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la lettera di Ettore Masina



Care amiche, cari amici, credo fosse il mese di settembre del 2000 quando 
in LETTERA vi parlai del Progetto “Gazzella”, varato da due straordinarie 
persone: Marisa Musu e Marina Rossanda. Dandole il nome di una bambina 
palestinese di 12 anni, colpita alla testa da un soldato israeliano mentre 
tornava a casa da scuola e rimasta a lungo fra la vita e la morte, Marisa e 
Marina, con un gruppetto di altri gene-rosi avevano appena dato vita, a 
quell’epoca, a una rete di solidarietà insieme politica e affettuosa. 
Avevano, cioè, lanciato la proposta di adozioni a distanza di piccoli 
palestinesi feriti o mutilati nel corso della Seconda Intifada.
E’ passato poco più di un anno e nonostante la penuria di mezzi e - 
naturalmente!  il silenzio dei giornali, il progetto ha preso quota: e 
poiché le animatrici di “Gazzella”  dicono che i primi “adottori” sono 
stati gli amici di LETTERA, mi sembra giusto informarvene: tanto più che la 
situazione palestinese ci carica di un’angoscia dalla quale possiamo uscire 
soltanto con gesti concreti di rottura del silenzio e dell’inerzia.
Gli amici di Gazzella si sono riuniti recentemente per il loro primo 
“congresso”: gente meravigliosa, venuta da tutte le parti d’Italia: La loro 
rete si è ormai distesa come una carezza su 287 bambini palestinesi.
(per informazioni: bettinif@libero.it)
Bambini di Palestina
Come vi scrivevo in quella LETTERA ormai lontana, da cinquant’anni, anzi da 
cinquantaquattro, noi ogni giorno ci alziamo, portiamo i bambini a scuola, 
andiamo al lavoro, ritorniamo a casa, mangiamo, ci abbandoniamo al sonno e 
intanto in Palestina muoiono ammazzati uomini donne e bambini: 361 bambini 
uccisi dal settembre 2000, uno di 13 anni assassinato il 17 febbraio 
scorso, quasi a impedire che ci illudessimo di una pausa di questa atroce 
contabilità. No, non è un genocidio, i giuristi negano che si possa 
definirlo così. Allora diciamo: è uno stillicidio omicida, come se il tempo 
fosse segnato da una mostruosa gigantesca clessidra attraverso la quale 
passano, ma sempre più velocemente, non granelli di sabbia ma corpi di uccisi.
Da cinquant’anni, anzi da cinquantaquattro, noi ci innamoriamo, sogniamo, 
preghiamo, frequentiamo concerti, organizziamo feste fra amici, ci 
commoviamo leggendo le pagine di grandi scrittori, tentiamo di scrivere 
poesie e di imparare nuove canzoni, e intanto uomini donne bambini 
palestinesi continuano a morire ammazzati: uno dopo l’altro, o in stragi 
crudelissime, dietro le muraglie di una totale incapacità di reazione 
dell’opinione pubblica internazionale e di un’acquiescenza dei governi 
democratici che rimarranno una vergogna per la storia del nostro tempo.
In questo mezzo secolo di martirio palestinese, nei tranquilli territori 
europei alcuni di noi sono giunti alla vecchiaia, altri hanno maturato la 
loro giovinezza, ed altri ancora sono nati, sono cresciuti, hanno imparato 
le tecniche per entrare in contatto con persone lontanissime da loro mentre 
a due ore di distanza di aereo i palestinesi continuavano a morire, in 
diverse maniere.
