Franco: se il giudizio storico prescinde dall’antifascismo
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- Date: Tue, 22 Nov 2005 15:50:21 +0100
Franco: se il giudizio
storico prescinde dall’antifascismo
A
trent’anni dalla morte del dittatore, il dibattito storiografico e
politologico sul franchismo è orientato da una nuova ideologia, quella
del terzismo. È una forma comoda di equidistanza che mette a nudo la
crisi del valore dell’antifascismo nella società occidentale. Prima, nel XX secolo, tutto era più facile. Se uno difendeva la dittatura di Francisco Franco era un fascista e se aveva un giudizio negativo della stessa era un antifascista. Dentro dell’una o dell’altra categoria si riconoscevano tutti o quasi tutti. Nella seconda di queste, la democratica, si ritrovava uno spettro ampio della società che andava dai liberali fino agli anarchici. Ovviamente, all’interno del dibattito storiografico, le valutazioni non potevano limitarsi ad espressioni di plauso o ripudio ad un regime che per 39 anni portò infiniti lutti agli spagnoli. Ma le differenze all’interno dell’ampio fronte antifascista erano soprattutto sfumature rispetto ad un giudizio storico condiviso e nettamente negativo. Le questioni storiografiche principali
concernenti il regime di Franco sono consolidate e difficilmente
questionabili. Il 18 luglio 1936 Francisco Franco scatenò una cruenta
guerra civile contro il legittimo governo repubblicano. Con l’aiuto di
Adolf Hitler e Benito Mussolini, instaurò una delle più sanguinose
dittature della storia. Gli stessi franchisti ammettono 30.000
esecuzioni in tempo di pace. In realtà i fucilati e i garrotati
(strangolati orribilmente) furono tra i 100 e i 200.000. Franco passò
la vita firmando condanne capitali. Le ultime cinque, quelle del
“processo di Burgos”, furono eseguite appena un mese prima della sua
morte. Per 39 anni il suo regime clerico-reazionario, non superò mai la
divisione tra i vincitori, i suoi, e gli sconfitti. Fu appoggiato dalla
più conservatrice chiesa cattolica al mondo e poi -quando già Hitler e
Mussolini non potevano più aiutarlo- dagli Stati Uniti. I difensori
della democrazia contro il totalitarismo sovietico, in epoca di guerra
fredda, non trovarono nessuno migliore di Franco che incarnasse
l’Occidente capitalista e cristiano nello scacchiere iberico. Il suo
straordinario accanimento contro le classi popolari, e specialmente
contro la classe operaia, causò alla Spagna un ritardo di sviluppo tra
i 15 e i 20 anni, oltre ad un decennio di vera carestia. LA PIETRA MILIARE DELL’ANTIFASCISMO negli
ultimi anni ha perso centralità. Non solo nel dibattito politico, ma
nella stessa cultura occidentale. Oggi, per gli intellettuali che
aspirano a far carriera, specialmente nei mezzi di comunicazione di
massa, è indispensabile fare un costante esercizio d’indipendenza di
giudizio che sempre più spesso si estende alla rinuncia alla
pregiudiziale antifascista. L’indipendenza di giudizio in sé è cosa
positiva. Ma quella che è emersa una volta di più nel dibattito sui
trent’anni dalla morte di Franco, è spesso un’indecente presa
d’equidistanza tra franchismo e democrazia, in senso più ampio tra
fascismo e antifascismo. Altri esempi non mancano. Tale equidistanza
disarticola le basi della convivenza democratica in due processi
diversi. Da una parte impone un’abiura strisciante dell’antifascismo,
considerato uno strumento incompatibile con una reale indipendenza di
giudizio. È chiaro che ciò comporta il corollario di una riabilitazione
mascherata del fascismo. Dall’altra parte, già che i fatti sono
conosciuti e consolidati, così come pure il giudizio storico
complessivo, e non c’è alcun bisogno di prescindere dall’antifascismo
per studiare le fonti in maniera obbiettiva, per superare le ragioni
