutti,
il sindacato piange e piange il cielo
in questa sera senza luce e senza scampo.

Menre mi accascio guardo ancora il mondo
che possa vivere
ho fatto la mia parte.

2. RIFLESSIONE. MARYAM NAMAZIE: IL RELATIVISMO CULTURALE, FASCISMO ODIERNO
[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: dirienzo@tvol.it) per averci
messo a disposizione nella sua traduzione questo intervento
dell'intellettuale democratica iraniana Maryam Namazie]
Nell'agosto 1997, in Germania, una giovane donna di 18 anni fu arsa viva dal
padre perche' aveva rifiutato di sposare l'uomo che il padre aveva scelto
per lei. Il tribunale tedesco riconobbe al padre delle attenuanti poiche',
disse, "egli stava praticando la propria cultura e la propria religione".
In Iran, le donne e le fanciulle sono forzate a portare il velo sotto la
minaccia della prigione e della frusta, e i relativisti culturali dicono che
questa "e' la loro religione, e va rispettata". Il Ministro degli Esteri
olandese ha affermato che le prigioni iraniane sono "soddisfacenti, per gli
standard del terzo mondo", ed ha forzato il ritorno in patria di coloro che
cercavano asilo.
Il relativismo culturale serve a questi crimini. Legittima e mantiene
situazioni incivili. Esso dice che i diritti umani di qualcuno nato in Iran,
Iraq o Afghanistan sono differenti da quelli di chi e' nato negli Usa, in
Canada o in Svezia.
I relativisti culturali dicono che la societa' iraniana e' musulmana,
implicando che le persone hanno scelto di vivere nel modo in cui sono
costrette.
E' come se non ci fossero differenze nelle fedi in Iran, nessuna lotta,
nessun comunista, nessun socialista, e nessuno che ami la liberta'. E se e'
cosi', perche' 150.000 persone sono state mandate a morte per essersi
opposte alla Repubblica Islamica dell'Iran? Se essa esprime totalmente la
cultura e la religione di una societa', perche' il regime islamico ha
necessita' di usare mezzi cosi' estesi di repressione? Se questo e' cio' in
cui la gente crede, perche' il regime controlla le loro vite private, dalle
loro attivita' sessuali a cio' che vedono in televisione, e persino la
musica che ascoltano?
Se l'intera societa' e' musulmana, perche' Zoleykhah Kadkhoda ha intrapreso
volontariamente una relazione sessuale per la quale e' stata conficcata in
una buca e destinata a morire lapidata? Se questa e' la cultura del popolo,
perche' i residenti del Bukan si sono ribellati alla lapidazione ed hanno
salvato la vita di questa donna? Perche' ci sono migliaia di donne picchiate
per strada a causa del loro abbigliamento "improprio", se queste sono la
loro cultura e la loro religione? E come succede, dopo due decadi di terrore
e brutalita', che le Universita' non siano ancora islamiche (come ammettono
i resoconti di regime)?
Sebbene sia falso che ogni persona in Iran abbia credo reazionari, anche se
fosse vero cio' non renderebbe le violazioni accettabili. Se tutti credono
che la propria razza sia superiore, questo convincimento diventa "giusto"?
I relativisti culturali dicono che dobbiamo rispettare le culture e le
religioni, non importa quanto esse siano deprecabili. Questo e' assurdo, e'
chiedere il rispetto della crudelta'. Ogni essere umano e' degno di
rispetto, ma non tutti i convincimenti devono essere rispettati. Se una
cultura permette che una donna sia mutilata e uccisa per salvare l'"onore"
della famiglia, questo non ha scusanti.
Nella Repubblica Islamica dell'Iran le regole religiose sono diventate
strumenti per omicidi di massa. Se la religione dice che le donne
disobbedienti devono essere battute, che frustarle e' accettabile e che in
genere le donne sono deficienti, questo va condannato, e a questo ci si deve
opporre.
La lotta contro governi misogini e reazionari e' inseparabile dalla lotta
contro i credo reazionari e misogini. Naturalmente ciascun individuo ha il
diritto di credere cio' che vuole, per quanto offensivo sia, ma chi ama la
liberta' ha il dovere di testimoniare e condannare i credo reazionari, sino
a che essi spariranno dalla storia.
I relativisti culturali si spingono sino a dire che i diritti umani
universali sono un concetto occidentale. Ma come mai quando usa un telefono
o un'automobile il mullah non dice che si tratta di roba occidentale
incompatibile con la societa' islamica? Come mai quando si tratta di
sfruttare i lavoratori le innovazioni tecnologiche diventano universali?
Pero', se parliamo dell'universalita' dei diritti umani, ecco che diventano
occidentali. Ebbene, persino se lo fossero, e' del tutto assurdo dire che
"gli altri" non ne sono degni.
Persino a sinistra c'e' qualcuno che dice che condannare le fedi reazionarie
alimenta il razzismo. Opporsi allo stupro di una bambina di 9 anni costretta
a sposarsi non serve il razzismo. Opporsi all'abuso sessuale di una bambina,
sebbene il Tribunale della Repubblica Islamica dell'Iran abbia sentenziato
che il padre fu costretto ad abusare di lei, perche' la moglie non lo
soddisfaceva adeguatamente, non e' servire il razzismo. Le culture non sono
sacre.
Il razzismo ed il fascismo hanno le loro proprie culture. Lottare per i
diritti umani significa condannare i credo reazionari, non osservarli. La
sconfitta del nazismo e delle sue teorie biologiche ha contribuito al
discredito del concetto di "superiorita' razziale", tuttavia, il pregiudizio
che ci stava dietro ha trovato forme di espressione piu' "accettabili" per
il nostro periodo storico. I relativisti culturali difendono gli olocausti
dei nostri giorni.
Chiunque rispetti l'umanita' deve impegnarsi per l'abolizione di cio' che e'
incompatibile con la liberta' umana.

3. RIFLESSIONE. MADAME DE VANDEUL: IL PRIMO PASSO
[Da Madame de Vandeul, Diderot, mio padre, Sellerio, Palermo 1987, p. 54. Ma
tutto questo tenerissimo e brioso libriccino di Angelique Diderot andrebbe
letto]
"Il primo passo verso la filosofia", disse, "e' l'incredulita'".
Queste parole sono le ultime che abbia pronunciato in mia presenza.

