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La nonviolenza e' in cammino. 395
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO
Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it
Numero 395 del 25 ottobre 2002
Sommario di questo numero:
1. La magistratura viterbese rimette la legge Bossi-Fini alla Corte
Costituzionale per incostituzionalita'
2. Rossana Rossanda, la guerra che ritorna
3. Peppe Sini, tre glosse a questo articolo di Rossana Rossanda
4. Clotilde Pontecorvo, la memoria dopo Auschwitz
5. Mirella Karpati, una pagina a lungo ignorata
6. Cristina Papa, donne dai luoghi di conflitto si raccontano
7. Riunone del comitato di coordinamento del Movimento Nonviolento il 17
novembre a Verona
8. Un seminario sulla gestione nonviolenta dei conflitti
9. E' uscito il numero di ottobre di "Bilanci di giustizia"
10. Letture: Davide Melodia, Introduzione al cristianesimo pacifista
11. Letture: Gianlorenzo Pacini, Fedor M. Dostoevskij
12. Riletture: Giulio Busi, La Qabbalah
13. Riletture: Sandro Calvani, Poverta' e malsviluppo globale
14. Riletture: Maria Rosa Cutrufelli, L'invenzione della donna
15. Riletture: Lanza del Vasto, L'arca aveva una vigna per vela
16. Riletture: Rosaria Micela (a cura di), Oppressione della donna e ricerca
antropologica
17. Riletture: Valentino Salvoldi intervista Bernhard Haering
18. La "Carta" del Movimento Nonviolento
19. Per saperne di piu'
1. DOCUMENTAZIONE. LA MAGISTRATURA VITERBESE RIMETTE LA LEGGE BOSSI-FINI
ALLA CORTE COSTITUZIONALE PER INCOSTITUZIONALITA'
[Dalla cronaca di Viterbo del quotidiano "Il messaggero" del 18 ottobre 2002
riportiamo il seguente articolo, senza alcun nostro commento nel merito. Noi
siamo stati sempre convinti che la legge Bossi-Fini sia incostituzionale, e
per parte nostra fermamente crediamo che - per il motivo irrefragabile che
gia' Immanuel Kant enuncio' - ogni essere umano in quanto tale ha diritto di
accesso in tutti i paesi della terra]
E l'avvocato d'ufficio ando' a segno: "Quella legge e' incostituzionale"
Marco Valerio Mazzatosta e' un avvocato di trentadue anni. L'altro giorno in
tribunale a Viterbo si stava svolgendo una udienza apparentemente senza
particolari elementi di interessi, riguardava un cittadino tunisino che non
aveva ottemperato nei cinque giorni previsti al decreto di espulsione del
questore di Roma. Doveva essere una giornata come tante, con l'avvocato
Mazzatosta chiamato a svolgere quella che solitamente e' poco piu' di una
formalita' - la difesa di ufficio - quando invece l'udienza si e'
trasformata in un piccolo caso nazionale e giuridico, che sollevera' una
riflessione sulla legge Bossi Fini che ha modificato la normativa
sull'immigrazione, e che arrivera' fino alla corte costituzionale.
Certo, per il cittadino tunisino - che ha anche tentato il suicidio ed e'
stato ricoverato a Belcolle - cambia relativamente poco, visto che comunque
il giudice ha concesso il nulla osta all'espulsione. "Ma la decisione del
giudice e' ineccepibile - spiega l'avvocato Mazzatosta -. E le eccezioni di
incostituzionalita' sollevate serviranno in generale per una piu' corretta
applicazione di questa legge. Nessuno vuole il permissivismo, una
regolazione della materia era necessaria. Insomma, e' giusto che il
legislatore legiferi ma e' evidente che non possono essere messi in
discussione i valori fondamentali della Costituzione. Insieme ad altri
colleghi avvocati avevo approfondito la materia, per questo, visto che mi e'
capitata l'occasione, ho deciso di presentare l'eccezione di
incostituzionalita'. Ma non penso di essere stato l'unico ad averlo fatto in
Italia".
L'eccezione, accolta dal giudice Centaro e rimessa alla Corte
costituzionale, riguarda l'articolo 13 della legge 189 del 2002, in
particolare il comma terzo e quinto. Il richiamo e' agli articoli 2, 3 e 24
della Costituzione. I primi due richiamano i diritti inviolabili dell'uomo e
la pari dignita' sociale, tutti i cittadini "sono eguali davanti alla legge,
senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di condizioni
personali e sociali". Piu' specifico al caso in questione l'articolo 24 che
recita: "Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e
interessi legittimi". L'atto amministrativo di un questore, che obbliga -
secondo la nuova legge - il cittadino straniero non in regola ad abbandonare
il Paese entro cinque giorni di fatto rischia di ledere la possibilita' di
agire in giudizio per difendere i propri diritti. La parola ora passa alla
Corte costituzionale.
2. RIFLESSIONE. ROSSANA ROSSANDA: LA GUERRA CHE RITORNA
[Questo articolo abbiamo tratto dal quotidiano "Il manifesto" del 22 ottobre
2002. Rossana Rossanda e' nata a Pola nel 1924, allieva del filosofo Antonio
Banfi, antifascista, dirigente del PCI (fino alla radiazione nel 1969 per
aver dato vita alla rivista "Il Manifesto" su posizioni di sinistra), in
rapporto con le figure piu' vive della cultura contemporanea, fondatrice del
"Manifesto" (rivista prima, poi quotidiano) su cui tuttora scrive. Impegnata
da sempre nei movimenti, interviene costantemente sugli eventi di piu'
drammatica attualita' e sui temi politici, culturali, morali piu' urgenti;
e' persona di sconfinata cultura e rigore intellettuale e morale. Opere di
Rossana Rossanda: Le altre, Bompiani, Milano 1979; Un viaggio inutile, o
della politica come educazione sentimentale, Bompiani, Milano 1981; Anche
per me. Donna, persona, memoria, dal 1973 al 1986, Feltrinelli, Milano 1987;
con Pietro Ingrao et alii, Appuntamenti di fine secolo, Manifestolibri, Roma
1995; con Filippo Gentiloni, La vita breve. Morte, resurrezione,
immortalita', Pratiche, Parma 1996; Note a margine, Bollati Boringhieri,
Torino 1996. Ma la maggior parte del lavoro intellettuale, della
testimonianza storica e morale, e della riflessione e proposta culturale e
politica di Rossana Rossanda e' tuttora dispersa in articoli e saggi
pubblicati in giornali e riviste. Non ci risulta che siano state fin qui
pubblicate monografie su Rossana Rossanda; di lei parlano tra gli altri in
alcuni loro volumi Simone de Beauvoir e Jorge Semprun, e c'e' una deliziosa
poesia di Franco Fortini a lei dedicata]
Pietro Ingrao interpella il Presidente della Repubblica e i presidenti della
Camera e del Senato e i leaders della sinistra su un punto cruciale: la
nostra Costituzione interdice il ricorso a una guerra che non sia
strettamente difensiva. Non la consentirebbe neanche se il Consiglio di
Sicurezza dovesse approvarla. Come legittimare dunque il ricorso eventuale a
una guerra contro l'Iraq? Proponete un cambiamento della Costituzione? Su
quale patto fondamentale si sta reggendo la Repubblica? Quest'ultima domanda
ripete anche a D'Alema, da quando nella direzione Ds ha detto che la guerra
puo' essere necessaria. Ne' Ciampi ne' D'Alema ne' i presidenti delle Camere
accennano a rispondere. Non credo che lo faranno. I tempi sono cambiati,
pensano come l'opinione diffusa; basta una maggioranza perche' un gesto sia
"legittimato": va da se'. No che non va da se', alza la voce Ingrao: una
maggioranza non puo' legittimare una infrazione al complesso di leggi
indisponibili, appunto una Costituzione, sulla quale si basa una convivenza
e si regolano i suoi conflitti. Passar oltre un suo punto significa
abbattere il principio stesso d'uno stato o d'una convivenza internazionale
di diritto, e' l'inselvaggimento delle relazioni. Gli Stati Uniti, tanto
evocati, tengono ben ferma dal 1787 la loro Costituzione e se proprio
qualcosa va cambiato la emendano con tutte le procedure e le regole. Perche'
non noi?
