Mea culpa della Nike: "Ecco tutti i nostri peccati"



da repubblica.it
GIOVEDÌ 14 APRILE 2005

Nike, operazione trasparenza "Ecco tutti i nostri peccati"
Abusi e sfruttamento: la multinazionale si confessa

A spingerla le campagne d´opinione con le minacce di boicottaggio
La multinazionale aveva patteggiato nel 2002 dopo accuse di aver nascosto la realtà Nel "Rapporto sulla responsabilità sociale dell´azienda" anche i dettagli del superlavoro e delle pressioni Sono indicate tutte le fabbriche controllate e descritte anche le condizioni di lavoro interne
FEDERICO RAMPINI

Il rapporto che contiene la lista delle 700 fabbriche a cui subappalta la sua produzione (molte delle quali in paesi emergenti) e la verità sulle condizioni di lavoro che vi regnano. La si può leggere come la carta geografica del nuovo sfruttamento globale. Ma è anche una vittoria per i sindacati, le associazioni dei consumatori, i movimenti terzomondisti e le organizzazioni non governative per il "commercio equo", che da anni assediano le multinazionali perché cessino di alimentare le nuove forme di schiavismo: il lavoro minorile, gli orari massacranti, le fabbriche-formicaio dove incidenti e malattie decimano i lavoratori. «E´ una rivoluzione - ha commentato ieri Neil Kearnes, segretario generale di dieci milioni di lavoratori riuniti nell´International Textile Garment & Leather Workers Federation - Ora il mondo può verificare se Nike mantiene le promesse che ha fatto». La Nike è in tutti i sensi l´impresa-simbolo della globalizzazione. Le sue sneaker (scarpe da jogging) e le sue t-shirt vengono indossate (o copiate) a Los Angeles come a Pechino, nelle favelas di Rio de Janeiro e nei territori occupati della Palestina. I suoi spot pubblicitari invadono il piccolo schermo su Cnn o su Al Jazeera. Ha arruolato per la pubblicità i più grandi campioni dal calcio al basket. Così come è riuscita a imporsi tra gli oggetti desiderati del consumismo planetario, la Nike nella sua logica produttiva padroneggia meglio di chiunque i meccanismi dell´economia globale. Ha solo 24.000 dipendenti in senso stretto. Ma in realtà l´esercito proletario che fabbrica le sue scarpe e i suoi vestiti è di 650.000 persone, impiegate da una miriade di aziende fornitrici non collegate fra loro, ma sottoposte a un controllo di qualità del colosso americano: la massima produttività, la massima flessibilità, al minimo costo. La maggioranza di quei dipendenti sono donne, comprese fra i 19 e i 25 anni di età. Concentrate in quelle terre che sono le nuove officine del mondo. 500 fabbriche in Asia di cui 124 in Cina, 73 in Thailandia, 35 in Corea del Sud, 34 in Vietnam, e poi altre ancora in Messico e in tutta l´America latina. E´ una foto esemplare della delocalizzazione industriale nei due settori - chiave -il tessile-abbigliamento e il calzaturiero - che sono i mestieri tipici del decollo economico per il Terzo mondo. Il Rapporto sulla responsabilità sociale che ieri la Nike ha pubblicato sul suo sito Internet rivela per la prima volta tutta la catena dei fornitori, con nomi e indirizzi (fondamentale perché gli osservatori indipendenti possano andare a indagare: giornalisti, difensori dei diritti umani, sindacalisti). Fornisce dati sulla composizione etnica di questa forza lavoro. Valuta le ricadute della produzione sull´ambiente naturale. Elenca le fabbriche colte in fallo sulle condizioni di lavoro, la sicurezza, la salute. Ammette che su 569 aziende controllate ci sono stati abusi ripetuti, maltrattamenti, offese dei diritti dei lavoratori. Confessa casi di eccessivo sfruttamento, condizioni di lavoro disumane. La settimana lavorativa supera le 60 ore nel 50 per cento degli stabilimenti asiatici, con punte del 90 per cento in Cina. In molte tessiture è normale il divieto di andare in bagno e perfino di bere durante tutto l´orario di lavoro. Per certi aspetti, è un quadro da romanzi di Charles Dickens, da rivoluzione industriale inglese dell´Ottocento. Salvo che per il Corporate Responsibility Report della Nike e per tutto ciò che vi sta dietro: consumatori illuminati che minacciano il boicottaggio, opinioni pubbliche vigilanti, consigli d´amministrazione che devono rendere conto ad azionisti di tipo nuovo come i fondi pensione e gli investitori "etici". L´ultima svolta ha origine in California nel 1998, quando un attivista per i diritti dei lavoratori del Terzo mondo, Mark Kasky, trascina la Nike in tribunale. Sotto accusa è una precedente operazione-trasparenza, già avviata dalla multinazionale sotto accusa per le rivelazioni sul lavoro minorile in Asia. Kasky scopre lacune e inesattezze nel primo "rapporto sociale" della Nike. La attacca impugnando la legge antitrust californiana: se ha ingannato il pubblico sulle effettive condizioni di lavoro dei suoi fornitori, la Nike ha fatto pubblicità ingannevole e quindi concorrenza sleale. La Corte suprema della California dà ragione a Kasky nel 2002, la multinazionale patteggia 1,5 milioni di dollari di multa, versati a un´associazione per il "lavoro equo". Lì per lì c´è il rischio di un effetto-boomerang. Se ogni errore nel "Rapporto di responsabilità sociale" può dare adito a processi, tanto vale ritornare all´opacità del passato: la Nike ha questa tentazione. Dopo tre anni di silenzio, alla fine le campagne d´opinione piegano i suoi manager. L´impresa sceglie scelto una trasparenza senza precedenti. Ora tutti potranno giudicare i suoi progressi, o regressi, da un anno all´altro. Anche i concorrenti dovranno adeguarsi. E´ una strada ancora in salita, ma può condurre verso una globalizzazione diversa: è l´alternativa al protezionismo egoista dei ricchi, quello che denuncia lo sfruttamento solo come un pretesto per chiudere le frontiere.