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La nonviolenza e' in cammino. 372
- To: news@peacelink.it
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 372
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac@tin.it>
- Date: Wed, 2 Oct 2002 00:37:55 +0200
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO
Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it
Numero 372 del 2 ottobre 2002
Sommario di questo numero:
1. Una piccola proposta
2. Giobbe Santabarbara, un errore in cui non perseverare
3. Enrico Peyretti, la ragione delle ragioni contro la guerra
4. Vandana Shiva, se invece
5. Augusto Cavadi, quando le religioni non sono causa di conflitto
6. Un ponte per...: campagna contro l'embargo e la guerra all'Iraq
7. Campagna Sbilanciamoci: una finanziaria che colpisce i diritti
8. Pino Ferraris recensisce "Le ambiguita' degli aiuti umanitari" di Giulio
Marcon
9. Maria Luigia Casieri, un libro dalla parte dei bambini
10. Riletture: Lidia Menapace, Economia politica della differenza sessuale
11. Riletture: Elisabeth Young-Bruehl, Hannah Arendt
12. Riletture: Adriana Zarri, Il figlio perduto
13. La "Carta" del Movimento Nonviolento
14. Per saperne di piu'
1. APPELLI. UNA PICCOLA PROPOSTA
Tra le molte cose che si possono fare per opporsi alla guerra e per
difendere la legalita' costituzionale c'e' quella, assai semplice eppure
utile, di scrivere lettere alle istituzioni (dai Comuni alle Province,
dalle Regioni al Parlamento, dal governo al Presidente della Repubblica) ed
esprimere loro la propria opposizione alla guerra e la propria fedelta'
alla Costituzione che la guerra proibisce, e per chiedere anche ad esse di
prendere analoga posizione (peraltro dovuta, poiche' la fonte di
legittimita' delle istituzioni e' proprio la loro fedelta' alla
Costituzione).
Utile e' anche inviare lettere simili (o le medesime) ai mezzi d'informazione.
Va da se' che tali lettere devono essere gentili e ragionevoli, poiche' il
loro scopo e' di convincere e non di offendere (chi utilizzasse il pretesto
dell'attuale terribile situazione per dar sfogo ai risentimenti ed esibirsi
in ingiurie sarebbe uno sciocco che col suo agire aiuta proprio coloro che
la guerra illegale e immorale vorrebbero).
Ad un soggetto almeno sarebbe bene che tutti i cittadini italiani
esprimessero la richiesta di un suo impegno esplicito e definitivo contro
la guerra stante il suo ruolo istituzionale di supremo garante della
Costituzione: il Presidente della Repubblica, a cui si puo' inviare una
e-mail all'indirizzo: Presidenza.Repubblica@quirinale.it
2. EDITORIALE. GIOBBE SANTABARBARA: UN ERRORE IN CUI NON PERSEVERARE
E' quello di subire l'infernale mania del sondaggio su cose che non sono
sottoponibili a sondaggio ai fini delle decisioni da prendere. La
Costituzione della Repubblica Italiana proibisce in modo assoluto che
l'Italia aderisca alla guerra che si sta preparando. Punto e basta. Non ci
puo' essere discussione su questo. Quand'anche il 99,9 per cento della
popolazione italiana, colto da un impeto di follia, fosse favorevole alla
guerra, la legge alla base del nostro ordinamento giuridico la vieta: prima
devono fare il colpo di stato.
Si mette forse in discussione se l'omicidio meriti un premio? Si fa forse
un sondaggio per sentire se il popolo italiano e' favorevole o contrario
alla propagazione della peste? Si apre il dibattito sull'opportunita' di un
genocidio? Si lascia nelle mani del governo il potere di mandare persone
alle camere a gas?
E allora: non cadiamo nella trappola di dover stare a discutere cio' che
non puo' e non deve essere messo in discussione: la legge fondamentale del
nostro paese proibisce la guerra, chi e' favorevole ad essa e' un
fuorilegge e un golpista, oltre che un propugnatore di omicidi di massa.
Se governo e parlamento e presidente della Repubblica rispettivamente
proporranno e delibereranno e permetteranno l'avallo e la partecipazione
dell'Italia alla guerra che si va preparando, occorrera' allora che siano
messi in condizione di non nuocere, giudicati da una corte di giustizia, e
condannati alla pena edittale per il crimine grande commesso.
Quale che sia il voto del pubblico del festival di Sanremo.
3. RIFLESSIONE. ENRICO PEYRETTI: LA RAGIONE DELLE RAGIONI CONTRO LA GUERRA
[Questo che presentiamo e' il testo della prima parte di una lezione su
"radici e realta' del pacifismo" tenuta da Enrico Peyretti (per contatti:
peyretti@tiscalinet.it) a Roma presso l'Universita' La Sapienza il 18
aprile 2002 (versione ampliata e rinnovata di uno scritto apparso sul
mensile torinese "il foglio" - sito: www.ilfoglio.org - nel n. 288 del
gennaio 2002, poi incluso con modifiche in AA. VV., Bisogna difendere la
societa', di AA. VV., Beppe Grande Edtore, Torino 2002, pp. 43-48). Lo
abbiamo ripreso dall'eccellente sito del Centro Sereno Regis di Torino (per
contatti: e-mail: regis@arpnet.it, sito: www.arpnet.it/regis/). Enrico
Peyretti e' una delle pi prestigiose figure della cultura della pace e
della nonviolenza. Opere di Enrico Peyretti: (a cura di), Al di l del ănon
uccidereä, Cens, Liscate 1989; Dallâalbero dei giorni, Servitium, Sotto il
Monte 1998; La politica pace, Cittadella, Assisi 1998; Per perdere la
guerra, Beppe Grande, Torino 1999. E' diffusa attraverso la rete telematica
Difesa senza guerra. Bibliografia storica delle lotte nonarmate e
nonviolente]
1 - La ragione delle ragioni contro ogni guerra e' che non e' assolutamente
ammissibile, ne' moralmente ne' politicamente, uccidere persone umane.
Se vogliamo non essere uccisi, noi e i nostri cari, i nostri concittadini,
dobbiamo non uccidere nessuno.
Una legge vale soltanto se vale per tutti. Dunque, il "non uccidere" non e'
soltanto un precetto religioso, e' il fondamento di tutta la convivenza
politica, che oggi e' planetaria, non piu' regionale, locale.
Qualcuno dice: il tuo e' fondamentalismo pacifista. Accetto, ma non nel
senso totalitario e violento che ha oggi il termine fondamentalismo.
Accetto nel senso che il "fondamento", la "radice" della convivenza tra
esseri umani, cioe' della pace, e' il rifiuto di risolvere una controversia
con l'uccidere l'avversario.