4. RIFLESSIONE. ABRAHAM JOSHUA HESCHEL: IL GRIGIO, LO SPLENDIDO, LA FAME
[Da Abraham Joshua Heschel, Passione di verita', Rusconi, Milano 1977, p.
156. Ma anche in questo caso vorremmo consigliare ai nostri amici di
leggerlo tutto questo bel libro di Heschel dedicato al Baal Shem Tov e al
Kotzker. Abraham Joshua Heschel e' nato a Varsavia nel 1907 ed e' scomparso
a New York nel 1972, teologo illustre, successore di Buber alla cattedra di
Francoforte, deportato dai nazisti a Varsavia, riusci' a mettersi in salvo
emigrando dapprima a Londra e poi in America dove fu per molti anni docente
di etica e misticismo ebraico. Opere di Abraham Joshua Heschel:in traduzione
italiana si vedano almeno Chi e' l'uomo, Rusconi, Milano 1971; L'uomo alla
ricerca di Dio, Qiqajon, Comunita' di Bose 1995; L'uomo non e' solo,
Rusconi, Milano 1970; Il Sabato, Rusconi, Milano 1972; I profeti, Borla,
Roma 1972; Passione di verita', Rusconi, Milano 1977. Opere su Abraham
Joshua Heschel: F. A. Rothschild (a cura di), Between God and Man: an
interpretation of judaism from the writings of Abraham J. Heschel, 1965]
La verita' e' spesso grigia, e l'inganno pieno di splendore. Si deve
soffrire la fame di verita' per essere capaci di rallegrarsi di possederla.

5. MAESTRE.BELL HOOKS: LO SGUARDO, IL NOME
[Da bell hooks, Elogio del margine, Feltrinelli, Milano 1998, p. 131. bell
hooks, all'anagrafe Gloria Jean Watkins (bell hooks - con le iniziali
minuscole - e' lo pseudonimo scelto per precise motivazioni di militante
femminista e antirazzista), e' una delle piu' importanti pensatrici
africane-americane contemporanee; nata nel Kentucky il 25 settembre 1925 e
cresciuta in una comunita' nera povera e segregata del profondo sud rurale,
docente universitaria, scrittrice, prestigiosa militante. Opere di bell
hooks: in italiano cfr. Elogio del margine, Feltrinelli, Milano 1998 (una
raccolta di suoi saggi); e la conversazione-intervista a cura di Maria
Nadotti, Scrivere al buio, La Tartaruga, Milano 1998]
Poiche' il contesto in cui ci muoviamo e' segnato dallo sfruttamento di
classe e dal dominio razzista e sessista, e' stato soltanto attraverso la
resistenza, la lotta, le letture e un'osservazione controcorrente che noi
nere siamo riuscite ad apprezzare il nostro modo di guardare, tanto da
dargli pubblicamente nome.

