Lettera 111



LETTERA 111
novembre 2005



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Nel 1941, un soldato tedesco che viveva ore terribili nell'assedio di
Stalingrado fu con sua deliziata sorpresa raggiunto dalla concessione di
una licenza-premio. Avrebbe potuto lasciare per una decina di giorni
quell'inferno, riabbracciare per poche ore i suoi cari, insomma tornare a
sentirsi ancora vivo. Riuscì a raggiungere una stazione ferroviaria, a
imbarcarsi su un treno che correva e correva verso Occidente, e subito si
addormentò. Dormì per due giorni, quasi ininterrottamente, la testa
poggiata sul suo elmetto come su un comodo cuscino.
Quel soldato non arrivò mai a casa. Lo trovarono morto e i periti settori
che esaminarono il suo cervello scopersero che  era segnato da un'infinità
di micro-emorragie, provocate dai colpi ricevuti dall'elmetto quando il
treno sobbalzava sui traversini e sugli scambi.
Ho sentito parlare della "sindrome di Stalingrado" più di quarant'anni fa.
Il giornale per il quale lavoravo mi mandò a Cremona a seguire un brutto
processo, brutto da tutti i punti di vista: quello penale, quello
culturale, quello ambientale. Per ciascuno di questi aggettivi potrei
scrivere una pagina triste, ma adesso mi limito a dire che ricordo con
grande pena quei giorni in una città bellissima ma gelida,  e ostile ai
forestieri. Il processo riguardava quattro ragazzi di Ca' de Quinzani, un
paesone della Bassa padana. L'anno prima, i quattro e alcuni loro amici
cercavano di sopravvivere alla noia di una domenica, in un circolo
enologico delle Acli (o una Casa del Popolo o un bar "laico", questo non lo
ricordo). Arrivò una ragazza  e disse che poco prima era stata assaltata
dallo Scemo del villaggio, Aveva cercato di metterle le mani addosso e le
aveva sbavato contro una litania di oscenità. No, non era riuscito a
toccarla, era troppo ubriaco, ma lei, naturalmente, si era molto spaventata.
Adesso i quattro avevano finalmente qualcosa che desse uno scopo alla
domenica. La ragazza aveva spiegato che aveva visto lo Scemo abbattersi su
un mucchio di paglia in una cascina abbandonata. Il piccolo improvvisato Ku
Klux Klan andò a punirlo. Lo trovarono inebetito e gli diedero un po' di
calci, di schiaffi e di pugni. Forse, ma non è certo, usarono anche un
bastone. Lo lasciarono a lamentarsi che lui non aveva fatto niente, la
ragazza non l'aveva neppure vista. I quattro tornarono al bar, sentendosi
degli eroi. Intanto la notizia dell'aggressione si era sparsa per il paese
e la gente si domandava a che punto si sarebbe arrivati. Parve ai quattro
di essere stati troppo misericordiosi. Tornarono alla cascina e
somministrarono al mostro una nuova "buona lezione". Questa volta lui non
fece tante storie, non parlò neppure. Quando più tardi tornarono a vederlo,
era morto.
Il solito maresciallo dei carabinieri impiccione, nonostante il malcontento
e l'omertà della popolazione fece delle indagini, poi informò la
magistratura. Fu eseguita l'autopsia. Lo Scemo era stato ucciso dalla
"Sindrome di Stalingrado": nessuno dei colpi subiti era stato mortale,
mortale era stata la reiterazione delle percosse.
(Se a qualcuno interessa: i quattro furono condannati al minimo della pena
per omicidio preterintenzionale).
