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[TESTIMONIANZE] - Questo non e' un sogno
Questo non è un sogno.
E’ un racconto, vissuto dai e con, i miei occhi. E’ la storia di una festa,
gioiosa, colorata, ma anche determinata e ferma, finita in tragedia. E
tristezza.
E’ la storia di una giovane vita spezzata, assassinata dalla protervia e
dall’arroganza, dalla certezza dell’impunità. E’ la cronaca di un giorno di
follia, cui ne seguiranno altri, che sarebbe giusto definire di follia se
non fosse per la sua scientifica programmazione.
Eravamo partiti di notte, mercoledì 19, intorno alle ventitré, alla volta
di Genova, per essere puntuali il giorno dopo, alle otto, orario di
appuntamento con gli altri di “Un Ponte per…” per preparare la nostra
partecipazione alla manifestazione del 20 Luglio, indetta dai sindacati di
base ma, soprattutto, per portare il nostro contributo nelle piazze
tematiche, vero e proprio clou dell’ anti G8, dove saremo presenti con le
nostre iniziative all’interno del variegatissimo mondo del movimento anti
globalizzazione.
Il vento ci sposta il pulmino, decisamente anche lui No Global, con la sua
targa napoletana, la scarsa tenuta di strada, le ammaccature varie che ci
fanno temere fermi e sequestri molto prima di Genova. Non si va più di
ottanta all’ora. Quando sembra finire tutto, una sventagliata di acqua e
vento ci investe e ci fa perdere un attimo il controllo. Ma che siano tutti
tentativi per scoraggiarci? Restiamo calmi e andiamo avanti, Genova arriverà.
E arriva, Genova, senza fermi, senza controlli tutto apparentemente
normale. Ci spostiamo con gli altri che troviamo al centro sportivo
Sciorba, per andare a Piazza Rossetti, davanti la Fiera. Li iniziamo il
nostro lavoro. Distribuiremo datteri iracheni importati illegalmente per
via dell’embargo che, in dieci anni, ha causato, anche se in tempi di
globalizzazione sarebbe più corretto dire prodotto… quasi due milioni di
morti. Laggiù, davvero il G8 se lo ritrovano tutti i giorni, a tavola
quando manca il cibo, nelle farmacie quando mancano le medicine, fra le
braccia di una madre e lo sguardo impotente di un padre, quando muore un
loro figlio.
Ed è proprio quello che dico distribuendo i nostri volantini “Fermiamo il
massacro in Iraq”. Sembra fantascienza, oppure una presa in giro… Fermare
un massacro mangiando datteri?
Ebbene è proprio così ed è per questo, cominciamo a pensare, che c’è tanta
polizia, tassativamente in assetto guerresco, che la città è deserta, che
le serrande dei negozi ma pure delle finestre sono abbassate. Perché
attraverso gesti semplici e quotidiani, ma dettati da scelte di fondo, che
si mettono in crisi i grossi poteri economici delle multinazionali contro
le quali, a parole, tutti sono contro, salvo legittimarle ogni volta cvhe
si sceglie anche solo un semplice prodotto alimentare.
La situazione è irreale, per comprare un giornale si fanno chilometri, per
un bar manco a parlarne, tranne qualche temerario. Ma temerario, perché?
Stanno per calare i barbari, o sono già arrivati da un pezzo?
Il nostro pulmino è visibile, coi suoi datteri, i ventagli, le magliette
con la scritta “Contrabbandiere Etico”, i manifesti che annunciano le
prossime iniziative contro l’embargo. Siamo pronti. Partiamo, in prima,
piano piano, alla volta della prima delle piazzette tematiche che
intendiamo raggiungere. Cominciamo da Piazza Carignano, vicino a Piazza
Dante. C’è già molta gente, iniziamo la distribuzione, qualcuno lascia
sottoscrizioni, non ci avevamo pensato e così un cesto lo attrezziamo per i
soldi e si riempie subito. Chi mille, chi diecimila, ognuno per quello che
può, se può, altrimenti è lo stesso. La solidarietà la si coglie negli
sguardi curiosi di chi chiede, di chi si informa, nella telecamera di uno
dei registi impegnati nel girare il film sul movimento anti G8.