"Non uccidere" e' il fondamento di tutto. E' il tabu' negativo, necessario
ad aprire la via delle soluzioni positive. Non si pensa e non si cerca la
soluzione vitale dei conflitti, fino a quando non ci si proibisce
assolutamente la soluzione mortale.
*
2 - Ma, si e' sempre detto - persino ripetutamente nella bibbia ebraica -
che chi uccide perde il diritto alla vita.
Eppure, nella stessa bibbia ebraica, Dio protegge la vita di Caino (Genesi
4, 15). Dio ama il peccatore e non vuole la sua morte ma che si converta e
viva (Ezechiele 33, 11). Per non dire dell'evoluzione della legge ebraica
nel Vangelo di Gesu'.
Non soltanto sono necessarie prove pubbliche assolutamente inoppugnabili
per ritenere colpevole di omicidio colui che condanniamo a morte (col
potere giudiziario, o con la guerra, che pero' sempre sicuramente uccide in
massima parte innocenti: la guerra e' l'antitesi del diritto, ha scritto
ripetutamente Bobbio), ma soprattutto l'evoluzione morale umana esige che
si riconosca che una persona umana non si riduce mai ai suoi atti, e'
sempre superiore alle proprie azioni, anche le piu' colpevoli, percio' non
va mai soppressa.
*
3 - Certamente puo' essere anche ucciso (se davvero, ma proprio davvero,
non c'e' nessun altro mezzo per fermarlo) chi sta in quel momento per
uccidere altri. Colui che sta per essere ucciso puo' anche rinunciare ad
uccidere per la propria difesa, se sente, come chi e' arrivato alla piu'
grande nonviolenza, maggiore ripugnanza ad uccidere che a morire (lo dice
Simone Weil, La prima radice, Leonardo 1996, pp.142-143), perche' sa che si
nega e si deforma la propria umanita' non nel morire ma nell'uccidere. Ma
senza dubbio bisogna difendere altri, anche al costo estremo di uccidere
l'omicida potenziale nel momento immediato in cui sta per uccidere. In quel
momento, e non dopo, quando non e' piu' in grado di offendere, altrimenti
e' vendetta, non e' difesa. E la vendetta non toglie alcun male, ma
soltanto e sempre aggiunge male a male.
*
4 - Se si da' veramente il caso di dover addirittura uccidere chi e'
nell'atto di uccidere altri, questo lo puo' giudicare solamente la persona
che si trova a potere e dovere agire in quella sciagurata circostanza.
Nessun altro puo' decidere sostituendosi alla coscienza personale in un
caso talmente grave. Nessuno puo' ordinare ad altri di uccidere. Questo
chiaro principio distrugge la possibilita' morale, cioe' la compatibilita'
con la decenza umana, di qualunque esercito. Infatti, un esercito riduce
gli esseri umani a strumenti per uccidere. Il gen. Carlo Jean, allora
presidente del Centro Alti Studi della Difesa, parlando a studenti delle
scuole superiori, a Torino, il 29 marzo 1996 (ero presente e prendevo
appunti) disse letteralmente: "Nell'esercito e' necessaria la disciplina
(...) perche' combattere significa uccidere. Occorre l'esecuzione
automatica dell'ordine". Ora, dove c'e' esecuzione automatica, non c'e'
piu' un uomo, ma un automatismo, un automa, un uomo svuotato della prima
qualita' umana, la responsabilita'. Dove c'e' esercito, cessa l'umanita'.
Puo' darsi che sia sciaguratamente necessario uccidere chi sta per
uccidere, ma questo non puo' comandarlo nessuno. L'esercito e' l'apparato
che comanda di uccidere, persino sotto pena di morte per chi non obbedisce.
L'esercito e' moralmente impossibile. E' l'antitesi della morale
fondamentale.
*
5 - A questo proposito, si puo' fare il caso della lotta armata nella
Resistenza al nazifascismo, e di ogni simile lotta. Quello era, se
vogliamo, un "esercito" veramente di volontari, non di leva, non di
professionisti, non una struttura militare autoritaria stabile. Meglio, la
Resistenza fu un movimento soprattutto politico (sia armato sia non armato;
e ben piu' ampio e lungo del periodo 1943-45), e non militare: l'uso delle
armi era puramente strumentale e non fondativo, come e' nei movimenti
militari o militaristici (cfr Lidia Menapace, Alcuni ricordi e riflessioni,
in Centro Studi Difesa Civile, La Resistenza non armata, Sinnos, Roma 1995,
p. 103; Enrico Peyretti, Studi sulla Resistenza non armata, in "Rocca", I
agosto 1995). Tuttavia, proprio l'esperienza della Resistenza dimostra che,
quando si usano le armi, o perche' non si vede alternativa (allora era
quasi nulla la cultura della nonviolenza attiva), o non la si crede
possibile, quell'uso puo' facilmente indurre ad una progressiva
insensibilita' per la vita umana. Pur giusta nei suoi fini e giustificabile
nei suoi mezzi, la lotta di Resistenza diede luogo anche ad alcuni episodi
non giustificabili (uccisioni gratuite, vendette), ad uno dei quali io
assistetti da bambino, come ho raccontato e scritto piu' volte. Cio'
dimostra non l'ingiustizia della Resistenza, ma l'abbassamento morale
facilmente indotto dalla pratica dell'arma che uccide.
*
6 - Si puo' forse uccidere in anticipo chi si teme o si sospetta che
cerchera' di uccidere altri? E' il caso di chi fa guerra, cioe' vuole
uccidere, il potenziale terrorista; e' il caso degli omicidi politici di
Israele contro i sospetti di terrorismo. Nessuna legge civile lo permette.
Attribuirsi un tale potere sovrastante distrugge ogni convivenza, permette
ogni abuso, mette tutti in pericolo. Se lo permettono la "ragion di stato",
la "licenza di uccidere" dei vari servizi segreti, il potere militare, ma
basta avere un po' di ragione e di pieta' umana per vederne l'orrore e la
forza distruttiva di ogni rapporto sociale umano. Questa licenza scatena la
gara a chi uccide per primo. Ogni tentativo compiuto dal diritto per
addolcire la durezza dei rapporti va perduto. Ogni sicurezza e' diminuita,
lungi dall'essere assicurata.
*
7 - Ma se si sa con certezza che uno sta preparando l'uccisione di altri?
Minacciare violenza e' gia' violenza. Preparare effettivamente violenza e'
gia' violenza. Allora il potere pubblico deve arrestare chi fa questo,
esibendo subito le prove in un processo legale, con tutte le garanzie, ma
assolutamente non puo' ucciderlo, pena, oltre l'ingiustizia, quel degrado
sociale che abbiamo appena visto.
