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La nonviolenza e' in cammino. 801
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 801
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Thu, 6 Jan 2005 00:46:29 +0100
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 801 del 6 gennaio 2005 Sommario di questo numero: 1. Peppe Sini: Un appello 2. Riccardo Orioles: Senza alcun padrone 3. Marinella Correggia: Krishnammal che resiste sulla costa 4. Rocco Altieri: Un conflitto irrisolvibile? (parte seconda) 5. Riletture: Amos Oz, Contro il fanatismo 6. La "Carta" del Movimento Nonviolento 7. Per saperne di piu' 1. EDITORIALE. PEPPE SINI: UN APPELLO Ancora un appello vogliamo rivolgere a tutte e tutti. Oltre a quelli gia' proposti nei giorni scorsi per sostenere le vittime del maremoto. Oltre a quelli per non dimenticare che a Falluja Hitler sta vincendo la guerra mondiale, che solo il disarmo e la nonviolenza possono salvare l'umanita'. E l'appello e' il seguente: ci e' giunta da Riccardo Orioles la lettera che di seguito riproduciamo (con minime abbreviazioni e modifiche affinche' nei dettagli non si perda di vista l'essenziale). Ora, Riccardo Orioles e' non solo un maestro di giornalismo, che sarebbe poca cosa, ma di rigore morale e intellettuale. E la sua attivita' e' la prosecuzione della lotta di Pippo Fava, come seppe cogliere Franco Fortini in una sua poesia che pubblicammo postuma su questo foglio. Nella lotta per un'umanita' di libere e liberi (diverse e diversi, ed eguali in diritti) e' uno dei migliori compagni che conosciamo (compagni nel senso dell'etimo: coloro che condividono il pane con gli altri). Il suo notiziario telematico "La Catena di San Libero" e' una delle migliori cose che circolano nel web. Se mancasse, saremmo tutte e tutti piu' poveri, e piu' oppressi. Cosi' prendo la parola e chiedo a chi legge di sostenere il lavoro di Riccardo Orioles, il suo notiziario, e cio' che Riccardo Orioles rappresenta. Nell'anniversario dell'uccisione di Pippo Fava. * Chi puo' contribuisca alle spese per la "Catena di San Libero": - effettuando un bonifico su: Riccardo Orioles, conto BancoPosta 16348914 (abi 07601, cab 16500); - o anche effettuando una ricarica telefonica (Tim) su 333.7295392. Chi non potesse scriva almeno una lettera a Riccardo Orioles (riccardoorioles at libero.it), per iscriversi alla sua newsletter, per dirgli quanto importante il suo lavoro sia. 2. TESTIMONIANZE. RICCARDO ORIOLES: SENZA ALCUN PADRONE [Dalla mailing list della "Catena di Sanlibero" (per contatti: riccardoorioles at libero.it) riceviamo e diffondiamo. Riccardo Orioles e' giornalista eccellente ed esempio pressoche' unico di rigore morale e intellettuale (e quindi di limpido impegno civile); militante antimafia tra i piu' lucidi e coraggiosi, ha preso parte con Pippo Fava all'esperienza de "I Siciliani", poi e' stato tra i fondatori del settimanale "Avvenimenti", cura attualmente in rete "Tanto per abbaiare - La Catena di San Libero", un eccellente notiziario che puo' essere richiesto gratuitamente scrivendo al suo indirizzo di posta elettronica; ha formato al giornalismo d'inchiesta e d'impegno civile moltissimi giovani. Per gli utenti della rete telematica vi e' anche la possibilita' di leggere una raccolta dei suoi scritti (curata dallo stesso autore) nel libro elettronico Allonsanfan. Storie di un'altra sinistra. Sempre in rete e' possibile leggere una sua raccolta di traduzioni di lirici greci, ed altri suoi lavori di analisi (e lotta) politica e culturale, giornalistici e letterari. Due ampi profili di Riccardo Orioles sono in due libri di Nando Dalla Chiesa, Storie (Einaudi, Torino 1990), e Storie eretiche di cittadini perbene (Einaudi, Torino 1999)] Cari lettori, da ora la "Catena di San Libero" non uscira' piu' su uno dei siti in cui appariva, i cui nuovi proprietari hanno deciso di farne un sito di enterteinment e basta. Questo e' un problema per i nostri lettori di quel sito (che pero' potranno ricevere la "Catena" direttamente sulla loro mail) ed e' un problema per me, visto che quel sito pagava qualcosa per riprendere la "Catena". Cessato questo non ho piu' entrate di alcun tipo, e questo naturalmente crea dei problemi. Percio' ora mi rivolgo a voi lettori per chiedervi di contribuire finanziariamente per quanto potete. Questo non vuol dire che "San Libero" diventa a pagamento: la "Catena" e' sempre gratuita, e' orgogliosa di esserlo e non intende cambiare. Significa semplicemente che la situazione e' questa, e mi e' sembrato giusto esporvela cosi' com'e'. Da parte mia, continuero' a lavorare come al solito: la "Catena" e' uscita sempre e comunque, anche nei momenti per me piu' difficili, e continuera' a uscire finche' avro' fiato. E' una cosa che oramai fa parte del panorama dell'informazione, l'abbiamo costruita insieme, non ha nessuno alle spalle e non ha alcun padrone. Secondo me, probabilmente vale la pena di sostenerla... Buon anno (= utile, felice e allegro) a tutti, e buon lavoro. * Per collaborare alla "Catena di San Libero", o per criticarla o anche semplicemente per liberarsene, basta scrivere a riccardoorioles at libero.it La "Catena di San Libero" e' una e-zine gratuita, indipendente e senza fini di lucro. Viene inviata gratuitamente a chi ne fa richiesta. Per riceverla, o farla ricevere da amici, basta scrivere a: riccardoorioles at libero.it La "Catena" non ha collegamenti di alcun genere con partiti, lobby, gruppi di pressione o altro. Esce dal 1999. L'autore e' un giornalista professionista indipendente. Chi desiderasse (ma non e' obbligatorio: la "Catena" arriva gratis) contribuire alle spese puo': - fare bonifico su: Riccardo Orioles, conto BancoPosta 16348914 (abi 07601, cab 16500); - effettuare ricarica telefonica (Tim) su 333.7295392. 