dell’antifascismo stesso è necessario manipolare la realtà fino a dare
un poco –o molta- ragione a chi ragione non ebbe mai. La caduta della centralità dell’antifascismo
comporta conseguenze preoccupanti non soltanto nel dibattito
intellettuale. La “teoria dei totalitarismi” –un contributo molto
importante- aveva come limite l’esaltazione delle similitudini tra
nazismo e stalinismo, sminuendo le differenze tra le due ideologie. Il
fatto che il franchismo –come le dittature latinoamericane d’altra
parte- non si coniughi nello schema totalitario, genera conseguenze
perverse: se il comunismo fu totalitario come il nazismo nella vulgata
odierna tutto quello che non è totalitario sarebbe più vicino alla
democrazia. Senza la bussola dell’antifascismo, il dibattito
politologico, non solo rispetto al franchismo ma anche rispetto alla
stessa modernità, prende cammini pericolosi sia nel campo liberale come
in quello della sinistra più o meno radicale. Entrambi gli schieramenti
convissero, anche se con difficoltà, nel campo antifascista. Oggi
paradossalmente si trovano in campi contrapposti ancora di più che
prima della caduta del muro di Berlino. Paradossalmente perché, quando
il comunismo rappresentava un pericolo concreto per i liberali, queste
due espressioni del pensiero occidentale si riconciliavano
nell’antifascismo che è stato patrimonio comune delle democrazie
occidentali nel dopoguerra. L’allontanamento temporale dal fascismo
classico, la fine della guerra fredda e l’acquisizione da parte
dell’ideologia neoconservatrice statunitense di alcuni tratti
chiaramente totalitari oltre che imperialisti, fanno sì che il campo
liberale smetta di considerare l’antifascismo prioritario e possa
debordare a destra senza limiti. Purtroppo il mondo corre più veloce e le pietre miliari, anche quella dell’antifascismo, sembrano fatte per restare indietro. Tra vittima e carnefice l’intellettuale post-ideologico del XXI secolo non pensa che sia conveniente scegliere. In questi giorni una gran messe di intellettuali – anche di sinistra- solidarizzano con David Irving, lo storico negazionista. Questi da vari decenni, con argomenti risibili e repellenti, nega l’Olocausto e la settimana scorsa è stato arrestato in Austria per il crimine di “apologia del nazismo”, del quale è sicuramente colpevole. I costituenti che negli ordinamenti dell’Europa del dopoguerra considerarono l’apologia del nazismo o del fascismo come un crimine avevano buone ragioni, non dovute solo ad emozioni ed esigenze di breve termine. Tali ragioni continuano ad essere valide oggi, anche se vengono percepite come secondarie di fronte al principio della “libertà di parola”. Irving può parlare e, di fatto, siamo obbligati ad ascoltarlo e comporre il nostro giudizio –o quel che è peggio farlo comporre dalle nuove generazioni- anche assorbendo le sue fantasie criminali. Queste pur non essendo né credibili né rappresentative, per il solo fatto di esistere ottengono così un diritto di rappresentanza. Il sacrosanto principio di libertà di parola non può però non appoggiarsi sul contrappeso dell’antifascismo. Senza di questo, il dilagare dell’apologia del fascismo e del razzismo nella società ed il recepimento di questi da parte delle nuove generazioni potrà essere incontenibile. Domani, la sacralizzazione del terzismo come forma di alienazione e distorsione della democrazia ci obbligherà, per poter parlare di Auschwitz, a dare uguale diritto di parola all’opinione di un nazista. * Gennaro Carotenuto, è autore di Franco e Mussolini. La guerra mondiale vista dal Mediterraneo: i diversi destini di due dittatori, Milano, Sperling & Kupfer, 2005.http://www.gennarocarotenuto.it |
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