*
8 - Ma dove, come nella societa' internazionale di oggi, non c'e' alcun
potere pubblico autorizzato e riconosciuto, e dove, contro i patti
sottoscritti - la Carta dell'Onu che e' il nuovo diritto internazionale di
pace, diritto vigente e violato sistematicamente - regna ancora di fatto
l'anarchia e la legge della forza, puo' forse, in questo caso, chi ne ha la
forza e i mezzi punire preventivamente, fermare anche con la morte, chi e'
accertato che sta preparando omicidi? Il caso e' serio, senza dubbio. E' il
caso accampato da chi ha deciso la guerra seguita all'11 settembre. La
risposta non e' facile.
Direi almeno questo: come un cittadino qualunque, senza essere pubblico
ufficiale, puo' arrestare un ladro colto in flagrante, non certo per
ucciderlo o farlo linciare, ma solo per consegnarlo alla giustizia per un
regolare processo, cosi' ha una legittima competenza ad agire sul piano
internazionale, stante quella situazione di anarchia, chi opera per fare
evolvere questa situazione selvaggia nella direzione di una organizzazione
piu' civile e legale della convivenza tra i popoli, e non mantiene
soltanto, a vantaggio della propria maggiore forza, tale situazione di
assenza di legge. Se gli Stati Uniti, che sono il 5% dell'intera umanita',
lavorassero per l'autorita' dell'Onu, per il tribunale penale
internazionale, per la giustizia economica planetaria, per la salvaguardia
dell'ambiente naturale di tutta l'umanita' (che essi inquinano piu' di
tutti), allora la loro azione di necessita' contro i crimini internazionali
sarebbe credibile e scusabile. Ma davvero non e' questa la loro linea. La
regola superiore della loro azione e' il loro interesse particolare,
economico, energetico, culturale, politico. Non sono degni, neppure
nell'emergenza provvisoria, di governare e giudicare il mondo. Indegni come
sono, governano e giudicano il mondo.
*
9 - Ma anche quella chiara legittima difesa, che dicevamo, mediante
l'omicidio di chi e' sul punto di uccidere, va circondata di una gran
quantita' di limiti.
9/1 - Anzitutto, non c'e' un "dovere" di uccidere, neppure in quel caso.
Gandhi l'aveva cosi' definito, ma Jean-Marie Muller (nel libro filosofico
Le principe de non-violence, Un parcours philosophique, Desclee de Brouwer,
Paris, 1995, pp. 62 e 71) corregge Gandhi: il dovere e' sempre di non
uccidere, quella circostanza tragica e' una necessita', e dove c'e'
necessita' non c'e' atto morale, dunque non c'e' ne' dovere ne' diritto. Il
dovere e' difendere chi e' minacciato; la necessita' - ove occorra davvero
quel caso estremo - e' uccidere. Questo uccidere e' ancora un male, che non
viene punito per la forte attenuante che e' il diritto alla vita
dell'aggredito. Uccidere, dunque, non e' mai dovere e tanto meno diritto.
Gli eserciti, invece, se ne fanno tradizionalmente, e spesso fino ai nostri
giorni, dovere e diritto e vanto, merito e gloria, come se fosse un bene.
9/2 - In secondo luogo, la legittima difesa omicida deve essere vissuta
come un fallimento triste e vergognoso delle relazioni umane, senza alcuna
soddisfazione e gloria. E colui la cui vita e' stata salvata mediante la
morte di un altro, pur colpevole di minaccia mortale in atto, deve sentirsi
in debito verso colui che e' stato ucciso, di cui nessuno puo' giudicare le
intime responsabilita', sconvolgimenti, annebbiamenti, malvagita'.
Il male del mondo non e' separabile col coltello, in modo da farcene
davvero puri e innocenti, e attribuirlo tutto agli altri, fossero anche i
piu' chiaramente colpevoli. Se qualcuno fa del male, anch'io, per le vie
misteriose della compartecipazione e interdipendenza umana, ne sono in
parte responsabile. Siamo tutti in parte responsabili, che lo vogliamo
ammettere o no. E meno lo riconosciamo, piu' siamo responsabili.
*
10 - Abbiamo detto qualcosa sull'uccidere di necessita', di vera forzata
necessita'. L'esperienza e il dibattito attuale richiedono un cenno
all'uccidere per pieta', o addirittura per amore, la cosiddetta eutanasia,
legalizzata in qualche paese (anche se questo fenomeno e' lontano dalla
guerra, ma puo' essere indirettamente influenzato e influenzare a sua volta
la pratica e l'abitudine alla guerra endemica e all'armamento privato). In
questo caso, che cosa si toglie al malato inguaribile ed estremamente
sofferente? Non una vita accusata di nuocere, ma un'esistenza estremamente
penosa. Penosa per chi? bisogna chiedersi. Per il malato o per chi e'
coinvolto in vari modi nella sua malattia? Un'esistenza insopportabile per
lui o per noi? Credo che questo sia un nodo cruciale di questo problema
angoscioso. Il quale riguarda questo nostro discorso sulla guerra in quanto
possa relativizzare il rispetto assoluto della vita umana, che in vari modi
ma massimamente nella guerra e' ridotto ad oggetto distruggibile.
*
11 - Basta tutto questo per rendere gli apparati di morte che le societa'
umane organizzate, anche le piu' "civili", non sanno ancora superare
(tribunali, prigioni, capestri, polizie, armi, torture, eserciti, guerre)
aspetti tristi e "osceni" (cioe', da mettere "fuori scena", da velare, da
nascondere, come l'uso del cesso in una casa), non assolutamente da
esibire, da celebrare e di cui vantarsi. E invece vedi che gli stati si
identificano ancora gloriosamente negli eserciti e nelle armi: parate
militari nelle feste nazionali, retoriche patriottarde (anche in risposta
al terrorismo visto come atto di lesa maesta', non di lesa umanita') e via
tristemente dicendo. Follie primitive delle nostre "civilta'" ancora
pre-umane. Molta pena e tristezza e vergogna per tanta ostentata mancanza
di pudore e di sensibilita'.
Alcune di queste cose saranno ancora per lungo tempo necessarie per
convivere alla meno peggio. Lo riconosce anche Gandhi (Teoria e pratica
della nonviolenza, Einaudi 1996, pp. 142-144) per la polizia armata, i
tribunali e le prigioni, ma poi dice che la polizia deve essere educata
alla nonviolenza (c'e' una proposta di legge in questo senso, in Italia,
presentata dopo le violenze poliziesche del luglio 2001 a Genova, firmata
da molti parlamentari).