3. ESPERIENZE. MARINELLA CORREGGIA: KRISHNAMMAL CHE RESISTE SULLA COSTA [Dal quotidiano "Il manifesto" del 31 dicembre 2004. Marinella Correggia e' una giornalista particolarmente attenta ai temi dell'ambiente, della pace, dei diritti umani, della solidarieta', della nonviolenza. Tra le sue pubblicazioni: Manuale pratico di ecologia quotidiana, Mondadori, Milano 2000, 2002. Krishnammal Jagannathan (per contatti: Krishnammal Jagannathan, Lafti, Vinoba Ashram, Kuthur - 611 105 Nagapattinam District, Tamilnadu, India), segretaria generale del Lafti, e' insieme a suo marito Jagannathan una delle piu' grandi figure della nonviolenza nel mondo; su Krishnammal e Jagannathan cfr. il libro di Laura Coppo, Terra gamberi contadini ed eroi, Emi, Bologna 2002] I disastri non sono uguali per tutti. Fanno differenze di censo e perfino di casta. Oltre al fatto che infieriscono sulle stesse popolazioni, periodicamente; come dire, piove sul bagnato. "I dalit, gli intoccabili senzaterra vivono nelle aree piu' basse, a maggior rischio di inondazione; e in fragili capanne ogni volta distrutte. Anche stavolta le case sono andate distrutte e i raccolti persi. Decine di migliaia di abitanti sono ricoverati in edifici pubblici, templi e scuole. Abbiamo iniziato a distribuire riso, coperte, abiti usati". Questa lettera dalla costa del Tamil Nadu, stato dell'India meridionale vittima del maremoto, non e' arrivata nei giorni scorsi e non descrive la devastazione del maremoto. E' invece arrivata due mesi fa per posta insieme a un dossier completo di foto e ritagli stampa. Del resto, sono da sempre soggetti ad allagamento i distretti costieri di Nagapattinam, Tanjavur, Tiruvarur. Mittente del dossier in questione era Krishnammal, una settantottenne gandhiana che con il marito Jagannathan, novantaduenne, sposato (lei intoccabile, lui di alta casta: una sfida ancora oggi) nel 1950 poco dopo la cacciata degli inglesi, anima il movimento Sarvodaya ("per il benessere di tutti") e il Lafti, cioe' "Terra per la liberazione dei braccianti". Lafti associa migliaia di contadini coltivatori di riso, ex senza terra, che con molta fatica ottennero l'applicazione della riforma agraria nei loro confronti, grazie all'autorevolezza dei due ora anziani "freedom fighters". Cosi' sono definiti in India coloro che si impegnarono per l'indipendenza del paese. Gli unici privilegi di questi combattenti sono il rispetto sociale, una piccolissima pensione e il diritto a viaggiare gratis in seconda classe sui treni indiani in lungo e in largo. Diritto che Jagannathan e Krishnammal usano a piene mani: vanno spesso a New Delhi o a Madras (capitale del Tamil Nadu) per perorare le cause dei braccianti e dei contadini del Lafti. * I dossier periodici di Krishnammal e dei suoi collaboratori sono preziosi per chi li riceve: servono non solo a dar conto dell'azione socio-politica ed ecologista di Lafti (lotta contro gli allevamenti intensivi di gamberetti distruttori delle mangrovie e delle attivita' agricole circostanti, costruzione di case, campi di addestramento alla lotta nonviolenta, campagne contro i privilegi di casta, contro i flagelli sociali dell'alcol e della violenza sulle donne, collegi per bambine e bambini) ma anche a mostrare all'esterno interessanti dinamiche locali di resistenza ai soprusi. E perfino, a spiegare come e perche' avvengono la' le inondazioni. Gli allagamenti, provocati dai cicloni e dalle piogge persistenti, laggiu' sono abituali, ma solo negli ultimi anni si sono consolidati fenomeni preoccupanti. In primo luogo, l'alternarsi di alluvioni e annate devastanti di siccita'; e in cio' c'e' lo zampino dei cambiamenti climatici, certo non provocati dai senzaterra (anzi, con poca terra). In secondo luogo, il ristagno idrico che per lunghi periodi dopo le piogge sommerge le colture, distruggendole. La colpa e' dell'incuria delle istituzioni locali - che non compiono le necessarie opere di drenaggio dei canali, ne' assistono a sufficienza i contadini danneggiati. Ma molti danni fa anche il business dei gamberetti per l'esportazione (dopo il disastro di questi giorni ovviamente gli allevamenti sono del tutto distrutti). Il dossier di Krishnammal da' conto di alcune richieste fatte in novembre dal Lafti, dal panchayat (consiglio popolare) del distretto di Tiruvarur e dall'associazione contadini del Delta del Cauvery: "Chiudere gli allevamenti intensivi di gamberetti sulla costa che, come denuncio' invano nel 1996 la Corte Suprema indiana bandendoli, impediscono alle acque piovane di defluire verso il mare e distruggono il sistema delle mangrovie che protegge dalla furia dell'acqua. Il riso e i gamberetti non possono coesistere...". Nei giorni scorsi, il nemico e' venuto dal mare. Non ha colpito i villaggi del movimento Lafti ma ne ha distrutti altri i cui abitanti sostenevano le lotte nonviolente contro i gamberetti. 4. RIFLESSIONE. ROCCO ALTIERI: UN CONFLITTO IRRISOLVIBILE? (PARTE SECONDA) [Ringraziamo Rocco Altieri (per contatti: roccoaltieri at interfree.it) per averci messo a disposizione questo suo saggio apparso nel vol. 5 del giugno 2004 dei "Quaderni Satyagraha" da lui diretti, volume monografico dedicato al tema "Nonviolenza per Gerusalemme". Rocco Altieri e' nato a Monteleone di Puglia, studi di sociologia, lettere moderne e scienze religiose presso l'Universita' di Napoli, promotore degli studi sulla pace e la trasformazione nonviolenta dei conflitti presso l'Universita' di Pisa, docente di Teoria e prassi della nonviolenza all'Universita' di Pisa, dirige la rivista "Quaderni satyagraha". Tra le opere di Rocco Altieri segnaliamo particolarmente La rivoluzione nonviolenta. Per una biografia intellettuale di Aldo Capitini, Biblioteca Franco Serantini, Pisa 1998. Per abbonarsi ai "Quaderni Satyagraha" (per contatti: tel. 050542573, e-mail: roccoaltieri at interfree.it, sito: pdpace.interfree.it): abbonamento annuale 30 euro da versare sul ccp 19254531, intestato a Centro Gandhi, via S. Cecilia 30, 56127 Pisa, specificando nella causale "Abbonamento Satyagraha". Abbiamo omesso le note che accompagnavano il saggio, puntuali e preziose, per le quali rinviamo tout court alla rivista. Come e' ovvio, su un tema cosi' delicato vi sono interpretazioni e opinioni molto diverse e fin contrapposte. Crediamo che ragionarne pacatamente, nel rispetto della sensibilita' di ogni persona, sia