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Il Sultano e san Francesco - Tiziano Terzani a Oriana Fallaci





Il Sultano e San Francesco
di Tiziano Terzani

Oriana, dalla finestra di una casa poco lontana da quella in cui anche tu 
sei nata, guardo le lame austere ed eleganti dei cipressi contro il cielo e 
ti penso a guardare, dalle tue finestre a New York, il panorama dei 
grattacieli da cui ora mancano le Torri Gemelle. Mi torna in mente un 
pomeriggio di tanti, tantissimi anni fa quando assieme facemmo una lunga 
passeggiata per le stradine di questi nostri colli argentati dagli ulivi. 
Io mi affacciavo, piccolo, alla professione nella quale tu eri gia' grande 
e tu proponesti di scambiarci delle "Lettere da due mondi diversi": io 
dalla Cina dell'immediato dopo-Mao in cui andavo a vivere, tu dall'America. 
Per colpa mia non lo facemmo. Ma e' in nome di quella tua generosa offerta 
di allora, e non certo per coinvolgerti ora in una corrispondenza che tutti 
e due vogliamo evitare, che mi permetto di scriverti. Davvero mai come ora, 
pur vivendo sullo stesso pianeta, ho l'impressione di stare in un mondo 
assolutamente diverso dal tuo.
Ti scrivo anche - e pubblicamente per questo - per non far sentire troppo 
soli quei lettori che forse, come me, sono rimasti sbigottiti dalle tue 
invettive, quasi come dal crollo delle due Torri. La' morivano migliaia di 
persone e con loro il nostro senso di sicurezza; nelle tue parole sembra 
morire il meglio della testa umana - la ragione; il meglio del cuore - la 
compassione.

Il tuo sfogo mi ha colpito, ferito e mi ha fatto pensare a Karl Kraus. "Chi 
ha qualcosa da dire si faccia avanti e taccia", scrisse, disperato dal 
fatto che, dinanzi all'indicibile orrore della Prima Guerra Mondiale, alla 
gente non si fosse paralizzata la lingua. Al contrario, gli si era sciolta, 
creando tutto attorno un assurdo e confondente chiacchierio. Tacere per 
Kraus significava riprendere fiato, cercare le parole giuste, riflettere 
prima di esprimersi. Lui uso' di quel consapevole silenzio per scrivere Gli 
ultimi giorni dell'umanita', un'opera che sembra essere ancora di 
un'inquietante attualita'.

Pensare quel che pensi e scriverlo e' un tuo diritto. Il problema e' pero' 
che, grazie alla tua notorieta', la tua brillante lezione di intolleranza 
arriva ora anche nelle scuole, influenza tanti giovani e questo mi inquieta.

Il nostro di ora e' un momento di straordinaria importanza. L'orrore 
indicibile e' appena cominciato, ma e' ancora possibile fermarlo facendo di 
questo momento una grande occasione di ripensamento. E un momento anche di 
enorme responsabilita' perche' certe concitate parole, pronunciate dalle 
lingue sciolte, servono solo a risvegliare i nostri istinti piu' bassi, ad 
aizzare la bestia dell'odio che dorme in ognuno di noi ed a provocare 
quella cecita' delle passioni che rende pensabile ogni misfatto e permette, 
a noi come ai nostri nemici, il suicidarsi e l'uccidere.
"Conquistare le passioni mi pare di gran lunga piu' difficile che 
conquistare il mondo con la forza delle armi. Ho ancora un difficile 
cammino dinanzi a me", scriveva nel 1925 quella bell'anima di Gandhi. Ed 
aggiungeva: "Finche' l'uomo non si mettera' di sua volonta' all'ultimo 
posto fra le altre creature sulla terra, non ci sara' per lui alcuna salvezza".

E tu, Oriana, mettendoti al primo posto di questa crociata contro tutti 
quelli che non sono come te o che ti sono antipatici, credi davvero di 
offrirci salvezza? La salvezza non e' nella tua rabbia accalorata, ne' 
nella calcolata campagna militare chiamata, tanto per rendercela piu' 
accettabile, "Liberta' duratura".
O tu pensi davvero che la violenza sia il miglior modo per sconfiggere la 
violenza? Da che mondo e' mondo non c'e' stata ancora la guerra che ha 
messo fine a tutte le guerre. Non lo sara' nemmeno questa.

