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Missione Oggi - editoriale gennaio + articolo R. La Valle



Missione Oggi - Gennaio 2002

Per informazioni e abbonamenti contattare la redazione all'indirizzo 
<missioneoggi@saveriani.bs.it>

SOMMARIO

LETTERE
Cristiani "realisti"? A Santo Domingo

EDITORIALE
Programma di Missione Oggi per il 2002

AD OCCHI APERTI
Molucche: la difficile strada verso la pace (J. Mangkey)

COSTRUIRE LA PACE
La guerra è diventata il passe-partout per ogni crisi (R. La Valle)

M.O. LIBRI
Tre storie di uomini di pace nei Balcani (E. Romagnoli e M. Valenti)

CAMPAGNE IN MOVIMENTO
Mine antipersona: con la guerra tutto salta in aria (M. Storgato)
Campagna per l'acqua: bene comune dell'umanità

DOSSIER
CASO PCB: ECCO COME TI DISTRUGGO L'AMBIENTE (a cura di M. Ruzzenenti)
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FUORI LE MURA
Dall'ecumenismo orizzonti di pastorale missionaria (L. Sartori)

PROTESTA E SPERANZA
I teologi del Terzo Mondo: cercando ragioni per continuare a sperare (M. 
Barros)

L'ALTRA SPONDA
Alle sfide attuali dobbiamo rispondere insieme. Intervista di El Watan a 
mons. Teissier

OSARE LA PACE
Lettera alla chiesa del 21° secolo: superare la teologia della guerra 
giusta (E. C. Mac Carthy)


INDICE
Indice dell'annata 2001

Foto di copertina: Alberto Cairo con un giovanissimo paziente nel centro 
ortopedico della Croce rossa a Goldahar, a 50 km da Kabul (Afghanistan). 
Foto Ap/Marco Di Lauro.
Foto di apertura dossier: Ia Caffaro di Brescia vista dall'alto. Foto Bams 
Photo - Basilio Rodella.

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EDITORIALE

Programma di Missione Oggi
per il 2002

Ci accingiamo ad affrontare il nuovo anno con lo spirito che abbiamo voluto 
richiamare in copertina: nell'ascolto della voce delle vittime, il futuro 
del nostro mondo. La figura di Alberto Cairo, uno che in Afghanistan c'è 
andato non con strumenti di morte ma per camminare insieme, indica la 
direzione giusta per i nostri lavori: dobbiamo farci giudicare dalle 
vittime e tracciare con loro il cammino. Avrà perciò questi temi di fondo:

DOPO L'11 SETTEMBRE
Ci sembra importante cercare di capire cosa sta succedendo. Gli Usa e i 
suoi aiutanti come pensano di governare il mondo? Gli interessi economici 
devono continuare a determinare le scelte o è tempo di un nuovo 
protagonismo della politica? Ma per fare questo gli Stati sono chiamati a 
convertirsi, a superare le miopie nazionali e a farsi carico della vita di 
tutti gli uomini del nostro pianeta. Si fa sempre più urgente il rilancio 
dell'Onu, come autorità di fatto al di sopra delle parti.

TRA GUERRA E PACE
Nell'ultimo decennio c'è stata una forte ripresa della guerra: è in atto un 
riarmo, anche nel nostro paese, e si moltiplicano i muri di difesa del 
nostro benessere e le esclusioni dei poveri. Sono realtà che ci 
interpellano. Per focalizzare il nostro impegno è importante approfondire 
gli interessi economici nelle aree di guerra, come pure le radici del 
terrorismo attuale, il suo rapporto con le oppressioni e con i 
fondamentalismi. Non meno importante è vigilare sul rischio di un nuovo 
totalitarismo per le nostre democrazie, con la limitazione dei diritti e 
libertà personali e la crescita del potere delle istituzioni militari.

ISLAM
Per il superamento delle paure e delle diffidenze è fondamentale la 
reciproca conoscenza, oltre che l'affrontare insieme i comuni problemi e le 
sfide attuali. Quest'anno ci proponiamo, attraverso personaggi 
significativi e pensatori del mondo musulmano, di approfondire il rapporto 
dell'islam con la modernità, con particolare attenzione al contesto 
europeo, dove questo incontro si pone con particolare evidenza. Ci 
interrogheremo anche sulle radici e le motivazioni degli islamici radicali.