*
12 - Ma la guerra e' la peggiore di tutte queste tristezze e vergogne, ed
e' la piu' prossima a poter essere eliminata. Non e' facile, ma e'
possibile. Il '900 e' stato il secolo piu' sanguinoso, ma anche il secolo
che piu' di tutti gli altri ha prodotto dei passi verso la liberazione
dalla guerra, nella cultura, nella morale, nella legge internazionale
(Onu), nelle esperienze delle molte lotte nonviolente efficaci (ho raccolto
in una bibliografia circa cento opere e gruppi di opere su casi storici di
difesa senza guerra, casi reali, non sperati).
Non e' impossibile la liberazione storica dalla violenza ufficialmente
organizzata. Resteranno casi di violenza privata, da prevenire e
rintuzzare, senza accrescere la violenza. Ma almeno non si mantengano
istituzioni sociali violente. Non e' impossibile questa liberazione. La
natura umana non e' fatalmente violenta. Dipende molto dalla cultura in cui
ciascuno vive, dai valori privilegiati in una data societa'. L'antropologia
culturale dimostra che esistono societa' nonviolente, su scala minore. Sta
a noi realizzare questa civilta' su ogni scala. Il modello sociale vigente
e' molto violento, ma non e' l'unico possibile. L'apporto delle donne puo'
migliorarlo molto. Tutto cio' e' difficile, ma necessario. Primo: non
rassegnarsi.
*
13 - In conclusione, mi pare chiaro che o la politica si emancipa
progressivamente dalla guerra - dalla "propria" guerra, prima che da quella
altrui - oppure perde tempo e prepara altre tragedie colpevoli. La guerra
(anche questa mondiale in corso contro il terrorismo, anche quella tra
Israele e Palestina) e' il risultato di tempo perso, di errori compiuti, di
imprevidenza. Gorbaciov ha scritto, su "La Stampa" del 3 novembre 2001, Il
decennio perduto: dopo la fine della guerra fredda si poteva "istituire" la
pace e invece si e' "re-istituita" la guerra, producendo il "decennio
orribile" degli anni '90, che prosegue e peggiora nel nuovo secolo.
La colpa non e' soltanto degli "stati canaglia" come si dice comodamente,
ma anche dei potenti che non intendono sottomettersi ad una legge
universale: vedi il rifiuto da parte degli Usa del tribunale
internazionale, dei protocolli di Kyoto, del primato dell'Onu, ecc.; vedi
il rifiuto delle grandi corporations transnazionali di sottrarre alimenti e
medicinali al criterio unico e assoluto del mercato, contro i primari
bisogni e diritti umani. I piu' forti e potenti danno il cattivo esempio ai
piu' incivili e violenti, e li usano senza scrupoli fin quando fa loro
comodo, poi li accusano di tutto e li caricano di bombe.
La causa e' in una cultura falsamente politica, da rifare dalle fondamenta:
la politica e' pace (ha raccolto in un libro con questo titolo, Cittadella
1998, miei scritti su questo tema), oppure non e' politica; e' arte della
convivenza nella "polis" locale e in quella universale, oppure non e'
politica; e' la scienza della soluzione costruttiva e non distruttiva dei
naturali conflitti tra gruppi umani, oppure non e' politica. Non e'
politica quella che include tra i suoi mezzi la morte data, come non e'
medicina quella che fa ammalare e soffrire inutilmente, anche se si
chiamasse medico chi la esercita, come non e' alimento quello che avvelena,
anche se fosse venduto come alimento.
Ahime', il mondo e' in cattive mani, non e' soltanto minacciato dai
"cattivi" di turno.
Con tutto il giusto realismo, con tutto il senso della difficolta' e della
necessita' di decidere nei casi controversi, con tutti i sani dubbi critici
su cio' che a ciascuno di noi sembra piu' plausibile e giusto, dobbiamo
restare critici dell'esistente e costruttivi e creativi, e percio' anche -
ne sono convinto - molto diffidenti delle ragioni portate dai piu' potenti.
Ragioni che hanno molti modi forti per farsi sentire e cosi' sopraffanno le
ragioni contrarie. La potenza ottunde l'intelligenza e riduce l'onesta',
perche' il potere piu' e' forte, piu' teme per se', piu' piega le ragioni
nel senso del proprio mantenimento, a tutti i costi, anche a spese altrui.
Nella storia, la forza e lo stato piu' potente sono sempre stati quelli che
hanno fatto piu' male e inflitto piu' dolori ai poveri e ai piccoli. I
benefici elargiti dai potenti sono stati solo dei "sottoprodotti" dei loro
scopi. Cosi' e' anche oggi. Non e' il potere sugli altri che promuove
l'umanita', ma il potere di ognuno su di se', sulle proprie tendenze
deteriori. Questi "giusti" ci sono, nascosti, e sono loro che tengono
ancora in piedi il mondo, nonostante i potenti.
In ogni conflitto, anche il piu' acuto, c'e' un interesse comune alle parti
(se non sono ridotte e sospinte nella disperazione piu' distruttiva):
vivere. L'inviolabilita' di ogni vita e' il terreno di alleanza su cui
basare accordi nei quali ciascuno rinuncia a qualcosa per guadagnare
qualcosa, che e' almeno il vivere. Affinche' l'avversario ami la sua vita e
cosi' anche la nostra, bisogna collaborare perche' egli possa avere una
vita degna. L'equita' e' la vera vittoria di tutti.
Merita sviluppare (come ho tentato in altra sede) questo pensiero: il "non
uccidere" non e' soltanto un dovere, e' anche un diritto, proprio come il
non essere uccisi. Sembra una negazione, ed e' un'affermazione.
Il fondamento del pacifismo e' il non uccidere. Ma il pacifismo non basta.
Il fondamento di un valido pacifismo e' la cultura nonviolenta, per due
ragioni: perche' questa va alle radici della guerra; e perche' la
nonviolenza positiva e attiva inventa e costruisce le alternative alla
guerra. Infatti, non ha senso sufficiente condannare la guerra senza
costruire le alternative. Ha senso, ma non sufficiente. Ha senso perche' il
no al male e' gia' di pieno diritto, ed e' la premessa al si' dell'azione
giusta. Anche se non fossi capace di dire alcun si', dovrei dire il no
teorico e pratico alla violenza.
Percio' continueremo dicendo come la nonviolenza include e supera il
pacifismo, e vedendo alcune possibili alternative alla guerra.
4. MAESTRE. VANDANA SHIVA: SE INVECE
[Da Vandana Shiva, Il mondo sotto brevetto, Feltrinelli, Milano 2002, p.