Quel che ci sta succedendo e' nuovo. Il mondo ci sta cambiando attorno. 
Cambiamo allora il nostro modo di pensare, il nostro modo di stare al mondo.
E una grande occasione. Non perdiamola: rimettiamo in discussione tutto, 
immaginiamoci un futuro diverso da quello che ci illudevamo d'aver davanti 
prima dell'11 settembre e soprattutto non arrendiamoci alla inevitabilita' 
di nulla, tanto meno all'inevitabilita' della guerra come strumento di 
giustizia o semplicemente di vendetta.

Le guerre sono tutte terribili. Il moderno affinarsi delle tecniche di 
distruzione e di morte le rendono sempre piu' tali. Pensiamoci bene: se noi 
siamo disposti a combattere la guerra attuale con ogni arma a nostra 
disposizione, compresa quella atomica, come propone il Segretario alla 
Difesa americano, allora dobbiamo aspettarci che anche i nostri nemici, 
chiunque essi siano, saranno ancor piu' determinati di prima a fare lo 
stesso, ad agire senza regole, senza il rispetto di nessun principio. Se 
alla violenza del loro attacco alle Torri Gemelle noi risponderemo con una 
ancor piu' terribile violenza - ora in Afghanistan, poi in Iraq, poi chi sa 
dove -, alla nostra ne seguira' necessariamente una loro ancora piu' 
orribile e poi un'altra nostra e cosi' via.

Perche' non fermarsi prima?
Abbiamo perso la misura di chi siamo, il senso di quanto fragile ed 
interconnesso sia il mondo in cui viviamo, e ci illudiamo di poter usare 
una dose, magari "intelligente", di violenza per mettere fine alla 
terribile violenza altrui.
Cambiamo illusione e, tanto per cominciare, chiediamo a chi fra di noi 
dispone di armi nucleari, armi chimiche e armi batteriologiche - Stati 
Uniti in testa - d'impegnarsi solennemente con tutta l'umanita' a non 
usarle mai per primo, invece di ricordarcene minacciosamente la 
disponibilita'. Sarebbe un primo passo in una nuova direzione. Non solo 
questo darebbe a chi lo fa un vantaggio morale - di per se' un'arma 
importante per il futuro -, ma potrebbe anche disinnescare l'orrore 
indicibile ora attivato dalla reazione a catena della vendetta.
In questi giorni ho ripreso in mano un bellissimo libro (peccato che non 
sia ancora in italiano) di un vecchio amico, uscito due anni fa in 
Germania. Il libro si intitola Die Kunst, nicht regiert zu werden: ethische 
Politik von Sokrates bis Mozart (L'arte di non essere governati: l'etica 
politica da Socrate a Mozart). L'autore e' Ekkehart Krippendorff, che ha 
insegnato per anni a Bologna prima di tornare all'Universita' di Berlino. 
La affascinante tesi di Krippendorff e' che la politica, nella sua 
espressione piu' nobile, nasce dal superamento della vendetta e che la 
cultura occidentale ha le sue radici piu' profonde in alcuni miti, come 
quello di Caino e quello delle Erinni, intesi da sempre a ricordare 
all'uomo la necessita' di rompere il circolo vizioso della vendetta per 
dare origine alla civilta'.
Caino uccide il fratello, ma Dio impedisce agli uomini di vendicare Abele 
e, dopo aver marchiato Caino - un marchio che e' anche una protezione -, lo 
condanna all'esilio dove quello fonda la prima citta'. La vendetta non e' 
degli uomini, spetta a Dio.
Secondo Krippendorff il teatro, da Eschilo a Shakespeare, ha avuto una 
funzione determinante nella formazione dell'uomo occidentale perche' col 
suo mettere sulla scena tutti i protagonisti di un conflitto, ognuno col 
suo punto di vista, i suoi ripensamenti e le sue possibili scelte di 
azione, il teatro e' servito a far riflettere sul senso delle passioni e 
sulla inutilita' della violenza che non raggiunge mai il suo fine.