Forse e' difficile per i piu' giovani cogliere la stupefazione che prende
persone come Ingrao e me davanti all'indifferenza con la quale si passa
sopra questo principio. Ci sgomenta il metodo e la sostanza. Venivamo
dall'esperienza del fascismo: si dovevano iscrivere in un blocco di
fondamenti dei limiti invalicalibili, che interdicessero la ripresa di
fenomeni di tale degradazione dei diritti sottraendoli anche a eventuali
maggioranze, come quella che aveva sostenuto Hitler. Nel 1948 non ci fu chi
non lo capi', salvo forse qualche taciturno residuo fascista. E quanto alla
guerra, a interdirne il ricorso non era un'assemblea di chierichetti, erano
i sopravvissuti al massacro della seconda guerra mondiale, e i cui padri
avevano vissuto il macello della prima. Nulla meritava questo prezzo, e' un
prezzo che stinge su qualsiasi intenzione. Affermammo che la guerra e'
inaccettabile per la soluzione di qualsiasi conflitto.
Tanto piu' che quella guerra, che a tutti parve finita tra aprile e maggio
1945 e sul punto di finire nell'esausto Giappone, ando' rivelando per
diversi anni i suoi risvolti piu' atroci. A ostilita' finite il mondo
scopri' i campi di sterminio, e neanche tutti, si fece lentamente un'idea di
Auschwitz e Maidanek e Treblinka; quell'orrore era stato impreveduto e tale
che non solo per paura gli stessi nazisti se ne erano coltivati un'immagine
riduttiva. Nell'agosto 1945 inoltre due bombe atomiche vetrificarono in
pochi secondi Hiroshima e Nagasaki, e sulle prime neppur capimmo bene, noi
che avevamo pur subito i bombardamenti, che cosa significa "coventrizzare" e
vedemmo le macerie di Berlino. Le atomiche annunciavano un salto tecnologico
nella distruzione, tale che una nuova guerra sarebbe stata ancora piu'
mostruosa di quella appena chiusa e della quale neppur potemmo contare per
un pezzo i milioni e milioni di morti, civili e soldati, uccisi sul campo o
nelle citta' o internati e impiccati, ammazzati, gasati, gettati nei forni.
Interdicemmo nel 1945 la guerra non come una schiera di anime belle ma come
corpi devastati dal vaiolo. Non avevano potuto rispondere altrimenti
all'espansione del terzo Reich e la guerra ne accelero' la ferocia. Come
sempre. Ma per l'ultima volta. Questo ci permise di vivere.
Oggi lo si e' dimenticato. Ma se non si puo' restare con gli occhi fissi al
passato, neppure lo si cancella impunemente. Invece questo si fa, specie in
Italia, con l'assoluzione di tutte le parti in causa non per umana pieta' ma
per calcolo politico, come l'altro giorno nella maggior parte delle parole
dette a el Alamein. Soltanto i rimasti della Shoah sono autorizzati a
coltivare la memoria, che loro costa piu' che a chiunque, perche' pur avendo
alle spalle secoli di persecuzione, quel che avvenne in Italia e in Germania
o nella Francia di Petain era stato impensato. E tuttavia la loro memoria si
costituisce a parte e in qualche misura contro lo spirito del 1945: la Shoah
induceva per la prima volta una reazione di difesa che non era stata ne'
nella cultura dell'assimilazione ne' in quella dello shtetl. Nel prendersi
una terra che da duemila anni non era loro, l'ebraismo trovava un rifugio e
incontrava la banalita' dell'essere uno stato fra gli altri, armato,
potente, e che fa sua, in veste di difesa, una cultura dell'aggressione.
Israele e' per la guerra, anzi ha inaugurato quella preventiva. E forse non
puo' essere diverso, la guerra e' come il cancro, metastatizza. La questione
fra Israele e Palestina e' sempre aperta, ed e' un punto dirimente sul quale
e' come se l'Onu non ci fosse.
Ma vi rendete conto di quel che sta avvenendo adesso con l'Iraq? insiste
Ingrao. Penso che D'Alema e simili se ne rendano conto, ma anzitutto
esorcizzano la dimensione del pericolo con un argomento che sta, ahime', nel
senso comune dell'occidente dopo il 1945: la "guerra" e' guerra soltanto se
lo coinvolge come e' accaduto per ben due volte nel Novecento. Se no e'
un'altra cosa. Non inganniamoci. La guerra del Golfo e' stata vissuta in
Europa, fatte salve poche voci come quella appunto di Ingrao e Dossetti,
come una giusta spedizione punitiva verso Saddam che aveva invaso il Kuwait.
Quella alla Jugoslavia e' stata implorata dall'Europa, coinvolgendo gli
Stati Uniti, non con la confessione che non sapeva come fare e anzi
l'aveva - Vaticano e Germania in testa - alimentata, ma sostenendo che la
Serbia era un nuovo hitlerismo e scordando allegramente che alla fine degli
anni trenta Hitler dilagava in Austria e Cecoslovacchia predicando lo
sfondamento all'est. Sul Kosovo l'occidente invento' l'intervento
"umanitario" che, fra parentesi, pare debba essere bellico o niente. Infine
tutta l'Europa accetto' fervidamente la guerra all'Afghanistan perche'
l'attentato alle due Torri investiva nei ricordi l'universo mentale ed
emozionale anche nostro oltre che quello americano. Avevano attaccato anche
noi!
Nessuno lo confesso' ma diventava smagliante la differenza delle guerre a
"noi" o "fra noi" che era stata sotto traccia in tutte le scelte delle
Nazioni Unite, le quali non hanno mai applicato alla lettera la loro Carta o
si sono arrangiate per dare una veste di procedura corretta alle guerre
esterne all'ambito occidentale. Perche' ce ne furono. Ma l'attenzione era
fissa sullo scontro possibile fra Stati Uniti e Unione Sovietica. Che non ci
fu, e voglio credere che non ci sia stato non solo per via del deterrente
nucleare. Non solo non ci fu scontro fra i due grandi, ma il loro
contrapporsi da un lato limito' la conflittualita' fra i minori in ciascuno
dei due campi di influenza, dall'altro passo' sempre liscia la rimessa in
ordine, armata o terrorista, del proprio campo da parte delle due
superpotenze. L'Urss si riprese con i carri armati Ungheria e Cecoslovacchia
e, piu' tardi, inglobo' stupidamente l'Afghanistan. Gli Usa tennero sospesa
la spada di Damocle su Cuba, alimentarono tutti i golpe in America Latina
fino a quello contro Allende, e appena l'Urss si indeboliva finanziarono la
guerra dell'Iraq all'Iran. Fecero guerre e mezze guerre anche le potenze
coloniali in declino, la Francia in Indocina e poi all'Algeria. La Carta
dell'Onu fu prudente ed elastica. Tanto da non scomporsi gran che nella
guerra di Israele contro la guerriglia palestinese, e da lasciar passare,
col sistema dei veti incrociati, l'intervento americano nel Vietnam come se
l'oscuro e modesto incidente nel Golfo del Tonchino mettesse in causa la
sicurezza degli Stati Uniti.