un modo per sostenere quanti tra gli israeliani e tra i palestinesi si stanno impegnando per il dialogo, la pace, la giustizia, la verita', la solidarieta', la convivenza. La prima parte di questo saggio e' stata pubblicata nel notiziario di ieri] La coscienza tormentata di Israele Yeshayahu Leibowitz giudicava uno Stato che si dice ebraico una contraddizione in termini. Riteneva, infatti, che lo Stato e' sempre e solo un mezzo, non puo' mai diventare hegelianamente un fine. In quanto creazione umana, lo Stato non puo' avere in se' un valore etico assoluto, come invece ritengono le ideologie totalitarie. La laicita' dello Stato, percio', deve diventare sia un presupposto democratico imprescindibile, sia una esigenza religiosa fondamentale. Pur riconoscendosi parte del movimento sionista, Leibowitz era avverso a ogni forma di sacralizzazione del nazionalismo. Ha scritto di lui Amos Luzzatto: "Alla domanda: 'Che cos'e' per te una bandiera?', rispondeva sarcastico: 'Uno straccio colorato attaccato a un bastone'. E se gli chiedevano con una punta di provocazione: 'Ma per te non e' sacra la Terra di Israele? Non e' sacra la lingua ebraica? C'e' per te qualcosa di sacro?', rispondeva secco: 'Solo Dio e' sacro'. 'Ebraico', secondo Leibowitz e' cio' che stabilisce una relazione particolare con Dio, una relazione che induca a offrirsi al suo servizio con dedizione, sulla base di una halakha' che e' autodisciplina seria e controllata, che educa il credente a non lasciarsi soggiogare dai propri impulsi fisiologici ma, al contrario, a organizzare la sua vita per dominarli. L'ebreo non puo' sperare di imporre tutto questo a opera del potere statale; puo' solo chiedere allo stato di creare per lui le condizioni per poter vivere secondo questa sua ebraicita' senza incontrare ostacoli". Ha scritto Martin Buber, rispondendo alle osservazioni critiche sollevate da Simone Weil nei confronti dell'ebraismo: "Precisamente nella religione di Israele e' impossibile fare un idolo del popolo come un tutto, perche' la tendenza religiosa alla comunita' e' precipuamente critica e opinabile. Chiunque attribuisce alla nazione o alla comunita' gli attributi dell'assoluto e dell'autosufficienza, tradisce la religione d'Israele. Che cosa, comunque, significa, divenire un 'popolo di Dio'? Una fede comune in Dio ed il servizio al suo nome non costituiscono un popolo di Dio. Divenire un popolo di Dio significa piuttosto che gli attributi di Dio rivelatigli, giustizia e amore, vengono resi effettivi nella sua stessa vita, nelle vite dei suoi membri, l'uno con l'altro: una giustizia che si materializza nelle mutue relazioni indirette di quegli individui; amore nelle loro mutue relazioni dirette radicate nella loro personale esistenza. Dei due, tuttavia, l'amore e' il piu' alto, il principio trascendente. Questo diventa chiaro inequivocabilmente per il fatto che l'uomo non puo' essere giusto verso Dio; egli puo', tuttavia, e dovrebbe, amare Dio. Ed e' l'amore di Dio che si trasferisce all'uomo; 'Dio ama il forestiero - ci e' stato detto- cosi' anche tu devi amarlo'". La persecuzione degli ebrei, l'Olocausto, l'ascetico eroismo dell'impresa sionista, la vittoria nelle guerra del 1948 e del 1967 di "pochi contro molti" hanno costituito la legittimazione retorica dello Stato di Israele e giustificato la violenza contro i "gentili". Ma oggi Israele appare una societa' smarrita e infelice, attraversata da spaccature e forti tensioni interne: laici contro religiosi, i nuovi arrivati russi contro i mizrahim (gli ebrei sefarditi di provenienza medio-orientale), russi contro arabi, e cosi' via. Il messianismo degli ebrei ortodossi raccolti nel movimento di Gush Emunim ( Blocco della Fede) si scontra con una nuova generazione israeliana che e' fortemente individualistica, edonistica, americanizzata. L'indurimento del fondamentalismo religioso di Gush Emunim, che prese corpo dopo la guerra del 1973, puo' essere interpretato come reazione a una perdita di egemonia, di marginalizzazione delle istanze religiose all'interno di una popolazione che si presenta in massima parte secolarizzata. In questa situazione di frammentazione sociale l'ethos della guerra e' diventato il fondamento ispiratore dello Stato e costituisce il collante che unifica un sistema culturale altrimenti sottoposto a forti tensioni e fratture. Il sentirsi permanentemente aggrediti e minacciati nella propria possibilita' di esistenza vitale dal "grande mare" arabo che circonda la "piccola isola" di Israele crea le condizioni culturali per cui i problemi sociali vengono confusi, in un complesso indistinto, con quelli militari e, in nome della difesa comune, si lasciano irrisolti i gravi problemi interni. Lo Stato accresce continuamente le spese per gli armamenti (nel 2001 il budget della difesa e' aumentato di 0,8 miliardi di dollari), mentre trascura il forte aumento della poverta': alla fine del 2001 il numero degli israeliani che vivevano sotto la soglia della poverta' ammontava a 1.169.000 persone, tra cui mezzo milione di bambini. La disoccupazione e' salita nel 2002 al 12%. Nel corso dei primi due anni dell'Intifada l'economia ha perso circa sette miliardi di dollari. La crisi economica non fa che alimentare l'odio verso "l'altro", i palestinesi, mentre appare evidente il rischio di un possibile collasso delle finanze dello Stato, che brucia le sue risorse umane e materiali in una guerra permanente che sta portando al punto dell'auto-distruzione. Dal punto di vista dei diritti umani e', poi, evidente la contraddizione tra l'essere Israele uno Stato-nazione che pratica l'occupazione e il colonialismo interno, e la pretesa di ispirarsi al modello liberale di societa' aperta. Il governo di Israele applica in modo spietato i regolamenti emergenziali (Emergency Regulations) ereditati dal regime coloniale britannico che permettono di arrestare senza limiti temporali e senza processo qualsiasi sospetto di attivita' sovversive, di espropriarne le proprieta' e di demolirne l'abitazione. La tortura, le deportazioni di massa, le punizioni