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Ulivo: lettera aperta ai pacifisti




Lettera aperta ai pacifisti

Cari amici, abbiamo aderito alla marcia PerugiaAssisi di domenica prossima 
e quelli di noi che ci saranno, saranno lì ancora una volta perché tutti 
noi vogliamo, come voi, un futuro di pace, di giustizia, di libertà. 
Sfileremo insieme quindi, consapevoli della crisi drammatica che ha 
investito il mondo dopo le stragi dell'undici settembre e naturalmente 
delle differenze di giudizio emerse tra noi dopo la reazione militare 
contro il regime talebano di Kabul. I militanti dell'Ulivo ci saranno 
perché la marcia della pace è stata storicamente la sede di un impegno 
comune degli uomini e delle donne di buona volontà ma anche l'occasione per 
confrontare opinioni e culture diverse. E dunque con voi in primo luogo 
vogliamo dialogare per approfondire le ragioni di ciascuno.
Come sapete, noi non condividiamo la posizione che alcuni di voi hanno 
assunto dopo l'attacco americano all'Afghanistan. L'azione militare di 
questi giorni contro postazioni dei talebani è una reazione mirata e 
legittima dopo gli attentati di New York e Washington. In termini generali, 
è un dovere morale colpire strutture legate al terrorismo dotate di mezzi e 
risorse potenzialmente devastanti. E ciò è tanto più vero alla luce del 
proclama di Osama Bin Laden e del suo programma di guerra totale 
all'Occidente, ai suoi popoli, ai simboli della nostra cultura. Sappiamo 
bene che a dividerci non è il giudizio su questa manifestazione di 
fanatismo ma le politiche e gli strumenti necessari a neutralizzarlo. Ed è 
appunto su questo che dobbiamo confrontarci.
La prima considerazione riguarda la guerra, l'idea che abbiamo della guerra 
e soprattutto la sua data d'inizio. Da questo punto di vista, dovremmo 
evitare di ripetere gli errori già compiuti all'epoca della ex Jugoslavia. 
La guerra, la concreta guerra che insanguina l'Afghanistan, non è iniziata 
con i missili Cruise lanciati in questi giorni. La guerra è da anni quella 
dei talebani contro il popolo afgano. E prima ancora quella dell'invasione 
sovietica. Milioni di persone oppresse da una dittatura odiosa che 
costringe le donne a condizioni di vita inumane. Una guerra che ha già 
causato migliaia di vittime. Nel corso del tempo, quello stesso regime ha 
fornito basi operative, supporti logistici e protezione politica 
all'organizzazione terroristica di Bin Laden. Per settimane, dopo gli 
attentati di settembre, la comunità internazionale ha chiesto al regime di 
Kabul una totale collaborazione e la consegna dei terroristi ricevendo in 
cambio un rifiuto sprezzante. Solo a questo punto, e dopo che l'Onu ha 
legittimato con sue risoluzioni l'uso della forza contro esecutori, 
mandanti e complici delle stragi americane, è partita l'offensiva militare.
Si poteva agire diversamente? Crediamo di no. Riteniamo si fosse giunti a 
un punto tale da rendere necessaria un'azione di forza che fosse in grado 
di colpire le centrali logistiche del terrore e di isolare il regime 
talebano. Voi dite che l'azione è in sé illegittima perché «espressamente 
vietata dalla Carta delle Nazioni Unite». E' una posizione contraddetta dal 
Consiglio di Sicurezza dell'Onu e dalle parole stesse del Segretario 
generale, Kofi Annan, il quale esprimendo sostegno all'iniziativa americana 
ha parlato esplicitamente di «legittima difesa» richiamando l'articolo 51 
della Carta delle Nazioni Unite.
Abbiamo rammentato la tragedia jugoslava non a caso. Anche allora ci fu chi 
invocò l'intervento dell'Onu. Un intervento militare e non solo 
diplomatico. Quell'azione però non venne. E a Srebrenica - solo per citare 
l'orrore più indicibile - nell'estate del 1995 si compì il massacro di 
ottomila mussulmani deportati, uccisi e gettati in fosse comuni. Qualche 
giorno prima, i caschi blu olandesi che controllavano l'enclave bosniaca 
avevano invocato a più riprese un bombardamento dissuasivo della Nato sulle 
milizie serbe che accerchiavano la città. Ma, come ricorderete, nessun 
aereo si levò in volo e il mondo subì in silenzio l'onta di una tragedia e 
di una vergogna. Lo rammentiamo a ciascuno di noi per ammonirci dal 
cedimento a posizioni di principio discutibili nel merito ma soprattutto 
impotenti a risolvere il dramma concreto di milioni di persone disperate. 
L'uso della forza - questo è il punto - non può essere un tabù. Talvolta 
esso si manifesta come una dolorosa necessità per impedire che si consumino 