128. Vandana Shiva, scienziata e filosofa indiana, direttrice di importanti
istituti di ricerca e docente nelle istituzioni universitarie delle Nazioni
Unite, impegnata non solo come studiosa ma anche come militante nella
difesa dellâambiente e delle culture native, e' oggi tra i principali punti
di riferimento dei movimenti ecologisti, femministi, di liberazione dei
popoli, di opposizione a modelli di sviluppo oppressivi e distruttivi, e di
denuncia di operazioni e programmi scientifico-industriali dagli esiti
pericolosissimi. Opere di Vandana Shiva: Sopravvivere allo sviluppo, Isedi,
Torino 1990; Monocolture della mente, Bollati Boringhieri, Torino 1995;
Biopirateria, Cuen, Napoli 1999, 2001; Vacche sacre e mucche pazze,
DeriveApprodi, Roma 2001; Terra madre, Utet, Torino 2002; Il mondo sotto
brevetto, Feltrinelli, Milano 2002]
Se i nostri sistemi politici ed economici lasceranno campo libero alla
pirateria e a comportamenti predatori, le leggi sui brevetti favoriranno la
biopirateria e la pirateria intellettuale, istituzionalizzando la
bioservitu' e la schiavitu' intellettuale. Se, invece, noi rifonderemo i
nostri sistemi politici ed economici sulla democrazia e la diversita', le
leggi sui brevetti avranno realmente lo scopo di premiare la vera
creativita' e non consentiranno di oltrepassare limiti etici ed ecologici
che minacciano il sostrato stesso della vita nella natura e nella societa'.
5. RIFLESSIONE. AUGUSTO CAVADI: QUANDO LE RELIGIONI NON SONO CAUSA DI CONFLITTO
[Ringraziamo Augusto Cavadi (per contatti: acavadi@lycos.com) per averci
messo a disposizione questo suo articolo apparso sull'edizione palermitana
di "Repubblica" il primo settembre 2002. Augusto Cavadi e' docente di
filosofia, storia ed educazione civica, impegnato nel movimento antimafia e
nelle esperienze di risanamento a Palermo, collabora a varie qualificate
riviste che si occupano di problematiche educative e che partecipano
dellâimpegno contro la mafia. Opere di Augusto Cavadi: Per meditare.
Itinerari alla ricerca della consapevolezza, Gribaudi, Torino 1988; Con
occhi nuovi. Risposte possibili a questioni inevitabili, Augustinus,
Palermo 1989; Fare teologia a Palermo, Augustinus, Palermo 1990; Pregare
senza confini, Paoline, Milano 1990; trad. portoghese 1999; Ciascuno nella
sua lingua. Tracce per un'altra preghiera, Augustinus, Palermo 1991;
Pregare con il cosmo, Paoline, Milano 1992, trad. portoghese 1999; Le nuove
frontiere dell'impegno sociale, politico, ecclesiale, Paoline, Milano 1992;
Liberarsi dal dominio mafioso. Che cosa puo' fare ciascuno di noi qui e
subito, Dehoniane, Bologna 1993, 2a ed.; Il vangelo e la lupara. Materiali
su chiese e mafia, 2 voll., Dehoniane, Bologna 1994; A scuola di antimafia.
Materiali di studio, criteri educativi, esperienze didattiche, Centro
siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato", Palermo 1994); Essere
profeti oggi. La dimensione profetica dell'esperienza cristiana, Dehoniane,
Bologna 1997; trad. spagnola 1999; Jacques Maritain fra moderno e
post-moderno, Edisco, Torino 1998; Volontari a Palermo. Indicazioni per chi
fa o vuol fare l'operatore sociale, Centro siciliano di documentazione
"Giuseppe Impastato", Palermo 1998, 2a ed.; voce "Pedagogia" nel cd- rom di
AA. VV., La Mafia. 150 anni di storia e storie, Cliomedia Officina, Torino
1998, ed. inglese 1999; Ripartire dalle radici. Naufragio della politica e
indicazioni dall'etica, Cittadella, Assisi, 2000; Le ideologie del
Novecento, Rubbettino, Soveria Mannelli 2001]
Da oggi, e sino a posdomani [questo articolo e' del primo settembre 2002],
Palermo ospitera' un notevole convegno su "Religioni e culture tra
conflitto e dialogo". L'Arcidiocesi di Palermo e la Comunita' di
Sant'Egidio di Roma hanno invitato esponenti di rilievo delle piu'
importanti comunita' religiose mondiali: non solo cristiane (cattoliche,
ortodosse e protestanti), dunque, ma anche ebraiche, islamiche, induiste,
buddiste e di altre religioni orientali. L'evento e' di forte richiamo
mediatico e, in questa fase di enfatizzazione di ogni happening in cui
svolazzano tonache nere e baluginano zucchetti rossi, non mancheranno i
commenti pomposamente retorici. Non meno banale risulterebbe pero' la
posizione "laicista" di chi decidesse di snobbare la notizia, ritenendola
meritevole - al piu' - di qualche accenno ironico. Penso infatti che tre
intere giornate in cui si riflette polifonicamente sulla ricaduta
storico-politica dei diversi atteggiamenti religiosi registrabili sulla
faccia del pianeta costituiscano un appuntamento che interroga seriamente
le coscienze davvero laiche, siano esse credenti anche in senso religioso o
solo nei valori umani della giustizia e della pace.
Telegraficamente evidenzierei in proposito quattro osservazioni, di rilievo
crescente. La prima e' di segno decisamente positivo: iniziative come
questa danno contenuto alle chiacchiere sulla mediterraneita' della Sicilia
e sul suo ruolo di ponte fra l'Occidente e l'Oriente come fra il Nord e il
Sud. Non basta essere stati crocevia di civilta' al tempo di Federico II:
le funzioni storiche di raccordo interculturale non si tramandano
meccanicamente di epoca in epoca ma vanno, per cosi' dire, guadagnate e
riguadagnate sul campo. Poi, magari, puo' affacciarsi qualche problemino
d'immagine (in quale delle varie lingue abitualmente adoperate il
presidente Cuffaro porgera' ai convegnisti il saluto inaugurale?).
Una seconda osservazione e' un po' piu' problematica perche' esprime una
riserva sulla rappresentativita' delle varie correnti interne alle
comunita' religiose presenti. Per limitarmi a quella che conosco piu' da
vicino, la Chiesa cattolica, noto - ad esempio - che cardinali, vescovi e
laici invitati sono quasi tutti esponenti della linea wojtyliana
maggioritaria: se si eccettua lo storico Pietro Scoppola, in piu' di
un'occasione voce critica rispetto alle scelte temporali delle gerarchie
ecclesiastiche e dei politici che le affiancano, non riconosco nel depliant
alcun altro nome, almeno parzialmente "dissenziente", invitato in quanto
rappresentante della Chiesa cattolica. Persino nella tavola rotonda
dedicata alla "Autocritica delle religioni" la Chiesa cattolica sara'
rappresentata da una teologa palermitana molto colta, molto comunicativa e
molto allineata sulle direttive magisteriali. Questa logica puo' lasciare
supporre, agli occhi dell'osservatore esterno, un'omogeneita' culturale e
sociologica che non rispecchia la varieta' e la vivacita' delle posizioni
oggi attive nel panorama ecclesiale.