Nei primi decenni ci sono state, “laggiù”, guerre terribili. Allora per 
qualche giorno  o settimana  siamo stati costretti da orrendi rumori e 
visioni di massacri a pensare al Medio Oriente. Ma gli eserciti innalzano 
le loro bandiere proprio per farci sapere che la guerra è cosa loro, noi ne 
siamo fortunatamente (almeno direttamente) esclusi. Così a quel sangue e a 
quelle morti abbiamo dedicato l’attenzione dolorosa  o forse 
soltanto  perplessa - che si presta ad eventi che sono atroci e disgustosi 
ma che, in fondo,  non ci appartengono. Oppure è accaduto a non pochi di 
prendere posizione su quelle guerre, parteggiando per il “piccolo”, 
moderno, civile, “occidentale”, “europeo” Israele aggredito da arabi 
fanatici, straccioni e sporchi. Ricordo ancora sui parabrezza di molte 
automobili milanesi l’adesivo “Io sono per Israele”.
Poi le guerre si sono rivelate più che mai inutili, il “piccolo” Israele 
minacciato essendo in realtà un gigante, issato com’è sulle spalle degli 
Stati Uniti e difeso dalle armi dell’Impero; e anzi qualcuno di noi ha 
capito che in quella faziosità filo-israeliana era contenuto un grano di 
razzismo. Franco Fornari, grande psicoanalista, ci ammoniva: concedere a 
Israele il diritto di comportarsi in modi che non si consentirebbero ad 
altri popoli significa pensare che esso è qualcosa di geneticamente diverso 
da noi
Come se fossero vittime del traffico
Finita l’epoca delle guerre, è cominciata la più macabra delle routines. 
Come le stragi sulle strade degli week-end nei paesi industriali, le morti 
di uomini donne e bambini palestinesi scandiscono nel Medio Oriente le 
cronache di una violenza che, nella sua insensatezza, sembra ormai 
inestirpabile. Negli ultimi anni i palestinesi non sono morti di guerre ma 
sono morti di nostalgia nell’esilio, di miseria da espropri e da 
disoccupazione, di torture, di prigionie nel deserto, di malattie da 
repressione: denutrizione, mancanza d’acqua, ritardi nei soccorsi medici a 
causa dei blocchi stradali, immensa difficoltà di stabilire un minimo di 
condizioni igieniche nei campi profughi, in cui per mezzo secolo centinaia 
di migliaia di persone sono state costrette a vivere e in cui per mezzo 
secolo gli israeliani hanno impedito ogni miglioria. Negli ultimi sedici 
mesi i palestinesi sono morti soprattutto di spietate rappresaglie di ogni 
loro atto insurrezionale. Ma si potrebbe dire che i palestinesi sono morti 
e muoiono  soprattutto di solitudine perché il loro martirio di mezzo 
secolo è anche e soprattutto amara consapevolezza di costituire per 
l’opinione pubblica internazionale ben più un fastidio che un problema.

I bambini prigionieri
In mezzo a questa solitudine, a questo sangue, a queste case sventrate dai 
bulldozers si muovono i bambini palestinesi; e molti non si muovono 
affatto, perché dal settembre 2000 ad oggi più di 700 sono stati 
incarcerati, cioè rinchiusi in celle, insieme a delinquenti “comuni”, 
adulti, e quindi esposti non soltanto alle inevitabili brutalità del 
sistema carcerario ma anche a rischi facilmente intuibili.
Il 26 gennaio scorso si è svolta a Bruxelles una conferenza organizzata 
dalla parlamentare europea Luisa Morgantini, straordinaria donna che 
moltiplica le proprie iniziative a favore dei diritti umani con una 
generosità che ha pochi riscontri nella classe politica del nostro Paese. 