tragedie più grandi. In questo senso l'attacco ai talebani non è 
un'aggressione al popolo afgano né tantomeno una sfida all'Islam. E' la 
condizione per isolare un regime sanguinario e per rimuovere il pericolo di 
un attacco all'umanità mascherato sotto le sembianze di una sedicente 
guerra di religione e di civiltà.
La seconda considerazione investe più direttamente la politica e le sue 
responsabilità. Come si è detto da più parti gli eventi delle ultime 
settimane hanno cambiato il corso della storia. Questo può restituire alla 
politica una funzione centrale nella gestione di questa crisi e delle 
prospettive della globalizzazione. Non era un esito scontato. Vi ha 
contribuito, a diverso titolo, più di un protagonista. L'amministrazione 
americana, senza dubbio, con la decisione di non precipitare tutto in una 
reazione cieca e immediata. Arafat, scegliendo da subito la collocazione 
più difficile ma certamente più saggia e utile alla causa palestinese, e 
con lui la leadership israeliana consapevole dell'urgenza di una tregua. E 
ancora, la Russia di Putin, la Cina, una parte importante del mondo arabo e 
naturalmente l'Europa e il nostro paese; realtà e nazioni distanti ma unite 
per la prima volta in una coalizione mondiale che ridisegna lo scenario 
geopolitico del dopo guerra fredda. E' probabile che la grandezza di questi 
eventi si manifesterà in tutta la sua portata col passare degli anni. Ma 
qualcosa si può dire da subito. Le novità di queste settimane consentono di 
pensare all'azione militare in atto come a una sola delle articolazioni di 
una strategia che si sviluppa lungo piani diversi. E' ripreso, seppure in 
condizioni difficilissime, il dialogo tra israeliani e palestinesi. Sharon 
ha dovuto prendere atto dell'interesse strategico degli Stati Uniti a 
rilanciare, qui e ora, la convivenza tra la sicurezza dello Stato di 
Israele e il diritto a una patria per i palestinesi.
Anche questo è un risultato della politica perseguita in queste settimane 
dalla comunità internazionale. Lo stesso dovrà accadere, nei mesi a venire, 
per altre aree e contesti di crisi. Ciò a cui stiamo assistendo è la 
ricerca, faticosa e tormentata fin che si vuole, di un diverso ordine 
globale. Siamo tutti chiamati a fare i conti con questo mutamento. Possiamo 
leggere tutto questo come il modo concreto in cui la politica si 
riappropria delle sue prerogative assolvendo a una funzione storica di 
regolazione dei conflitti e di governo degli equilibri globali. Prosciugare 
i giacimenti dell'odio e della sofferenza, colpire lo sfruttamento dei più 
poveri e ripensare le strategie dello sviluppo e del benessere: questa può 
divenire la nuova agenda politica mondiale. La sfida è esserne 
protagonisti, condurre un'azione concreta perché prevalgano le ragioni 
della pace e della politica su scala europea e internazionale.
Dicendo questo noi riconosciamo non solo piena legittimità ma un ruolo 
prezioso alle posizioni di un pacifismo integrale. Ma dobbiamo anche dire, 
con la stessa sincerità, che non esiste un solo modo di concepire la lotta 
per la pace e che il nostro ruolo - quello di una coalizione che si è 
assunta in un passato recente la responsabilità di guidare il paese e che 
punta a farlo nuovamente in futuro - è un ruolo diverso, ma punta 
risolutamente al traguardo di una pace vera e stabile. E si misura con 
l'obbligo, in momenti difficili e drammatici, di assumersi la 
responsabilità di scelte che, per le ragioni indicate, non possono 
escludere un uso regolato della forza. Così è stato per il Kosovo e quella 
scelta ha contribuito a salvare migliaia di vite, a proteggere decine di 
migliaia di profughi, a combattere la dittatura di Milosevic e a portare la 
democrazia dove prima democrazia non c'era.
E' questo che ci spinge a confrontarci con voi su come legare 
indissolubilmente pace e giustizia, cessazione dei conflitti e rimozione 
delle ingiustizie che spesso li originano. In questa situazione è tanto più 
importante che nessuno pensi di interpretare da solo, e unicamente sulla 
base dei propri princìpi, le ragioni vere e gli obiettivi duraturi della 
pace. Diciamo che mai come adesso bisogna saper ascoltare e comprendere le 
ragioni degli altri. Come chi ha oggi la responsabilità della guida 
dell'Ulivo e chi in questi anni ha guidato il governo del paese, tanto ci 
sentivamo in dovere di dirvi per la stima e il rispetto reciproco tra noi.

Francesco Rutelli, Piero Fassino, Giuliano Amato, Massimo D'Alema, Lamberto 
Dini
su Repubblica 11/10/01