Inizia il corteo verso la famigerata zona rossa, e ci accodiamo per
fermarci un poco prima, anche perché un attivista di Attac, movimento non
violento francese ma con tante sedi anche in Italia, ci consiglia di
fermarci e girare il furgoncino per essere pronti a una eventuale fuga,
sempre da mettere in conto. Gli diamo retta, anche se tutto sembra
tranquillo, ognuno calato nel suo ruolo, nella sua parte. Passano gli
ottoni, intonano Bella Ciao, e poi musiche di Bregovic, l’Internazionale,
la Tammurriata Nera. E’ tutto molto colorato e davanti a quelle ridicole
inferriate, e oscene, va in onda uno spettacolo di fantasia e leggerezza
che è un piacere. Si incontra ‘O Zulù, dei 99 Posse, si canta e si balla.
Nel nostro volantino si fa il verso a Manu Chao, ricordando le nostro
campagne… Jugoslavia, clandestina! Palestina, clandestina! Kurdistan,
clandestino! Dattero Iracheno, ILLEGAL!!!
Poi, arriva il tempo di andare via. C’è stato lo sfondamento, adesso le
uniformi sono schierate e si teme un attacco più pesante delle scariche di
acqua che provocano bruciore sulla pelle.
Ce ne andiamo. La strada è in salita e a metà, due persone ci chiedono di
accompagnare una anziana signora. Lo facciamo volentieri, il suo volto mi è
noto, la sua lingua… è argentina, è nel movimento, poi quelle parole… sono
la presidente… Madri de Plaza de Majo… Stiamo dando un passaggio a Hebe de
Bonafini! Siamo commossi, io la tocco, come fosse un’icona e lo è, ma è
vivente! Quando scende l’abbraccio forte, spero di non aver esagerato. Lei
ringrazia e se ne va.
Ma madre Hede due parole le ha dette, pure. “C’è molta polizia in borghese,
bisogna stare attenti”. E lei se ne intende…
Cominciano ad arrivare notizie di scontri. La nostra prossima tappa è
Piazza Manin, ma per arrivarci ci rendiamo subito conto che sarà un bel
problema. Non abbiamo radio, le uniche notizie che circolano sono i tam tam
nel movimento. Cominciamo a scendere da Piazza Carignano per ripassare a
piazza Rossetti, ma ci sono vie bloccate. Via via che avanziamo, il
paesaggio lunare della mattina ci appare in tutta la sua devastazione.
Eppure da quelle parti non doveva passarci nessun corteo, come mai tutta
quella distruzione? Vetrine spaccate, auto coi vetri rotti, cassonetti dati
alle fiamme. Sembra un assaggio, perché l’atmosfera è quella del passaggio
di un uragano che deve essere andato oltre. E oltre, è dove ci dirigiamo noi.
Per piazza Manin è impossibile passare. Ci dirigiamo, allora, verso viale
Gastoldi, dovremmo incrociare uno spezzone del corteo dei Cobas e delle
tute bianche che, in realtà, per l’occasione hanno dichiarato che avrebbero
dismesso le tute, quasi a voler rimarcare la loro completa adesione a un
movimento che diventa sempre più importante e composito.
Ma anche li non si passa. Si vede tanto fumo, laggiù in fondo al vialone,
la strada è sbarrata, c’è un andirivieni di ambulanze. Qualcuno di noi
telefona a casa, anche per sapere cosa succede. Arrivano le prime notizie,
si parla di due ragazzi morti, uno travolto da un blindato della polizia,
un altro ammazzato da un colpo di pistola. Col tempo, sapremo che erano la
stessa persona. Un ragazzo poco più che ventenne, Carlo Giuliani, romano
residente a Genova, è stato ammazzato. Cominciamo a girare cercando strade
per continuare la nostra opera, coscienti che siamo qui per dare voce agli
invisibili, emarginati dal mondo che li schiaccia con scelte infami ma
infinitamente redditizie per il grande potere economico. No, non ci
sentiamo ridicoli a distribuire datteri in mezzo a gente che è appena stata
massacrata di botte da altra gente pagata, non so quanto e non mi
interessa, per farlo. Anzi! A ridosso di piazza Manin ci infiliamo in mezzo
a tanti ragazzi con gli occhi gonfi, la pelle irritata, qualcuno pestato.
