le botteghe della saudade



Buon Anno Nuovo!
ettore masina
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Ettore Masina
sito web: http://www.ettoremasina.it
aggiornato il 29/12






LETTERA 103
dicembre 2004

ottobre 2004
marzo 2004 
1
Iscatolati nei mezzi di trasporto o correndo da un marciapiede all'altro
per evitare di essere investiti, o anche affrettando inutilmente il passo
per non arrivare in ritardo a qualche appuntamento, noi viviamo spesso la
"nostra" città senza vederla Sì, ci accorgiamo  se un palazzo viene
abbattuto o un altro in via di costruzione, memorizziamo  i nomi delle
strade (qualche strada) e ci accorgiamo se il nostro droghiere ha tentato
un addobbo natalizio, ma la nostra attenzione  ai cambiamenti meno vistosi
è fiacca - e nulla addirittura per ciò che avviene oltre i confini del
nostro territorio: il condominio, un pezzo di quartiere, l'itinerario di
ogni mattina. Dubito che siano in molti ad accorgersi che vanno crescendo
di numero, fra noi, "le botteghe della saudade".
"Saudade" è parole brasiliana quasi impossibile  da tradurre. Si potrebbe
dire "nostalgia,  ma la saudade è qualcosa di più: è un tormentoso vivere,
minuto dopo minuto, accanto a persone che in realtà sono lontanissime, è un
doloroso continuo ri-calcolare  quella distanza, in una specie  di sussulto
dell'anima. È una voglia smaniosa di tornare donde si è partiti. È
infelicità allo stato puro. E poiché da ogni sentimento umano è possibile
spremere soldi, ecco nascere, e  moltiplicarsi, in ogni città, negozi in
cui gigantesche aziende transnazionali  vendono agli emigranti la
possibilità di telefonare "a casa" a tariffe ridotte.
Questi negozi sono quasi invisibili perché spesso non hanno insegne, non
hanno vetrine (che cosa potrebbero esporre?), dalle porte si scorge un
ambiente squallido  come quello delle sale-corse ; ma invece di tetri
giocatori d'azzardo in attesa di una fortuna che non arriva mai, qui, nelle
botteghe della saudade, i clienti sono soprattutto donne; e, se ti fermi ad
ascoltare, ti accorgi che molte sono madri che stanno telefonando ai loro
lontanissimi bambini. Lo capisci dal fatto che improvvisamente le voci si
fanno pigolii, balbettamenti e persino implorazioni. Naturalmente noi non
intendiamo nemmeno una parola  di tamil, di tagalog, di guaranì, di
amarico, di quiché, il wolof: linguaggi che ci sembrano senza senso;
eppure, se ascoltiamo  con attenzione, comprendiamo che in una regione
remotissima c'è un bambino tenuto in braccio a un padre o a una nonna e
qui, accanto a noi, una donna che chiede. "Sono la mamma, la tua mamma. Ti
ricordi ancora di me? Fammi sentire la tua voce, dimmi che mi mandi un
bacio. Quando tornerò, ti porterò un bellissimo  regalo.  Sii buono, tesoro
mio".
L'emigrazione  di madri verso paesi in cui molte donne non hanno più il
tempo o, qualche volta, la voglia di esserlo, non è fenomeno nuovo. Intere
regioni italiane come la Brianza o la Ciociaria hanno "esportato" per
generazioni, a Milano o a Roma, "donne da latte", che lasciavano i loro
bambini appena nati per nutrire di sé i bambini delle famiglie agiate.
Questa transumanza era una vera e propria tradizione di alcuni paesi
poverissimi. per non so bene quale "gemellaggio", ad esempio, sino agli
anni '30 del secolo scorso  centinaia di balie movevano dal Feltrino per la
città di Marsiglia, senza sapere una parola di francese - né, se è per
questo, di italiano.
Qualche volta la creaturina che avevano partorito e dovuto abbandonare
appena nata, moriva. Allora, schiacciata dal suo destino, la balia si
aggrappava al bambino "dei Signori", titolare inconsapevole e innocente di
uno dei tanti modi di sfruttamento dei poveri: un figlio non suo, che di lì
a qualche mese, le sarebbe stato sottratto, ripreso dalla sua famiglia "di
sangue".
Il trionfo del latte artificiale ha stroncato il fenomeno delle balie, ma
il vertiginoso aumento del lavoro extracasalingo  delle donne della
borghesia europea ha incrementato la richiesta di cosiddette colf, in
realtà, per lo più, bambinaie; e mentre l'"offerta" italiana di domestiche
crollava per il carattere servile del lavoro, la globalizzazione  apriva un
nuovo immenso mercato, quello dei popoli poveri. Centinaia di migliaia,
milioni, di madri partono oggi dal cosiddetto Terzo Mondo affidando i loro
piccini. al marito o alle nonne. Tornano, quando va bene, dopo un anno, per
una breve vacanza; e ripartono per radunare un piccolo gruzzolo che
consenta un futuro migliore. Spesso tutta una famiglia dipende da questo
sacrificio; e le rimesse degli emigranti salvano molti paesi poveri da un
definitivo naufragio economico.
2
Avevo cominciato questa lettera nell'imminenza  della Festa della famiglia
che la Chiesa cattolica celebra dopo il Natale per sottolineare
l'importanza di questa cellula della società nella formazione
dell'individuo. Volevo attirare l'interesse dei miei fratelli nella fede su
questi presepi dai quali Maria è assente, obbligata ad accudire altri
bambini perché il suo possa campare. Questo dramma mi sembrava (e mi
