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Cinque etnie, quattro comandanti, dodici tribù si contendono un Paese
stremato. E’ già scontro tra le due “capitali” Kabul e Kandahar
Afghanistan, il governo dei kalashnikov
In fuga 50 mila talebani: impossibile
disarmarli. A molti non resta che il banditismo. Intanto le donne si
tengono il burqa mentre gli uomini rinviano il taglio della barba
L'esercito dei talebani non ha mai conosciuto gradi e non ha mai portato
divise. Tutti avevano in testa il turbante, i sandali ai piedi e le armi
si riducevano ai kalashnikov e ai lanciarazzi. Quest'armata colorata,
pittoresca e brutale, che arruolava solo uomini barbuti, più vicina alle
orde mongole o alle milizie tribali che a un esercito dell'epoca
elettronica, consegna adesso le armi ad un esercito anche questo senza
gradi e senza divise. In uno scenario confuso e agitato, dove si
mescola la resa, la ritirata, la fuga, il saccheggio e la vendetta.
Dove le leggi di guerra sono quelle dettate dagli umori dei vari
comandanti. L'armata del rnullah Omar ancora poche settimane fa, secondo
le stime degli americani, poteva contare su cinquantamila uomini.
Disarmare cinquantamila uomini oggi in Afghanistan è un'impresa
impossibile. Perché le forze dei vincitori, quelle dell'Alleanza
del Nord e quelle che hanno assediato Kandahar, sono numericamente
inferiori. Ci sono più mani che devono deporre i fucili di quante mani
possano fisicamente raccoglierli, chiuderli nei depositi, vigilare che
non vengano portati via, venduti.
E in ogni caso nessun afghano cede mai con rassegnazione la sua
arma. Meno che mai un guerrigliero delle tribù pastun, dalle quali
provengono tutti gli studenti islamici. Disarmare i talebani è
impossibile prima di tutto per ragioni tecniche, militari. Ma poi
ci sono ragioni più profonde, di orgoglio e di pura
sopravvivenza. Questa fanteria sconfitta e sbandata non ha
prospettive di lavoro, di guadagno, forse può avere salva la vita ma
l'unica via di sostentamento obbligata che si trova davanti è il
banditismo, la delinquenza spicciola, il saccheggio individuale.
Con un kalashnikov in mano un brigante lavora meglio. Già nelle
scorse settimane, mentre il mullah Omar insisteva con i proclami
oltranzisti, i suoi uomini si dedicavano. più concretamente alle ruberie
dentro i vari magazzini delle Nazioni Unite e delle organizzazioni
umanitarie. Prendevano quello che trovavano: auto, computer, telefoni
satellitari, sacchi di farina, coperte, medicinali.
Nessuna autorità ha la forza per disarmare la fanteria dei talebani,
nessuna autorità ha i mezzi economici per integrarla nella vita
civile.
Raccontano i camionisti che arrivano a Kabul dal confine iraniano che
incontrano già decine di posti di blocco, che ad ogni sosta devono pagare
un pedaggio, che tra una città e l'altra comandano solo i banditi.
Appunto perché i vincitori dei talebani controllano le città ma non hanno
un numero sufficiente di soldati per controllare le strade. 1 talebani
arrivarono al potere proprio,per mettere fine all'anarchia che governava
il Paese e se ne vanno lasciando la stessa eredità. Anche i bambini
afghani hanno imparato il gioco del brigante, del posto di blocco, con
pezzi di spago e mozziconi di filo elettrico tirati in mezzo alla
strada per fermare le auto e chiedere-soldi.
In una mappa approssimativa del potere alcune città, tra cui Kabul, sono
controllate dall'Alleanza del Nord, e altre città, tra cui Kandahar, sono
controllate dai pastun moderati. C'erano due capita.li durante il
regime degli studenti islamici, ci sono due capitali oggi che i seguaci
delle scuole coraniche sono stati sconfitti. Anzi in qualche modo
il contrasto tra le due città oggi è più visibile. 1 tagiki che hanno
preso Kabul il 12 novembre hanno fatto un'azione dimostrativa, di forza,
ma non avranno mai il consenso degli abitanti della città perché loro
vengono dal nord, e rappresentano il venti per cento dell'intera
popolazione del Paese. I nuovi padroni di Kandahar appartengono
invece alla maggioranza dei pastun, rappresentano , la metà dell'intera
popolazione, e si considerano inoltre i veri candidati al governo della
capitale.
La Conferenza di Bonn ha dato un'immagine di diplomazia convenzionale, di
soluzione politica bene avviata, quando invece in questo momento il Paese
è completamente frantumato. Le strade sono abbandonate ai banditi e
alle rapine dei talebani in fuga, le frontiere sono praticamente senza
controllo. Karzai diventerà primo ministro temporaneamente ma il
suo gruppo, appunto i pastun moderati, ha un altro punto di dissenso con
l'alleanza del Nord. Fin dall'inizio della crisi hanno sempre detto
che non volevano nuovi morti, nuove battaglie, e che volevano un
passaggio di poteri senza violenza. Ma non volevano nemmeno che la
conquista di Kabui avvenisse ad opera di un solo gruppo e meno ancora ad
opera di un solo comandante, come invece è avvenuto. Sono i tagiki
che hanno preso il controllo di Kabul, ma sono i pastun che hanno
ottenuto la resa, la ritirata, il disarmo dei talebani di Kandabar. Sono
loro che formalmente hanno messo fine al regime del mullah Omar. Nel
gioco delle parti, nella rivendicazione dei rispettivi meriti e successi,
sono i pastun che ricorderanno di avere messo fine alla guerra.
Ma anche questo è un primato incerto. Quattro settimane dopo la
fuga da Kabul dei talebani gli abitanti della città ancora non si
decidono a tagliare la barba, tutti rinviano con il pretesto del
ramadan. Anche la schiavitù del burqa continua ad opprimere le
donne, che rinviano ugualmente alla fine del ramadan. Il regime dei
talebani si era imposto con la repressione, con gli arresti arbitrari,
con i suoi decreti oscurantisti. Il regime crolla senza gloria e
senza eroismo, ma resta nel Paese una profonda incertezza. Il
gruppo che ha conquistato Kabul dovrà accordarsi con il gruppo che ha
conquistato Kandahar. Almeno cinque etnie, quattro comandanti
militari importanti, una dozzina di tribù potenti e insoddisfatte devono
fare tornare i conti tra di loro. In mezzo la fanteria in disarmo e
sbandata dei talebani, che dilagherà nel Paese ingovernabile come la
sabbia sollevata dal vento, disegnando nuvole e mulinelli che nessuno
prevede.
Valerio Pellizzari, Il Messaggero, 8 dicembre 2001