Stanno scendendo verso piazzale Kennedy, il ritrovo del GSF. Sono
impauriti, molti di loro fanno parte di quell’associazionismo cattolico che
ha deciso di starci concretamente, dalla parte degli oppressi e contro gli
oppressori. Ci viene spontaneo, ci fanno tenerezza, sono giovani, noi siamo
tutti intorno ai quaranta, chi più chi meno. Scendiamo, li chiamiamo,
vengono intorno, hanno bisogno di sicurezza, diamo loro datteri,
addolciscono la bocca, abbiamo anche acqua che questa città, tranne un bar
con lo stemma di Rifondazione e un quadro di Fabrizio De André che ha
resistito alla chiusura, in viale Gastoldi e che, comunque, l’acqua aveva
esaurito, ha loro negato, negandosi. Per la paura di una vetrina infranta,
o di un esproprio, insomma… del proprio giardino insozzato. Ma non
insozzano nessuno, questi ragazzi, guardateli come sono belli nella loro
stanchezza, nella loro voglia di andare avanti, di farsi cacciare da una
porta per rientrare dalle finestre della vostra coscienza! Sono infiniti,
sono tenaci, non li disperderete mai coi vostri lacrimogeni, perché sanno
piangere anche lacrime vere, perché hanno la sensibilità che la vostra
ipocrisia non ha mai conosciuto. La vostra ipocrisia che ha paura dei loro
passi leggeri, del loro battito d’ali, aquiloni al vento, ipocrisia che si
sente rassicurata da uniformi come marziani schierate coi fucili spianati,
coi loro passi ritmici e pesanti come macigni. Statevene pure rintanati,
voi si, come topi, scappate pure in vacanza, come vi hanno consigliato per
settimane, non vi unite a noi, che sennò verrete appestati. Di sensibilità,
di amore per la propria coscienza, di rabbia per chi opprime, di
solidarietà per chi è oppresso. E queste, sono malattie davvero incurabili.
Continuiamo con loro. Alcuni ragazzi con degli strumenti musicali, le loro
uniche armi, ci regalano delle belle suonate in cambio dei datteri.
Proseguiamo fino a quando, al momento di svoltare per via Torino, ci si
accorge che le schiere di uniformi sono già pronte alla guerra. Davanti c’è
fumo, a destra ci sono i marziani, a sinistra c’è fumo, dietro, ancora
marziani. Che fare? Fabio, il nostro presidente, vuole parlamentare coi
marziani, ma non lo fanno avvicinare. Ci spostiamo col furgoncino per non
intasare il traffico di auto che cercano un varco per guadagnare la strada
di casa, verso sinistra. All’improvviso, sirene di ambulanza gettano tutti
in apprensione. Poi, altre sirene, stavolta dei blindati in uniforme, si
lanciano a folle velocità verso tutti noi. Ci spostiamo ancora per non
farci travolgere, arrivano da laggiù, facciamo appena in tempo. Dal tetto
dei blindati, qualche uniforme ostenta il suo fucile di precisione, altri i
manganelli, agitandoli quasi a dire “Adesso veniamo!”. Qualcuno gli sputa
contro dolce saliva di ragazzo, altri gridano tenere parole di rabbia,
altri ancora carezze di bastone da scopa. Di violento c’è, davvero, solo
ciò che si vede e che sta nei nostri occhi. E ciò che si vede viene da
dentro ed è rabbia. Impotenza. Voglia di giustizia. Consapevolezza della
sua inesistenza.
Il corteo si disperde e arretra. E’ iniziata la carica. Hanno perso la
testa, forse. O, invece, ce l’hanno ben salda. Ragazzi si fanno avanti a
mani alzate, ma non trovano la forza per andare avanti. Hanno paura,
abbiamo paura. La paura è sentimento nobile ed è nobile ammetterla. Non
siamo eroi, nessuno qui è un eroe. Ma stare qui a frapporre i propri corpi,
i propri volti davanti a tanta protervia, in nome di ideali nobili e così
tanto concreti, come… azzeramento del debito per i paesi in via di
sviluppo… destinazione di una cospicua parte del prodotto interno lordo per
sviluppo e cooperazione, quella vera… lotta alle multinazionali che
producono OGM, pesticidi, mucche pazze sempre e solo in nome del profitto,
il loro… lotta al commercio di armi… lotta ai guadagni selvaggi in borsa…
restituzione della dignità ai paesi più poveri… abolizione dei paradisi
fiscali.. lavoro per tutti, senza sfruttamento… stare li per questo, beh…
ti fa sentire forte.
