Allarme radioattività in Sardegna, tensione alta a Brescia



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Allarme radioattività

Le scorie erano dirette a Portovesme

Brescia, sigilli alla fabbrica contaminata

Il carico col Cesio 137 diretto a Portovesme era uscito dalle Acciaierie
Venete di Sarezzo. L’allarme è scattato in una discarica vicino a Bergamo
di Piero Mannironi (27/10/07 La Nuova Sardegna)


E' stato il portale radiometrico di una discarica per rifiuti speciali a
Ponte Nossa, vicino a Bergamo, ad aprire uno squarcio su una tragedia
sfiorata. La scoperta di materiali contaminati dal Cesio 137 ha messo
subito in moto i protocolli di sicurezza, attivando così l'Arpa, l'Asl e i
carabinieri del Noe di Brescia. Facile risalire alla provenienza del
carico radioattivo: le Acciaierie Venete (ex Lucchini) a Sarezzo. Il
procuratore della Repubblica Giacarlo Tarquini ha aperto subito un
fascicolo, affidando le indagini al pm Paolo Abbritti. Il sostituto ha
inviato allora gli 007 del Nita (il Nucleo investigativo territoriale
ambientale) e i carabinieri del Noe che hanno controllato minuziosamente
gli impianti con i rilevatori di radioattività.

E qui la conferma, drammatica: i contatori geiger hanno segnalato più di
una volta il superamento del limite massimo stabilito dalla legge dei 500
bequerel per metro cubo. Nei forni e nell'impianto di abbattimento dei
fumi, la prova definitiva: tracce evidenti di Cesio 137. A quel punto, la
richiesta di verificare se altri carichi simili siano partiti in questi
giorni dalla fabbrica. Si è così risaliti al Tir che, al porto di Geneva,
attendeva di essere imbarcato per la Sardegna, con destinazione
Portoscuso. A quel punto è stato intimato all'autista, Alessandro Frau, di
ritornare indietro perché il carico nel container era contaminato dal
Cesio 137. Frau, spaventato, è corso al pronto soccorso dell'ospedale
Galliera per sottoporsi a dei controlli sanitari. In questo modo, la
notizia ha tracimato dai confini bresciani. Si è così saputo che il
sostituto procuratore Abbritti aveva disposto il sequestro degli impianti
di Sarezzo e l'azienda aveva deciso di mettere in cassa integrazione
speciale i 267 lavoratori dell'acciaieria. Ma, con un effetto domino, ora
si teme anche la chiusura del laminatoio aziendale di Mura che riceve il
prodotto semilavorato e occupa altri 137 dipendenti.


«Per prima cosa chiediamo visite accurate per tutti i lavoratori - dicono
i sindacati - e poi vogliamo sapere cosa è realmente accaduto e di chi
sono le responsabilità». La domanda è infatti oggi: cosa è successo? Da
dove arrivava quel Cesio 137? E poi, perché non è stato rilevato dal
portale radiometrico della fabbrica? Qualcuno aveva forse schermato il
Cesio con del piombo? In ogni caso è la drammatica conferma che non è
difficile superare i controlli e introdurre materiali radioattivi nelle
fonderie. In procura c'è la consegna del silenzio e per adesso le risposte
a queste domande restano sospese. L'unica notizia che filtra è che gli
accertamenti dell'Arpa avrebbero escluso una contaminazione all'esterno
della fabbrica, acquistata nel 2004 dal gruppo padovano della famiglia
Banzato. Anche i laminati e i panetti ottenuti con la fusione sono
risultati “puliti”.

Nel Bresciano la tensione è alta. Sono infatti riaffiorati nella memoria
gli incidenti degli anni passati. Come quello all'Alfa Acciai di San Polo,
nel 1997, quando la fusione di sorgenti di Cobalto 60 e di Cesio 137
danneggiò gli impianti e tenne tutta la zona con il fiato sospeso per
paura di una contaminazione. L'inchiesta accertò che quei rottami ferrosi
arrivavano dalla Cecoslovacchia. Un caso analogo si verificò, sempre nel
Bresciano, alla Capra Metalli di Catelmella. E quella volta si parlò di
rottami di provenienza polacca.

Piccole potenziali Chernobyl dietro le quali, spesso, la “fame” di rottami
da parte delle acciaierie attiva traffici di ambienti a dir poco
spregiudicati, se non addirittura di gruppi mafiosi. Le indagini su quello
che è considerato finora il più grave incidente verificatosi in
un'acciaieria italiana, quello alla Beltrame di Vicenza il 13 gennaio del
2004, dimostraromo che erano finiti in una delle fornaci alcuni bidoni di
Cesio 137 prodotti dalla società statunitense Ohmart corporation di
Cincinnati, nascosti in un carico di rottami di ferro spedito dalla
Italrecuperi di Pozzuoli.

Il magistrato vicentino Vartan Giacomelli accertò che la Ohmart aveva
venduto il carico di Cesio 137 nel 1990 e scoprì poi, in un cantiere del
Napoletano, un altro carico di Cesio 137. Resta ancora irrisolto il giallo
di chi e perché gestì quelle scorie radioattive. Il sospetto, forte, della
magistratura e degli investigatori del Noe porta ad alcuni ambienti
camorristici. A questo punto è importante accertare se nell'imponente
flusso di rottami ferrosi verso Portoscuso ci siano stati o ci siano
scorie radioattive. Come dimostra l'incidente di Brescia, i portali
radiologici possono essere ingannati.



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Alessandro Marescotti
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