IMMIGRATI
Quest'anno ci proponiamo di approfondire la lettura di due aspetti: il 
disagio degli immigrati in Europa, tra cittadinanza e discriminazione; la 
funzione identitaria delle religioni nelle comunità degli immigrati in Italia.

GLOBALIZZAZIONE
Intendiamo accentuare il contatto con esperienze popolari del Sud e del 
Nord del mondo, sbriciolando i grandi problemi in storie di impegno 
concreto nel territorio, nel quotidiano: a dimostrazione che azioni e 
cambiamenti sono possibili, già da subito. Una rubrica fissa ci darà modo 
di accostare, nel corso dell'anno, i movimenti più significativi dei vari 
continenti. Sarà il nostro apporto specifico nella resistenza alla 
globalizzazione, per contribuire a far crescere una cultura e prassi "dal 
basso", in direzione opposta alla tendenza imperante.
Un'altra rubrica, farà ogni mese sia un aggiornamento sulle Campagne 
promosse da Missione Oggi, sia la presentazione di altre Campagne, da noi 
ritenute valide e appoggiate.

CRISTIANI-VANGELO
Come i nostri amici sanno, la terza parte della rivista (più alcuni 
Dossier) è dedicata a un esplicito e non banale riferimento cristiano. 
Quest'anno ci proponiamo di continuare a offrire riflessioni critiche sui 
"temi di fondo" quali la testimonianza evangelica della pace, la chiesa 
povera e dei poveri, il giudizio cristiano sull'attuale sistema economico. 
Insisteremo sulla chiesa "delle differenze", aperta al pluralismo di vita e 
di teologia, generato dai differenti contesti socioculturali. Continueremo 
a presentare la profezia di esperienze di chiese e figure significative in 
fatto di convivenza, collaborazione, dialogo, particolarmente con i 
credenti musulmani.

MISSIONE OGGI
  I DOSSIER DEL 2002

o Caso PCB: ecco come ti distruggo l'ambiente.
o Carceri americane: quando la pena diventa un business.
o L'islam che viene dall'Europa.
o Charles de Foucauld è tornato.
o Atti del Convegno di Missione Oggi.
o Le ragioni economiche dei conflitti mondiali.
o Nuovi percorsi della teologia in America latina.
o Italia: stato sociale in vendita.
o Perù: dopo Fujimori tra speranze e incertezze.

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COSTRUIRE LA PACE

LA GUERRA
È DIVENTATA IL PASSE-PARTOUT
PER OGNI CRISI
RANIERO LA VALLE

Il 15 novembre, in occasione della presentazione del libro La forza lieve 
(cfr. pag.14) di Mimmo Cortese e Roberto Cucchini, collaboratore di MO, R. 
La Valle ha offerto una puntuale lettura della guerra in corso, del suo 
significato e delle sue vere motivazioni.

L'Occidente ha sbagliato la lettura e la risposta agli eventi dell'89 e ha 
concepito un mondo di cui essere il solo gendarme e padrone.

Il capitalismo realizzato s'accorge che i suoi benefici non si possono 
estendere a tutti: il mondo come tale non può continuare con questo sistema.

Le risorse sono limitate ed è troppo oneroso porre in discussione il nostro 
sistema di vita. Se deve arrivare la crisi, cerchiamo che "per noi" sia 
ritardata il più possibile.

Un mondo in cui chi è più forte impone i propri interessi, a scapito della 
morte degli altri, non si può governare che con la forza. Le guerre 
dell'ultimo decennio ne sono la prova.