Perche' rifaccio ostinatamente la storia? Perche' quello di adesso e'
l'ultimo strappo a una Carta mondiale largamente sbrindellata sotto la
spinta dei rapporti di forza reali, e la nostra Costituzione e' bypassata da
dieci anni. Alla domanda di Ingrao su quale patto fondamentale, su quali
regole si regge oggi il mondo, tenderei a rispondere: sui lacerti d'una
proposta che visse finche' visse il ricordo della guerra mondiale e permase
l'equilibrio delle forze di distruzione della guerra fredda. Oggi resta
un'impalcatura, il diritto e' travolto dai rapporti di forze.
Gli Stati Uniti di Bush, Cheney, Rumsfeld e Condoleezza Rice ci hanno
avvertito che sono l'unica potenza militare dotata di tutto il potenziale
tecnologico della nuova guerra, e intendono spostarlo dovunque nel pianeta
ritengano minacciati gli interessi loro e del mondo, checche' il mondo ne
pensi. E' per le Nazioni Unite un colpo decisivo: gli Stati Uniti vi si
uniscono a condizione che siano accettate le loro analisi, obbiettivi e
strategie. Ma l'Onu e il nostro continente finge di non avere sentito o si
adegua. Perche'?
Perche' la sinistra ha smesso di avere una griglia interpretativa, un
pensiero autonomo dal 1989 in poi. E' chiaro che con la teoria del
terrorismo islamico mondiale gli Usa si sono dati la premessa d'un
intervento illimitato nel pianeta, e senza interpellarci affatto. Sul
terrorismo in genere e Al Qaeda in particolare, ci interdiciamo di
ragionare: eppure se esiste davvero un complotto mondiale avra' pure radici
da cogliere, bisognera' pure interrogarsi se e' espresso da soggetti che
mirano a spartizione di poteri e petrolio e utilizzano la protesta islamica,
o viceversa; e come mai fondamentalismi e guerre sante sono saltate fuori
soltanto a fine secolo. Ma il solo avanzare queste domande appare illecito.
Cosi' condanniamo a mezza bocca come una pericolosa sciocchezza lo scontro
di civilta', ma ingoiamo qualsiasi cosa sul terrore: abbiamo tremato per
l'antrace, tremiamo per il folle che ammazza a Washington, sospettiamo Al
Qaeda dovunque, e ci inquietano piu' facce e parole di qualche magrebino
egiziano che i corpi in gran parte musulmani che fluttuano sulle nostre
coste per colpa delle nostre leggi. Adesso dubitiamo di Bush sull'Iraq ma
poniamo tutte le speranze nel Consiglio di sicurezza. Se esso stara' prima o
poi con l'amministrazione americana, l'Italia spedira' laggiu' i suoi
ragazzi, e se non ci sta finira' per spedirli lo stesso. L'unicita' della
potenza americana e' recepita come un dato epocale, necessitato dalla
storia.
Su questo e' saltata l'interdizione postbellica della guerra. Ma la sinistra
tende a procedere come se il terremoto della dottrina Bush avesse
semplicemente portato a termine un processo di molti anni e tenuto sotto
traccia. Quasi che perduta un'alternativa o un vero progetto riformista di
sistema, non le riuscisse piu' di pensare in autonomia e neppure si
chiedesse perche'. Io penso che sia nostro dovere capire e dire come e'
avvenuto e a che cosa siamo chiamati a fare fronte. Non tocca al pacifismo,
da Aldo Capitini a Balducci a parte dei cattolici alla opinione marciante -
gia' sotto tiro come unilaterale, codardo, compromissorio, rispettabile ma,
dice Piero Fassino, irresponsabile - l'analisi storico-politica del
presente. Ma noi, sinistra alternativa, ce ne possiamo esentare? Possiamo
accettare che le scelte italiane si definiscano a Washington,
tranquillizzarci perche' mai piu' ci sara' "guerra fra noi" e quelle agli
altri sono operazioni di polizia militare obbligatorie, occupazioni
transeunti di stati cattivi?
Non credo che basti per essere sinistra levare una protesta d'ordine morale.
E infatti se oggi si leva in Europa un'opposizione di Francia e Russia, e
fuori d'Europa della Cina, non si puo' certo definirli di sinistra. Non e'
piuttosto un'espressione propria dei gia' dichiarati defunti stati nazione,
considerato che Bush ha svuotato anche la Nato, ammesso che in essa gli
stati avessero voce in capitolo? Non si tratta piu' che di un sussulto dello
spirito postbellico, di un ritorno delle vecchie guerre commerciali se non
territoriali? Gli Stati Uniti non nascondono di mirare al controllo
territoriale del medioriente e del petrolio. Ma al loro unilateralismo quale
Europa fa fronte? Quella monetaria concorrenziale in un mondo
capitalisticamente unificato e militarmente mai cosi' scomposto? Insomma,
quale Europa pensa la sinistra, quella moderata, quella alternativa, quella
no-global, quella sindacale? Intendendosi per pensare non soltanto marciare,
ma mettere in atto meccanismi di dislocazione e riallocazione delle forze.
Le occorrerebbe un direttivo politico reale, e come ci punta? E magari una
forza di dissuasione e interposizione? Oppure no?
Siamo a una svolta che non ha la natura ma dimensioni di ristrutturazione
mondiale analoghe a quelle che si profilarono alla fine degli anni trenta.
La storia corre a velocita' superiore alla nostra capacita' e voglia di
leggerne i dati e dare delle risposte. Limitarsi ai simboli, alla protesta
o, peggio, eluderne i nodi nella malinconia dell'antipolitica, non sarebbe
molto intelligente. La politica di potenza non bussa per entrare.
3. RIFLESSIONE. PEPPE SINI: TRE GLOSSE A QUESTO ARTICOLO DI ROSSANA ROSSANDA
1. Rossanda, come Ingrao, come molti altri maestri grandi, stanno cadendo in
una trappola. E la trappola e' questa: di accettare il terreno di
ragionamento proposto dai golpisti. E invece occorre dir chiaro che
sull'articolo 11 non si discute: esso e' uno dei "principi fondamentali"
della Costituzione, ovvero uno di quei "valori supremi" che in forza del
combinato disposto degli articoli 138-139 e alla luce di un decisivo
pronunciamento della Corte Costituzionale sono immodificabili; la sua
modifica equivale a un colpo di stato.
Ed il fatto che il presidente del Consiglio dei Ministri in carica, e quello
che lo ha preceduto, propongano di cassare questo articolo equivale a
istigare al colpo di stato. Mi pare ci sia ben motivo per denunciarli alla
magistratura ordinaria.
2. Rossanda vacilla nell'interpretare cio' che non conosce adeguatamente:
cita Capitini e Balducci dandone una interpretazione debole, falsificante e
fin caricaturale, in definitiva ridicola e offensiva. Ed invece occorre dir
chiaro che proprio a partire dalle posizioni e dalle prospettive aperte da
Capitini e Balducci la sinistra puo' ricostituire identita' e progetto,
oppure ha gia' cessato di esistere; che proprio a partire dalla scelta della
nonviolenza occorre ricostruire e una lettura della realta' e una
prospettiva di trasformazione della societa'.