Purtroppo, oggi, sul palcoscenico del mondo noi occidentali siamo insieme i 
soli protagonisti ed i soli spettatori, e cosi', attraverso le nostre 
televisioni ed i nostri giornali, non ascoltiamo che le nostre ragioni, non 
proviamo che il nostro dolore.
A te, Oriana, i kamikaze non interessano. A me tanto invece. Ho passato 
giorni in Sri Lanka con alcuni giovani delle "Tigri Tamil", votati al 
suicidio. Mi interessano i giovani palestinesi di "Hamas" che si fanno 
saltare in aria nelle pizzerie israeliane. Un po' di pieta' sarebbe forse 
venuta anche a te se in Giappone, sull'isola di Kyushu, tu avessi visitato 
Chiran, il centro dove i primi kamikaze vennero addestrati e tu avessi 
letto le parole, a volte poetiche e tristissime, scritte segretamente prima 
di andare, riluttanti, a morire per la bandiera e per l'Imperatore.
I kamikaze mi interessano perche' vorrei capire che cosa li rende cosi' 
disposti a quell'innaturale atto che e' il suicidio e che cosa potrebbe 
fermarli.
Quelli di noi a cui i figli - fortunatamente - sono nati, si preoccupano 
oggi moltissimo di vederli bruciare nella fiammata di questo nuovo, 
dilagante tipo di violenza di cui l'ecatombe nelle Torri Gemelle potrebbe 
essere solo un episodio.
Non si tratta di giustificare, di condonare, ma di capire. Capire, perche' 
io sono convinto che il problema del terrorismo non si risolvera' uccidendo 
i terroristi, ma eliminando le ragioni che li rendono tali.
Niente nella storia umana e' semplice da spiegare e fra un fatto ed un 
altro c'e' raramente una correlazione diretta e precisa. Ogni evento, anche 
della nostra vita, e' il risultato di migliaia di cause che producono, 
assieme a quell'evento, altre migliaia di effetti, che a loro volta sono le 
cause di altre migliaia di effetti. L'attacco alle Torri Gemelle e' uno di 
questi eventi: il risultato di tanti e complessi fatti antecedenti. Certo 
non e' l'atto di "una guerra di religione" degli estremisti musulmani per 
la conquista delle nostre anime, una Crociata alla rovescia, come la chiami 
tu, Oriana. Non e' neppure "un attacco alla liberta' ed alla democrazia 
occidentale", come vorrebbe la semplicistica formula ora usata dai politici.
Un vecchio accademico dell'Universita' di Berkeley, un uomo certo non 
sospetto di anti-americanismo o di simpatie sinistrorse da' di questa 
storia una interpretazione completamente diversa. "Gli assassini suicidi 
dell'11 settembre non hanno attaccato l'America: hanno attaccato la 
politica estera americana", scrive Chalmers Johnson nel numero di The 
Nation del 15 ottobre. Per lui, autore di vari libri - l'ultimo, Blowback, 
contraccolpo, uscito l'anno scorso (in Italia edito da Garzanti, ndr) ha 
del profetico - si tratterebbe appunto di un ennesimo "contraccolpo" al 
fatto che, nonostante la fine della Guerra Fredda e lo sfasciarsi 
dell'Unione Sovietica, gli Stati Uniti hanno mantenuto intatta la loro rete 
imperiale di circa 800 installazioni militari nel mondo Con una analisi che 
al tempo della Guerra Fredda sarebbe parsa il prodotto della 
disinformazione del Kgb, Chalmers Johnson fa l'elenco di tutti gli 
imbrogli, complotti, colpi di Stato, delle persecuzioni, degli assassinii e 
degli interventi a favore di regimi dittatoriali e corrotti nei quali gli 
Stati Uniti sono stati apertamente o clandestinamente coinvolti in America 
Latina, in Africa, in Asia e nel Medio Oriente dalla fine della Seconda 
Guerra Mondiale ad oggi.
Il "contraccolpo" dell'attacco alle Torri Gemelle ed al Pentagono avrebbe a 
che fare con tutta una serie di fatti di questo tipo: fatti che vanno dal 
colpo di Stato ispirato dalla Cia contro Mossadeq nel 1953, seguito 
dall'installazione dello Shah in Iran, alla Guerra del Golfo, con la 
conseguente permanenza delle truppe americane nella penisola araba, in 
particolare l'Arabia Saudita dove sono i luoghi sacri dell'Islam.
Secondo Johnson sarebbe stata questa politica americana "a convincere tanta 
brava gente in tutto il mondo islamico che gli Stati Uniti sono un 
implacabile nemico".
Cosi' si spiegherebbe il virulento anti-americanismo diffuso nel mondo 
musulmano e che oggi tanto sorprende gli Stati Uniti ed i loro alleati.