Il messaggio è chiaro: d'ora in poi, se volete preservare le vostre isole 
di benessere, sappiate che vi dovete difendere con le armi da tutto il 
resto del mondo.
  Quello che sta accadendo ha una data di inizio, che non è l'11 settembre 
2001, ma il 1989, la caduta del muro di Berlino, il simbolo del mondo 
bipolare, della contrapposizione dei blocchi, seguita dalla fine 
dell'Unione Sovietica. Siamo dentro un processo che è iniziato allora: la 
ragione di questa guerra, così come delle due precedenti, la possiamo 
trovare solamente nelle scelte, sempre più temerarie, che l'Occidente ha 
fatto a partire da quell'evento. Quello sì doveva essere l'evento dopo il 
quale nulla doveva essere più come prima: lì veramente cambiava la figura 
del mondo, fino a quel momento dilaniato dalla contrapposizione tra i due 
grandi blocchi politici e militari, che aveva come posta dell'azzardo 
addirittura la fine del mondo, l'olocausto nucleare.
Nell'89 questo mondo finiva e ne cominciava un altro. In quel momento è 
stato mancato il kairos, l'occasione "storica", l'occasione 
"provvidenziale" che al mondo veniva offerta.
L'ipotesi che vorrei avanzare è questa: l'Occidente ha sbagliato la lettura 
e la risposta agli eventi dell'89: l'ha sbagliata, prima favorendo la 
dissoluzione dell'Unione Sovietica, poi concependo un mondo di cui 
l'Occidente fosse il solo gendarme e padrone. In quel momento l'Occidente 
non ha saputo uscire dal sistema di dominio e di guerra, che aveva retto il 
mondo per decenni e che era caratterizzato dalla diarchia del terrore 
nucleare. Ha pensato che, venuto meno uno dei poli di questa diarchia, 
venuta meno l'Unione Sovietica, lo stesso sistema di dominio e di guerra 
potesse essere continuato: con la sola variante che non aveva più due 
poteri consolari che dirigevano e gestivano il mondo, ma uno solo, il proprio.
In quel momento non si è saputo cogliere l'occasione dell'inaudita e 
pacifica discontinuità storica che si era prodotta. Si è continuato, in 
sostanza, il sistema del mondo bipolare, rendendolo semplicemente 
unipolare. Ma, in questo modo, ci si è inseriti nella traiettoria della 
caduta di quel sistema: oggi si è giunti alla crisi dell'Occidente, 
speculare a quella del comunismo e che può essere considerata come l'atto 
finale della crisi complessiva di quel sistema.

L'OCCASIONE MANCATA
Sembrerà strano questo discorso, perché nessuno per valutare la guerra in 
corso ha fatto riferimento all'89. Nessuno tranne Gorbaciov, e non a caso, 
perché è stato il primo a sperimentare la risposta miope e sconsiderata 
dell'Occidente e ne è stato la prima vittima. Gorbaciov ha scritto un 
articolo su La Stampa del 3 novembre, semplicemente per riportare a quel 
momento il principio di quanto sta accadendo. Scrive che con la perestroika 
era stato avviato uno straordinario processo di rinnovamento delle 
relazioni internazionali, che aveva conseguito risultati importanti con le 
conferenze di Vienna e di Parigi e con i progetti per l'eliminazione delle 
armi nucleari, chimiche e batteriologice; ma - scrive Gorbaciov - "dopo la 
fine dell'Urss, questi processi positivi furono interrotti… Subentrò in 
molti circoli occidentali l'euforia della vittoria sul comunismo e si 
perdette di vista la complessità del mondo e i suoi problemi, le sue 
gravissime contraddizioni. Si dimenticò la povertà e l'arretratezza, ci si 
preoccupò di ricavare il massimo vantaggio dagli squilibri esistenti, 
invece di cercare di ridurli e di controllarli. Ci si dimenticò della 
necessità di ricostruire un nuovo ordine mondiale più giusto di quello che 
si era lasciato alle spalle. Così, nel decennio appena finito si è accesa 
la miccia che l'11 settembre porterà all'esplosione. Quel giorno è stato 
anche, in un certo senso, il prezzo terribile di un decennio perduto".
La domanda che ci dobbiamo porre è se si è trattato solamente di un 
decennio perduto rispetto ad un obiettivo che si voleva raggiungere, oppure 
se non sia stato un decennio volutamente investito in una scelta 
alternativa e opposta alla costruzione di un nuovo ordine mondiale pacifico 
per tutti.
Per capire dov'è stato l'errore, vorrei ricordare il clima di quegli anni. 
Nel  novembre 1989, quando il mondo forse poteva cambiare ma non cambiò, mi 
trovavo negli Stati Uniti con una delegazione parlamentare della 
Commissione difesa della Camera. Il 14 novembre, una telefonata allarmata 
da Berlino aveva informato Mosca che i tedeschi dell'Est, trattenuti dal 
Muro, volevano passare dall'altra parte. Gorbaciov aveva risposto: "Fateli 
passare". Era una cosa impensabile: la risposta dell'Unione Sovietica in 
altri momenti sarebbe stata "Ricorrete ai carri armati, che nessuno passi".
Fu una decisione politica. Quel "fateli passare", è passato alla storia 
come la caduta del Muro di Berlino, la fine di un ordine e l'inizio di un 
altro. Commentavamo questi fatti negli incontri al Pentagono, al 
Dipartimento di stato, al Congresso: tutti gli interlocutori americani 
dicevano: "Non è successo nulla, dobbiamo continuare ad armarci, dobbiamo 
continuare a mantenere le difese, non si sa cosa l'Unione Sovietica può 
fare". Dopo due giorni, andammo a Omaha, nel Nebraska (cfr box a parte).
Questo era il clima. Tutta la politica militare e tutta la politica estera 
erano pensate in funzione dello scontro con il comunismo, inteso come il 
principio del male. Quando, nell'89, tutto questo improvvisamente scompare 
in modo pacifico, avrebbero dovuto credere al cambiamento, ma forse era 
troppo. Gorbaciov nell'87 era andato a Nuova Delhi e con il Primo ministro 
dell'India, Rajiv Gandhi, aveva firmato e lanciato una Dichiarazione per un 
mondo liberato dalle armi nucleari e nonviolento, proponendo un mondo 
completamente alternativo in tutta l'impostazione delle relazioni 
internazionali. La più grande nazione alternativa all'Occidente e il più 
grande paese del Terzo Mondo, che insieme rappresentavano un miliardo e 200 
milioni di persone, dicevano a tutti: cambiamo strada, facciamo un mondo 
non solamente un pochino più ordinato, ma un mondo nonviolento. Una cosa 
inaudita. La dichiarazione non fu nemmeno resa nota in Occidente, venne 
censurata, non si doveva sapere.