6. RIFLESSIONE. ENRICO PEYRETTI: LA "PACEM IN TERRIS" E I SEGNI DEI TEMPI
[Ringraziamo Enrico Peyretti (per contatti: peyretti@tiscalinet.it) per
averci inviato, con una premessa odierna, il testo della conversazione da
lui tenuta nel Duomo di Torino il 5 novembre 1993 come "Preghiera dei
giovani di Taize'". Enrico Peyretti e' uno dei principali collaboratori di
questo foglio, ed uno dei maestri piu' nitidi della cultura e dell'impegno
di pace e di nonviolenza. Tra le sue opere: (a cura di), Al di la' del "non
uccidere", Cens, Liscate 1989; Dall'albero dei giorni, Servitium, Sotto il
Monte 1998; La politica e' pace, Cittadella, Assisi 1998; Per perdere la
guerra, Beppe Grande, Torino 1999. E' diffusa attraverso la rete telematica
(ed abbiamo recentemente ripresentato in questo notiziario) la sua
fondamentale ricerca bibliografica Difesa senza guerra. Bibliografia storica
delle lotte nonarmate  e nonviolente]
Bisogna precisare, ora che entriamo nel 2003, che questa conversazione,
proposta ai giovani in una riunione di preghiera, e' del 1993. Oggi la Pacem
in terris ritorna all'attenzione, per il prossimo quarantesimo anniversario,
in aprile. Il messaggio del papa per la giornata della pace del primo
gennaio la ripercorre tutta. Oggi le preoccupazioni e minacce sono anche
maggiori e piu' spaventose di dieci anni fa. Ma quel che cercavo di dire
allora (in questo testo che ripropongo con leggerissime modifiche) voglio
ripeterlo oggi: la fede di papa Giovanni aiutava lui ed esortava noi a
vedere la luce della pace attraverso le tenebre, e a camminare verso di
essa.
*
La preghiera di stasera e' in ascolto e risposta al Vangelo della pace.
Ascolteremo due brani staccati, entrambi dal Vangelo di Giovanni, uno prima
che Gesu' vada a patire e a morire, e l'altro dopo la sua resurrezione.
Culminano, mi sembra, il primo in quelle parole: "Vi lascio la mia pace" (Gv
14, 27),  e l'altro nel saluto pasquale: "Pace a voi" (Gv 20, 19).
La preghiera di stasera prende anche spunto dalla ricorrenza dei trent'anni
dell'enciclica Pacem in terris di Giovanni XXIII, che propone nella sua
conclusione proprio queste parole evangeliche che sono state scelte come
lettura di stasera.
In questi anni e decenni l'impegno dei cristiani e le parole del Concilio e
dei vescovi sulla pace e per la pace sono stati considerevoli. Tra di essi
quell'enciclica di papa Giovanni rimane un punto alto, forse il piu' alto.
Non e' questo il momento per una presentazione analitica di tutti i temi
della Pacem in terris, ma qualcosa va detto per riceverne e accoglierne
l'ispirazione.
Essa usci il giovedi' santo del 1963 e fu un vero annuncio pasquale per il
nostro tempo: "Pace a voi". Papa Giovanni si rivolgeva non soltanto ai
vescovi e ai credenti cattolici, come di solito le encicliche dei papi, ma
"a tutti gli uomini di buona volonta'": questa era una grande novita'. Era
la voce del papa che, a nome della Chiesa, parlava fiduciosamente al mondo
umano, alle coscienze personali responsabili in prima persona della
costruzione della pace. Non parlava soltanto a istituzioni e governi, anche
se indicava il loro compito, ma parlava direttamente alle "buone volonta'"
di tutte le persone.
In questo rivolgersi a tutti, la Chiesa non si poneva piu' in
contrapposizione al mondo: c'erano stati momenti, quasi esattamente cento
anni prima, con il Sillabo di Pio IX, in cui pareva che la Chiesa
maledicesse la storia moderna. La storia appariva invece con la Pacem in
terris e col Concilio proprio come dicono i teologi un "luogo teologico": in
essa cioe' papa Giovanni scorgeva "segni dei tempi", segni dell'azione di
Dio, e non soltanto del male.
Un'altra grande novita' era detta nello stesso titolo dell'enciclica, che
come al solito e' dato dalle prime parole: "Pace in terra". Allora possiamo
individuare alcuni, pochi, elementi portanti di quell'insegnamento sulla
pace, di quell'incoraggiamento alla pace che fu la Pacem in terris. Giovanni
XXIII la scrisse in seguito alla crisi di Cuba del settembre 1962, che fu
probabilmente il massimo rischio atomico corso dal mondo durante la guerra
fredda.
*
Gli elementi portanti della Pacem in terris mi sembra possano essere
indicati in tre: la pace sulla terra e' possibile; la pace e' nelle
possibilita' umane; la guerra e' fuori dalla razionalita' umana.
La pace sulla terra e' possibile: questa affermazione, che stava gia'
appunto nelle prime tre parole, si poneva contro il pessimismo laico ed
anche contro il pessimismo religioso. Il pessimismo laico che impregna gran
parte del pensiero politico e quindi anche delle realizzazioni politiche
dell'eta' moderna e contemporanea, implica che l'uomo sia sostanzialmente
nemico o almeno rivale dell'altro uomo, e che la pace sia possibile soltanto
se imposta da un terzo piu' forte. L'enciclica si poneva anche contro un
certo pessimismo religioso che intende il peccato originale in modo tale che
in terra bisogna rassegnarsi alla guerra e la pace bisogna aspettarla solo
per il cielo, oppure viverla soltanto nella vita interiore, nei rapporti
privati. Da questo derivano due tipi di morale, una morale per i rapporti
interpersonali, non violenta, e una morale politica, dei grandi gruppi
umani, rassegnata alla violenza.
Un secondo elemento portante e' che la pace e' nelle possibilita' della
natura razionale umana. Chi ha la speranza della fede ha un sostegno e una
sollecitazione particolare, ma ogni uomo di buona volonta' puo' essere un
costruttore di pace. Vediamo con gioia che, pur tra fatiche e difficolta'
che sono di tutti, per la pace si collabora non soltanto fra credenti di
varie confessioni e religioni diverse ma anche tra non credenti e credenti.
Se come cristiani sentiamo una speciale responsabilita', sappiamo pure che
non abbiamo noi l'esclusiva dell'azione di pace, ed anzi abbiamo anche colpe
storiche di cui fare penitenza, colpe di guerre combattute o accettate e
benedette in nome di Cristo che cosi veniva bestemmiato.
Il terzo elemento e' l'affermazione, che mi sembra centrale, alla fine della
parte III dell'enciclica, che la guerra ormai, nell'era atomica, e' fuori
dalla ragione: piu' precisamente, papa Giovanni diceva: "alienum a ratione",
e' estraneo alla ragione pensare che la guerra possa servire per risolvere
con giustizia delle controversie: e' irrazionale e folle, e' fuori
dall'umanita', da ogni criterio umano della politica, della convivenza, del
modo umano di affrontare i problemi anche gravi.
Questa grande dichiarazione, in un documento cristiano e umano come la Pacem
in terris, si affiancava e si aggiungeva con grande autorita' spirituale al
principio del ripudio della guerra, contenuto nella Costituzione italiana e
nello Statuto delle Nazioni Unite.
*
Se questi sono i punti forti di quell'enciclica di pace, ci si chiede se,
specialmente rileggendola oggi, in situazioni storiche mutate, essa non
sembri peccare di troppo ottimismo.
Dipendeva forse dal momento storico che, pur nella guerra fredda, faceva
intravedere una distensione e vedeva le due superpotenze guidate da uomini
piu' saggi e piu' moderati del solito, quali furono Kennedy e Kruscev? No,
non dipendeva da questo. Non si trattava in papa Giovanni di fragile
ottimismo legato a circostanze passeggere. Si trattava invece di fede nello
Spirito di Dio che agisce in ogni cuore umano come in tutto il corso della
storia.
Credo che anche noi ora, in un momento di preghiera immersa nella vita del
nostro tempo, dobbiamo guardare al nostro momento storico con quella stessa
fede: ne' ottimismi ne' pessimismi, ne' illusioni ne' scoraggiamenti, ma uno
sguardo attento alla realta' umana di cui siamo parte con amore e
partecipazione. Con speranza e con impegno, con una fede che guarda oltre
l'immediato, oltre la superficie e il rumore delle cose e sa e confida che
Dio cammina con l'uomo per salvarne e liberarne la vita in pienezza. Nella
preghiera noi non chiediamo altro che lo Spirito stesso di Dio promesso da
Gesu' per guardare al mondo e impegnarci con amore nella storia.
Dalla Pacem in terris possiamo ancora imparare a leggere i segni dei tempi,
che sono ben altro che qualche opportunita' del momento. Sono tracce,
riconosciute con la fede, in mezzo alla storia del mondo, tracce dell'opera
di Dio a fianco degli uomini e delle donne di buona volonta'.
*
Papa Giovanni vedeva allora tre grandi segni dei tempi, riguardanti i