In questa conferenza hanno parlato il palestinese Quzman Khaled della 
Defence Children International e Tamara Pelled-Sryck dell’associazione 
israeliana Hamoked. Hanno portato cifre e illustrato il contesto 
dell’infanzia negata ai bambini palestinesi. Riassumo: i piccoli uccisi 
sono stati: colpiti per la maggior parte alla testa, cioè non per errore o 
per una pallottola di rimbalzo ma con volontà di uccidere. 8450 bambini 
sono stati feriti o sono rimasti mutilati, e di essi 980 hanno riportato 
mutilazioni o lesioni permanenti.  I posti di blocco e i coprifuoco rendono 
difficilissime la possibilità di tempestivi interventi sanitari, cosicchè 
si aggravano ferite ed emorragie che avrebbero potuto essere soccorse con 
risultati ben migliori.  Quanto ai bambini incarcerati, le due relatrici 
hanno denunziato l’uso quasi “normale” della tortura da parte dei militari, 
il diritto alla difesa tramite avvocato quasi sempre negato, processi 
superficiali, sommarî, che portano a condanne di una severità inaudita e a 
pesanti ammende inflitte ai genitori, le visite delle famiglie a questi 
piccoli dannati all’inferno carcerario  affidate alla discrezionalità dei 
militari e via dicendo.
I sorrisi spenti
361 bambini morti, 8450 feriti, 700 incarcerati in un anno e mezzo sono le 
cifre che conosciamo; ma nessuno può dirci il numero dei piccoli 
palestinesi che avendo vissuto forti traumi psichici, sono ora 
profondamente feriti nella loro identità. Ho parlato recentemente con una 
psicologa tedesca che veniva dalla Striscia di Gaza, mi ha raccontato di 
bambini segnati da difficoltà di apprendimento, incubi notturni, tremiti, 
fobie- “Bambini  mi ha detto  incapaci di sorridere, bambini che forse non 
sorrideranno mai più”.
Il regime coloniale comporta inevitabilmente la violazione sistematica dei 
diritti umani più elementari e pone Israele al di fuori degli stati che 
osservano le convenzioni internazionali. Viene sistematicamente violata 
anche quella sui diritti del bambino, pur ratificata dallo stato sionista. 
In realtà Sharon e i suoi stati maggiori hanno i cestini della carta 
straccia pieni di risoluzioni umanitarie e di testi internazionali: 
“chiffons de papier”, come si diceva una volta, fazzoletti di carta.
Già, ma noi?
Care amiche, cari amici, so bene che facendolo mi  renderò odioso ma vorrei 
chiedervi uno sforzo di fantasia: quello di pensare ai bambini che più 
amate, e di vederli per un momento, per un solo momento, collocati, per una 
sorta di malvagio incantesimo, nell’allucinante paesaggio palestinese: No, 
non vi chiedo di raffigurarveli morti o mutilati o feriti; e neppure 
terrorizzati mentre la loro casa viene demolita da un bulldozer per 
rappresaglia. Questi sono, per così dire, casi estremi, anche se frequenti. 
Vorrei semplicemente che pensaste a quei vostri cari mentre assistono allo 
spettacolo del loro fratello maggiore portato via di notte  da militari 
nemici, del padre obbligato a mettersi in ginocchio con le mani dietro la 
nuca (un padre che non può difendersi, tanto meno può difenderli), della 
madre costretta a subire davanti agli occhi dei figli perquisizioni 
umilianti. E queste sono scene “normali” nei territori occupati. Non parlo 
di sangue. Parlo della bambola strappata dalle braccia della sua padroncina 
e sventrata a un check-point perché potrebbe contenere una bomba, parlo del 
piccolo uliveto che i bambini avevano imparato ad amare come parte della 
sua casa, e improvvisamente viene sradicato per tracciare una strada 
riservata ai coloni; parlo delle scuole perennemente  chiuse per ordine 
degli occupanti, o dei coprifuoco che durano intere giornate mentre in casa 
mancano acqua, cibo, medicinali. Bambini che non solo subiscono la paura 
dei bombardamenti, l’incubo degli elicotteri, il rombo minaccioso dei carri 
armati ma anche la profondissima insicurezza che nasce dal contemplare la 
disperazione dei genitori. Pensate, vi prego, a che accadrebbe “dentro” a 
un adolescente  che amate se egli vivesse in un luogo come la striscia di 
Gaza e proprio mentre allunga il suo sguardo sulle realtà della vita per 
valutarne il bene e il male sapesse ciò che accade in una delle quattro 
zone in cui i militari israeliani hanno diviso quel territorio: 1500 
privilegiati consumano il 36% dell’acqua disponibile e di migliore qualità 
mentre 230 mila persone ( fra le quali lui, il vostro ragazzo) devono 
contentarsi del 64% e di peggiore qualità. Riuscite a pensare quali 
accumuli di rabbia e anche di odio  sì, diciamola l’orrenda parola - si 
creerebbero nel suo cuore? Nel 1991, visitando con un gruppo di deputati 
italiani i campi profughi palestinesi, ho parlato con ragazzi del genere. 