Una terza osservazione tocca un argomento particolarmente vicino alla
nostra sensibilita' "locale": la questione mafiosa come esemplificazione
storica della tematica generale "Conflitti e riconciliazione".
Difficilmente si sarebbe potuto scegliere per parlarne una "testimone"
piu' appropriata di Rita Borsellino. A lei, affettuosamente, raccomanderei
di non tacere - per amore di verita' - quanto e' emerso tante volte in
contesti differenti: che cioe' nel "conflitto" fra mafia e antimafia le
personalita' cattoliche (vescovi, preti e fedeli), e le stesse strutture
organizzative ecclesiastiche, non sono state sempre dalla parte giusta,
come don Pino Puglisi o don Peppino Diana: o perche' hanno perseguito una
comoda e illusoria "neutralita'" o perche', addirittura, si sono schierate
dalla parte dei mafiosi.
Una quarta osservazione puo' essere solo accennata perche' tocca il cuore
della questione che sara' affrontata nei prossimi tre giorni. Le religioni
sono state, storicamente, motivo di divisione fra i popoli e hanno
legittimato violenze incredibili. A che condizione potrebbero, invertendo
rotta, portare un contributo di segno opposto? La ricerca teologica e
filosofica che ritengo piu' avanzata e che, certamente, e' anche la piu'
contrastata dalle autorita' religiose, ha chiarito dei punti essenziali.
Quando le religioni si autointerpretano come sistemi di verita'
(dogmatiche) e codici di comportamenti (etici) non possono non scontrarsi
reciprocamente: e, come sostiene Hans Kung, non ci puo' essere pace fra i
popoli se non c'e' pace fra le loro religioni. Quando invece le religioni
prendono consapevolezza di se' come espressione dei desideri strutturali e
costanti dell'umanita'; quando si presentano come "racconti
dell'interiorita' dell'uomo" (Eugen Drewermann) nella sua incessante
esperienza del divino; quando, insomma, pretendono di essere solo
testimonianze storiche sia della contemplazione poetica del mistero
trascendente sia del servizio disinteressato ai poveri, allora cessano di
vedersi in competizione ed imparano a collegarsi come frammenti dell'unico
grande mosaico. E, imparando la finitezza del loro sguardo sul mondo,
possono insegnare ai popoli la strada dell'umilta' e della cooperazione.
6. INIZIATIVE. UN PONTE PER...: CAMPAGNA CONTRO L'EMBARGO E LA GUERRA ALL'IRAQ
[Riceviamo e diffondiamo]
Care amiche e cari amici,
anche questo anno "Un ponte per..." rinnova il suo impegno, con maggiore
forza, contro le sanzioni economiche che ormai da dodici anni colpiscono
l'Iraq ed i venti di guerra che minacciano ulteriormente la gia' grave
situazione di questo popolo.
La guerra non e' mai inevitabile!
Per questo vi chiediamo di aderire alla Campagna contro l'embargo e la
guerra all'Iraq.
Visitando il nostro sito (www.unponteper.it) troverete informazioni
dettagliate sulla campagna ma anche su come fare pressione sulle
istituzioni e sulla rottura concreta dell'embargo attraverso la vendita di
datteri iracheni.
Per ogni informazione, dubbio, curiosita' non esitate a scriverci
all'indirizzo bottega@unponteper.it
7. DEMOCRAZIA. CAMPAGNA SBILANCIAMOCI: UNA FINANZIARIA CHE COLPISCE I DIRITTI
La campagna "Sbilanciamoci" ha diffuso un comunicato di serrata critica
alla proposta di Finanziaria 2003 formulata dal governo.
"La finanziaria 2003, i cui contenuti sono stati annunciati negli incontri
con le parti sociali, portera' a colpire ulterioremente i diritti sociali
nella scuola (riduzione di classi e personale) e nella sanita' (riduzione
dei posti letto, taglio ai medicinali) e ad abbassare ulteriormente gli
standard dei servizi sociali. Il taglio di 8 miliardi di euro alle Regioni
e agli enti locali costringera' questi ultimi ad operare riduzioni al
welfare ed in particolare dei servizi sociali locali. Una scelta questa che
portera' a limitare ulteriormente l'esercizio dei diritti costituzionali
alla salute e all'istruzione, che gia' in questi anni sono stati
pesantemente colpiti ed intaccati. Quella del 2003 e' una finanziaria
antisociale".
Nel comunicato si annuncia che "nei prossimi giorni la campagna
Sbilanciamoci rendera' nota la propria "controfinanziaria" dal punto di
vista dei movimenti per l'ambiente, la pace, i diritti, con delle proposte
puntuali".
Altreconomia, Antigone, Arci, Arci servizio civile, Associazione Ambiente e
Lavoro, Associazione Finanza Etica, Associazione Obiettori Nonviolenti,
Associazione per la pace, Campagna per la Riforma della Banca Mondiale,
Cittadinanzattiva, Cnca, Consorzio Italiano di Solidarieta',
Ctm-Altromercato, Donne in nero, Emergency, Legambiente, Lila, Lunaria,
Mani Tese, Medici Senza Frontiere, Pax Christi, Uisp, Unione degli
Studenti, Unione degli Universitari, Wwf.
Per informazioni: tel. 068841880, e-mail: sbilanciamoci@lunaria.org
8. LIBRI. PINO FERRARIS RECENSISCE "LE AMBIGUITA' DEGLI AIUTI UMANITARI" DI
GIULIO MARCON
[Questa recensione abbiamo estratto dal quotidiano "Il manifesto" del 27
settembre 2002]
Giulio Marcon vuole agitare le acque e questo suo libro fara' discutere. Il
titolo del volume (Le ambiguita' degli aiuti umanitari, Feltrinelli, pp.
183, euro 9) non annuncia pero' la radicalita' delle analisi e delle
proposte. Indagine critica sul terzo settore annota inoltre con sobrieta'
il sottotitolo in copertina. L'indagine e' precisa, ricca di dati e di
date, fitta di informazioni dettagliate e di riferimenti concreti. Non c'e'
ideologia. Ma il filo che conduce il rigore empirico dell'analisi addoppia
tensione ideale e passione politica. "Ho scritto questo libro 'dal di
dentro', con alle spalle ormai oltre vent'anni di presenza e di lavoro in
organizzazioni di volontariato, umanitarie, di terzo settore e pacifiste".