Esatta o meno che sia l'analisi di Chalmers Johnson, e' evidente che al 
fondo di tutti i problemi odierni degli americani e nostri nel Medio 
Oriente c'e', a parte la questione israeliano-palestinese, la ossessiva 
preoccupazione occidentale di far restare nelle mani di regimi "amici", 
qualunque essi fossero, le riserve petrolifere della regione. Questa e' 
stata la trappola.
L'occasione per uscirne e' ora.
Perche' non rivediamo la nostra dipendenza economica dal petrolio? Perche' 
non studiamo davvero, come avremmo potuto gia' fare da una ventina d'anni, 
tutte le possibili fonti alternative di energia?
Ci eviteremmo cosi' d'essere coinvolti nel Golfo con regimi non meno 
repressivi ed odiosi dei talebani; ci eviteremmo i sempre piu' disastrosi 
"contraccolpi" che ci verranno sferrati dagli oppositori a quei regimi, e 
potremmo comunque contribuire a mantenere un migliore equilibrio ecologico 
sul pianeta.
Magari salviamo cosi' anche l'Alaska che proprio un paio di mesi fa e' 
stata aperta ai trivellatori, guarda caso dal presidente Bush, le cui 
radici politiche - tutti lo sanno - sono fra i petrolieri.

A proposito del petrolio, Oriana, sono certo che anche tu avrai notato 
come, con tutto quel che si sta scrivendo e dicendo sull'Afghanistan, 
pochissimi fanno notare che il grande interesse per questo paese e' legato 
al fatto d'essere il passaggio obbligato di qualsiasi conduttura intesa a 
portare le immense risorse di metano e petrolio dell'Asia Centrale (vale a 
dire di quelle repubbliche ex-sovietiche ora tutte, improvvisamente, 
alleate con gli Stati Uniti) verso il Pakistan, l'India e da li' nei paesi 
del Sud Est Asiatico. Il tutto senza dover passare dall'Iran. Nessuno in 
questi giorni ha ricordato che, ancora nel 1997, due delegazioni degli 
"orribili" talebani sono state ricevute a Washington (anche al Dipartimento 
di Stato) per trattare di questa faccenda e che una grande azienda 
petrolifera americana, la Unocal, con la consulenza niente di meno che di 
Henry Kissinger, si e' impegnata col Turkmenistan a costruire 
quell'oleodotto attraverso l'Afghanistan.
E dunque possibile che, dietro i discorsi sulla necessita' di proteggere la 
liberta' e la democrazia, l'imminente attacco contro l'Afghanistan nasconda 
anche altre considerazioni meno altisonanti, ma non meno determinanti.
E per questo che nell'America stessa alcuni intellettuali cominciano a 
preoccuparsi che la combinazione fra gli interessi dell'industria 
petrolifera con quelli dell'industria bellica - combinazione ora 
prominentemente rappresentata nella compagine al potere a Washington - 
finisca per determinare in un unico senso le future scelte politiche 
americane nel mondo e per limitare all'interno del paese, in ragione 
dell'emergenza anti-terrorismo, i margini di quelle straordinarie liberta' 
che rendono l'America cosi' particolare.
Il fatto che un giornalista televisivo americano sia stato redarguito dal 
pulpito della Casa Bianca per essersi chiesto se l'aggettivo "codardi", 
usato da Bush, fosse appropriato per i terroristi-suicidi, cosi' come la 
censura di certi programmi e l'allontanamento da alcuni giornali, di 
collaboratori giudicati non ortodossi, hanno aumentato queste preoccupazioni.
L'aver diviso il mondo in maniera - mi pare - "talebana", fra "quelli che 
stanno con noi e quelli contro di noi", crea ovviamente i presupposti per 
quel clima da caccia alle streghe di cui l'America ha gia' sofferto negli 
anni Cinquanta col maccartismo, quando tanti intellettuali, funzionari di 
Stato ed accademici, ingiustamente accusati di essere comunisti o loro 
simpatizzanti, vennero perseguitati, processati e in moltissimi casi 
lasciati senza lavoro.