collettive, considerate crimini di guerra secondo l'art. 49 della quarta Convenzione di Ginevra del 1949, in Israele sono praticate in modo quotidiano. Anche nel passato biblico gli Stati, cioe' i Re, erano spesso violenti, usurpatori che esercitavano il potere con arroganza e contro la legge ebraica. Allora di fronte all'autorita' costituita e al popolo si ergeva il profeta a parlare come colui che invoca la giustizia, denuncia l'idolatria, scuote l'uomo dalla passivita' per spingerlo ad ascoltare la voce di Dio. Anche contro re David si alzo' la voce del profeta a denunciarne l'iniquita'. Re David si penti', confesso' la sua colpa e si corresse. Riconoscere la propria colpa e' l'atto necessario per affermare la giustizia e ottenere il perdono divino. Da tempo immemorabile, attraverso i loro profeti, gli ebrei hanno proclamato l'insegnamento della giustizia e della pace, insegnando e imparando che "la pace e' il fine a cui tutto il mondo dovrebbe tendere e che la giustizia e' il mezzo per ottenerla. Percio' - scrisse Buber a Gandhi- non possiamo desiderare l'uso della forza. Chiunque si consideri nelle file di Israele non puo' desiderare l'uso della forza". "La letteratura ebraica, per molti versi, e' letteratura del martirio (...)", contiene, infatti, il messaggio che bisogna, come scrisse Magnes a Gandhi, "accettare il martirio piuttosto che cedere 'all'idolatria, all'immoralita', agli spargimenti di sangue'. (...) Se mai ci fu un popolo nonviolento nello svolgersi dei secoli, quello fu il popolo ebraico". * L'opzione nonviolenta nella lotta del popolo palestinese Come ha ricordato Saad E. Ibrahim nessuna altra regione come il Medio Oriente, teatro negli ultimi decenni di alcuni dei maggiori conflitti armati, puo' insegnare al mondo che a fronte degli alti costi sofferti a causa della guerra (piu' di tre milioni di vite perdute, milioni di mutilati, di feriti e di profughi, una spesa annua per gli armamenti superiore ai 100 miliardi di dollari, incalcolabili danni procurati alle infrastrutture civili, alle abitazioni, agli ambienti naturali), in realta' nessuna delle gravi questioni e' stata risolta. Al contrario, al di la' degli stereotipi che si hanno sul mondo islamico, la storia del XX secolo insegna che in diverse circostanze la lotta nonviolenta ha portato nella regione a soluzioni positive. Basti ricordare, ad esempio, l'Egitto che ottenne l'indipendenza non attraverso una guerra di liberazione, ma lanciando nel 1919 contro l'occupazione britannica un grande movimento di disobbedienza civile, che impressiono' profondamente lo stesso Gandhi, al punto da offrirgli motivi di ispirazione nel definire la teoria e la pratica del Satyagraha. In modo nonviolento raggiunsero l'indipendenza anche la Tunisia, il Libano, il Sudan, l'Irak, la Giordania, gli Stati del Golfo. Memorabile e' stata poi la lotta del popolo iraniano contro il regime dello Scia' negli anni 1977-79. Il successivo avvento del regime degli Ayatollah non deve far dimenticare come la deposizione di Reza Pahlevi, scia' di Persia, sia avvenuta attraverso una straordinaria rivoluzione popolare nonviolenta. Abu-Nimer, nel suo saggio pubblicato in questo quaderno, illustra con cognizione di causa come la prima Intifada del 1987, la cui immagine prevalente trasmessa dai media fu quella dei ragazzi palestinesi che lanciavano le pietre, fu in realta' un grande movimento di lotta nonviolenta, che diede prova di una imprevedibile capacita' di auto-organizzazione popolare. Anche la seconda Intifada, quella iniziata il 29 settembre del 2000, come reazione palestinese alla passeggiata provocatoria di Sharon sulla spianata del Tempio di Gerusalemme, e che percio' viene chiamata Intifada di Al-Aqsa dal nome della moschea che domina la citta' di Gerusalemme, e' ricca di gruppi e azioni nonviolente, ben documentate nell'articolo di Abu-Nimer. Purtroppo, nell'immaginario collettivo il simbolo della seconda Intifada sono diventati i terroristi kamikaze, e l'orrore provocato dai loro attentati ha oscurato davanti agli occhi dell'opinione pubblica mondiale la presenza di una lotta nonviolenta. L'escalation degli "attacchi suicidi" e' l'esito di un processo di imbarbarimento della lotta, provocato dalla incapacita', da una parte e dall'altra, di comprendere l'avversario. Di fronte a tanta violenza, il primo compito da perseguire e' una umanizzazione del conflitto. Nessuna causa puo' giustificare l'uccisione indiscriminata di innocenti. Gandhi sospese piu' volte le azioni Satyagraha, quando esse stavano per trascendere nella violenza. Purtroppo ci sono organizzazioni palestinesi che predicano la violenza e considerano eroi e martiri coloro che seminano morte tra la popolazione. Esse si lasciano andare a manifestazioni di gioia ogni volta che un attentato va a buon fine, mentre i funerali dei "martiri" diventano occasione per manifestazioni che incitano all'odio e alla vendetta. Nulla ha nuociuto di piu' alla causa palestinese di questi attentati terroristici, e della retorica che li ha supportati, sia di fronte all'opinione pubblica mondiale che ne e' rimasta profondamente scioccata, sia nei confronti della societa' israeliana che nel rivivere la paura del massacro e della persecuzione si e' compattata nel consenso alle azioni repressive dell'esercito di occupazione. Inoltre, la debolezza e l'incertezza dell'autorita' palestinese nel condannare e nel bloccare gli atti di violenza hanno favorito il progetto dell'attuale governo israeliano di "politicidio" della causa palestinese, perseguendo, cioe', l'obiettivo di annullare completamente il popolo palestinese, non solo la sua dirigenza politica, come interlocutore per la risoluzione del conflitto. E' arrivato il momento di spostare il punto focale della lotta del popolo palestinese dalla liberazione di uno spazio, all'obiettivo di smantellare un regime, facendo leva soprattutto sulla coscienza dei cittadini di Israele per cercare un comune "esodo" dalla violenza, attivando un processo di verita' e di riconciliazione simile a quello realizzatosi in Sud-Africa. In un conflitto