UN CAPITALISMO CHE NON PUÒ ESSERE UNIVERSALE
Da tutto questo si vede che quando la realtà di guerra e di scontro finisce 
improvvisamente, per decisione politica di Gorbaciov, gli americani non 
sanno cosa fare. Non erano preparati al cambiamento. Pensano di continuare 
semplicemente come prima, con il vantaggio di non avere più il nemico. 
L'unica cosa che l'Occidente seppe dire è stata: "La guerra fredda è finita 
e noi abbiamo vinto". Anzi, si arriverà addirittura ad affermare: "La 
storia è finita e siamo stati noi a portarla a compimento".
Ma che fare del mondo, improvvisamente caduto nelle mani dell'Occidente? 
Senza più antagonisti, il capitalismo finalmente può realizzare il sogno 
dei suoi teorici: estendersi fino agli ultimi confini della terra. Sembra 
che si possano realizzare i sogni più estremi del liberalismo classico: il 
libero commercio e perciò l'eterna pace. Sembra che finalmente si possa 
realizzare il modello puro del capitalismo realizzato.
D'altra parte, questa prospettiva non appariva improbabile: i paesi 
dell'Est, e gli stessi popoli del Terzo Mondo, non cercavano di meglio che 
entrare dentro questo capitalismo, anche per una ragione precisa: il 
capitalismo che allora si presentava a raccogliere questa eredità 
universale non era il capitalismo selvaggio di oggi, ma un capitalismo 
ancora profondamente influenzato dall'esistenza del campo antagonista. Era 
un capitalismo condizionato dalla sfida del mondo socialista e dalla lotta 
dei sindacati delle democrazie realizzate: il capitalismo dello Statuto dei 
lavoratori, che non a caso adesso viene abrogato; il capitalismo che, per 
reggere alla contestazione che gli veniva dai suoi antagonisti, tentava di 
realizzare un minimo di compromesso sociale e aveva dovuto accettare delle 
compatibilità con diritti e valori indipendenti dal mercato. Per questo 
tutti ci volevano entrare.
Ma, una volta caduto il mondo che gli era avverso, il capitalismo 
realizzato s'accorge di non essere affatto universale: non ce la fa a 
soddisfare i miti delle origini, di portare tutto il mondo allo sviluppo, 
al benessere, alla ricchezza. I suoi benefici non si possono estendere a 
tutti; non ce la fa a rispondere alle esigenze di vita e di sviluppo del 
mondo. È un sistema che non solo non vuole, ma soprattutto non può sfamare 
tutti. Non può avere acqua e medicine per tutti. Non può permettere la 
democrazia a tutti. I meccanismi economici non sono attrezzati per questo: 
sono attrezzati per produrre denaro, profitti, reddito, non per soddisfare 
i bisogni reali.
Ma non è solo questa la questione. È che oramai gli stessi limiti fisici 
della terra sono tali per cui il livello di vita delle zone privilegiate 
del mondo non è estensibile a tutto il sistema mondiale. Non è possibile. 
Perché c'è una serie di crisi, già cominciate, che stanno per esplodere: la 
crisi energetica, perché stanno per finire le risorse del petrolio…; la 
crisi climatica; la crisi demografica; la desertificazione: crisi che 
rivelano quanto sia sbagliato il rapporto dell'uomo nei confronti della 
natura, concepito in termini di appropriazione, di dominio, di 
sfruttamento. Siamo a un punto di rottura, la terra non ce la fa più… Non è 
solo questione di sperequazione, di distribuzione, di solidarietà: il 
problema è che il mondo come tale non può continuare con questo sistema.