Il tuo attacco, Oriana - anche a colpi di sputo - alle "cicale" ed agli 
intellettuali "del dubbio" va in quello stesso senso.
Dubitare e' una funzione essenziale del pensiero; il dubbio e' il fondo 
della nostra cultura. Voler togliere il dubbio dalle nostre teste e' come 
volere togliere l'aria ai nostri polmoni. Io non pretendo affatto d'aver 
risposte chiare e precise ai problemi del mondo (per questo non faccio il 
politico), ma penso sia utile che mi si lasci dubitare delle risposte 
altrui e mi si lasci porre delle oneste domande.
In questi tempi di guerra non deve essere un crimine parlare di pace.
Purtroppo anche qui da noi, specie nel mondo "ufficiale" della politica e 
dell'establishment mediatico, c'e' stata una disperante corsa alla 
ortodossia. E come se l'America ci mettesse gia' paura. Capita cosi' di 
sentir dire in televisione a un post-comunista in odore di una qualche 
carica nel suo partito, che il soldato Ryan e' un importante simbolo di 
quell'America che per due volte ci ha salvato. Ma non c'era anche lui nelle 
marce contro la guerra americana in Vietnam?
Per i politici - me ne rendo conto - e' un momento difficilissimo. Li 
capisco e capisco ancor piu' l'angoscia di qualcuno che, avendo preso la 
via del potere come una scorciatoia per risolvere un piccolo conflitto di 
interessi terreni si ritrova ora alle prese con un enorme conflitto di 
interessi divini, una guerra di civilta' combattuta in nome di Iddio e di 
Allah. No. Non li invidio, i politici.
Siamo fortunati noi, Oriana. Abbiamo poco da decidere e non trovandoci in 
mezzo ai flutti del fiume, abbiamo il privilegio di poter stare sulla riva 
a guardare la corrente.
Ma questo ci impone anche grandi responsabilita' come quella, non facile, 
di andare dietro alla verita' e di dedicarci soprattutto "a creare campi di 
comprensione, invece che campi di battaglia", come ha scritto Edward Said, 
professore di origine palestinese ora alla Columbia University, in un 
saggio sul ruolo degli intellettuali uscito proprio una settimana prima 
degli attentati in America.
Il nostro mestiere consiste anche nel semplificare quel che e' complicato. 
Ma non si puo' esagerare, Oriana, presentando Arafat come la quintessenza 
della doppiezza e del terrorismo ed indicando le comunita' di immigrati 
musulmani da noi come incubatrici di terroristi.

Le tue argomentazioni verranno ora usate nelle scuole contro quelle 
buoniste, da libro Cuore, ma tu credi che gli italiani di domani, educati a 
questo semplicismo intollerante, saranno migliori?
Non sarebbe invece meglio che imparassero, a lezione di religione, anche 
che cosa e' l'Islam? Che a lezione di letteratura leggessero anche Rumi o 
il da te disprezzato Omar Kayan? Non sarebbe meglio che ci fossero quelli 
che studiano l'arabo, oltre ai tanti che gia' studiano l'inglese e magari 
il giapponese?
Lo sai che al ministero degli Esteri di questo nostro paese affacciato sul 
Mediterraneo e sul mondo musulmano, ci sono solo due funzionari che parlano 
arabo? Uno attualmente e', come capita da noi, console ad Adelaide in 
Australia.