lavoratori, le donne, i popoli.
I lavoratori che, attraverso il movimento operaio, le sue lotte, la sua
coscienza, la sua cultura, si affermavano come soggetti, come persone in
tutta la vita sociale e non restavano soltanto oggetto dell'economia, puro
strumento di produzione, di profitto, in balia dei piu' forti del mercato.
Secondo grande segno dei tempi che papa Giovanni indicava erano le donne,
che, cresciute nella coscienza della loro dignita', entrano nella vita
pubblica, implicitamente, e' ovvio, anche in quella ecclesiale - dove non
sono ancora davvero pari agli uomini (questo inciso lo aggiungo io) - ed
esigono diritti e doveri di persone, non solo di destinatarie o strumenti.
Papa Giovanni interpretava cosi' con anticipo su molti il significato
positivo del movimento femminista.
Il terzo segno erano i popoli: gia' soggetti al colonialismo e alla
discriminazione razziale ed economica, essi prendono coscienza della loro
uguaglianza per dignita' naturale, e aspirano a indipendenza e giustizia.
Era il tempo, in quegli anni, della decolonizzazione.
In questi tre maggiori fenomeni e movimenti storici papa Giovanni leggeva un
fermento evangelico dentro la storia: ossia la coscienza dei diritti e dei
doveri, il dovere di far valere i diritti della dignita' propria e altrui.
*
Ecco: la parola "dignita'" e' stata giustamente indicata nel testo di questa
enciclica come l'opposto del "dominio".
La guerra e' soltanto la punta dell'iceberg della cultura del dominio, che
produce una violenta economia del profitto a danno dell'uomo e dei popoli,
dei loro diritti elementari e della crescita in tutti dei doni del Creatore;
una cultura del dominio che produce la disuguaglianza e il dominio dell'uomo
sulla donna, e anche del prete sui fedeli, del professore sugli alunni,
degli adulti sui giovani, dei politici sui cittadini, dei sani e dei medici
sui malati, del Nord sul Sud, dei forti sui deboli in tante maniere e
occasioni.
La dignita' della persona umana in tutti, che la fede aiuta a riconoscere,
e' l'opposto della cultura del dominio. La cultura della dignita', della
liberazione della dignita' in tutti, specialmente nei piu' offesi e piu'
impediti a viverla: questa e' cultura di pace, che taglia le radici della
guerra.
Non a caso la Pacem in terris e' stata chiamata giustamente da Raniero La
Valle "enciclica della liberazione" con evidente allusione alla teologia
della liberazione.
*
Oggi noi riusciamo a scorgere analoghi segni dei tempi, segni di speranza,
segni dell'opera di liberazione che Dio compie con noi e tra noi?
A volte temiamo di no. Chiediamo dunque nella preghiera quel "terzo occhio",
quel "vedere di piu'" che puo' leggere la storia quotidiana nella
prospettiva grande della salvezza creduta e sperata.
La pace come pienezza di vita, shalom, e' questa speranza attiva e
impegnata. Per questo la nostra preghiera e' attesa fiduciosa e nello stesso
tempo impegno ad aiutarci reciprocamente nel costruire la pace, dalla pace
interiore alla pace mondiale.
Preghiamo dunque per affrontare gli ostacoli di oggi, che mi sembra siano il
ritorno della guerra; l'economia violenta; le offese alle persone.
Oggi purtroppo sembra che la guerra sia tornata a essere il criterio
decisivo nelle controversie vecchie e nuove tra i popoli, tra mondo ricco e
mondo povero. I paesi ricchi dichiarano essi stessi di voler difendere con
gli eserciti il loro privilegio contro i popoli poveri, come dicono
sfrontatamente, in documenti scritti, nei loro "nuovi modelli di difesa".
Questo accade. Eppure, insieme a cio', cresce la coscienza di pace, che non
si rassegna alla logica di guerra, che pone presenze profetiche di pace fin
dentro la guerra, come e' stato a Sarajevo (marcia di pacifisti, soprattutto
italiani, dentro Sarajevo assediata, nel dicembre 1992) e altrove, che
cerca, che costruisce una spiritualita', un'educazione, una cultura, una
politica di pace. Le Chiese cristiane e le religioni, accantonate le
divisioni, si impegnano sempre piu' spesso insieme per la pace, la
giustizia, la salvaguardia del creato. Questi sono dei segni.
Oggi trionfa un'economia violenta che fa spazio solo alle pretese dei piu'
forti, che ha diviso il mondo fra creditori e debitori, che accresce il
divario fra ricchi e poveri, tra consumi che saccheggiano la natura e
riducono l'umanita' stessa dei ricchi alla misera dimensione dell'avere e
del competere per avere, e all'altro estremo fame di massa, neocolonialismo,
disprezzo e distruzione di culture, di tradizioni umane, di dignita' di
popoli e persone. Questo accade. Eppure, dentro e contro questo quadro,
cresce la coscienza ecologica, la ricerca personale e familiare di stili di
vita semplici, di consumi non distruttivi, di solidarieta' umana locale e
planetaria, di lotta nonviolenta per la giustizia. Questi sono dei segni.
Oggi continuamente ci raggiungono notizie di offese gravi, sistematiche,
organizzate, contro donne, bambini, popolazioni intere, in zone di guerra.
Ma anche dove un tranquillo benessere avrebbe dovuto realizzare tutte le
aspirazioni, si vede invece crescere la violenza quotidiana, la brutalita'
dei rapporti sociali e interpersonali. Questo accade. Eppure, tante
coscienze, le nostre coscienze, non si rassegnano all'imbarbarimento dei
rapporti umani, e resistono, e reagiscono con una maggiore consapevolezza
della uguale dignita' di tutti, col superare pregiudizi e discriminazioni.
Questi sono dei segni.
Insomma, ci sono vaste aree di violenze, di guerra, ma ci sono pure segni e
semi di pace. Non serve misurare, voler fare bilanci in attivo, in passivo,
ottimistici o pessimistici: serve non lasciarci oscurare la vista dagli
aspetti negativi e aver fede nel bene che sorregge anche il mondo ingiusto.
Allora, in questo momento di preghiera, chiediamo luce e forza, pace
interiore e gioia, per resistere allo spirito violento di dominio, per
costruire coraggiosamente, pazientemente, tenacemente, alternative di
rispetto, di dignita', di liberta', di riconciliazione, di giustizia.
La pace e' un dono che chiediamo a Dio, ma proprio per questo e'
immediatamente un impegno a farla crescere donandocela reciprocamente,
offrendola largamente e sinceramente a chi ha qualche ragione di inimicizia
verso di noi. L'annuncio e dono di Gesu' risorto: "Pace a voi" diventi il
saluto corrente tra noi, verso tutti, come e' saluto abituale nelle lingue
ebraiche e araba, "Shalom alechem" in ebraico, "assalam alaycum" in arabo
(mi si perdoni se la grafia non fosse corretta). Il Dio della vita lo dice a
noi perche' noi ce lo diciamo reciprocamente in verita', nei fatti, e lo
facciamo a tutto il mondo.
*
Letture biblica: Gv 14, 25-27
Queste cose vi ho detto quando ero ancora tra voi. Ma il Consolatore, lo
Spirito Santo che il Padre mandera' nel mio nome, egli v'insegnera' ogni
cosa e vi ricordera' tutto cio' che io vi ho detto. Vi lascio la pace, vi do
la mia pace. Non come la da' il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il
vostro cuore e non abbia timore.
*
Letture biblica: Gv 20, 19-29
La sera di quello stesso giorno, il primo dopo il sabato, mentre erano
chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei capi
ebrei, venne Gesu', si fermo' in mezzo a loro e disse: "Pace a voi". Detto
questo, mostro' loro le mani e il costato. E i discepoli gioirono al vedere
il Signore. Gesu' disse loro di nuovo: "Pace a voi. Come il Padre ha mandato
me, anch'io mando voi". Dopo aver detto questo, alito' su di loro e disse:
"Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a
chi non li rimetterete, resteranno non rimessi". Tommaso, uno dei Dodici,
chiamato Didimo, non era con loro quando venne Gesu'. Gli dissero allora gli
altri discepoli: "Abbiamo visto il Signore". Ma egli disse loro: "Se non
vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei
chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non credero'". Otto giorni
dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c'era con loro anche Tommaso.
Venne Gesu', a porte chiuse, si fermo' in mezzo a loro e disse: "Pace a
voi". Poi disse a Tommaso: "Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani;
stendi la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere piu' incredulo
ma credente". Rispose Tommaso: "Mio Signore e mio Dio". Gesu' gli disse:
"Perche' mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto
crederanno".