Negli anni seguenti mi sono spesso domandato se qualcuno di loro non si sia 
tramutato in bomba umana.
I 56 Giusti di Israele
Questi esercizi di fantasia, credetemi, non mi sono permesso di chiederveli 
per sadismo ma in nome della verità. Perché,  vedete: i bambini palestinesi 
sono del tutto identici ai nostri e le loro condizioni di vita 
influenzeranno il futuro dei nostri cari. Se noi non siamo capaci di 
identificarci con gli oppressi, e di comportarci di conseguenza, vincendo 
pigrizie, paure, senso di impotenza, tentazioni di egoismo ci avviamo a un 
degrado progressivo dal punto di vista etico e culturale.
E’ contro quel degrado che oggi si muovono molti meravigliosi israeliani.
Penso ai duecento riservisti che affrontano l’accusa di diserzione perché, 
si rifiutano di obbedire a ordini che, hanno scritto in un loro 
documento,  “stanno distruggendo tutti i valori di questo paese” e perché, 
dicono ancora, non vogliono più combattere “per dominare, 
espellere,  affamare, umiliare un intero popolo”.
Penso a Sulamit Aloni, docente all’università di Tel Aviv, che, un anno fa, 
al parlamento europeo, mostrando il numero tatuato sul suo braccio dagli 
sgherri nazisti, gridava che neppure l’orrore della Shoa autorizzava 
Israele a ghettizzare, reprimere e avvilire il popolo palestinese.
Penso soprattutto a Nurit Peled-Elhahan, scrittrice, docente universitaria, 
che tre anni fa ha perso una figlia tredicenne in un attentato di Hamas e 
che da allora si batte contro chi non vede le spaventose responsabilità del 
regime di occupazione, un regime  dice  - “che umilia, affama, nega lavoro, 
demolisce le case, distrugge i raccolti, ammazza i bambini, incarcera i 
minori in condizioni terribili e spesso senza processo, lascia che i 
bambini piccoli muoiano ai check-point  e diffonde bugie”. Per Nurit non ci 
sono differenze fra i 26 bambini israeliani morti per attentati 
terroristici e i bambini palestinesi uccisi dai militari. Lei dice: “Nel 
regno della morte i bambini israeliani giacciono accanto a quelli 
palestinesi, i soldati dell’esercito d’occupazione accanto agli attentatori 
suicidi e nessuno ricorda chi era Davide e chi era Golia”. E Nurit 
dice:  “Propongo che i genitori i quali non hanno ancora perso i loro figli 
prestino attenzione alle voci che salgono dal regno della morte, sul quale 
camminiamo giorno dopo giorno e ora dopo ora, e che ci insegnano che non 
c’è differenza fra una vita e un’altra, che poco importa quale sia il 
colore della nostra pelle o della nostra carta d’identità o quale bandiera 
sventoli su una collina o quale sia la direzione verso la quale ci 
dirigiamo pregando”.
Dice una leggenda ebraica che ci saranno sempre 56 Giusti per amore dei 
quali Dio mitigherà ka sua collera.