Mi frulla in testa una frase di Toynbee: "Le opere di artisti e letterati 
hanno vita piu' lunga delle gesta di soldati, di statisti e mercanti. I 
poeti ed i filosofi vanno piu' in la' degli storici. Ma i santi e i profeti 
valgono di piu' di tutti gli altri messi assieme".
Dove sono oggi i santi ed i profeti? Davvero, ce ne vorrebbe almeno uno! Ci 
rivorrebbe un San Francesco. Anche i suoi erano tempi di crociate, ma il 
suo interesse era per "gli altri", per quelli contro i quali combattevano i 
crociati. Fece di tutto per andarli a trovare. Ci provo' una prima volta, 
ma la nave su cui viaggiava naufrago' e lui si salvo' a malapena. Ci provo' 
una seconda volta, ma si ammalo' prima di arrivare e torno' indietro. 
Finalmente, nel corso della quinta crociata, durante l'assedio di Damietta 
in Egitto, amareggiato dal comportamento dei crociati ("vide il male ed il 
peccato"), sconvolto da una spaventosa battaglia di cui aveva visto le 
vittime, San Francesco attraverso' le linee del fronte. Venne catturato, 
incatenato e portato al cospetto del Sultano. Peccato che non c'era ancora 
la Cnn - era il 1219 - perche' sarebbe interessantissimo rivedere oggi il 
filmato di quell'incontro. Certo fu particolarissimo perche', dopo una 
chiacchierata che probabilmente ando' avanti nella notte, al mattino il 
Sultano lascio' che San Francesco tornasse, incolume, all'accampamento dei 
crociati.
Mi diverte pensare che l'uno disse all'altro le sue ragioni, che San 
Francesco parlo' di Cristo, che il Sultano lesse passi del Corano e che 
alla fine si trovarono d'accordo sul messaggio che il poverello di Assisi 
ripeteva ovunque: "Ama il prossimo tuo come te stesso". Mi diverte anche 
immaginare che, siccome il frate sapeva ridere come predicare, fra i due 
non ci fu aggressivita' e che si lasciarono di buon umore sapendo che 
comunque non potevano fermare la storia.

Ma oggi? Non fermarla puo' voler dire farla finire. Ti ricordi, Oriana, 
Padre Balducci che predicava a Firenze quando noi eravamo ragazzi? Riguardo 
all'orrore dell'olocausto atomico pose una bella domanda: "La sindrome da 
fine del mondo, l'alternativa fra essere e non essere, hanno fatto 
diventare l'uomo piu' umano?". A guardarsi intorno la risposta mi pare 
debba essere "No".
Ma non possiamo rinunciare alla speranza.

"Mi dica, che cosa spinge l'uomo alla guerra?", chiedeva Albert Einstein 
nel 1932 in una lettera a Sigmund Freud. "E possibile dirigere l'evoluzione 
psichica dell'uomo in modo che egli diventi piu' capace di resistere alla 
psicosi dell'odio e della distruzione?" Freud si prese due mesi per 
rispondergli. La sua conclusione fu che c'era da sperare: l'influsso di due 
fattori - un atteggiamento piu' civile, ed il giustificato timore degli 
effetti di una guerra futura - avrebbe dovuto mettere fine alle guerre in 
un prossimo avvenire.
Giusto in tempo la morte risparmio' a Freud gli orrori della Seconda Guerra 
Mondiale.
Non li risparmio' invece ad Einstein, che divenne pero' sempre piu' 
convinto della necessita' del pacifismo. Nel 1955, poco prima di morire, 
dalla sua casetta di Princeton in America dove aveva trovato rifugio, 
rivolse all'umanita' un ultimo appello per la sua sopravvivenza: 
"Ricordatevi che siete uomini e dimenticatevi tutto il resto".

Per difendersi, Oriana, non c'e' bisogno di offendere (penso ai tuoi sputi 
ed ai tuoi calci). Per proteggersi non c'e' bisogno d'ammazzare. Ed anche 
in questo possono esserci delle giuste eccezioni.
M'e' sempre piaciuta nei Jataka, le storie delle vite precedenti di Buddha, 
quella in cui persino lui, epitome della non violenza, in una incarnazione 
anteriore uccide. Viaggia su una barca assieme ad altre 500 persone. Lui, 
che ha gia' i poteri della preveggenza, "vede" che uno dei passeggeri, un 
brigante, sta per ammazzare tutti e derubarli e lui lo previene buttandolo 
nell'acqua ad affogare per salvare gli altri.