Cosi' nell'introduzione. Non si lasciano dubbi circa il contenuto di
esperienza dal quale scatta l'impulso alla riflessione e alla ricerca. La
critica dura, la denunzia aspra viene dunque dall'interno del movimento
stesso. La polemica non e' fatta per demolire, ma per costruire. Scegliere,
sciogliere o tagliare i nodi, e' indispensabile per andare avanti. Il terzo
settore si trova ad un bivio. Lungo i cinque densi capitoli di questo
volume Marcon descrive come, all'interno dei processi della globalizzazione
neoliberista degli anni Novanta, il terzo settore accresca
contemporaneamente le sue dimensioni e le sue ambivalenze. Negli anni `80
si parlava di volontariato. Quando, negli anni `90, prevale la definizione
"terzo settore", il mutamento del nome segna anche una trasformazione della
realta'. L'impegno sociale diffuso, molecolare e autogestito nella
costruzione cooperativa di soluzioni concrete "nel basso" ai disagi della
vita sociale, qualifica ancora oggi l'enorme maggioranza del popolo che
abita la variegata ed eterogenea galassia. Tuttavia "poche organizzazioni
di rilevanza nazionale, i gulliver, gestiscono ormai il grosso delle
risorse economiche e umane, nonche' orientano le politiche e gestiscono i
rapporti con le istituzioni, i partiti, il mondo economico, i media". Sono
queste organizzazioni che veicolano l'immagine, il modello, l'identita' del
terzo settore. L'altra faccia di questo mutamento significa pero' assenza
di rappresentanza e perdita di identita' del vastissimo arcipelago delle
associazioni del volontariato lillipuziano. La vittoria del terzo settore
coincide con l'accresciuto peso delle grandi "organizzazioni non
governative" che gestiscono gli aiuti umanitari e delle potenti "imprese
sociali" che si inseriscono nella crisi del Welfare state.
"Emergenza, guerre e organizzazioni umanitarie" titola il capitolo nel
quale si descrive con grande efficacia la regressione che subisce l'azione
solidale nel tempo delle ininterrotte emergenze umanitarie (guerre,
epidemie, carestie, catastrofi naturali). Gestire le "ambulanze mondiali"
del pronto soccorso comporta il rischio di una perdita di senso del proprio
agire. E' difficile evitare di venire travolti dalla sequenza infinita
degli interventi "mordi e fuggi" con i loro effetti perversi; e' difficile
non essere coinvolti in quella degenerazione della solidarieta' prodotta
dalla spettacolarizzazione della sofferenza che promuove la vendita su
larga scala delle indulgenze umanitarie ("inviate un bonifico bancario e
sarete assolti").
Nelle pagine dedicate all'"umanitarismo militare" filtra poi esplicitamente
la biografia, entrano in gioco i valori profondi dell'esperienza
esistenziale. La "missione Arcobaleno" nella guerra del Kosovo appare come
l'emblema estremo della possibile involuzione dell'azione umanitaria. Qui
non si tratta di "autoambulanze" che vengono chiamate "al seguito", ma di
"missionari" che sono comandati "alla testa" degli eserciti. In questo caso
il coinvolgimento delle organizzazioni umanitarie e' intrinseco alla
legittimazione e alla definizione di quella guerra che si nomina
umanitaria. Non si tratta di un ossimoro linguistico ma di un lacerante
paradosso conficcato dentro la vita delle persone e dentro la storia.
L'intervento del terzo settore non e' pero' soltanto questo. La presenza
del volontariato nel portare aiuto e costruire pace nel "decennio
jugoslavo" e' stata assolutamente prevalente. Sono numerose le Ong che
salvaguardano la loro indipendenza economica e la loro autonomia critica.
Il capitolo che parla della traiettoria di espansione dei gulliver che si
inseriscono nella crisi dello stato sociale ha questo titolo eloquente: "il
terzo settore tra business e parastato". Le ambivalenze che segnano lo
sviluppo delle imprese sociali nell'ultimo decennio stanno dentro le
contraddizioni e le ambiguita' della evoluzione del welfare, tra tentativi
di riforma che vorrebbero andare verso un sistema piu' ampio e decentrato
di inclusione e spinte di contro-riforma che puntano al secco
ridimensionamento e alla privatizzazione. Con il nuovo governo di destra le
linee di tendenza si fanno ormai chiare.
I cittadini, sia negli ambiti di vita che negli ambiti di lavoro, non sono
piu' visti come portatori di diritti in un sistema di solidarieta' (diritti
sociali e welfare, diritto del lavoro e contratto collettivo). Essi, in una
post-modernita' dai tratti ottocenteschi, dovrebbero tornare ad essere una
folla di singoli individui bisognosi. I forti si autotutelano accedendo
privatamente ai servizi e contrattando individualmente la propria pregiata
professionalita' sul mercato del lavoro. Per i meno forti, per i piu'
deboli, ai bisogni della vita rispondera' un welfare residuale e a basso
costo dato in appalto alle imprese sociali. Negli ambiti di lavoro si
auspica la presenza di un sindacalismo parastatale di patronato che
gestisca ammortizzatori sociali, occupabilita' e contratti individuali.
Il progetto del capitalismo neoliberista e compassionevole e' netto. I
soggetti che lo promuovono sono sulla ribalta: Confindustria, Compagnia
delle opere e governo Berlusconi. I punti di riferimento sono ormai
precisi: il modello lombardo del welfare di Formigoni e il "libro bianco"
sul lavoro di Maroni. Il procedere di questo disegno ha generato
discussione, polemiche e divisioni nel sindacato. Nelle sedi ufficiali
dominate dai gulliver del terzo settore invece non si parla di politica ma
soprattutto di agevolazioni fiscali e di finanziamenti.
In queste acque chete e stagnanti Marcon intende lanciare il sasso,
provocare discussione e, se necessario, separazione: "E' tempo che ognuno
vada per la propria strada senza rimpianti per i sempre molto unificanti
"corporativismi" di categoria". L'autonomia, l'autogestione, la critica
politica e sociale e la tensione ideale vogliono essere i cardini di un
messaggio di "rigenerazione" che nell'area lillipuziana e maggioritaria dei
volontari associati trova lievito prezioso. Ma i margini delle mediazioni e
gli spazi di ambivalenza si riducono non solo perche' in questi tempi di
guerre infinite e di radicalismo liberista le classi dirigenti tendono a
porre drastici aut-aut, ma anche perche' quella che e' la galassia del
terzo settore appare sempre piu' penetrata dal nuovo movimento globale che
chiede alternative.