Solo che quando parte la carica, o sei veramente armato ma non come ci
hanno raccontato, inebetendoci, i mezzi di informazione, chiamiamoli così,
cioè con sassi, bastoni o altre stupidaggini del genere. O sei armato di
bazooka e bombe a mano, oppure è meglio che te ne vai. Noi ce ne siamo
andati, anche perché qualcuno cominciava ad avere davvero paura di finire
in mezzo a quelle uniformi, che nulla di umano lasciavano presagire. E
questa cosa, gli deve piacere tanto…
La sera, a piazzale Kennedy, c’è un atmosfera di rabbia e tristezza. E
tanta tensione. Per arrivarci, abbiamo dovuto fare un giro lunghissimo,
arrivando fino a Nervi dopo essere usciti dall’autostrada, percorrendo
tutto il lungomare. Chissà perché, stasera il mare non mostra il suo solito
aspetto seducente. Non mancano le provocazioni, come quell’elicottero che
continua a volteggiare sul piazzale pieno di gente del Genoa Social Forum.
Illumina chiunque, col suo fascio (fascio…) di luce, arrogante,
provocatorio, insolente. Ai cancelli, si viene quasi alle mani. Passa una
volante (ma proprio di la, deve passare?). Parte una bottigliata contro il
fianco dell’auto in uniforme, parte un ragazzo all’inseguimento, forse è
ubriaco, dove crede di andare da solo? Ma non è solo, la volante lo sa,
perciò sgomma e schizza via, impaurita. Dal palco si invita a non uscire in
gruppetti, potrebbe essere pericoloso, si rischia di essere caricati o
portati via. Si decide di confermare la manifestazione per domani, come si
potrebbe altrimenti?
C’è Gad Lerner, il giornalista, che cerca di iniziare una trasmissione
straordinaria sugli accadimenti del giorno. Trova, con quel clima, il
coraggio di sorridere mentre dice… Se però continuate a mandare affanculo
l’elicottero, non si sente più niente! Dice che si collegherà con Ferrara,
altro giornalista, perché si deve sentire anche chi la pensa in modo
diverso. Ci sono boati di fischi.
Diverso da chi? Diverso da cosa? C’è stato un ragazzo ammazzato, come si fa
a pensare qualcosa di diverso da questo? Un ragazzo che stava li come tutti
noi, che non ha accettato di stare a subire cariche e botte, che ha provato
a difenderci, a difendere la sua, la nostra, la libertà di tutti e per
questo è morto. E chi sostiene che era un violento, è in marcia malafede,
perché sempre, la nostra società, vuole spiegazioni accettabili alle
efferatezze che accadono. No, non c’è giustificazione, un ragazzo è morto
mentre manifestava, costretto ad attaccare per difendersi, costretto a
prendere in mano la prima cosa che ha trovato a terra per gettarla su chi
non faceva distinzione di sorta nello sparare ad altezza d’uomo, nel tirare
lacrimogeni ad altezza d’uomo, nel picchiare selvaggiamente chiunque gli si
parasse davanti. Su chi da cielo, terra e mare, ha mostrato muscoli e li ha
usati su gente inerme, forte solo della propria volontà e dei propri ideali.
Ce ne torniamo a casa alla spicciolata, nonostante gli inviti del palco,
nonostante dall’ospedale tanta gente sia stata portata via dalle uniformi
ferita e sanguinante, senza neppure aspettare le cure mediche, coi medici
impotenti a fermare l’ingiustizia. Perché non corriamo tutti la, per
proteggerli? Sono nostri compagni e qui, c’è gente che mangia e beve birra.
Perché, perché non corro la? Non dormiamo da due giorni, forse è arrivato
il momento di farlo.
In questa atmosfera che qualcuno definiva “cilena” , arriva qualche
bottigliata sul palco allestito per l’occasione. Alla fine, la trasmissione
non si farà. Troppa tensione, troppa rabbia. Lerner se ne va senza le sue
domande da fare e le sue risposte da dare. Forse, stasera, c’è ben poco da
capire. Forse, stasera, c’è solo da restare tutti, in silenzio.
Ho dormito nel furgoncino, alla fine. Non ho voglia di lavarmi, non ho
voglia di mangiare, solo di tornare in quelle piazze. Ho bisogno, abbiamo
tutti bisogno di ritrovarci, di contarci. Saranno partiti in tanti per la
manifestazione conclusiva di oggi? Mi telefonano degli amici, stanno già
li, è una gioia sentirli. Sono venuti in tanti, sono qui per Carlo, gli
canteranno Bella Ciao, a questo partigiano che, come si cerca di fare con
tutti i partigiani, si cercherà di sporcare nella memoria. Ma non ci
riusciranno, perché non lo sanno che essere partigiani significa il
rispetto degli uomini e delle donne che hanno sempre combattuto per la
libertà. Non lo sanno, perché per loro la libertà è avere una bella auto,
una bella casa, spendere per cene e pranzi e feste, e fregarsene del
prossimo. Perché per loro, un partigiano è un semplice idealista, nulla a
che fare coi divertenti furbi che ci ha regalato il nostro bene amato
paese. Sono questi, oggi, i nostri degni rappresentanti.