7. MAESTRE. ROSA LUXEMBURG: LA GUERRA, I DIVIDENDI, I PROLETARI
[Da Rosa Luxemburg, Scritti scelti, Einaudi, Torino 1976, p. 514, riportiamo
un minimo frammento della giustamente celebre "Juniusbrochuere" contro la
guerra (e il cedimento della socialdemocrazia alla guerra) scritta da Rosa
nell'aprile del 1915 mentre era detenuta nel carcere femminile berlinese
della Barnimstrasse in quanto pacifista e antimilitarista. Rosa Luxemburg,
1871-1919, e' una delle piu' limpide figure del movimento dei lavoratori e
dell'impegno contro la guerra e contro l'autoritarismo. Assassinata, il suo
cadavere fu gettato in un canale e ripescato solo mesi dopo; ci sono due
epitaffi per lei scritti da Bertolt Brecht, che suonano cosi': Epitaffio
(1919): "Ora e' sparita anche la Rosa rossa, / non si sa dov'e' sepolta. /
Siccome ai poveri ha detto la verita' / i ricchi l'hanno spedita
nell'aldila'."; Epitaffio per Rosa Luxemburg (1948): "Qui giace sepolta /
Rosa Luxemburg / Un'ebrea polacca / Che combatte' in difesa dei lavoratori
tedeschi, / Uccisa / Dagli oppressori tedeschi. Oppressi, / Seppellite la
vostra discordia". Opere di Rosa Luxemburg: segnaliamo almeno due
fondamentali raccolte di scritti in italiano: Scritti scelti, Einaudi;
Scritti politici, Editori Riuniti (con una ampia, fondamentale introduzione
di Lelio Basso). Opere su Rosa Luxemburg: Lelio Basso (a cura di), Per
conoscere Rosa Luxemburg, Mondadori; Paul Froelich, Rosa Luxemburg, Rizzoli;
P. J. Nettl, Rosa Luxemburg, Il Saggiatore; Daniel Guerin, Rosa Luxemburg e
la spontaneita' rivoluzionaria, Mursia; AA. VV., Rosa Luxemburg e lo
sviluppo del pensiero marxista, Mazzotta]
I dividendi salgono, e i proletari cadono.