UN SISTEMA COSÌ NON SI REGGE SENZA LA GUERRA
In questa situazione, qual è la scelta fatta dall'Occidente? Aveva davanti 
una grande sfida: ora che è finita la contrapposizione tra i blocchi e si 
può fare a meno delle armi nucleari, prendiamo tutti insieme la 
responsabilità del nostro mondo e cerchiamo quale risposta possiamo dare 
per il bene di tutti.
La scelta, invece, è stata: se il mondo non può essere tenuto tutto in 
piedi, teniamone in piedi solo una parte; se deve arrivare la crisi, 
cerchiamo di fare in modo che per noi sia ritardata il più possibile; se ci 
dev'essere una lotta per la distribuzione delle risorse disponibili, 
precostituiamo per noi delle situazioni di vantaggio, delle situazioni di 
sicurezza. Dobbiamo così impostare di nuovo la nostra sicurezza. E gli 
altri? Esuberi, eccedenti, superflui. Non si vogliono fare genocidi: se ce 
la fanno a vivere, che vivano; se non ce la fanno… pazienza.
L'Occidente fa la scelta della selezione. Le risorse sono limitate e 
sarebbe troppo oneroso porre in discussione la nostra appropriazione e il 
nostro sistema di vita: in democrazia, i governanti per reggersi hanno 
bisogno del consenso… E così la scelta lascia coscientemente da parte, 
nell'abbandono, nella miseria, nelle malattie, un continente a perdere, 
l'Africa, e i palestinesi non riescono a trovare pace…
Ma naturalmente un mondo così dev'essere tenuto a bada con scettro di 
ferro. Il grande problema che si apre, con la fine dell'ordine bipolare e 
la scomparsa dell'Urss, è quello del governo del mondo. Occorre stabilire 
un sovrano universale, e questo non può essere se non gli Stati Uniti 
perché, come doveva spiegare Brzezinski, non c'è altra alternativa che 
l'America, all'anarchia globale. Nell'aprile 1992 le linee guida per la 
politica della difesa degli Stati Uniti formalizzano la nuova dottrina: 
"Occorre impedire a qualsiasi potenza ostile il dominio di regioni le cui 
risorse le consentirebbero di accedere allo status di grande potenza"; 
occorre "impedire l'ascesa di un futuro concorrente globale"; occorre 
"dissuadere i paesi industriali avanzati da qualsiasi tentativo che miri a 
contestare la nostra leadership".
La teoria è chiara: c'è un compito da assumere: in fondo gli Usa si 
ritengono un po' il nuovo Israele che deve dare ordine alle nazioni. Gli 
Usa devono governare questo mondo. Ma non si può governare senza la forza, 
viene teorizzato ogni giorno: ed allora c'è bisogno di una cosa 
fondamentale, che si era perduta, la guerra. La guerra non era più 
disponibile, non solo perché era stata messa fuorilegge dal diritto 
internazionale, (l'Onu l'aveva dichiarata un flagello, era stata messa 
fuorilegge dalla Costituzione italiana e dalle Costituzioni democratiche 
dell'Europa), ma anche perché durante i 40 anni della guerra fredda e dello 
scontro tra i blocchi, tutti erano unanimi nel ritenere la guerra il 
flagello peggiore. E tutte le scelte si facevano per la pace; anche i 
missili erano per la pace. Perché la guerra, siccome era la guerra 
nucleare, era considerata la cosa più perversa che potesse accadere. Non si 
poteva proporre una guerra all'opinione pubblica: c'era una reazione 
istintiva generalizzata.
Cosa si fa, allora, nel 1991? La guerra del Golfo, dirà Bush nelle sue 
memorie, l'abbiamo fatta perché non si poteva permettere il controllo del 
petrolio nel Medio Oriente nelle mani di una potenza ostile. Ma soprattutto 
la si fa per riattivare lo strumento della guerra, e la si rivende alle 
opinioni pubbliche di tutto il mondo come guerra giusta, guerra secondo il 
diritto, guerra per liberare il Kuwait. Con una grande campagna di opinione 
pubblica, la guerra viene ripristinata.
Poi si arriva al 1999. In Iugoslavia c'è una guerra civile in atto, molte 
sono le motivazioni che si possono addurre, c'è un nemico chiaro… si può 
intraprendere la guerra senza problemi. E ora si fa la guerra contro 
l'Afghanistan, che si pone come l'ultimo atto della crisi apertasi agli 
inizi degli anni '90, con la fine dell'ordine bipolare.