3. Anche leggendo la Rossanda trent'anni fa imparai quel che so della
politica, poco o tanto che sia, e mi decisi a dedicare il resto della mia
vita a questo impegno; e da allora ogni volta che con la Rossanda non sono
d'accordo e' una spina nei cuore, duole non riconoscersi nelle parole dei
maestri. Ma proprio per l'amore che portiamo loro occorre dir chiaro quando
non ci convincono.
4. MAESTRE. CLOTILDE PONTECORVO: LA MEMORIA DOPO AUSCHWITZ
[Questo testo abbiamo ripreso dal sito della bella rivista "Una citta'", nel
cui n. 46 del dicembre 1995 e' apparso; e' l'intervento che Clotilde
Pontecorvo ha tenuto al seminario "Fare scuola dopo Auschwitz" organizzato
dall'Assessorato alla Pubblica Istruzione del Comune di Modena. Clotilde
Pontecorvo e' docente di Psicologia dell'educazione presso l'Universita' "La
Sapienza" di Roma, ed autrice di numerose pubblicazioni]
Era il 4 giugno del 1944, a piazza Farnese, a Roma, verso le nove di sera.
Poche ore prima erano passati, sotto le finestre di un convento di suore
svedesi, soldati tedeschi in ritirata. Noi eravamo una famiglia allargata di
25 persone, ospiti del convento da nove mesi. Appare una jeep da via del
Mascherone, accanto a Palazzo Farnese. Si apre per la prima volta dopo tanto
tempo il portone. A Roma c'era il coprifuoco, perche' c'erano i
bombardamenti. Un soldato dice: "Nous sommes les soldats de De Gaulle".
Il palazzo si illumina. Io avevo sette anni. Non so piu' se l'ho visto
veramente o se me lo hanno raccontato. So che ne ho un ricordo indelebile,
stampato nella mia memoria, insieme alle vicissitudini della fuga nella
campagna toscana, in un podere sperduto e senza nome, presso il quale ci
eravamo rifugiati per quindici giorni. Al ritorno avventuroso a Roma - con
carte false che ci aveva dato un "Commissario della razza" di Siena (e che
gli abbiamo poi restituito: i successivi documenti ce li fece il Partito
d'Azione) - ricordo il trasporto dalla stazione alla casa della signora che
ci ospito' e che per questo aveva rischiato moltissimo: una stanza per nove
persone. E ricordo soprattutto che mi preoccupava moltissimo la carretta
tirata da un cavallo con cui portammo le nostre masserizie. Quando poi -piu'
grande- ho studiato la rivoluzione francese, ho sempre pensato che quella
era la carretta con cui arrivavano i condannati a morte.
Il 5 giugno sono finalmente arrivati i tanto attesi e sospirati alleati. La
mia prima richiesta a mia madre e' stata: "Adesso, mamma, posso dire il mio
nome?".
La Liberazione per me e' legata alla ripresa dell'identita', a non doverla
nascondere, al non dover fingere di essere cattolica, con tanto di
partecipazione alla messa, ai vespri, con frequenza della chiesa, cosa che
facevamo anche con quella capacita' che sanno dimostrare i bambini
nell'adattarsi a questo tipo di richieste.
Ricordo che una volta (in quel periodo la mia famiglia ritenne opportuno
mandare me e una mia cugina da altre suore che si trovavano dall'altra parte
del ponte), tornando a casa, ci fu un bombardamento - eravamo allenati anche
a questo - e una suora ci chiese se avevamo avuto paura. Mia cugina che
aveva sette o otto mesi piu' di me e che quindi era piu' pronta rispose:
"No. Abbiamo detto un'Ave Maria".
In realta' recitavamo delle Ave Maria, ma, come facevano e fanno tutte le
altre bambine, insieme le trasformavamo, apportavamo dei cambiamenti e
diventavano filastrocche. Era un gioco infantile di difesa. Queste
esperienze sono nulla rispetto a quello che hanno rischiato e sofferto altre
persone, eppure se ora, come genitore - forse io potrei anche essere nonna -
dovessi chiedere a un figlio o un nipote di nascondere la propria identita',
di fingerne e dichiararne un'altra, mi sembrerebbe una cosa difficile ed
angosciosa.
Quelle due frasi, quella pronunciata dai soldati francesi giunti in jeep a
Palazzo Farnese, ambasciata di Francia - Nous sommes les soldats de De
Gaulle - e quella pronunciata da me per richiedere la verita' su di me, la
verita' su di noi - Posso dire chi sono? - sono state per me una seconda
vita, sono state la possibilita' di ritornare ad essere me stessa.
Ovviamente adesso vedo queste cose con l'occhio dell'adulto. Quando le ho
vissute da bambina non erano cosi' terribili, erano un gioco. Ero molto piu'
preoccupata del fatto che un cugino che aveva due anni e mezzo - che
attualmente insegna in una universita' americana - non sapesse ancora ne'
leggere ne' scrivere, non avesse imparato ancora queste cose fondamentali.
In qualche modo come bambini si vive e si sopravvive. Ricordo, per esempio,
che nelle nostre esplorazioni scientifiche con una cugina che aveva la mia
eta' trovammo dei deliziosi animaletti che mettemmo in una scatolina che
portammo ai genitori e che furono identificati come cimici. I bambini
riescono anche in una situazione di questo tipo a fare un gioco di
esplorazione scientifica.
E anche se non ho subito traumi, se non ho racconti drammatici, ricordo
benissimo quell'anno. Le mie figlie dicono sempre: "Come fai a ricordarti di
ogni giorno?". Mi ricordo ogni giorno di quell'anno perche' noi bambini
partecipavamo molto alla speranza e all'attesa della Liberazione. Anche se
nutrivo personalmente molta paura per i bombardamenti ed ero molto
meravigliata che gli adulti fossero felicissimi quando gli aerei arrivavano
su Roma perche' voleva dire che avanzava la Liberazione.
Nella distanza, nel ripensamento, ho capito che questa esperienza ha marcato
profondamente la mia identita'. La mia identita' di persona e, forse anche
di piu', la mia identita' di insegnante. Certe volte mi e' difficile
stabilire dove cominciano e dove finiscono le due identita' perche' le sento
molto radicate.
Chi di noi e' uscito vivo dalla guerra, dal rischio di sterminio, chi ha
sentito racconti in famiglia, chi li ha sentiti anche riportati, credo che
non possa non interrogarsi oggi. Io l'ho vissuto nella realta', ma ho anche
potuto ripensarlo molto dopo, forse solo dopo che ho iniziato ad insegnare.
Quando ho iniziato ho subito pensato che lo dovevo dire ai miei studenti.
Sentivo l'esigenza profonda e il dovere di dichiarare la mia identita' come
se essa fosse soffocata. Non avere nome, non avere il proprio cognome, avere
documenti falsi, doversi nascondere, dovere poi celare e fingere, era
qualche cosa che non potevo piu' ammettere. E in questo senso, come ho
detto, sento profondamente il nesso fra la mia identita' personale e la mia
identita' di insegnante.
Ho raccontato questo piccolo episodio, una narrazione minima, perche' vorrei
dimostrare una prima cosa: il nesso fra identita' e narrazione. Ho detto che
non so se certe cose le ho viste o le ho sentite raccontare. Ci sono dei
miei ricordi di cose che "so" di non avere visto, perche' proprio per la mia
esperienza di vita ho perso mio padre prima di nascere e quindi non l'ho mai
visto. Pero' ho l'impressione di averlo visto, perche' mi e' sempre stato
raccontato da mia madre, dai miei fratelli piu' grandi, dai miei parenti.