asimmetrico, dove una parte esercita sull'altra una schiacciante supremazia politica, economica e militare, al punto che la parte debole sembrerebbe non avere altra scelta che subire la volonta' del piu' forte, che sembra procedere, sordo ad ogni appello di moderazione, nel perseguire i propri obiettivi di potenza secondo la "politica del fatto compiuto", l'oppresso, la parte attaccata, ha, dalla sua, e potrebbe cio' costituire il suo punto di forza, la facolta' di scegliere in quale modo gestire il conflitto, su quale terreno realizzare la resistenza e con quali metodi di lotta. In un conflitto asimmetrico, la sproporzione dei mezzi in campo non lascerebbe aperte, secondo i canoni comuni della strategia, che due alternative: l'azione terroristica o l'azione nonviolenta. Da tempo la sproporzione esistente nell'armamentario moderno tra i mezzi di offesa (i bombardamenti, il possibile ricorso all'arma atomica) rispetto a quelli della difesa militare tradizionale o della guerriglia, rende impraticabile ogni possibile strategia di resistenza armata vittoriosa contro le forze militari di occupazione. Sicuramente la violenza contro le forze occupanti puo' durare a lungo e aumentare i costi dell'occupazione, ma al prezzo altissimo dell'imbarbarimento della lotta e del totale genocidio della popolazione civile, ostaggio e vittima del fuoco incrociato. Il terrorismo, a differenza della guerriglia, non si prefigge di vincere battaglie, di conquistare posizioni di controllo del territorio. In realta', il terrorismo agisce nascosto e svolge una funzione pre-politica: terrorizza la societa' civile e l'opinione pubblica al fine di influenzarne gli orientamenti e le decisioni politiche per spingerle nel vortice dell'escalation della guerra. La partita decisiva del terrorismo si gioca in realta' attraverso il riverbero che le sue imprese possono avere sull'opinione pubblica attraverso i mezzi di informazione, dove la "potenza di fuoco" messa in campo dai mass-media in relazione al conflitto tra l'oppressore e l'oppresso, non e' dissimile dai rapporti di forza da questi posseduti sul piano militare. Gli indiscriminati attacchi kamikaze contro i civili sono stati ampiamente utilizzati dai mass-media per legittimare davanti all'opinione pubblica mondiale la costruzione del "muro" e le pratiche repressive dell'esercito israeliano contro la popolazione civile palestinese, assimilata senza distinzioni a una massa di fiancheggiatori dei terroristi. In una situazione in cui il terrorismo ha portato la questione palestinese in un vicolo cieco, l'opzione nonviolenta puo' restituire dignita' e speranza al popolo palestinese, promuovere una cooperazione liberante tra ebrei e palestinesi, come gli articoli di Abu-Nimer e di A. Said qui pubblicati ci illustrano. Come i palestinesi oggi, anche gli ebrei sono stati vittime della guerra, della politica e dell'odio. Anzi gli ebrei hanno vissuto nella paura per migliaia di anni, esposti a molti massacri e persecuzioni. Percio', il mondo arabo-palestinese deve essere capace di portare nel processo di pace l'attenzione verso la storia del popolo ebraico, agendo instancabilmente nel promuovere il perdono, la fiducia e il dialogo, propositi che vengono invece vanificati ogni volta che si ripetono azioni violente. Ogni azione nonviolenta che dimostri la massima attenzione verso il bisogno di sicurezza del mondo ebraico toglie punti di appoggio alle politiche di guerra dei governi violenti. Atti di dialogo e riconciliazione possono far leva sulla profonda coscienza morale del popolo ebraico, determinando quello che Gregg chiama jiu-jitsu morale, uno sbilanciamento o scuotimento delle coscienze che provochi il rifiuto di proseguire nel sostegno alle politiche di guerra, cosi' come sta avvenendo ai tanti militari israeliani, i refuzniks, che rifiutano di servire nell'esercito di occupazione. * Il ruolo delle terze parti In apertura di questo quaderno abbiamo voluto ripubblicare, nel centenario della sua nascita, uno scritto di Giorgio La Pira che e' stato come sindaco di Firenze il precursore della diplomazia dal basso dei cittadini a favore della pace, quella che oggi viene conosciuta nella letteratura dei Peace Studies come second track diplomacy. Lo scritto (il discorso tenuto da La Pira a Cagliari nel 1973, in occasione di un convegno sui problemi del Mediterraneo) e' un classico della letteratura nonviolenta e si inserisce in modo appropriato nella scelta di questo volume di privilegiare i contributi culturali capaci di ridisegnare le strutture profonde, cosmologiche del conflitto. Rivisitando le "metafore" comuni alle tre religioni monoteistiche appartenenti alla famiglia di Abramo, La Pira ripercorre il "sentiero di Isaia" che annuncia ai popoli del Medio Oriente un regno messianico di giustizia e di pace. La Pira fu attivo mediatore e facitore di dialogo nel conflitto israelo-palestinese, e i suoi "colloqui del Mediterraneo", di cui si parla ampiamente nel suo discorso qui riprodotto, funzionarono ante litteram come un laboratorio di riconciliazione, un autentico problem-solving workshop, secondo una modalita che successivamente ha avuto grande diffusione nel quadro delle relazioni internazionali. Per Adam Curle, negoziatore quacchero, le terze parti non sono neutrali, ma devono attivare processi di solidarieta' e di presa di coscienza dell'ingiustizia strutturale e degli squilibri di potere tra gli attori del conflitto. Secondo questa prospettiva J. P. Lederach ha coniato il termine di insider-partial, in quanto i mediatori svolgono il ruolo di empowerment practitioner, ridando fiducia, speranza e consapevolezza ai soggetti del conflitto, soprattutto a quelli che appaiono piu' deboli all'interno di un conflitto asimmetrico. Percio', Lederach preferisce parlare piu' che di mediazione, di "trasformazione" sociale e culturale dei conflitti, denominando il suo metodo come elicitive approach, che per le sue profonde assonanze colla prassi sociale ed educativa di Danilo Dolci, possiamo tradurre in italiano come "metodo maieutico". Il metodo