SILETE SOCIOLOGI
Se ben guardiamo, queste tre guerre rappresentano come la parabola della 
modernità. Il 6 novembre, il Corriere della Sera, abbandonando ogni pudore, 
pubblicava un fondo di Angelo Panebianco in cui echeggiava un grido 
sinistro: "Silete sociologi!". Tacete sociologi, non tocca più a voi 
parlare. Mettete a tacere "le parole e le analisi sulla 'povertà' del Terzo 
Mondo" (la parola povertà tra virgolette, come per dire che potrebbe anche 
essere un'invenzione); tacete "sugli errori passati dell'Occidente", tacete 
sulle ragioni per cui ha potuto alimentarsi l'integralismo islamico. 
Tacete, adesso bisogna solo vincere.
L'era moderna nasce su un grido analogo: è il grido che Alberico Gentile, 
tra i fondatori del diritto internazionale moderno, gettò in faccia ai 
teologi nel contesto della discussione sulla guerra giusta: "Silete 
theologi in munere alieno": tacete, teologi, in un compito che non è più il 
vostro. Le chiese, incapaci ormai di assicurare la pace in Europa tra gli 
stessi prìncipi cristiani, a causa delle guerre di religione, dovevano 
passare la mano, fare le consegne ai giuristi. Comincia l'era moderna, 
della ragione e del diritto: è stata una straordinaria stagione, che ci ha 
dato le Costituzioni, i diritti umani, il diritto internazionale.
Ma già nel 1946, uno dei grandi cultori del diritto pubblico europeo, Carl 
Schmitt, alla fine della sua vita, scrive un libretto in cui dice: sento 
già arrivare un altro grido "Silete jurisconsulti", tacete giuristi, adesso 
il diritto viene neutralizzato: "a imporvi il silenzio saranno i tecnocrati 
al servizio dei potenti e dei prepotenti".
In questi tre gridi Silete theologi, Silete jurisconsulti, Silete 
sociologi, c'è la parabola della modernità, e la vedo riassunta nel corso 
delle tre guerre dell'ultimo decennio: nel '91 l'opinione pubblica era 
contro la guerra: c'era ancora un'etica della pace, le religioni si erano 
pronunciate, Giovanni Paolo II aveva fatto delle straordinarie affermazioni 
contro quella guerra. In quel momento ci dissero: Silete theologi: state 
zitti, voi che vi appellate a valori etici, religiosi, di fede; sono i 
giuristi che devono decidere. E cercarono di mostrare che era una guerra 
per il diritto internazionale, e fecero in modo che l'Onu vi fosse ancora 
implicata.
Nella guerra della Iugoslavia non si fa più appello ai giuristi. Sono messi 
a tacere, la guerra è già completamente fuori dal diritto: dall'ordine 
dell'Onu si è passati a quello della Nato, che ha lasciato la sua natura 
difensiva per diventare una struttura militare d'intervento pronta all'uso 
per intervenire in qualsiasi contesto in cui fosse ritenuto necessario. 
Viene consapevolmente abrogato tutto il diritto umanitario di guerra, si fa 
la guerra senza tener conto dei protocolli di Ginevra. Si va già su un 
piano in cui neanche i giuristi possono parlare.
Adesso si arriva a dire: Silete sociologi. Nella società moderna la 
sociologia è la scienza della società, analizza e cerca le ragioni delle 
cose. Imporre il silenzio ai sociologi vuol dire mettere a tacere la 
conoscenza, la ragione, chi cerca di capire come va il mondo. Ecco il senso 
della vicenda che stiamo vivendo: le fedi sono messe a tacere; il diritto è 
esautorato; anche chi cerca di capire le cause degli avvenimenti non deve 
più parlare. L'unica parola resta alla guerra.