Protagonisti o vittime
E’ un “pensare in positivo”, creativo, attivo, quello cui siamo sollecitati 
dalla tragedia medio-orientale e questo pensare e creare gesti coerenti è 
l’unico modo per uscire da un’angoscia che altrimenti si sedimenta in noi, 
in una specie di necrosi dell’anima. Quell’angoscia possiamo fingere di non 
avvertirla, rimuoverla, nasconderla sotto altri pensieri, come quello della 
nostra supposta impotenza, ma farlo è  del tutto vano, come la stupidità 
della casalinga pigra o frettolosa che nasconde la spazzatura sotto il 
tappeto. Credo fermamente che non ci sia altra scelta: o essere 
protagonisti della storia (umili, piccoli, magari paurosi ma attivi) o 
essere vittime della storia, scivolando ai margini delle tragedie mondiali 
ma finendo egualmente in un abisso.
Se accettiamo questa prospettiva, abbiamo molto da fare, a cominciare dal 
far crescere una insurrezione morale di massa contro la intollerabile 
situazione coloniale della Palestina; ma questo lavoro rimarrà astratto  - 
e poco coinvolgente per coloro cui chiederemo di condividerlo  se non 
sapremo renderlo più vivo, più amabile (ecco la parola giusta!), attraverso 
azioni concrete di solidarietà. La gente non ne può più della politica 
fatta soltanto col bilancino della prudenza e l’avarizia del buonsenso: la 
gente vuole,  deve avere, una politica che sia anche esigenza del cuore.
Le amiche e gli amici di Gazzella ci offrono oggi una mano per uscire dalla 
campana di vetro dell’inerzia colpevole. Li ringrazio con tutto il cuore e 
spero che saremo in molti a unirci a loro
Ettore Masina.
Libri
Umberto Allegretti non è uno di quegli intellettuali italiani (Dio sa 
quanti ce ne sono, a nostra perenne disgrazia!), che nei tempi bui se ne 
stanno raggomitolati dietro le loro cattedre, distillando note a piè di 
pagina. Tanto per dirne una, la televisione ce lo ha mostrato mentre 
sfilava in prima fila, insieme con la sua straordinaria moglie. Teresa 
Crespellani, alla “Marcia dei professori”, com’è stata chiamata la 
sorprendente manifestazione fiorentina. E’ un giurista internazionalmente 
noto, ma accanto alla “produzione” scientifica allinea una serie di 
attività e di libri che lo rendono prezioso a chi si sforza non solo di 
proclamare ma anche di mostrare che “un altro mondo è possibile” . Per le 
Edizioni Cultura della Pace fondate da padre Balducci ha scritto nel 1992, 
con Dinucci e Gallo “La strategia dell’Impero. Dalle direttive del 
Pentagono al Nuovo Modello di Difesa”  che contiene pagine quasi 
profetiche; è stato fra i più importanti animatori dei Comitati Dossetti 
per la difesa della Costituzione etc: etc. Grande mediatore culturale, 
generosamente al servizio dei tanti gruppi che richiedono la sua presenza, 
Umberto ha appena pubblicato un libro di eccezionale importanza: “Diritti e 
Stato nella mondializzazione”, ed: Città Aperta, pagg. 302, e 18,07.  Sì, 
il titolo non è invitante per i tanti che sono (o pensano di essere) 
digiuni di certe materie: ma il discorso è piano e soprattutto va al cuore 
dei problemi che la Terra “mondializzata” ci presenta: dalla negazione dei 
diritti umani inevitabilmente imposta dalla globalizzazione a tutti gli 
uomini e le donne (non soltanto dunque a quelli dei paesi sottosviluppati 
ma anche a noi, alle nostre libertà, alla nostra democrazia) alle 
devastazioni dell’ambiente provocata dalle logiche del neloliberismo, a un 
militarismo sempre più pericoloso. Tuttavia il quadro non è soltanto fosco, 
Allegretti pone con lucidità alcune indicazioni per alternative possibili: 
le quali sollecitano la nostra presa di coscienza e il dovere di essere 
protagonisti della storia. Un libro scritto con competenza scientifica 
nello spirito di Porto Alegre.