La necessita' di narrare, di far narrare, di riscrivere la propria storia,
non credo che riguardi solo chi ha vissuto la guerra o l'ha piu'
profondamente sofferta o chi ha vissuto lo sterminio, o ancora chi lo ha
subito attraverso le persone che gli stavano pu' vicino, e neanche,
soltanto, i loro figli o i loro nipoti: credo che sia un discorso piu'
generale. E' un discorso che riguarda la memoria.
Accanto alla storia che si studia sui libri, accanto a quei modi che
riteniamo piu' validi per rielaborare criticamente la storia, nella storia
dell'Olocausto, nella storia della Shoah, nella storia dello sterminio,
nella storia del dominio nazista, la memoria e' essenziale per la
ricostruzione di questa vicenda. La memoria e' per definizione legata alla
vita delle persone, al vissuto, all'individualita'. E' legata al recupero di
quella individualita' che il sistema nazista voleva eliminare. Per questo e'
cosi' importante che la memoria sia di nuovo al centro come un'attivita'
continua del ricordare. In realta' io lego la memoria alla costruzione
dell'identita': non all'identita' solo di chi ha subito questa esperienza,
ma all'identita' di tutti. Perche' credo che nel fondo del disegno di
sterminio ci fosse anche l'idea di definire la propria identita' attraverso
l'eliminazione degli altri. E questo mi sembra un elemento assai pericoloso
che si e' fra l'altro ripresentato molto inaspettatamente in questi ultimi
dieci anni. Forse si era sempre ripresentato, ma noi non lo avevamo
riconosciuto, almeno come ne siamo consapevoli oggi.
La memoria e' l'elemento che costruisce la nostra identita' di individui e
ci fa partecipi di cio' che ci accomuna agli altri, ci fa - come dice Sandro
Duranti - "uguali, ma non troppo", perche' anche nell'identita' del nostro
gruppo noi manteniamo la nostra individualita', il nostro modo di essere con
un'identita' personale.
Penso ad una pagina molto bella di Martin Buber, il quale descrive in modo
assiomatico ed essenziale perche' mai gli uomini siano tutti diversi al di
la' di cio' che noi sappiamo sul valore della diversita' genetica, della
diversita' culturale. Buber dice che, se non fossimo diversi, non ci sarebbe
ragione che un'altra persona sia al mondo. Un detto ebraico dice che chi
salva una vita salva il mondo e chi distrugge una vita distrugge il mondo. A
partire da questo, Buber analizza il valore dell'individualita': e' proprio
perche' ciascuno e' irripetibile che ciascuno e' il mondo. Afferma anche che
la differenza fra Dio e gli uomini e' che gli uomini hanno una forma che
crea tutte cose uguali mentre Dio usa una stessa forma per creare esseri
sempre diversi. Si tratta di una forte insistenza sull'individualita'.
A me sembra che, nell'individualita', i gruppi, le comunita' rivestano un
ruolo fondamentale. In questi ultimi anni ho studiato molto le famiglie, le
interazioni familiari. Sto studiando come genitori e figli parlano fra loro
quando sono insieme riuniti a tavola. E' un elemento molto consolante della
cultura italiana l'importanza che ancora questo ha per molte famiglie. Non
e' stato difficile per noi trovare famiglie che mangiano regolarmente
insieme. A me sembra che e' dentro la famiglia che cresce l'identita': un
modo di crescere di ciascuno che si definisce in rapporto agli altri per
somiglianza e per differenza. Mi ha colpito - anche perche' in questi ultimi
tempi ho condotto uno studio comparativo con alcune famiglie americane -
come emerga in una sola conversazione a tavola delle nostre famiglie
l'identita' di essere italiani, l'identita' di questo nostro paese
ovviamente con tutte le differenze possibili nel modo di esserlo. Pero' ho
capito quanto sia importante, nella costruzione dell'identita' familiare,
non solo il mangiare insieme e il cibo, non solo la trasmissione delle
tradizioni del mangiare, ma il piacere dei genitori di dare piacere ai figli
attraverso il cibo, il tener conto del gusto, del temperamento individuale,
in un certo senso l'importanza dell'individualita' che appunto passa anche
attraverso queste cose.
E d'altra parte la famiglia e' ancora il luogo privilegiato della
comunicazione verticale, della comunicazione fra le generazioni, dove si
puo' costruire una memoria della propria identita' come costruzione delle
proprie matrici. In famiglia ci si ricorda, ci si racconta, ci si discute.
Tutto cio' si lega molto a problemi che sono problemi presenti ma anche
passati: si racconta quello che e' stato, anche il passato piu' presente,
quello piu' immediato. La memoria familiare, generazionale, mi sembra un
elemento importantissimo per il mantenimento degli aspetti positivi della
memoria. Credo che allora sia altrettanto importante nella nostra opera di
educatori mantenere in rilievo il legame che la memoria ha con i testimoni
diretti. Ovviamente ormai i testimoni diretti sono pochi perche' io, che
adesso ho i capelli bianchi, a quell'epoca ero una bambina.
A volte penso che tante cose le ho veramente capite come potevano capirle i
bambini e quelli che le hanno vissute sono ormai delle persone anziane.
Quindi mi sembra che per noi questa sia forse l'ultima possibilita': siamo
l'ultima generazione a raccogliere in senso lato delle testimonianze reali e
dirette.
Considero questo aspetto molto importante per renderci conto che
l'identita', che e' stata in qualche caso negata - si voleva sopprimere -
corre ancora oggi rischi molto gravi.
Mi sembra che il progetto nazista si sia rivelato come un disegno di
costruire al negativo la propria identita'. Come se l'identita' di gruppi,
di etnie o di religioni si possa costruire soltanto eliminando gli altri
fisicamente. Oggi non possiamo piu' ripensare Auschwitz e l'Olocausto senza
ricordare la pulizia etnica, gIi sterminii, le uccisioni che continuamente
avvengono nel mondo. E mi pare che questo problema non sia solo legato a
fenomeni isolati: e' un fenomeno che persiste e che e' diffuso. D'altra
parte l'eliminazione che e' stata perpetrata con la Shoah ha cominciato a
distruggere prima le comunita', i gruppi, poi le famiglie attraverso la
separazione e, poi, l'umanita' degli uomini per arrivare, infine, alla loro
eliminazione fisica. Mi sembra che questo processo corrisponda al processo
all'inverso che noi vorremmo rimettere in moto, che vorremmo
ottimisticamente realizzare, nella scuola e nelle generazioni future.
Certo, come insegnare Auschwitz? E' un problema difficile. Perche' per certi
versi e' indicibile, e' difficilmente riducibile alle nostre normali
categorie di interpretazione storica. Non e' in un certo senso spiegabile.
Sono molto preoccupata quando qualcuno lo spiega perche' spiegare vuol dire
anche giustificare. Fra la spiegazione e la giustificazione il passo e'
molto breve. Le nostre spiegazioni nascono da giustificazioni. Spiegare
significa immettere un evento in una rete che da' un senso. Ma Auschwitz non
ha un senso. Ci vuole certo una spiegazione, ci vuole una ricostruzione
storiografica, ma questa riflessione e' inevitabilmente legata alla
comprensione delle persone che l'hanno vissuto, deve passare attraverso la
storia delle persone. Io vedo in questo argomento la necessita' di una
integrazione molto profonda fra memoria e storia. In fondo la critica
storica ci ha abituato ad abbandonare la memoria, o almeno a metterla da
parte - anche se oggi c'e' una grande rivalutazione della memoria - ma a me
sembra che la memoria sia altrettanto importante che la storia.