Essere contro la pena di morte non vuol dire essere contro la pena in 
genere ed in favore della liberta' di tutti i delinquenti. Ma per punire 
con giustizia occorre il rispetto di certe regole che sono il frutto 
dell'incivilimento, occorre il convincimento della ragione, occorrono delle 
prove. I gerarchi nazisti furono portati dinanzi al Tribunale di 
Norimberga; quelli giapponesi responsabili di tutte le atrocita' commesse 
in Asia, furono portati dinanzi al Tribunale di Tokio prima di essere, gli 
uni e gli altri, dovutamente impiccati. Le prove contro ognuno di loro 
erano schiaccianti. Ma quelle contro Osama Bin Laden?
"Noi abbiamo tutte le prove contro Warren Anderson, presidente della Union 
Carbide. Aspettiamo che ce lo estradiate", scrive in questi giorni 
dall'India agli americani, ovviamente a mo' di provocazione, Arundhati Roy, 
la scrittrice de Il Dio delle piccole cose: una come te, Oriana, famosa e 
contestata, amata ed odiata. Come te, sempre pronta a cominciare una rissa, 
la Roy ha usato della discussione mondiale su Osama Bin Laden per chiedere 
che venga portato dinanzi ad un tribunale indiano il presidente americano 
della Union Carbide responsabile dell'esplosione nel 1984 nella fabbrica 
chimica di Bhopal in India che fece 16.000 morti. Un terrorista anche lui? 
Dal punto di vista di quei morti forse si'.

L'immagine del terrorista che ora ci viene additata come quella del 
"nemico" da abbattere e' il miliardario saudita che, da una tana nelle 
montagne dell'Afghanistan, ordina l'attacco alle Torri Gemelle; e' 
l'ingegnere-pilota, islamista fanatico, che in nome di Allah uccide se 
stesso e migliaia di innocenti; e' il ragazzo palestinese che con una 
borsetta imbottita di dinamite si fa esplodere in mezzo ad una folla.
Dobbiamo pero' accettare che per altri il "terrorista" possa essere l'uomo 
d'affari che arriva in un paese povero del Terzo Mondo con nella borsetta 
non una bomba, ma i piani per la costruzione di una fabbrica chimica che, a 
causa di rischi di esplosione ed inquinamento, non potrebbe mai essere 
costruita in un paese ricco del Primo Mondo. E la centrale nucleare che fa 
ammalare di cancro la gente che ci vive vicino? E la diga che disloca 
decine di migliaia di famiglie? O semplicemente la costruzione di tante 
piccole industrie che cementificano risaie secolari, trasformando migliaia 
di contadini in operai per produrre scarpe da ginnastica o radioline, fino 
al giorno in cui e' piu' conveniente portare quelle lavorazioni altrove e 
le fabbriche chiudono, gli operai restano senza lavoro e non essendoci piu' 
i campi per far crescere il riso, muoiono di fame?
Questo non e' relativismo. Voglio solo dire che il terrorismo, come modo di 
usare la violenza, puo' esprimersi in varie forme, a volte anche 
economiche, e che sara' difficile arrivare ad una definizione comune del 
nemico da debellare.
I governi occidentali oggi sono uniti nell'essere a fianco degli Stati 
Uniti; pretendono di sapere esattamente chi sono i terroristi e come vanno 
combattuti.
Molto meno convinti pero' sembrano i cittadini dei vari paesi. Per il 
momento non ci sono state in Europa dimostrazioni di massa per la pace; ma 
il senso del disagio e' diffuso cosi' come e' diffusa la confusione su quel 
che si debba volere al posto della guerra.
"Dateci qualcosa di piu' carino del capitalismo", diceva il cartello di un 
dimostrante in Germania.
"Un mondo giusto non e' mai NATO", c'era scritto sullo striscione di alcuni 
giovani che marciavano giorni fa a Bologna. Gia'. Un mondo "piu' giusto" e' 
forse quel che noi tutti, ora piu' che mai, potremmo pretendere. Un mondo 
in cui chi ha tanto si preoccupa di chi non ha nulla; un mondo retto da 
principi di legalita' ed ispirato ad un po' piu' di moralita'.
La vastissima, composita alleanza che Washington sta mettendo in piedi, 
rovesciando vecchi schieramenti e riavvicinando paesi e personaggi che 
erano stati messi alla gogna, solo perche' ora tornano comodi, e' solo 
l'ennesimo esempio di quel cinismo politico che oggi alimenta il terrorismo 
in certe aree del mondo e scoraggia tanta brava gente nei nostri paesi.