8. MATERIALI. LE RAGIONI DELLA NONVIOLENZA IN ALCUNI SCRITTI DI GIULIANO
PONTARA
[Riproponiamo ancora una volta questa scheda recante riassunti ed estratti
da alcuni scritti di Giuliano Pontara, uno dei piu' autorevoli studiosi
della nonviolenza viventi. Giuliano Pontara e' nato a Cles (Trento) nel
1932, antimilitarista, rifiuto' il servizio militare e preferi' emigrare,
vivendo e lavorando in Svezia dal 1953; docente di filosofia all'Universita'
di Stoccolma ed in altre istituzioni culturali, impegnato nella peace
research e nei movimenti nonviolenti, tra i massimi studiosi di etica, da
anni anima l'esperienza dell'Universita' per la pace a Rovereto. Tra le
opere di Giuliano Pontara: Se il fine giustifichi i mezzi, Il Mulino,
Bologna 1974; Il satyagraha, Movimento Nonviolento, Perugia 1983; Filosofia
pratica, Il Saggiatore, Milano 1988; Antigone o Creonte. Etica e politica
nell'era atomica, Editori Riuniti, Roma 1990; Etica e generazioni future,
Laterza, Roma-Bari 1995; La personalita' nonviolenta, Edizioni Gruppo Abele,
Torino 1996; Guerre, disobbedienza civile, nonviolenza, Edizioni Gruppo
Abele, Torino 1996; Breviario per un'etica quotidiana, Pratiche, Milano
1998. Ha curato (premettendovi un fondamentale saggio introduttivo)
l'antologia di scritti di Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza,
Einaudi, Torino (nel 1996 ne e' apparsa una nuova edizione in una collana
economica)]
I. Da Giuliano Pontara, Nonviolenza (per la critica radicale della violenza)
Elenchiamo alcune ragioni essenziali per cui occorre essere rigidamente
contro la violenza. Citiamo da Giuliano Pontara, voce Nonviolenza, in AA.VV.
(a cura di Bobbio, Matteucci, Pasquino), Dizionario di politica, Tea, Milano
1992:
1. il primo argomento "mette in risalto il processo di escalation storica
della violenza. Secondo questo argomento, l'uso della violenza (...) ha
sempre portato a nuove e piu' vaste forme di violenza in una spirale che ha
condotto alle due ultime guerre mondiali e che rischia oggi di finire nella
distruzione dell'intero genere umano";
2. il secondo argomento "mette in risalto le tendenze disumanizzanti e
brutalizzanti connesse con la violenza" per cui chi ne fa uso diventa
progressivamente sempre piu' insensibile alle sofferenze ed al sacrificio di
vite che provoca;
3. il terzo argomento "concerne il depauperamento del fine cui l'impiego di
essa puo' condurre (...). I mezzi violenti corrompono il fine, anche quello
piu' buono";
4. il quarto argomento "sottolinea come la violenza organizzata favorisca
l'emergere e l'insediamento in posti sempre piu' importanti della societa',
di individui e gruppi autoritari (...). L'impiego della violenza organizzata
conduce prima o poi sempre al militarismo";
5. il quinto argomento "mette in evidenza il processo per cui le istituzioni
necessariamente chiuse, gerarchiche, autoritarie, connesse con l'uso
organizzato della violenza, tendono a diventare componenti stabili e
integrali del movimento o della societa' che ricorre ad essa (...). 'La
scienza della guerra porta alla dittatura' (Gandhi)".
A questi argomenti ne vorremmo aggiungere altri due:
6. un argomento, per cosi' dire, di tipo epistemologico: siamo contro la
violenza perche' siamo fallibili, possiamo sbagliarci nei nostri giudizi e
nelle nostre decisioni, e quindi e' preferibile non esercitare violenza per
imporre fini che potremmo successivamente scoprire essere sbagliati;
7. soprattutto siamo contro la violenza perche' il male fatto e'
irreversibile (al riguardo Primo Levi ha scritto pagine indimenticabili
soprattutto nel suo ultimo libro I sommersi e i salvati).
Agli argomenti contro la violenza Pontara aggiunge opportunamente un ultimo
decisivo ragionamento: "I fautori della dottrina nonviolenta sono coscienti
che ogni condanna della violenza come strumento di lotta politica rischia di
diventare un esercizio di sterile moralismo se non e' accompagnata da una
seria proposta di istituzioni e mezzi di lotta alternativi. Di qui la loro
proposta dell'alternativa satyagraha o della lotta nonviolenta positiva, in
base alla duplice tesi a) della sua praticabilita' anche a livello di massa
e in situazioni conflittuali acute, e b) della sua efficacia come strumento
di lotta" per la realizzazione di una societa' fondata sulla dignita' della
persona, il benessere di tutti, la salvaguardia dell'ambiente.
*
II. Da Giuliano Pontara, Gandhismo (definizione del satyagraha)
Sunteggiamo qui alcuni passaggi essenziali della voce Gandhismo scritta da
Pontara per il gia' citato Dizionario di politica curato da Bobbio,
Matteucci e Pasquino, Utet, Torino, poi Tea, Milano. Nello stesso volume
Pontara ha steso altresi' le voci Nonviolenza, Ricerca scientifica sulla
pace, Utilitarismo.
La voce di dizionario di cui qui citeremo e riassumeremo alcuni punti
essenziali esordisce ricordando che Gandhi insistette sempre nell'affermare
che "non esiste qualcosa come il gandhismo", cosi' rimarcando il carattere
aperto e sperimentale delle sue concezioni etiche, sociali e politiche, ed
il suo rifiuto di ogni forma di settarismo che si richiamasse al suo nome
(come e' noto, non altrimenti Marx affermava di non essere marxista). Gandhi
non scrisse alcun trattato sistematico sulla sua concezione della
nonviolenza, la sua opera letteraria e' fondamentalmente costituita di
migliaia di articoli giornalistici, lettere, appelli, sempre stesi con un
fine immediato ed interlocutori specifici; del resto la sua autobiografia
conferma questo carattere sperimentale della sua riflessione ed azione,
recando fin nel titolo esplicitamente l'espressione esplicativa di Storia
dei miei esperimenti con la verita'.
Ovviamente dal complesso dell'opera gandhiana, palesemente asistematica (e
Pontara sottolinea una somiglianza in questo con l'opera gramsciana), e'
possibile ricavare  alcuni elementi teorici originali, persistenti e
coerenti che grosso modo possiamo considerare particolarmente caratteristici
dell'elaborazione teorica e della proposta pratica gandhiana. Pontara
sottolinea particolarmente:
"a) la critica all'industrialismo in quanto tale, e non soltanto alla
variante capitalistica di esso;
b) la concezione di uno 'stato nonviolento';
c) le idee sull'educazione fondata sulla partecipazione al lavoro
produttivo, soprattutto a quello manuale;
d) la sua filosofia dei conflitti di gruppo;
e) la sua concezione dei rapporti tra etica e politica;
f) la sua dottrina del satyagraha come modalita' del tutto particolare della
lotta politica".
La parte piu' perspicua del testo e' ovviamente la caratterizzazione della
specifica modalita' di lotta nonviolenta che Gandhi definisce satyagraha,
"termine coniato da Gandhi che significa, all'incirca, modalita' di lotta
caratterizzata dalla fermezza nella verita'. Siffatta modalita' di lotta e'
definita da sei princģpi fondamentali. In tutta brevita' essi sono i
seguenti.
1) In una situazione conflittuale non si debbono porre obiettivi
incompatibili con la concezione etica che soggiace alla dottrina
nonviolenta: 'E' impossibile praticare il satyagraha al servizio di una
causa ingiusta'.
2) In una situazione conflittuale si deve impostare sin dall'inizio la lotta
in modo tale da non minacciare l'avversario nei suoi interessi vitali (la
vita, l'integrita' fisica e psichica), scegliendo tecniche di lotta
deliberatamente volte a minimizzare le sofferenze che il conflitto puo'
comportare per la parte avversaria.
3) In una situazione conflittuale bisogna essere disposti a sobbarcarsi di
sacrifici che possono essere anche assai notevoli (...).
4) Il quarto principio del satyagraha prescrive di attenersi in ogni fase
del conflitto alla massima obiettivita' e imparzialita', di appellarsi alla
ragione cercando di comprendere i motivi e gli argomenti della parte
avversaria, di non operare nella clandestinita'.
5) Un requisito fondamentale del satyagraha e' quello di un impegno continuo
e costante in un programma costruttivo fondato in parte sulla individuazione
di fini sovraordinati, ossia tali che la loro realizzazione e'
nell'interesse delle parti in conflitto ed e' possibile soltanto merce' una
certa collaborazione tra di esse. Cio' serve a creare quel minimo di
comunicazione senza la quale una lotta di tipo satyagraha non e' possibile
(...).
6) Un ultimo principio fondamentale della lotta satyagraha e' quello che
Gandhi chiamava 'la legge di progressione dei mezzi': si puo' ricorrere a
forme piu' radicali di lotta nonviolenta soltanto dopo che quelle piu'
blande si sono mostrate chiaramente inefficaci.
Gandhi riteneva che i suoi 'esperimenti' di lotta satyagraha in Sud Africa e
in India avessero dimostrato la validita' delle tre seguenti ipotesi:
a) che con una dovuta preparazione e organizzazione e' possibile portare
delle vaste masse a praticare forme di lotta che soddisfano in misura
notevole i requisiti del satyagraha;
b) che il metodo satyagraha costituisce una concreta ed efficace alternativa
alla violenza armata nella lotta per delle cause giuste;
c) che il satyagraha tende a bloccare, in forza di fattori morali,
psicologici e politici, la reazione violenta dell'oppositore, a condurre a
soluzioni accettate e costruttive dei conflitti, e di conseguenza ad una
riduzione massima della violenza nel mondo".
*
III. Da Giuliano Pontara, La personalita' nonviolenta
Nel secondo capitolo che ha lo stesso titolo dell'intero volume: La
personalita' nonviolenta, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1996, Giuliano