C'e' un tema che viene spesso sollevato quando si parla di questo argomento:
il tema dell'unicita' o della comparazione. E' un evento unico? E' un evento
comparabile? Sappiamo che la comparabilita' ha significato anche la
strumentalizzazione dei revisionisti, cioe' di coloro che hanno detto non
essere vero che erano state uccise tutte quelle persone, che c'era stato un
programma di sterminio, di coloro che sostengono che a morire, e di malattia
soprattutto, sono state poche migliaia di persone. Siamo molto preoccupati
dalla comparabilita' di chi ci dice che altre cose sono successe ed
altrettanto gravi. E d'altra parte e' anche vero che noi non vogliamo porre
questo evento al di fuori della storia perche' significherebbe rendere
possibile la sua riproduzione. E' quindi un rischio vederlo come un evento
unico, cosi' come e' un rischio vederlo come uno dei tanti sterminii. Certo
non va equiparato. Pero' non va nemmeno isolato. Credo che su questo vi sia
un conflitto profondo, di cui fra l'altro sono stata recentemente testimone:
I'Unione delle Comunita' Ebraiche italiane ha organizzato un convegno sul
trauma psichico, a cui hanno partecipato Dina Wardi e Jossia Tab da Israele
e Donald Cohen dagli Stati Uniti. In particolare Cohen ha ricordato il
problema dell'unicita' e ha sottolineato, da un punto di vista ebraico, la
necessita' di vedere il rischio dell'eliminazione dell'altro come sempre
presente, l'impossibilita', cioe', di guardare a questo fatto in termini
soltanto unici. Ha ricordato i venti milioni di neri che sono morti nel
trasporto dall'Africa agli Stati Uniti, una cosa di cui non ho mai sentito
parlare i molti buoni amici, e anche molto democratici, americani. Ma forse
il conflitto per noi e' cosi' grande non gia' perche', a differenza di altri
sterminii, questo fu cosi' organizzato e sistematico, ma perche' e' avvenuto
in un paese cosi' civile, all'avanguardia della cultura, un paese che ha
dato alla cultura europea e non europea dei contributi cosi' straordinari.
E' questo il contrasto, non e' il fatto che questo si sia verificato nel
modo in cui si e' verificato.
Questo a me sembra un tema che non si puo' risolvere, cosi' come non si
risolve il dilemma della indicibilita' e della necessita' di spiegarlo. Sono
profondamente convinta che non possiamo non tenere conto di questi due temi,
fatte salve ovviamente le critiche al revisionismo sciocco e quanto mai
pericoloso. C'e' un conflitto, o se vogliamo un dilemma. E il dilemma e' per
definizione qualcosa che non si risolve, con cui ci si confronta
continuamente e che ci deve guidare nell'analizzare, nel capire, nel fare
capire.
Come parlare ai giovani che ci sembrano tanto diversi da noi? Credo che
occorra partire dai loro gusti, dalle loro idiosincrasie spesso
antiretoriche, dalle loro pre-conoscenze, dai loro pregiudizi. Con questi ci
dobbiamo confrontare. Dobbiamo farli esplicitare, dobbiamo riconoscerli
anche come senso comune.
"Se e' successo questo agli ebrei, gli ebrei qualcosa devono avere fatto".
Queste sono battute che si sentono dire. "Se d'altra parte sono molto
potenti, avevano potere economico...", l'ho sentito dire poco tempo fa da
una persona che lo diceva in buona fede. Ed ho capito il rischio che e'
sempre palese in queste affermazioni.
C'e' un altro aspetto che non dobbiamo dimenticare: l'insegnamento del
disprezzo che per duemila anni la Chiesa ha favorito nei confronti degli
ebrei. E' un tema che e' stato affrontato magistralmente da Julie Sac subito
dopo la Liberazione in un libro che parte dalla ricostruzione storica e non
storica (e comunque simbolica) della morte di Gesu'; quindi in qualche modo
dall'accusa di essere il popolo "deicida".
Tutto cio' e' profondamente radicato. Le cerimonie della Pasqua sono legate
a questo ricordo. E' molto difficile per delle persone semplici, senza
mediazione culturale, fare delle distinzioni. E' vero che e' stata fatta
molta strada in questa direzione da Giovanni XXIII quando proprio per
diretta influenza del libro di Julie Sac, attraverso l'attivita' della
Societa' Ecumenica, attraverso Maria Vingiani si apri' a questo problema, ne
capi' l'importanza.
Credo pero' che qui ci sia un lavoro da fare con i giovani che deve anche
affrontare questi temi, che deve partire anche da questi pregiudizi, che
deve tenere conto anche di queste modalita' di porsi. Ed e' chiaro che in
questo mi sembra fondamentale il ruolo della scuola.
La scuola e' una sede privilegiata non solo - come diciamo sempre - per la
costruzione degli apprendimenti di base, ma per la costruzione
dell'identita'. Noi oggi rivalutiamo il ruolo della scuola come una sede
dove si costruisce una comunita' piu' ampia. E, d'altra parte, siamo sempre
piu' convinti che si apprende quello che e' coerente con la propria
identita'. Non un'identita' rigidamente definita una volta per tutte, ma
un'identita' flessibile che entra in relazione con quella degli altri.
Quindi come costruzione di una comunita' di discenti, studenti-insegnanti
come discenti, perche' gli insegnanti che fanno bene il loro mestiere sanno
molto meglio di me che si insegna volentieri perche' si impara, altrimenti
non si insegna volentieri e non si insegna bene.
Ecco, la scuola e' un luogo di incontro privilegiato fra uguali (di eta'),
ma diversi. Oggi forse piu' diversi di quanto non fosse in precedenza.
E' un luogo di mediazione. Essa deve riprendere in pieno il suo ruolo per
un'educazione civile, un'educazione morale. Non moralismo evidentemente,
nessuno di noi vuole prediche, nessuno di noi vuole l'indottrinamento, ma
nessuno di noi vuole nemmeno la delega di questa funzione, la delega per
esempio alla famiglia, la delega al sacerdote, la delega all'insegnante di
religione che in qualche caso ha sopperito a questa esigenza, a questa
richiesta.
Credo che la scuola possa e debba essere sempre di piu' un luogo di
costruzione di valori condivisi, che hanno una storia, un'evoluzione, che
hanno bisogno di essere analizzati conoscitivamente, ma che hanno
soprattutto bisogno di essere praticati.
La scuola non puo' piu' essere oggi eticamente neutrale.
Ricordo qualche anno fa di avere fatto un incontro sull'insegnamento della
religione cattolica nella scuola dell'infanzia al quale ha partecipato anche
Cesare Luporini il quale era meravigliato di questa dichiarazione. Diceva
che quando andava a scuola - si riferiva agli anni Trenta - non sapeva
nemmeno che cosa gli insegnanti pensassero, c'era un principio - come
dire? - di neutralita'. Questo secondo me ora non e' piu' possibile. Lui era
meravigliato che io sentissi sempre il bisogno di dichiarare la mia
identita'. Ma forse dal piccolo aneddoto che ho riportato all'inizio di
questa conversazione voi capite che questa e' proprio una necessita' non
solo mia, e' un modo di presentarsi. Non credo che la scuola possa essere
neutrale. Non vogliamo una scuola di parte, temiamo molto una scuola che
indottrina, ma aprire la scuola a un'analisi molto attenta di quelli che
sono i nodi di questa educazione. Non e' materia di un insegnamento, e' un
compito generale di educazione morale e civile, potremmo anche dire di
educazione alla cittadinanza.