Gli Stati Uniti, per avere la maggiore copertura possibile e per dare alla 
guerra contro il terrorismo un crisma di legalita' internazionale, hanno 
coinvolto le Nazioni Unite, eppure gli Stati Uniti stessi rimangono il 
paese piu' reticente a pagare le proprie quote al Palazzo di Vetro, sono il 
paese che non ha ancora ratificato ne' il trattato costitutivo della Corte 
Internazionale di Giustizia, ne' il trattato per la messa al bando delle 
mine anti-uomo e tanto meno quello di Kyoto sulle mutazioni climatiche.
L'interesse nazionale americano ha la meglio su qualsiasi altro principio. 
Per questo ora Washington riscopre l'utilita' del Pakistan, prima tenuto a 
distanza per il suo regime militare e punito con sanzioni economiche a 
causa dei suoi esperimenti nucleari; per questo la Cia sara' presto 
autorizzata di nuovo ad assoldare mafiosi e gangster cui affidare i 
"lavoretti sporchi" di liquidare qua e la' nel mondo le persone che la Cia 
stessa mettera' sulla sua lista nera.

Eppure un giorno la politica dovra' ricongiungersi con l'etica se vorremo 
vivere in un mondo migliore: migliore in Asia come in Africa, a Timbuctu 
come a Firenze.

A proposito, Oriana. Anche a me ogni volta che, come ora, ci passo, questa 
citta' mi fa male e mi intristisce. Tutto e' cambiato, tutto e' 
involgarito. Ma la colpa non e' dell'Islam o degli immigrati che ci si sono 
installati. Non son loro che han fatto di Firenze una citta' bottegaia, 
prostituita al turismo! E successo dappertutto. Firenze era bella quando 
era piu' piccola e piu' povera. Ora e' un obbrobrio, ma non perche' i 
musulmani si attendano in Piazza del Duomo, perche' i filippini si 
riuniscono il giovedi' in Piazza Santa Maria Novella e gli albanesi ogni 
giorno attorno alla stazione.
E cosi' perche' anche Firenze s'e' "globalizzata", perche' non ha resistito 
all'assalto di quella forza che, fino ad ieri, pareva irresistibile: la 
forza del mercato.
Nel giro di due anni da una bella strada del centro in cui mi piaceva 
andare a spasso e' scomparsa una libreria storica, un vecchio bar, una 
tradizionalissima farmacia ed un negozio di musica. Per far posto a che? A 
tanti negozi di moda. Credimi, anch'io non mi ci ritrovo piu'.
Per questo sto, anch'io ritirato, in una sorta di baita nell'Himalaya 
indiana dinanzi alle piu' divine montagne del mondo. Passo ore, da solo, a 
guardarle, li' maestose ed immobili, simbolo della piu' grande stabilita', 
eppure anche loro, col passare delle ore, continuamente diverse e 
impermanenti come tutto in questo mondo.

La natura e' una grande maestra, Oriana, e bisogna ogni tanto tornarci a 
prendere lezione. Tornaci anche tu. Chiusa nella scatola di un appartamento 
dentro la scatola di un grattacielo, con dinanzi altri grattacieli pieni di 
gente inscatolata, finirai per sentirti sola davvero; sentirai la tua 
esistenza come un accidente e non come parte di un tutto molto, molto piu' 
grande di tutte le torri che hai davanti e di quelle che non ci sono piu'.
Guarda un filo d'erba al vento e sentiti come lui. Ti passera' anche la rabbia.
Ti saluto, Oriana e ti auguro di tutto cuore di trovare pace.
Perche' se quella non e' dentro di noi non sara' mai da nessuna parte.






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Mi scuso con tutti coloro che hanno gia' ricevuto questo testo,
e con tutti per l'arbitrio che mi prendo nel mandarvi questo tipo di documenti.
Chiedo a chi non vuole riceverli di mandarmi un cenno.
I contenuti qui espressi non corrispondono necessariamente col mio punto di 
vista.

sdv
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