maieutico (elicitive approach) non si impone alle parti in gioco, non ha propositi di colonizzazione culturale o politica, ma consapevole che solo i diretti interessati possono risolvere le questioni aperte e fare la pace, agisce come la levatrice socratica nell'assistere al parto. L'obiettivo che si propone e' l'attivazione del satyagraha, perche' solo una rivoluzione strutturale nonviolenta, realizzata dai protagonisti del conflitto, puo' conseguire quella che Galtung chiama la dimensione della "pace positiva", e che nel saggio pubblicato in questo quaderno Lederach descrive e definisce attraverso un suo specifico neologismo: justpeace (pacegiusta). Un altro modo di intervenire nel conflitto come terze parti e' quello messo in atto, in questi anni, da innumerevoli associazioni internazionali, di cui parlano Abu-Nimer e Dogliotti Marasso nei rispettivi saggi pubblicati in questo quaderno. Esse fanno azione di interposizione nei conflitti, allo scopo di ridurre la paura e il senso di insicurezza della gente, facendo opera di dissuasione con la propria presenza, perche' gli armati non commettano violenza contro i civili. Spesso agiscono in modo diretto e immediato, per ostacolare o impedire le funzioni repressive dell'esercito, come fece Rachel Corrie dell'International Solidarity Movement (Ism) che il 16 marzo 2003 fu uccisa a Rafah, all'eta' di 22 anni, mentre tentava di opporsi alla demolizione di una abitazione di una famiglia palestinese da parte di un bulldozer dell'esercito israeliano. La campagna promossa dal movimento francese Alternative Non-violente, di cui si pubblica il documento politico in questo quaderno, si inserisce appieno in questa nuova visione dinamica della interposizione nonviolenta nei conflitti, avendo per scopo la richiesta di istituzionalizzare la presenza di un corpo di intervento civile internazionale non armato, da dislocarsi in Medio Oriente per contenere la violenza. Agendo, poi, nel mitigare i propositi violenti di chi ha le maggiori responsabilita' di governo e di direzione politica degli avvenimenti, le terze parti fanno appello alla solidarieta' internazionale in sostegno delle parti deboli del conflitto, promovendo politiche di boicottaggio e di non-collaborazione verso i governi iniqui e violenti. L'importante, comunque, e' che le terze parti, nel realizzare cio', non cessino mai di svolgere il loro ruolo vocazionale di canale di comunicazione tra gli attori del conflitto, avendo premura che la propria condanna morale della violenza e dell'ingiustizia non diventi attacco alle persone o ai gruppi sociali. Si deve sempre distinguere "l'errore dall'errante" e nell'obiettivo della riconciliazione bisogna offrire vicinanza a tutte le parti, perche' davvero tutti sono vittime del ciclo della violenza. L'Europa e l'Occidente ricco hanno la grave responsabilita' storica dell'avere provocato la questione ebraica. La totale responsabilita' delle discriminazioni, delle violenze e delle persecuzioni nei confronti del popolo ebraico e' iscritta nella storia dei paesi cristiani e non certo di quelli musulmani. Bisogna confessare questa colpa e farsi carico di riparare a cio', approntando piani di accoglienza all'immigrazione e all'integrazione degli ebrei. Non e' accettabile la chiusura delle frontiere all'immigrazione ebraica, come quella sancita dagli Usa dopo l'89 nei confronti degli ebrei russi, spinti dalla crisi economica e politica dell'ex impero sovietico alla ricerca di un approdo nell'occidente ricco. Durante la presidenza di George Bush fu, infatti, approvato, il 21 novembre 1989, il Lautenberg Amendement che chiude le frontiere all'immigrazione ebraica verso gli Stati Uniti, un atto grave che ha spinto in pochi anni verso Israele ben 700.000 nuovi arrivi dalla Russia, aggravando la pressione demografica, indirizzata dal governo verso la colonizzazione dei territori occupati. Uguale accoglienza e disponibilita' l'Occidente ricco dovrebbe dimostrare nei confronti dei profughi palestinesi che dovessero fare richiesta di immigrazione. Infine, i consistenti finanziamenti elargiti da Usa e Ue ai paesi del Medio Oriente devono essere indirizzati allo sviluppo umano delle popolazioni, che soffrono condizioni estreme di indigenza, piuttosto che a finanziare la corsa agli armamenti e la guerra. La terra di Israele, che ha accolto i profughi ebrei scappati a causa delle persecuzioni naziste, va considerata oggi a tutti gli effetti una costola dell'Europa. Accettare, percio', la richiesta di Israele di entrare a far parte dell'Unione Europea potrebbe essere il viatico utile a spingere lo Stato di Israele al pieno rispetto dei diritti umani, cosi' come e' sancito nel suo atto di fondazione del 1948, che impegna ad "assicurare completa eguaglianza di diritti sociali e politici a tutti i suoi abitanti" o, ancora, ad applicare nei fatti la sua Basic Law del 1992 che riguarda la "Dignita' umana e la Liberta'". L'Europa potrebbe far pesare la sua influenza per attivare politiche inclusive nei confronti dei profughi palestinesi e della popolazione araba di Israele e dei territori occupati. L'entrata nell'Europa Unita di una federazione israelo-palestinese potrebbe segnare il punto di svolta decisivo per costruire politiche di pace nel Mediterraneo, dove il sogno di Magnes e degli altri "giusti" di Israele per una unita' ebraico-palestinese potrebbe alfine avverarsi, facendo di uno Stato bi-nazionale il fulcro della collaborazione dell'Europa con tutto il mondo arabo. * Un processo di verita' e riconciliazione Il fallimento dei tentativi di pace, fin qui esperiti, dagli accordi di Oslo, agli incontri di Camp David promossi dal presidente Clinton, fino alla Road Map disegnata da Bush-figlio trova forse una sua valida spiegazione nella filosofia di fondo che li ispira: "la pace in cambio dei territori", applicando il principio del baratto e della spartizione-separazione, invece che quello della condivisione e della cooperazione. Le proposte di pace avanzate da Israele in questi anni appaiono sempre come un'azione sussidiaria e complementare