Un problema cruciale e' quello del rapporto tra conoscenze e valori . Non si
insegnano in realta' valori al di fuori di conoscenze. E, all'opposto, non
si insegnano conoscenze senza valori. E uno dei valori importanti che la
scuola deve trasmettere e' quello dell'onesta' intellettuale, dell'autonomia
di giudizio, del gusto di capire, della capacita' di cambiare idea, della
capacita' di trasformarsi: questi sono valori che sono legati al conoscere.
Ci sono anche altri valori che piu' direttamente ci impegnano sul piano
morale: penso ad un aspetto che ci riguarda profondamente come italiani. Ho
detto prima che dal confronto con le famiglie americane emerge la solidita'
psicologica della struttura familiare italiana e la forza della tradizione
in cui molto importante e' il modo in cui i genitori si sostengono a vicenda
nell'educazione dei figli. Pero' noi sappiamo che siamo un paese di solide
virtu' individuali, famigliari, qualcuno ha detto "familistiche" - troppa
famiglia - pero' siamo un paese di scarse virtu' collettive (ovviamente in
generale ed a confronto con altri paesi). Credo che questo debba essere un
tema su cui la scuola possa e debba intervenire.
Cerco di concludere. D'altra parte questo e' un tema che non si puo'
concludere, si puo' solamente aprire. In quali forme puo' la scuola
rispondere a questa esigenza? Come fare scuola ricostruendo una memoria?
Come fare scuola ricostruendo una storia, ma insieme aprendosi a diverse
identita' e dando la possibilita' a ciascuno di creare la propria? Facendo
pratica di democrazia, pratica di incontro, pratica di convivenza. Ricordo
di avere usato diversi anni fa un libretto che Guido Calogero, che e' stato
mio professore all'universita', aveva scritto nel '45. Si intitolava L'Abc
della democrazia: i miei studenti lo discutevano con molto interesse
lavorando autonomamente o a gruppi. E' una piacevolissima lettura, ma e'
importante praticarla. Credo che ricorrenti fenomeni di organizzazione
autonoma dei giovani - occupazione, autogestione, ecc. - in fondo
manifestino un desiderio di praticare la democrazia.
Noi stessi l'abbiamo imparata praticandola, non l'abbiamo certamente
imparata a scuola. Nella scuola che noi frequentavamo questo non era affatto
possibile, l'abbiamo imparata nei gruppi politici, nei gruppi giovanili,
sbagliando anche, perche' queste cose si imparano facendo, si imparano
sbagliando. Non c'e' altro modo.
Eppure mi sembra che questa sia l'unica forma di educare alla
responsabilita', ad assumere il proprio ruolo nel mondo, a rispettare il
diverso, a confrontarsi con il diverso. Ci si potrebbe chiedere quando. Io
direi subito. Ora. Questo e' possibile - fin dalla prima infanzia. E
sappiamo che i bambini molto piccoli, gia' nelle prime fasi dello sviluppo,
sono disposti ed anche impauriti dal diverso. Dobbiamo quindi metterli in
condizione di ritrovare nel diverso il simile a se stesso, perche' la
definizione di noi stessi passa attraverso questo rapporto di differenza e
di somiglianza.
Concludo con un Midrasch.
Il Midrasch e' un racconto che serve ad interpretare il testo biblico. Nella
tradizione ebraica il testo biblico non si legge soltanto, si legge e si
rilegge, e soprattutto si interpreta. E questa interpretazione non e' mai
conclusa. E' quella che si dice una lettura infinita. Questi racconti, che
si costruiscono, sono ricostruzioni fantastiche che coprono in qualche modo
i vuoti del testo, sono quelli che hanno permesso a questa cultura di
sopravvivere, perche' l'hanno continuamente adattata ai bisogni, alle
necessita', alle trasformazioni.
E' un Midrasch che riguarda Abramo.
Abramo discute con Dio della distruzione di Sodoma e Gomorra. Dio aveva
mandato un angelo per dire: "E' un popolo totalmente traviato, irriducibile.
Bisogna distruggerlo". Abramo discute a lungo. Chiede che cosa fara' Dio se
ci sono cinquanta giusti. "Se ci sono cinquanta giusti io non distruggero'
Sodoma e Gomorra" - e' la risposta. E Abramo: "E se ce ne sono quaranta?".
"No, non distruggero'". "Trenta?". "No non distruggero'". Abramo scende ed
arriva a dieci.
Il Midrasch dice che Abramo e' anch'egli colpevole, responsabile della
distruzione di Sodoma e Gomorra. Perche' Abramo poteva salvare Sodoma e
Gomorra? Perche' non si puo' scendere al di sotto di dieci. Dieci e' il
minimo perche' ci sia una comunita'; perche' un'identita' ha bisogno di una
comunita'. Questo numero dieci ha in ebraico un valore particolare. Ma
perche' Abramo si e' cosi' impegnato a discutere con Dio? Non tante persone
hanno discusso con Dio come ha fatto lui. Ha cercato di fare il possibile
fino in fondo? In realta' Abramo e' responsabile, perche' a Sodoma c'era Lot
e la moglie (e sono due), c'erano le tre figlie (e si va a cinque), c'erano
i mariti delle figlie (e quindi si arriva ad otto), c'era l'angelo che era
andato ad annunciare la distruzione (e fa nove). Mancava un giusto: Abramo
doveva andare a Sodoma e Gomorra.
5. MAESTRE. MIRELLA KARPATI: UNA PAGINA A LUNGO IGNORATA
[Da un intervento di Mirella Karpati in AA. VV., La Chiesa cattolica e gli
Zingari, Centre de recherches tsiganes, Centro studi zingari, Anicia,
Paris-Roma 2000, p. 175. Mirella Karpati, intellettuale finissima e
militante per i diritti umani di grande rigore, dottoressa in pedagogia, e'
una grandissima studiosa della cultura zingara, impegnata a fianco di Sinti
e Rom per il riconoscimento dei loro diritti; dal 1965 al 1999 e' stata
direttrice della prestigiosa rivista scientifica "Lacio Drom" (la ripresa
delle pubblicazioni della quale sarebbe di primaria necessita' oggi piu' che
mai). Tra le opere di Mirella Karpati: (a cura di), Zingari ieri e oggi,
Centro Studi Zingari, Roma; (con B. Levak), Rom sim. La tradizione dei Rom
kalderasha, Centro studi zingari, Roma; (a cura di, con Ezio Marcolungo),
Chi sono gli zingari?, Edizioni Gruppo Abele, Torino]
Una pagina a lungo ignorata e a volte volutamente taciuta e' quella dello
sterminio degli Zingari perpetrato nel Terzo Reich e negli Stati ad esso
satelliti.
6. INCONTRI. CRISTINA PAPA: DONNE DAI LUOGHI DI CONFLITTO SI RACCONTANO
[Da Cristina Papa, della redazione de "Il paese delle donne" (per contatti:
womenews@womenews.net), riceviamo e diffondiamo]
Il 30 ottobre le Donne in Nero con l'Istituto per il Mediterraneo e la
collaborazione dell'Assessorato alle pari opportunita', organizzano un
incontro, dal titolo "Donne dai luoghi di conflitto si raccontano", che si
terra' alle ore 17,30 nella sala della Protomoteca a Roma.
