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«Una Auschwitz per talebani in Afghanistan»



L’accusa dell’inviato europeo per le atroci condizioni di carcerazione imposte dal nuovo regime

«Una Auschwitz per talebani in Afghanistan»

«Noi prigionieri non abbiamo né cibo né acqua. E nelle celle a turno si deve stare in piedi per lasciare agli altri lo spazio per riposarsi»


Alla periferia di Kabul, Arif Khan cerca un passaggio per andare a Kandahar, a casa. La strada è tremenda, piena di buche e anche con una buona jeep si percorre in 30 ore. Se è fortunato, Arif troverà posto sopra il carico di un camion e arriverà a destinazione fra quattro giorni. In condizioni ancora peggiori della strada è l’aspirante autostoppista. Ventun anni, nonostante il suo metro e 70, pesa al massimo 45 chili. Gli occhi sono arrossati, la ossa premono sotto la pelle disidratata, senza turbante, si è voluto arrotolare in testa uno straccio lercio che ha trovato tra i rifiuti. «Alecum salam» risponde al saluto, ma non si alza a stringere la mano. Si scusa: «Sono troppo debole per reggermi in piedi». Arif Khan è uno sconfitto, un talebano, un sopravvissuto al carcere di Shibergan, vicino a Mazar-I-Sharif. Un luogo che secondo l’inviato europeo in Afghanistan, Klaus-Peter Klaiber, assomiglia al campo di concentramento nazista di Auschwitz. «I prigionieri sono ridotti a pelle e ossa. Sono trattati come animali, ammassati nelle tende» ha dichiarato alle agenzie internazionali l’inviato europeo. «Le cucine - ha insistito Klaiber - sono qualcosa di inimmaginabile, con delle ombre d’uomo impalpabili come fantasmi che girano e rigirano una zuppa appena più nutriente dell’acqua calda».
Arif Khan scampato alla «nuova Auschwitz» racconta. «Non solo io, ma tutti i prigionieri che erano con me avrebbero preferito morire invece di restare in quella prigione. Io ne sono uscito per un’amnistia circa tre settimane fa e allora eravamo ancora almeno 2.500».
La Croce Rossa Internazionale ha in cura i più malridotti. Almeno 400 di loro sono tanto indeboliti che vanno alimentati, come bambini, con pappette ipernutrienti. «Non c’è acqua per lavarsi - spiega Arif - e le stanze sono tanto piene che ci facevano stare nelle tende montate in cortile. Ma anche così non c’era abbastanza spazio per sedersi. A turno qualcuno doveva restare in piedi per permettere agli altri di riposare».
I prigionieri di Shibergan sono i soldati talebani catturati dai mujaheddin del Nord a novembre al termine dell’assedio di Kunduz. Erano seimila. «I capi, però, - racconta Arif - hanno trattato un salvacondotto e sono usciti dall’accerchiamento prima di lasciare noi soldati in mano all’Alleanza del Nord». All’epoca dell’assedio ci fu anche chi giurò di aver visto tre piccoli aerei atterrare di notte nella sacca talebana e portar via i presunti agenti dell’Isi, il servizio di intelligence di Islamabad. Nella prigione lager di Mazar-I-Sharif rimangono almeno duecento pachistani. Tutti, pare, volontari della «guerra santa» contro l’Occidente dichiarata da Osama Bin Laden e dal Mullah Omar, ma nessun comandante, nessuno di grado superiore.
Responsabile del carcere è l’uomo forte di Mazar-I-Sharif, generale Rashid Dostum. A chi gli ha chiesto di intervenire per migliorare le condizioni dei detenuti un suo portavoce, Faizullah Zaki, ha risposto: «Questo non è il momento di chiedere fondi per una prigione. Abbiamo bisogno di ricostruire ospedali e scuole, la prigione può aspettare».
Andrea Nicastro Corriere della Sera 14-5-02

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Alessandro Marescotti
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