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Mi capita di ripensare spesso alla "sindrome di Stalingrado", sentendomene
vittima. Non parlo, naturalmente, di fisicità. Vivo una vita tranquilla,
riparata e protetta, i guai della vecchiaia sono - come dire? - di bassa
intensità, godo di grandi affetti e mi sembrerebbe di poter dire: di grandi
amori. I colpi che mi arrivano sono morali, culturali, sono quelli della
scemenza, e peggio, di certa televisione, come la volgare banalità
dell'Isola dei famosi. O il voyeurismo del Grande Fratello. Peggio ancora
sono quelli della pubblicità, soprattutto di quella automobilistica. Fateci
caso: c'è uno spot di alto livello formale in cui un bellissimo bambino
diventa sempre più grande violando le leggi del traffico e quando è ormai
diventato un bellissimo adolescente si trasforma in macchina: neppure la
più sadica delle favole dei Fratelli Grimm, che funestarono l'infanzia di
quattro o cinque generazioni, approdò a tanto orrore. C'è un altro spot in
cui un bambino domanda al padre se voglia più bene a lui o all'auto, e il
padre lo rassicura, ma sbagliando il nome del piccino. Che ridere, vero?
4
È strano  come per significare una vita noiosa, sonnolenta, in ultima
analisi squallida, si ricorra a immagini ferroviarie: routine o tran-tran
(che è per l'appunto il rumore che il convoglio fa passando su traversini e
su scambi); dunque la metafora della "sindrome di Stalingrado" sembra
appropriata. Sui treni della mediocrità in cui siamo costretti a viaggiare,
ponendo il capo appoggiato all'elmetto di inutili difese, le nostre idee si
piagano di microemorragie culturali e spirituali.
Ho parlato della televisione, ma non è che la carta stampata funzioni
meglio. Molti anni fa, i direttori dei quotidiani e dei settimanali si
vantavano di avere scatenato i loro giornalisti "d'assalto" su temi
effettivamente di rilievo sociale; e la grande inchiesta era il sogno di
noi giovani cronisti: tampinavamo i superiori perché ci lasciassero
indagare, andavamo a porre domande scomode a personaggi restii a
risponderci - e qualche volta minacciosi, sapendo di poterlo essere; ci
sfiancavamo ricercando e poi esaminando attentamente documenti "riservati"
scritti in tecno-burocratese, in cui il potere ammetteva fallimenti,
pressapochismi e peggio. Rischiavamo querele, odii, tentativi degli editori
di metterci un freno; sparivamo di casa per settimane, e quarant'anni dopo
le nostre mogli ce lo rimproverano ancora. No, non eravamo migliori dei
giornalisti di oggi, i quali, per molti versi, sono, anzi, poliglotti come
noi non ci sognavamo di essere, tecnologicamente avanzati - e non meno
intraprendenti di noi. La cosa triste è che troppo spesso, più di noi,
almeno alcuni, accettano di essere embedded, cioè di lavorare sotto
controllo, non soltanto  sui fronti di guerra ma anche sui fronti politici
(ed economici, che sono la stessa cosa); e invece delle grandi inchieste
ripiegano sui pettegolezzi o  sui sondaggi d'opinione: i quali delineano
quasi sempre caricature della realtà su cui i politici si precipitano a
rimodellare la loro attività retorica, contribuendo a far sì che la
caricatura diventi realtà.  A questo modo la balla, come la chiamavamo noi
vecchi, o la bufala, come si dice oggi, acquista grande valore, sembra
inoppugnabile,  Berlusconi può raccontare quel che gli pare (compresa la
cattura di duecento terroristi. A quando una Guantanamo dalle parti di
Pontida?),  lamentandosi poi come un bambino malmenato se qualcuno lo
smentisce; chi protesta per la prevalenza data agli interessi della Gente
Che Conta è considerato (antica accusa) un vetero o (accusa aggiornata) uno
Zapatero anticristo, un manipolatore della brava gente delle vallate
alpine, un nemico del progresso eccetera. Sembrano trionfare il luogo
comune al posto del ragionamento, il revisionismo becero invece che la
storia (ne vedremo delle belle nelle scuole devolutioned!), le violenze
sessuali in primissimo piano nei tiggì, sempre che i bastardi sospettati
siano terzo-mondiali; il quotidiano discorso del nuovo  papa riassunto in
modo che si avverta soltanto odore di incenso; la vita di Giovanni Paolo II
ridotta nella fiction RAI ad affanose sequenze di colpi di scenaŠ Non
basta? Ma sì, mettiamoci anche la cultura Cultura: non si trova
un'università che conferisca una laurea honoris causa a Pietro Ingrao,
testimone del Novecento e vivente icona del movimento per la pace, o a don
Ciotti, tanto per fare un altro nome: ma un senato di Imbecilli in toga,
tocco e magari ermellino ne assegna una a Vasco Rossi, quello che insegna
ai giovani a cantare "Voglio una vita che se  ne frega". Nel campo
dell'editoria vanno fortissimi, insufflati da critici "della Casa", boiate
come "La verità del ghiaccio" o, peggio, "Cento colpi di spazzola", mentre
nelle classifiche non compare il più bel libro degli ultimi mesi, "Càpita",
dell'indimenticabile Gina Lagorio.