Andiamo verso il centro col nostro furgoncino, vorremmo passare in piazza
Alimonda e portare un sacchetto di datteri a Carlo, solo per dirgli che non
molleremo. Ma è difficile, c'è già tanta gente, notizie di scontri, schiere
di uniformi dappertutto. Passiamo davanti a una questura, due uniformi ci
indicano col dito. Avviso i mie compagni che ci stanno venendo dietro.
Arrivano. Sono in tre, a sirene spiegate, ci fermano e urlano di scendere,
come in preda a raptus di follia, per calmarsi un istante dopo, quando
capiscono che non siamo noi ciò che stanno cercando. Perché questi non
cercano persone, cercano cose. Per questi, tutto è impersonale, da trattare
senza rispetto.
Fanno per rientrare in macchina, ma altri due furgoni arrivano sgommando e
inchiodando. Ne scendono altre uniformi, altre divise, altra follia, la
stessa. Urlano, sfoderano pistole che puntano alla tempia di Alessandro e
Massimo che stanno davanti. Calmi, bravissimi, straordinari, i miei
compagni si lasciano schiacciare a terra da ginocchia, pugni, braccia,
stivali, pistole. Cervelli in uniforme…
Davanti ad Adriana, si para in ginocchio un uniforme con pistola puntata
contro. Altre divise gridano che "Non sono loro", ma queste nuove uniformi
non sentono, cercano di aprire il portellone laterale, dove sono io e un
altro compagno, ma non ci riescono. Grido che aprirò io, ma, ancora, d'incanto…
"Non sono loro, non sono loro! Andiamo via e voi, andatevene!"
Ripartono, fra sgommate e sterzate, in preda alla loro lucida, fredda,
calcolata follia, davanti agli occhi di gente che assiste, incredula, allo
spettacolo, riportandosi via ginocchia, pugni, braccia, stivali, pistole. E
i loro cervelli in uniforme...
Grido "Assassini!" ma, per fortuna, il rombo delle loro auto in uniforme è
più forte della mia voce. Non sentono, non hanno sentito. Non sentiranno
mai, nulla.
Arriviamo a piazzale Kennedy, dove abbiamo appuntamento con Marinella.
Risaliamo il corteo che è già partito, non avendo retto alla spinta, sempre
maggiore, della folla che, come un fiume in piena, ha bisogno di trovare il
suo sbocco al mare. Ed eccolo qua, il mare, quello di Genova, quello
cantato da Fabrizio De Andrè. Chissà cosa ne penserebbe di tutto questo e
dell’infame uso strumentale che si continua a fare del termine anarchico.
Ma cosa pensava ce lo ha raccontato. Lui, dalla parte delle minoranze c’è
sempre stato e per davvero.
Ci sistemiamo col furgone e cominciamo il nostro lavoro. Otto scatole di
datteri se ne vanno in oltre mille e cinquecento bustine di carta e
bicchieri. Distribuiamo almeno cinquemila volantini, ottomila adesivi con
la scritta “IO ROMPO”, riferita all’embargo all’Iraq. Incontriamo tanta
gente, anche amici di altre città… Anche tu? Si, anche io! Mi commuovo
incontrando un mio amico torinese, Roberto, partito nonostante tutto, come
tanti, soprattutto dopo quello che è successo. Sono abbracci forti, veri,
non c’è spazio per tentennamenti. Stiamo dalla stessa parte, è quella
giusta, lo sentiamo dentro, è così. Mi compare davanti Michele, sorride,
poi scoprirò che era il sorriso di chi ha vissuto momenti drammatici e per
questo è felice di vederti. Anche io lo sono, è davvero bello starci.