Pontara evidenzia dieci qualita' di quella che definisce la "personalita'
nonviolenta" (contrapposta alla "personalita' autoritaria"), qualita' che
cosi' elenca e descrive:
1. Il ripudio della violenza (su cui svolge un'analisi molto fine ed
articolata che qui non possiamo adeguatamente riassumere ma alla quale
rinviamo anche perche' e' assai caratteristica del modo di argomentare
dell'autore);
2. La capacita' di identificare la violenza (ovvero di riconoscerla anche
laddove si presenti mascherata o cronicizzata; "la capacita' di individuare
la violenza a tutti i livelli, da quello personale a quello istituzionale,
da quello individuale a quello strutturale, da quello internazionale a
quello intergenerazionale. Altrettanto importante e' la capacita' di
individuarla in tutte le forme che essa puo' assumere, e non soltanto in
quelle piu' appariscenti della violenza armata");
3. La capacita' di empatia (ovvero di identificazione con gli altri e in
primo luogo con quelli che soffrono di piu');
4. Il rifiuto dell'autorita' ("una persona nonviolenta ritiene che la
responsabilita' per quello che fa non puo' essere addossata ad altri... fa
dunque propria la massima di don Milani: l'obbedienza, in quanto tale, non
e' una virtu'");
5. La fiducia negli altri (che si contrappone alla logica militare: "Uno dei
principi fondamentali della nonviolenza prescrive di impostare la conduzione
di un conflitto in modo tale da fare appello ai lati migliori di coloro che
ci si trova di fronte come oppositori, usando tecniche di lotta volte ad
ingenerare in un numero sempre maggiore degli individui che costituiscono il
gruppo oppositore una crescente fiducia nei confronti del gruppo
nonviolento. Si tratta di un continuo tentativo di sostituire la spirale
della sfiducia, propria della logica della violenza, con la spirale della
fiducia");
6. La capacita' di dialogare, ovvero la disposizione al dialogo (qui Pontara
svolge una efficace perorazione in favore del principio fallibilista, di cui
riportiamo ampi stralci: "Un assunto che soggiace alla disposizione al
dialogo e' l'accettazione del principio del fallibilismo. Questo principio
ci dice che siamo tutti esseri mortali con poteri di conoscenza limitati
onde nessuno puo' mai dirsi sicuro che quello che in un certo momento crede
essere vero, in effetti sia tale: puo' benissimo darsi che sia falso. Il
fallibilismo vale in primo luogo nel campo della scienza. Ma vale ugualmente
nel campo delle credenze etiche. I nostri giudizi morali possono infatti
essere distorti dai nostri piccoli interessi egoistici, o fondati su ipotesi
empiriche false o su informazioni incomplete. Possono anche essere fondati
su assunti di valore che non abbiamo visitato criticamente o tali per cui se
esaminati criticamente saremmo stati disposti ad abbandonare. (...) Il
fallibilismo in etica e' profondamente compatibile con l'avere delle
profonde convinzioni morali (...). Un individuo fornito di una personalita'
nonviolenta... non vorra' escludere a priori la possibilita' di aver lui
torto e l'avversario ragione. Per questo egli rifiuta metodi di conduzione
dei conflitti che comportano la distruzione dell'avversario (...). Il
fallibilismo abbraccia anche le credenze religiose ed essere fallibilista in
religione e' pur sempre compatibile con l'avere una profonda fede religiosa
(...). L'interiorizzazione del principio del fallibilismo e' dunque uno dei
migliori vaccini contro tutte le forme di fanatismo...; e' altresi'
fondamentale per il buon funzionamento delle istituzioni democratiche e
costituisce un grande incentivo alla tolleranza (...). Il fallibilismo vale
nei confronti di tutti i giudizi, anche quelli in cui si articola il
fallibilismo stesso: non possiamo escludere che la credenza stessa per cui
siamo tutti fallibili in effetti sia falsa. Ben poco pero' induce a credere
che tale essa sia. Il contrario del fallibilismo e' il dogmatismo");
7. La mitezza (che ovviamente si armonizzi con le altre qualita' indicate);
8. Il coraggio;
9. L'abnegazione;
10. La pazienza.
*
IV. Da Giuliano Pontara, Etica  e generazioni future
Pontara e' autore di un bel libro introduttivo, chiaro ed essenziale, su
Etica e generazioni future, Laterza, Roma-Bari 1995. Il libro muove dalla
consapevolezza che "le possibilita' che l'attuale generazione di adulti e
quelle immediatamente successive hanno di influire, nel bene e nel male, e a
livello globale, sulle generazioni future, anche su quelle che esisteranno
in un futuro remoto, parrebbero essere enormemente maggiori di quelle che
ogni altra generazione precedente abbia mai avute. Questo comporta che il
problema della nostra responsabilita' nei confronti dei posteri assume
un'importanza molto maggiore che non quella che ragionevolmente poteva avere
per generazioni precedenti" (p. 6).
Pontara delinea tre possibilita' di incidere sulle generazioni future, anche
di un futuro remoto:
"a) e' possibile incidere su quanti individui esisteranno in futuro - con lo
zero come limite inferiore, caso che si verificherebbe, ad esempio, in
seguito allo scoppio (magari per errore) di una guerra termonucleare che
ponesse fine all'umanita';
b) e' possibile incidere su quali individui esisteranno in futuro: cio' non
soltanto in seguito agli sviluppi della scienza biomedica e dell'ingegneria
genetica, bensi' anche in quanto (e come si vedra' meglio in seguito) le
scelte di certe linee di politica energetica, economica, sociale,
demografica, militare, ecc., hanno effetti tali per cui nessuno degli
individui che esisteranno tre-quattro secoli dopo che una certa linea
politica e' stata scelta sarebbe esistito ove fosse stata mandata ad effetto
una qualche linea politica alternativa;
c) e' possibile incidere sul tenore e la qualita' della vita di vaste masse
di individui che esisteranno in futuro" (p. 15).
Stante questa situazione, si pone il problema della nostra responsabilita'
morale verso le generazioni future, che Pontara articola cosi':
"1. Vi sono obblighi o doveri morali di natura generale che soggetti,
individuali o collettivi, esistenti in un qualsiasi periodo di tempo hanno
nei confronti di generazioni di individui i quali rispetto ad essi vivranno
nel futuro? (...)
2. Quali sono piu' precisamente gli obblighi generali cui si soggiace, e
possono essi trovare una spiegazione plausibile, vale a dire un fondamento
in una teoria etica sostenibile? (...)
3. Quali obblighi pił specifici si possono dedurre da quelli generali per
quanto riguarda la nostra responsabilitą verso le generazioni a noi future?
(...)
4. Quali sono le misure educative, sociali, giuridiche, politiche - sia a
livello locale sia a livello globale, sia a livello di singoli stati sia a
livello internazionale - necessarie al fine di far rispettare gli obblighi
morali verso le generazioni future?" (pp. 15-16).
Al termine di una vasta, approfondita e problematica disamina di tutti i
nodi considerati, Pontara giunge alla formulazione di un approccio che
propone "alcune norme di morale intergenerazionale tra le quali vorrei
mettere in rilievo almeno le quattro seguenti:
N1. Non fare scelte che abbiano effetti irreversibili, o comunque la cui
reversibilita' e' molto difficile ed estremamente costosa;
N2. Massimizzare il tenore di vita sostenibile;
N3. Salvaguardare la biodiversita';
N4. Salvaguardare il patrimonio artistico, scientifico, culturale.
Il rispetto generale di queste norme parrebbe essere condizione necessaria
affinche' alle generazioni future siano almeno lasciate aperte opzioni non
minori di quelle che hanno le generazioni oggi esistenti" (p. 160).
Il filosofo pone anche il problema delle misure giuridiche e politiche
necessarie affinche' queste norme siano rispettate, ed evidenzia come ad
esempio la Costituzione italiana "non soltanto non contiene alcun  accenno a
diritti di generazioni future, ma non contiene nemmeno alcun accenno a
obblighi di salvaguardia dell'ambiente" (p. 161); ed esaminando il contesto
e le relazioni internazionali evidenzia la necessita' di una svolta
profonda.
"Chiudo con due osservazioni che sono ovvie, ma che vale la pena ribadire.
La prima e' che bisogna stare in guardia contro l'errore di ritenere che
ogni stato, come oggi esiste, abbia obblighi soltanto o particolarmente
forti nei confronti delle generazioni future di propri cittadini. Infatti,
come la storia, anche piu' recente, ci insegna, gli stati sono istituzioni
che nascono, si modificano, spariscono. Non ha quindi molto senso parlare di
obblighi che lo stato ha soltanto nei confronti delle generazioni di propri
futuri cittadini. Il problema della responsabilita' verso le generazioni
future e' un problema globale, non nazionale.
La seconda osservazione che va ribadita e' che una politica responsabile
(improntata, tra l'altro, alla osservanza dei dettami delle quattro norme
sopra messe in rilievo) nei confronti delle generazioni future e'
necessariamente connessa con una politica responsabile nei confronti delle
generazioni oggi viventi nei paesi del Terzo mondo.
(...) E' quindi della massima importanza che i rapporti tra Nord e Sud siano
radicalmente ridimensionati: di questo ridimensionamento fa certamente parte
la cancellazione regolata dell'enorme debito del Terzo mondo che si aggira
sull'astronomica somma di 1.400 miliardi di dollari. E' una delle misure
necessarie per salvaguardare vitali interessi di generazioni future" (pp.
165-166).