Nell'introduzione Marcon indica la polarita' tra due incompatibili
"capitali" del terzo settore. Ginevra, centro di un "asettico opificio
umanitario" popolato dalle sedi delle grandi agenzie umanitarie
internazionali e dalle rappresentanze delle potenti Organizzazioni non
governative dove i burocrati della solidarieta' si scambiano scartoffie e
finanziamenti. Porto Alegre dove un popolo vivo di volontari scambia saperi
ed esperienze, concorda progetti di immediata e positiva trasformazione
sociale e costruisce le reti di una socialita' dal basso costruttiva e
critica.
L'ultimo capitolo e' dedicato alla descrizione dello strano "movimento dei
movimenti". Nuovo e strano questo movimento perche' non e' il risultato
della mobilitazione tradizionale trascinata da una avanguardia politica ed
ideologica e non riproduce nemmeno le dinamiche della spontaneita'
fusionale del `68. E' un movimento che nasce dalla confluenza comunicativa
e poi operativa tra innumerevoli, diversificati e autonomi nodi di una rete
globale. La maggioranza di queste associazioni, raggruppamenti, unioni
locali e centri d'azione specifica si possono definire pero' "movimenti"
solo in senso debole. Essi non sono rivendicativi e antagonisti nella
propria origine. Cercano loro spazi alternativi e propositivi. Tendono
verso soluzioni proprie e nel basso. Solo incontrando ostacoli, resistenze,
ostilita' nel tradurre in realta' le proprie proposte essi giungono
"infine" alla protesta e quindi attivamente contribuiscono al "movimento
dei movimenti". Gran parte dall'associazionismo del terzo settore non e'
"alleato" ma e' partecipe di queste dinamiche di movimento. Si accentuano
cosi' le tensioni e le tendenze divaricanti nel confuso arcipelago del
terzo settore.
Alla fine della lettura di questo libro sorge una domanda: ma esiste un
terzo settore? Questo generico contenitore non si frappone forse
all'urgenza di individuare tipologie dell'agire sociale che sono molto
diverse e sovente incompatibili? Questa definizione e affermazione generale
di una terzieta' rispetto allo Stato e al mercato non funziona forse come
copertura ideologica delle esperienze, pur legittime, di quelle imprese che
invece reclutano lavoro sul mercato e vendono prodotti sociali allo Stato?
Marcon conclude indicando la necessita' di inventare neologismi. Si',
occorre trovare nomi nuovi per poter dare a ciascuno il suo.
9. CULTURA DELLA PACE. MARIA LUIGIA CASIERI: UN LIBRO DALLA PARTE DEI BAMBINI
[Maria Luigia Casieri e' una delle principali collaboratrici del "Centro di
ricerca per la pace" di Viterbo; insegna nella scuola dell'infanzia]
Il libro e' quello di Emilia Ferreiro e Ana Teberosky, La costruzione della
lingua scritta nel bambino, Giunti Barbera, Firenze1985 (l'edizione
italiana e' curata da Clotilde Pontecorvo e Grazia Noce e reca la
prefazione di Hermine Sinclair).
Il testo si riferisce alle ricerche avviate nel 1974, 1975, 1976 a Buenos
Aires, e' l'opera fondamentale delle autrici ed ha costituito una svolta e
uno spartiacque nell'approccio alla letto-scrittura.
Il testo espone in modo sistematico la ricerca condotta dalle autrici per
far emergere la concettualizzazione spontanea del sistema di
rappresentazione alfabetica della lingua da parte dei bambini non
alfabetizzati e l'esistenza di tappe psicogenetiche di sviluppo, applicando
il metodo di Piaget (clinico-critico) ad un ambito di contenuti da lui non
esplorato.
L'importanza del lavoro e' anche centrata sul superamento di un approccio
alla problematica di tipo riduzionista, in quanto sottrae la dinamica
dell'apprendimento della lingua scritta alla sua mera dimensione tecnica,
percettivo-motoria e di tipo associazionista, per ricondurla in una
dimensione di tipo costruttivista, in cui viene riconosciuto al bambino un
ruolo di elaborazione teorica (in un incessante processo di costruzione di
ipotesi e verifica) in cui le competenze cognitive, linguistiche e
culturali assumono rilievo e spessore (dalle aspettative semantiche e
sintattiche alla conoscenza dei requisiti formali della lingua scritta,
alla conoscenza di diversi stili, registri linguistici, funzioni della
scrittura e dei tipi di testo).
Nel libro vengono dettagliatamente esposte ed esemplificate le tappe di
sviluppo relative alla lettura di parole, di frasi con e senza immagini,
alle scritture spontanee. Viene inoltre esplorata la concettualizzazione
dei bambini in riferimento agli aspetti formali del grafismo (lettere,
numeri e segni di interpunzione) e agli atti di lettura. Vengono anche
evidenziate le differenze di strategie cognitive utilizzate da bambini che
abbiano subito una forma di addestramento alla lettura tale da prescindere
o confliggere con le concettualizzazioni spontanee dei bambini e delle
bambine, particolarmente in ordine al fenomeno della separazione del
significato dal "decifrato".
Si assume e si dimostra che scrivere non e' copiare e leggere non e' decifrare.
E' un libro che aiuta gli adulti a capire cosa pensano i bambini per
aiutare i bambini ad imparare capendo, perch "capire si pu".
10. RILETTURE. LIDIA MENAPACE: ECONOMIA POLITICA DELLA DIFFERENZA SESSUALE
Lidia Menapace, Economia politica della differenza sessuale, Felina Libri,
Roma 1987, pp. 146. L'intensa riflessione e le proposte di ricerca ed
azione di una delle figure piu' vive dell'impegno per la pace e la dgnita'
umana.
11. RILETTURE. ELISABETH YOUNG-BRUEHL: HANNAH ARENDT
Elisabeth Young-Bruehl, Hannah Arendt, Bollati Boringhieri, Torino 1990,
1994, pp. 642, lire 40.000. La fondamentale biografia di una delle massime
pensatrici del Novecento.
12. RILETTURE. ADRIANA ZARRI: IL FIGLIO PERDUTO
Adriana Zarri, Il figlio perduto, La Piccola Editrice, Celleno (Vt) 1991,
pp. 164, lire 18.000. Tre intense meditazioni seguite da una sorta di
"antologia personale" della teologa, con una prefazione di Benedetto Calati.
13. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova
il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dellâambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dellâuomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio,
l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.
14. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: http://www.nonviolenti.org;
per contatti, la e-mail e': azionenonviolenta@sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in
Italia: http://www.peacelink.it/users/mir; per contatti: lucben@libero.it;
angelaebeppe@libero.it; mir@peacelink.it, sudest@iol.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: http://www.peacelink.it. Per
contatti: info@peacelink.it
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO
Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it
Per non ricevere piu' questo notiziario e' sufficiente inviare un messaggio
con richiesta di rimozione a: nbawac@tin.it
Numero 372 del 2 ottobre 2002