Si rimane così, quando la passione ti fa fare delle scelte. Puri e
semplici, come dovrebbe essere la vita di tutti, di ognuno e chi non è
d’accordo, che se ne vada. Sulla luna o su Marte. E proprio da Marte
sembrano provenire quegli elicotteri, minacciosi, quegli scafi e quei
gommoni, che controllano, quegli scudi laggiù. Chiudiamo il furgone, l’aria
si fa pesante, il corteo si blocca, comincia a indietreggiare. Continuo a
volantinare, gridando di stare calmi, dicendo che in Iraq, questi hanno
saputo fare di molto peggio, non facciamoci prendere dal panico che siamo
qui per difendere anche chi non può nemmeno farlo. Mi ritrovo a cinquanta
metri da quelle uniformi, partono i lacrimogeni, il corteo, già spezzato in
due precedentemente, ora indietreggia, poi si arresta, prova a
riorganizzarsi ma non ce la fa. C’è gente anziana, ragazzi coi fazzoletti
sulla bocca, i limoni servono a poco. Si tenta di restare calmi, ma mentre
mi volto, un’ondata di fumogeno mi investe ed è terribile. Sono nuovi, ti
soffocano, ti fanno sentire un topo alla ricerca di aria, proprio non puoi
resistere. Sto per svenire, lo sento, ora mi travolgono, penso, ora cado e
resto per terra, preda delle uniformi. Con l’ultima energia possibile,
metto un fazzoletto alla bocca, me lo ha regalato un turco, protestava per
le decine e decine di prigionieri turchi che si sono lasciati morire in
carcere di fame, quando non massacrati direttamente dalla polizia di un
governo che se ne frega dei diritti umani, che ancora non fa parte del
grande circo ma sta per entrarci con pieno diritto. Vestito da boia.
Comincio a correre anche io, cosa che non ha fatto Carlo, ieri. Ma qui si
rischia di restare travolti.
All’improvviso compaiono persone vestite di nero, gridano parole
incomprensibili, corrono verso le strade laterali, portandosi dietro gente,
mentre i megafoni urlano di non lasciare il lungomare, di arretrare ma di
non ficcarsi nelle stradine laterali. Trovo un’oasi senza fumogeno, ho gli
occhi che mi stanno uscendo, mi brucia tutto. Le lacrime non sono lacrime
vere e si sente. Mi vengono in mente i miei due bambini e corro via. Più in
la, sono state spaccate delle condutture dalle quali esce acqua in
abbondanza. Ci si sciacqua, di corsa e si beve. Sarà buona? Non è che ci
salviamo dalle uniformi e ci infettiamo con l’acqua?
Genova, hai chiuso tutti i tuoi rubinetti, ma l’acqua te l’abbiamo presa
ugualmente. Scusaci, ma ne avremmo davvero fatto a meno.
Ci siamo persi, il furgone è caduto in mani nemiche e i telefoni non
funzionano. Si prova finché non incontro un amico di Milano, ma anche lui
non ha più visto nessuno. Finalmente, ci ritroviamo. Tentiamo di riprendere
il furgone e torniamo indietro. Ce la facciamo. Aspettiamo che si calmi
anche la zona della stazione e poi proviamo a passare. Direzione Nervi, per
il lungomare. Da li, autostrada e poi, Roma
Giungiamo nella zona di Recco. Abbiamo lasciato Genova da poco,
attraversando il lungomare, riaperto dopo i blocchi. Elicotteri e gommoni,
camionette e furgoni, schiere di uniformi in assetto di guerra, sono
lontani da noi. Non negli occhi, però, ne nelle orecchie e, soprattutto,
nell'animo.
Ci fermiamo in un ristorante per rilassarci prima del viaggio. E' un po'
caro e ci arrangiamo. Due tavoli più in la, una bella ed elegante signora
parla con altri commensali, di un altro tavolo. Aria snob, auto lussuosa al
parcheggio, sbraita contro comunismo e dimostranti, tutti vandali e
violenti, insozzatori della sua bella città, quasi se la fosse comprata o
scelta, prima di nascere. E alla fine, il classico… "Han fatto bene a
sparare!".
Cerco aria, proprio come qualche ora prima in mezzo ai lacrimogeni. Ma non
riesco a trovarla e, alla fine, proprio uno non ce la fa più. Vado la
davanti e dico… "Scusate, volevo solo tranquillizzare la signora. Ce ne
stiamo andando, stia tranquilla, signora e scusi, davvero, ci scusi tanto
se le abbiamo sporcato la città col rosso del nostro sangue. La prossima
volta andremo a sporcare altrove e lei, non avrà più da preoccuparsi". In
silenzio, si volta e riesce solo a prendere una boccata cancerogena dalla
sua sigaretta, fumata con tanta eleganza.
Arriviamo di notte. Non sapevamo ancora che altro sangue avrebbe sporcato
quella città.