9. RILETTURE. LAURA BALBO, LUIGI MANCONI: I RAZZISMI REALI
Laura Balbo, Luigi Manconi, I razzismi reali, Feltrinelli, Milano 1992, pp.
144, lire 18.000. Una ricerca e una riflessione su immigrazione e razzismo
in Italia.

10. RILETTURE. LAURA BALBO, LUIGI MANCONI: RAZZISMI. UN VOCABOLARIO
Laura Balbo, Luigi Manconi, Razzismi. Un vocabolario, Feltrinelli, Milano
1993, pp. 136, lire 12.000. Un utile strumento di riflessione e lavoro.

11. RILETTURE. DUCCIO DEMETRIO, GRAZIELLA FAVERO: IMMIGRAZIONE E PEDAGOGIA
INTERCULTURALE
Duccio Demetrio, Graziella Favaro, Immigrazione e pedagogia interculturale,
La Nuova Italia, Scandicci (Fi) 1992, 1999, pp. XX + 116, lire 26.500. Un
utile lavoro su "bambini, adulti, comunita' nel percorso di integrazione".

12. RILETTURE. GISELE HALIMI: LA CAUSA DELLE DONNE
Gisele Halimi, La causa delle donne, Pellicanolibri, Catania 1979, pp. 228.
Un appassinante libro della grande intellettuale e militante tunisina,
avvocatessa impegnata in difesa dei diritti umani in molti rilevanti
processi politici.

13. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

14. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti, la e-mail e': azionenonviolenta@sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: lucben@libero.it;
angelaebeppe@libero.it; mir@peacelink.it, sudest@iol.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it. Per
contatti: info@peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it

Per non ricevere piu' questo notiziario e' sufficiente inviare un messaggio
con richiesta di rimozione a: nbawac@tin.it

Numero 464 del 2 gennaio 2003