L'incontro prevede la partecipazione, in qualita' di testimoni, di un folto
gruppo di donne provenienti da aree di conflitto, tra le quali: Palestina,
Afghanistan, Magreb, Balcani, Pakistan. Alla conferenza prenderanno parte
associazioni romane, rappresentanti dell'amministrazione comunale, esponenti
della cultura e del mondo politico.
7. INCONTRI. RIUNIONE DEL COMITATO DI COORDINAMENTO DEL MOVIMENTO
NONVIOLENTO IL 17 NOVEMBRE A VERONA
[Dal sito del Movimento Nonviolento (www.nonviolenti.org) riprendiamo e
diffondiamo]
Cari amici,
e' convocata la quarta riunione del Comitato di coordinamento del Movimento
Nonviolento che si terra' domenica 17 Novembre a Verona, con inizio alle ore
10,30 e termine prevedibile alle ore 17,30. Si ricorda a tutti gli eletti e
ai rappresentanti dei gruppi locali l'importanza del Coordinamento, e si
raccomanda la presenza e la puntualita'.
All'ordine del giorno: approvazione del verbale precedente e verifica
impegni presi; iniziative contro la guerra in Irak; percorso Marcia
nonviolenta 2003; programma di "Azione Nonviolenta" 2003: campagna
iscrizioni e abbonamenti 2003; resoconto del seminario dei Gruppi di azione
nonviolenta; resoconto del Forum Sociale Europeo; salone dell'editoria per
la pace; servizio civile volontario e formazione; varie ed eventuali.
Il luogo dell'incontro e' la Casa per la nonviolenza, in via Spagna 8
(vicino alla Basilica di San Zeno): dalla stazione autobus n. 61 (direzione
centro, scendere alla fermata di via Da Vico, all'altezza del Ponte
Risorgimento); chi viene in macchina deve uscire al casello di Verona Sud,
seguire la direzione centro fino a Porta Nuova, poi a sinistra lungo la
circonvallazione interna fino a Porta San Zeno). Chi desidera pernottare, e'
pregato di farcelo sapere.
Il giorno prima del Comitato di coordinamento, sabato 16 novembre, sempre
nella nostra sede, si terra' la riunione della redazione di "Azione
nonviolenta" per la programmazione del 2003.
8. INCONTRI. UN SEMINARIO SULLA GESTIONE NONVIOLENTA DEI CONFLITTI
[Dal Centro studi difesa civile (per contatti: laboratori@pacedifesa.org)
riceviamo e pubblichiamo]
Il Centro Studi Difesa Civile organizza il seminario: "La gestione
nonviolenta dei conflitti. Quali finanziamenti, come ottenerli".
Il seminario mira a fornire gli strumenti tecnici e finanziari atti a
concretizzare l'ampia progettistica teorica esistente; e' particolarmente
indirizzato agli operatori dell'area nonviolenta e del volontariato civile.
Si svolgera' da venerdi' 22 (ore 15) fino a domenica 24 novembre (ore 13),
presso l'agriturismo "Le Macchie", loc. Ponte Felcino, Perugia.
Costi: 100 euro + 10 euro di quota associativa, comprensivi di alloggio.
Per iscrizioni e maggiori informazioni: Carla Liuzzi, tel. e fax:
0755726641, cell.: 3490641907, e-mail: laboratori@pacedifesa.org
Le richieste di iscrizione dovranno pervenire entro domenica 10 novembre.
9. INFORMAZIONE. E' USCITO IL NUMERO DI OTTOBRE DI "BILANCI DI GIUSTIZIA"
E' stato pubblicato il n. 6/02, dell'ottobre 2002, della rivista elettronica
mensile "Bilanci di giustizia", che riferisce dell'omonima campagna e
fornisce utili materiali di riflessione, dibattito, iniziativa.
Per contatti e richieste: "Bilanci di giustizia", direttore responsabile
Andrea Semplici, redazione c/o Mag Venezia, via Trieste 82/c, 30175
Venezia-Marghera, tel. 0415381479, fax: 0415388190, e-mail:
bilanci@libero.it, sito: www.unimondo.org/bilancidigiustizia. Per
contributi: ccp 14643308 intestato a Gianni Fazzini, via Trieste 82/c, 30175
Venezia-Marghera.
10. LETTURE. DAVIDE MELODIA: INTRODUZIONE AL CRISTIANESIMO PACIFISTA
Davide Melodia, Introduzione al cristianesimo pacifista, Costruttori di
pace, Luino (Va) 2002, pp. 80, euro 10. Un agile studio scritto da una delle
figure piu' belle della nonviolenza in Italia.
11. LETTURE. GIANLORENZO PACINI: FEDOR M. DOSTOEVSKIJ
Gianlorenzo Pacini, Fedor M. Dostoevskij, Bruno Mandadori, Milano 2002, pp.
208, euro 11,50. Una utile introduzione al grande autore russo (la lettura
delle opere di Dostoevskij abbiamo sempre pensato che sia indispensabile,
massime per chi voglia impegnarsi per la pace, i diritti, la nonviolenza).
12. RILETTURE. GIULIO BUSI: LA QABBALAH
Giulio Busi, La Qabbalah, Laterza, Roma-Bari 1998, 2002, pp. 166, euro 9,30.
Una breve ma puntuale introduzione.
13. RILETTURE. SANDRO CALVANI: POVERTA' E MALSVILUPPO GLOBALE
Sandro Calvani, Poverta' e malsviluppo globale, Piemme, Casale Monferrato
(Al) 1995, pp. 220, lire 20.000. Uno dei volumi della bella "Biblioteca
della solidarieta'" promossa dalla Caritas italiana.
14. RILETTURE. MARIA ROSA CUTRUFELLI: L'INVENZIONE DELLA DONNA
Maria Rosa Cutrufelli, L'invenzione della donna, Mazzotta, Milano 1974, pp.
204. "Miti e tecniche di uno sfruttamento", recita il sottotitolo di questo
bel libro.
15. RILETTURE. LANZA DEL VASTO: L'ARCA AVEVA UNA VIGNA PER VELA
Lanza del Vasto, L'arca aveva una vigna per vela, Jaca Book, Milano 1980,
1995, pp. 256. Uno dei libri piu' belli di Lanza del Vasto.
16. RILETTURE. ROSARIA MICELA (A CURA DI): OPPRESSIONE DELLA DONNA E RICERCA
ANTROPOLOGICA
Rosaria Micela (a cura di), Oppressione della donna e ricerca antropologica,
Savelli, Milano 1979, pp. 184. Una utile raccolta di saggi su "immaginario e
realta' della subordinazione femminile".
17. RILETTURE. VALENTINO SALVOLDI INTERVISTA BERNHARD HAERING
Valentino Salvoldi intervista Bernhard Haering, Cittadella, Assisi 1993,
1994, pp. 144, lire 16.000. Un colloquio tra i due alacri operatori di pace
e di nonviolenza.
18. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.
19. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: http://www.nonviolenti.org;
per contatti, la e-mail e': azionenonviolenta@sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
http://www.peacelink.it/users/mir; per contatti: lucben@libero.it;
angelaebeppe@libero.it; mir@peacelink.it, sudest@iol.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: http://www.peacelink.it. Per
contatti: info@peacelink.it
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO
Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it
Per non ricevere piu' questo notiziario e' sufficiente inviare un messaggio
con richiesta di rimozione a: nbawac@tin.it
Numero 395 del 25 ottobre 2002