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Clericalismo e anticlericalismo tengono ormai le nostre cronache e anche
questo è una spettacolo penoso. Gli atei devoti (i Ferrara, i PeraŠ)
cercano di arruolare i vescovi per le loro battaglie di Lepanto; i politici
della destra chiedono al Vaticano e alla CEI  pubbliche elargizioni di
paternità, di ortodossia, di benevolenza  elettorale per i privilegi
accordati dal loro governo alle istituzioni ecclesiastiche; il Vaticano e
la CEI si lasciano apparentemente sedurre. Vedremo cosa offriranno le
celebrazioni del quarantesimo anniversario del Concilio. Per il momento,
dopo un passo notevole a riconoscimento della legge 194 (scambiato dalle
femministe e da ppressapochisti delle sinistre, per l'automaticità dei
pregiudizi, attacco alla libertà delle donne), Ruini offre a Berlusconi
l'intensificazione del tentativo di mettere la mordacchia al movimento
cattolico della pace: prima pone sotto tutela i francescani di Assisi, poi
censura le scelte di Pax Cristi, ordinando: niente Arturo Paoli come
predicatore della veglia liturgica di San Silvestro, niente Francesco
Comina, giornalista che doveva intervistarlo. Arturo ha 93 anni, ma risulta
ancora pericoloso al benemerito vicepapa italiano: il porporato, del resto,
è lo stesso che ha sempre sbiadito le radicali condanne della guerra di
papa Wojtyla, ha impedito la  partecipazione delle organizzazioni
cattoliche al Forum di Firenze, ha scavalcato quell'orrore evangelico che è
il vescovo castrense per porsi lui stesso come cappellano di Stato ai
funerali per i poveri morti di Nassirya,
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L'elenco delle pubbliche mediocrità potrebbe continuare, come ben sapete,
molto a lungo ed è bene ogni tanto aggiornarlo. Assai più importante,
tuttavia, è sapere a quali rischi siamo soggetti. Sui treni della banalità,
dove i telefonini squillano in continuazione per messaggi inevitabilmente
melensi, è raccomandabile tenersi eretti e vigili, avere fra le mani un
buon libro, scoprire la gioia di cercare di rispondere a domande che noi
stessi ci poniamo per non cadere nelle trappole del conformismo; ascoltare
i bambini; inventare feste; parlare, sottovoce, con chi ci sta accanto per
sapere se, per caso, non siamo meno  soli di quanto crediamo; avere il
coraggio di innamorarci; guardare dai finestrini e domandarci se non c'è
proprio niente che possiamo fare per frenare gli assalti al Creato; e nelle
grigie stazioni di questo inverno ascoltare i poveri: quelli che gridano e
quelli che mormorano, essendo gli uni e gli altri i più esatti definitori
della civiltà in cui noi e loro viviamo.
Forse può anche essere un programma per il Natale.
Ettore Masina
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