all'azione di guerra. Gia' negli accordi con l'Egitto, secondo il modello della "pace in cambio dei territori", Israele manifesto' lo scopo di rafforzare il controllo sulla Giudea e sulla Samaria, nella prospettiva di costruire Eretz Israel (l'Israele secondo i confini biblici). E' per questo stesso obiettivo di consolidamento dell'occupazione dei territori palestinesi che scateno' nel 1982 la guerra del Libano. Nello stesso senso gli accordi di Oslo sono stati intesi da Israele come un modo per affidare all'autorita' palestinese la responsabilita' amministrativa delle aree piu' densamente popolate, costruendo un modello simile a quello dell'apartheid dei bantustan sudafricani, dove una parte possiede tutti i diritti e l'altra parte nulla. Nel giustificare l'occupazione, le ragioni della sicurezza e quelle religiose si confondono e si sovrappongono. In nome della sicurezza la politica di Israele mira a chiudere i palestinesi in quattro, cinque enclave attorno a Gaza, Jenin, Nablus, ed Hebron, senza continuita' territoriale, ma collegate da gallerie e ponti che eviterebbero ai palestinesi il contatto col territorio israeliano, mentre Israele si riserva di mantenere per se' il controllo dei varchi di Gaza e del suo spazio aereo e marittimo. In confronto, i vecchi bantustan sudafricani appaiono "oasi di liberta'". Come ha osservato Kimmerling: "I processi di pace sono stati sempre guidati dall'aspirazione xenofoba alla separazione o alla manipolazione strumentale per accrescere il controllo sull'altra parte e preservare in definitiva la propria potenza militare". M. Gopin, un rabbino amico della nonviolenza, nell'articolo pubblicato in questo quaderno sostiene che il fallimento del processo di pace fin qui sperimentato impone di trascendere la visione tradizionale, realistica della conflict resolution e ci indica un percorso alternativo, piu' profondo per poter arrivare a una vera pace. C'e' bisogno di qualcosa di diverso da un discorso fondato sulle relazioni internazionali, sulle dinamiche del potere aventi per oggetto l'uso della forza in relazione alla scarsita' delle risorse, valutando la pace con la logica dei costi e dei benefici, facendo un discutibile ricorso alla teoria dei giochi, nel definire le guerre per il controllo delle risorse come "giochi a somma zero": quello che gli altri hanno, noi non possiamo averlo. Ispirandosi alla scuola di Avruch e Lederach, piu' attenta agli aspetti culturali, cognitivi e relazionali dei conflitti, Gopin ritiene di non dover dare importanza solo agli interessi materiali, ed evidenzia il ruolo delle percezioni, dei sentimenti e delle credenze per una trasformazione nonviolenta dei conflitti. Ci sono differenti razionalita' e differenti culture, e percio' la cultura, che comprende non solo l'aspetto cognitivo-razionale, ma anche il modo in cui si filtrano, si gestiscono e si controllano le emozioni e i sentimenti, e' fondamentale per poter comprendere e orientare le dinamiche di un conflitto. I conflitti sono sempre complessi e spesso hanno un alone di ambiguita' non risolvibile in modo netto secondo la logica binaria di vero e falso, giusto o sbagliato. Piu' utile e' il ricorso a una ermeneutica che, con una espressione ripresa dalle scienze informatiche, viene definita "fuzzy logic", un approccio piu' "sfumato" che tiene insieme le dissonanze, i paradossi, le complessita', i sentimenti, le ragioni di tutte le parti in conflitto. Trascendere la logica binaria significa esaminare quel cono d'ombra che comprende le emozioni, le percezioni, le cosmologie profonde che condizionano lo svolgimento del conflitto, e che non sono riducibili alla sola razionalita' economica e politica del dare e dell'avere. Qui si innesta l'interesse per la metafora, che rientra in una svolta possibile delle scienze sociali, favorendo una fuoriuscita dal positivismo (e per alcuni anche dalle spiegazioni causali deterministiche o funzionali) per muoversi verso l'interpretazione modulata tra significato e significante. Bisogna osservare che qui la metafora non va intesa in senso aristotelico come figura retorica dell'arte poetica, ma come qualcosa di centrale e profondo, legato al processo cognitivo dell'uomo, che include la memoria e la razionalita', la formazione stessa della cultura e la sua comunicazione. La metafora con la sua carica simbolica permette di mettere in contatto e di far comunicare culture diverse o avverse. Come sostiene Marc Gopin nel suo saggio il processo di pace puo' progredire solo costruendo metafore ricche di significati di verita', di perdono, di riconciliazione. La cultura della metafora e' l'aspetto della comunicazione tra i diversi che l'astratta "teoria delle relazioni internazionali" comunemente ignora, non riuscendo a capire cosa fare di fronte a situazioni di evidente "dialogo tra sordi". E' da questo punto, da questa incomprensione-sordita' che si deve partire per sviluppare nuove metafore che siano capaci di far comprendere agli avversari l'uno i punti di vista dell'altro, l'uno i sentimenti dell'altro, realizzando quel processo di "immedesimazione nell'altro" che G. Mead e la scuola dell'interazionismo simbolico chiamano il Se' generalizzato. Come gli individui che sono stati vittime di traumi, cosi' anche i popoli e le nazioni richiedono un complesso processo di guarigione che permetta di rimarginare le sofferenze subite. Se le vittime non ricevono un riconoscimento dei torti subiti, spesso prevale un senso opprimente di ingiustizia esistenziale e la memoria dei fatti fa crescere la paura che tutto possa ripetersi. Percio' le metafore della verita', del pentimento e della riparazione sono i percorsi obbligati di ogni autentico cammino di riconciliazione. Piu' che l'appello alla ragione, un'autentica, genuina, espressione di pentimento, accompagnata dai necessari atti riparativi, puo' aprire la strada alla riconciliazione. Riconciliazione e' un processo di cambiamento e di ridefinizione delle relazioni che va ben oltre la risoluzione delle singole questioni. Coinvolge in modo unitario sia la mente che il cuore, il