sembra) indicativo della crudeltà del sistema in cui viviamo.
La catastrofe nel Sudest asiatico mi ha tolto ogni parola e mi ha costretto
all'ascolto. Ha scritto ai suoi amici europei Krishnammal Jaganatham,
leader del movimento nonviolento indiano: "In mezzo alla mia gente, in
questi giorni, la frase che ascolto in continuazione  è "Aiya en pillayai
Pathingala?".Significa:. "Hai visto i miei bambini?". Decine di migliaia di
bambini sono spariti nelle acque, nel fango, nel caos del terrore. Decine,
centinaia di orfani - sembra certo - sono stati rapiti dai trafficanti
della pedofilia. Anche il vento - dice la signora Jaganatham, - anche il
vento che scompiglia le macerie e  smuove i cenci dei morti, creando
l'illusione di un po' di vita, anche il vento sembra ripetere senza
stancarsi:  "Aiya en pillayai Pathingala?".
E io penso: in quante diverse traduzioni quel grido continua a risuonare
nelle "botteghe della saudade"? Ma all'altro capo della linea telefonica
nessuno risponde.
3
Lontano dall'orrore, qualcuno si meraviglia della bontà che ci nasce
dentro. I telegiornali ce lo ripetomo in continuazione: all'immenso SOS che
giunge da un continente ferito, la maggioranza dei nostri telefonini (del
costo di centinaia di  euro) ha risposto con un SMS che donava una moneta:
non è meraviglioso? Ma l'ironia è un lusso che non possiamo permetterci,
Diciamo che non basta. Un giornalista che arrivasse da un altro universo e
cercasse di descrivere la Terra di oggi sarebbe, molto probabilmente,
incline a parlare di una follìa planetaria. Elencherebbe: 1) gli eserciti
imperiali si vantano di avere visori talmente sofisticati da leggere, a
mille chilometri di distanza, la targa di un autocarro mentre i due terzi
dell'umanità non ha strumenti ( o non ha tecnici) per avvistare un'onda di
12 metri d'altezza che corre per gli oceani; 2) terremoto e maremoto hanno
travolto centinaia di migliaia di persone del tutto diseguali fra loro:
alcune decine di migliaia vivevano, sia pure per un breve periodo, nel
lusso dei grandi alberghi e milioni, al di là dei recinti degli hotels,
sopravvivevano a stento: due razze? 3) se questa volta la furia della
natura è stata apocalittica, a causa di quella forza ciclopica che è la
"deriva dei continenti", il sudest asiatico è "normal-mente" aggredito da
tifoni e inondazioni, e questi rovinosi fenomeni sono causati o ingigantiti
dagli sfruttamenti selvaggi del suolo e dalla produzione di agenti chimici
che devastano il clima ma proprio pochi giorni prima della catastrofe gli
Stati Uniti e i loro portacoda, come l'Italia, hanno fatto fallire, a
Buenos Aires, una apposita conferenza internazionale; 4). Eccetera,
eccetera. Direbbe insomma, quel mio collega sceso dal cosmo, che l'umanità
è gravemente malata di schizofrenia; e aggiungerebbe ciò che ben pochi
giornalisti  italiani e ancor meno governanti vanno dicendo: e cioè che
questa schizofrenia assumerebbe  contorni moralmente intollerabili e
suicidi dal punto di vista ecologico se ci si sforzasse soltanto di
riprodurre la situazione  precedente al maremoto; sarebbe una sorta di
gigantesca elemosina che lascerebbe  poveri i poveri e ricchi i ricchi,
dichiarerebbe inamovibili  i parametri dell'ingiustizia, ucciderebbe ogni
speranza.
Ma forse, invece, qualcosa di meraviglioso è fiorito accanto all'orrore. È
toccante vedere come la tragedia abbia imprevedibilmente abbattuto il muro
di separazione fra la miseria delle capanne e delle baracche e le lussuose
"clausure" dei villaggi turistici, in cui la popolazione locale entrava
soltanto per i servizî più pesanti e assisteva allo spreco insensato di
viveri e alla follìa di docce godute a tutte le ore del giorno nella beata
inconsapevolezza, che questo significava sottrarre acqua agli abitanti
della zona. È commovente constatare come quell'incontro  fra le macerie e
la paura, fra persone per una volta egualmente povere, abbia fatto emergere
tesori di solidarietà. Unanime è la testimonianza dei turisti accolti dagli
indigeni dei villaggi collinari. "Hanno diviso con noi tutto il poco che
avevano. E anche per questo è giusto aiutarli".
*************
Ringrazio i visitatori del mio sito:<www:ettoremasina.it>. Nei circa
quaranta giorni della sua esistenza, ha ricevuto (si dice così?) 3 mila
contatti. Con l'aiuto di Luca Lo Cascio lo abbiamo aggiornato
settimanalmente; l'ultima volta ieri, 29 dicembre.
L'editrice San Paolo ha deciso di abbandonare la narrativa e di conseguenza
di mandare al macero, fra altre opere, il mio libro che io amo di più. "I
gabbiani di Fringen": cinque racconti lunghi o romanzi brevi, che si
inanellano fra loro, dando vita (hanno scritto i critici ) a un mondo
magico, ricco di emozioni. Ho riscattato alcune copie e le metto a
disposizione di chi ne vuole un esemplare. Se poi qualcuno crederà di
inviarmi un rimborso delle spese di spedizione (le calcolo in 5 ¤ ), lo
accetterò volentieri: ma quel che mi preme è che il libro venga letto: e
dunque raccomando soprattutto ai giovani di non farsene un problema.
Buon Anno da
Ettore Masina





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