C'È UNA CRISI? FACCIAMO LA GUERRA
Si dice che è una guerra di difesa, che è poi l'unica guerra autorizzata 
dal diritto. Ma stiamo attenti a quanto è successo nel 1999. Quando si 
fonda la nuova Nato - che non è più quella di prima, ma una struttura 
incaricata di tenere l'ordine del mondo, che altrimenti non si può tenere - 
si fa un'analisi delle nuove minacce alla sicurezza, e quali sono? Il 
terrorismo, la criminalità organizzata, la mancanza di approvvigionamenti, 
le crisi etniche, religiose, nazionali, la dissoluzione di stati, i 
problemi ecologici, ambientali. Di fronte a tutte queste contraddizioni 
possibili, che sono le contraddizioni del mondo così difficile in cui 
viviamo, si ipotizza una risposta, la cosiddetta risposta alle crisi: e la 
risposta alle crisi è la guerra. È la prima volta che si pensa alla guerra 
come una specie di passe-partout per qualsivoglia crisi possa intervenire.
Adesso la guerra risponde al terrorismo. Domani potrebbe essere la 
criminalità organizzata. Un giorno ci diranno che la mafia e la ndrangheta 
si devono combattere con la Nato. E così le crisi etniche, le crisi 
nazionali, le crisi di approvvigionamento. A tutto si risponde con lo 
"strumento supremo" che è la guerra. Credo sia questo il punto. Quando ci 
dicono che questa guerra non finirà mai, forse è un modo per dirci: d'ora 
in poi se vorrete preservare le vostre isole di benessere, sappiate che vi 
dovete difendere con le armi da tutto il resto del mondo.
Allora è chiaro che la guerra non serve a battere il terrorismo. Se la 
guerra viene elevata a strumento universale, c'è una discriminante: i 
poveri non possono farla. Solo quelli che sono potenti e armati possono 
fare la guerra. E gli altri? A loro viene lasciato il terrorismo: il "nuovo 
terrorismo", perché c'è sempre stato; l'attuale, che mette in scacco il 
mondo, è la conseguenza diretta, speculare, del processo che in questi 
dieci anni è arrivato a fare della guerra lo strumento universale del 
governo del mondo. Questa è la situazione contro cui dobbiamo resistere.

RANIERO LA VALLE

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GENERALE, COSA STA A FARE ANCORA LASSÙ?

Dopo due giorni, andammo a Omaha nel Nebraska, dove ha sede il comando 
aereo strategico americano, da cui dipendevano due terzi dell'arsenale 
nucleare americano. Nel bunker del comando c'erano alcuni ufficiali in 
continuo contatto radio con un generale che volava su un aereo, che girava 
nei cieli degli Stati Uniti per 24 ore al giorno, da vari anni. Aveva 
questo compito: se ci fosse stato un attacco nucleare agli Stati Uniti e 
fossero stati distrutti tutti i comandi strategici a terra, ci sarebbe 
rimasto un uomo sopra un aeroplano, incolume, che avrebbe potuto scatenare 
la ritorsione nucleare, schiacciando l'ultimo bottone.
Gli ufficiali del bunker fecero parlare anche noi con quel generale. Gli 
abbiamo allora chiesto: " Generale, cosa sta a fare ancora lassù?". Ci 
rispose: "Dobbiamo stare attenti: non si sa cosa possono farci i comunisti".

R. LV.

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TEMPI DI RESISTENZA


Va detto che gli ultimi dieci anni non sono stati solamente anni in cui si 
è sviluppata questa storia del potere, ma anche sono cresciute grandi forze 
di alternativa: forme di resistenza, movimenti, iniziative. Ne sono prova 
le tre esperienze di volontariato pacifista del libro che questa sera viene 
presentato.
Certo, non sono forse maggioritarie, però hanno un grande significato: 
siamo arrivati alla fine di un'epoca, un mondo così non può andare avanti, 
non può funzionare. Siamo alla fine di un'epoca e all'inizio di un'altra: 
quindi possiamo anche cominciare a riaccendere le nostre speranze 
messianiche. Possiamo ricominciare a sperare in un mondo dove la giustizia 
e il diritto siano sovrani, dove le lance siano spezzate e convertite in 
aratri. Una delle caratteristiche dei tempi messianici è che prima di 
costruire il nuovo c'è una dura fase di resistenza. È a questa che oggi 
siamo chiamati.

R. LV.