modo di pensare e il modo di sentire l'altro, umanizzando l'avversario, sentendo le sofferenze dell'altro come le proprie sofferenze. I rituali possono aiutare, per mezzo di linguaggi metaforici altamente simbolici, a curare le ferite e a trasformare il modo di pensare le questioni in gioco, dando agli uomini nuove lenti per vedere la realta' degli interessi e dei valori. E' in questa zona di confine (liminal space) che le trasformazioni si realizzano. Lisa Schirch ha osservato che: mentre la percezione di pace e giustizia puo' essere contraddittoria quando viene espressa verbalmente, la comunicazione rituale permette nuovi modi di pensare il conflitto e puo' aiutare a cercare simboli comuni per una coesistenza pacifica. Il linguaggio rituale certamente non risolve i problemi, ma crea nuovi simboli, piu' profondi ed efficaci, per interpretarli e ridefinirli in una chiave di riconciliazione. Spesso i funerali delle vittime rappresentano un'occasione per violente manifestazioni politiche e rituali pieni di odio, mentre Gopin propone di rielaborare il lutto in una prospettiva nonviolenta, facendo ricorso a metafore di condivisione e di riconciliazione, cosi' come hanno realizzato i gruppi di Parents' Circle, una associazione che unisce le famiglie colpite dal dolore per la perdita di un familiare, che nella rielaborazione del dolore subito superano la barriera del conflitto e prendono coscienza della comune condizione di vittime della violenza, rafforzando cosi' la propria volonta' di pace. Il saggio di Abdul Aziz Said per la cultura islamica e quello di fratel Ibrahim Faltas per la tradizione cristiana completano il discorso di incontro, dialogo e riconciliazione che Marc Gopin ha sviluppato partendo dalla propria cultura ebraica. E' stupefacente, man mano che si procede nella lettura, sentire la profonda assonanza e convergenza di culture che lo stereotipo dominante ritiene diverse e opposte. La nonviolenza e' diventato il punto omega verso cui converge l'impegno delle religioni mondiali. Cosi' i Luoghi Santi delle tre religioni monoteistiche, per il cui controllo esclusivo tanto si e' esacerbato in questi anni il conflitto arabo-israeliano, potranno finalmente diventare i simboli condivisi del cammino ecumenico di riconciliazione dell'umanita'. L'esempio di Etty Hillesum, il "cuore pensante" dell'ebraismo, riproposto alla fine di questo quaderno dal bel saggio di Franz Amato, si offre, nel rifiuto di ogni idolatria della forza, come modello di riconciliazione. Etty si dona al mondo con la sua "debolezza" che non sa odiare, ma solo amare, di quell'amore verso ogni persona che rende partecipi della segreta armonia del mondo. * Gli accordi di Ginevra Una parte significativa del volume, con gli articoli di Michal Reifen e di Maria Chiara Tropea, e' dedicata all'analisi dell'iniziativa di Ginevra, dove il primo dicembre 2003 e' stato presentato il progetto per un accordo israelo-palestinese, mostrando al mondo che la pace e' possibile e che ci sono i partner per farla. L'iniziativa di Ginevra ha un valore straordinario, in un momento storico in cui e' indispensabile offrire ai due popoli una via di uscita realistica dall'attuale situazione di disperazione e di frustrazione. E' un esempio di diplomazia parallela, non ufficiale, che fa capire come un processo di pace possa avere come protagonisti non solo gli Stati, ma anche i cittadini, che con la loro azione dal basso aprono ai governi la possibilita' di comprendere esattamente quali concessioni, concordate dalle due parti, possano porre fine al conflitto. Quello di Ginevra e' un modello di accordo in cui tutti i particolari sono stati discussi senza lasciare nulla in ombra, secondo la prospettiva della creazione di due Stati per due Popoli. Infine, gli accordi di Ginevra sono importanti perche' riabilitano a livello internazionale la parte debole palestinese come interlocutrice del processo di pace, in opposizione alla politica del "fatto compiuto" perseguita dai violenti in armi. Ha scritto Hannah Arendt, la coscienza inquieta dell'ebraismo contemporaneo: "Comunque, in un mondo come il nostro, in cui la politica, in alcuni paesi, ha da tempo superato la fase del delitto isolato ed e' entrata in quella della criminalita', una moralita' senza compromessi... e' diventata l'unico strumento mediante il quale possa essere percepita e pensata la vera realta', contrapposta alle situazioni di fatto, distorte ed essenzialmente effimere, create dai crimini". Un vecchio racconto della tradizione ebraica ci tramanda l'esistenza di trentasei giusti che vivono in ogni tempo, senza i quali il mondo sarebbe andato in rovina. Etty Hillesum, Judat Magnes, Fawzi El-Hussein, Martin Buber, Hannah Arendt, Giorgio La Pira, gli autori dei saggi che abbiamo ospitato in questo volume: John Paul Lederach, Marc Gopin, Abdul Aziz Said, Fr. Ibrahim Faltas, Mohammed Abu-Nimer, i protagonisti degli accordi di Ginevra sono alcuni di questi giusti, intelligenze che, spesso irrise e inascoltate dai piu', si sono sollevate al di sopra della realta' quotidiana e dei vincoli politici del momento, indicando un percorso possibile per curare le ferite indotte dalla violenza e costruire un futuro di pace. "Se noi amiamo veramente il mondo reale con tutti i suoi orrori, se osiamo allacciarlo con le braccia del nostro spirito, le nostre mani incontreranno le mani che reggono il mondo" (Martin Buber). (Fine. La prima parte e' stata pubblicata nel precedente numero del notiziario) 5. RILETTURE. AMOS OZ: CONTRO IL FANATISMO Amos Oz, Contro il fanatismo, Feltrinelli, Milano 2004, pp. 80, euro 4,5. Tre lezioni tenute a Tubinga del grande scrittore e costruttore di pace israeliano. Un libro che vivamente raccomandiamo. 6. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 7. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it, sudest at iol.it, paolocand at inwind.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 801 del 6 gennaio 2005 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione).
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