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La nonviolenza e' in cammino. 799
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 799
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Tue, 4 Jan 2005 00:07:51 +0100
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 799 del 4 gennaio 2005 Sommario di questo numero: 1. Alex Zanotelli: Aboliamo il debito 2. Ileana Montini: Aggressivita' e potere 3. Jean-Marie Muller: Le possibilita' di una cultura della nonviolenza 4. Marina Praturlon: Un incontro con Fatema Mernissi a Roma 5. Benito D'Ippolito: Quattro vecchi volantini dei tempi della prima guerra del Golfo 6. La "Carta" del Movimento Nonviolento 7. Per saperne di piu' 1. APPELLI. ALEX ZANOTELLI: ABOLIAMO IL DEBITO [Riprendiamo questo intervento dal quotidiano "Il manifesto" del 31 dicembre 2004. Alessandro Zanotelli, missionario comboniano, ha diretto per anni la rivista "Nigrizia" conducendo inchieste sugli aiuti e sulla vendita delle armi del governo italiano ai paesi del Sud del mondo, scontrandosi con il potere politico, economico e militare italiano: rimosso dall'incarico e' tornato in Africa a condividere per molti anni vita e speranze dei poveri, solo recentemente e' tornato in Italia; e' direttore responsabile della rivista "Mosaico di pace" promossa da Pax Christi; e' tra i promotori della "rete di Lilliput" ed e' una delle voci piu' prestigiose della nonviolenza nel nostro paese. Tra le opere di Alessandro Zanotelli: La morte promessa. Armi, droga e fame nel terzo mondo, Publiprint, Trento 1987; Il coraggio dell'utopia, Publiprint, Trento 1988; I poveri non ci lasceranno dormire, Monti, Saronno 1996; Leggere l'impero. Il potere tra l'Apocalisse e l'Esodo, La meridiana, Molfetta 1996; Sulle strade di Pasqua, Emi, Bologna 1998; Inno alla vita, Emi, Bologna 1998; Ti no ses mia nat par noi, Cum, Verona 1998; La solidarieta' di Dio, Emi, Bologna 2000; R...esistenza e dialogo, Emi, Bologna 2001; (con Pietro Ingrao), Non ci sto!, Piero Manni, Lecce 2003; (co n Mario Lancisi), Fa' strada ai poveri senza farti strada. Don Milani, il Vangelo e la poverta' nel mondo d'oggi, Emi, Bologna 2003; Nel cuore del sistema: quale missione? Emi, Bologna 2003; Korogocho, Feltrinelli, Milano 2003. Opere su Alessandro Zanotelli: Mario Lancisi, Alex Zanotelli. Sfida alla globalizzazione, Piemme, Casale Monferrato (Al) 2003] Il maremoto nel Sud-est asiatico e' qualcosa di talmente immane che ci colpisce dritti al cuore. Ma non vorrei che questo dolore sparisse di colpo il giorno in cui riprenderemo i voli per andare a fare le nostre vacanze in quei paesi martoriati. Vorrei che questa tragedia costituisse invece un'occasione per riflettere sui poveri del Sud-est asiatico, che sono quelli che hanno pagato maggiormente il prezzo del disastro. In questo senso, ritengo necessario rilanciare la discussione sul debito: penso che sia imperativo cancellare immediatamente e senza condizioni il debito a tutte le nazioni coinvolte in questo cataclisma. Al di la' dell'emergenza immediata, che pure deve essere affrontata con urgenza, penso poi che tale campagna per la remissione del debito debba essere inserita in un'azione a piu' vasto raggio, che riguardi tutti i paesi poveri. Al G8 dell'anno prossimo, che si terra' a Edimburgo, dovra' essere esaminata l'idea lanciata dal ministro delle finanze britannico Gordon Brown, che ha proposto l'abolizione del debito ai 42 paesi piu' impoveriti della Terra. Per quanto parziale - dal momento che non riguarda paesi non poverissimi ma comunque strozzati dal debito, come ad esempio il Brasile e l'Argentina - questa proposta e' estremamente interessante e deve rappresentare un punto di partenza per un'azione di pressione internazionale della societa' civile sui governi europei. Campagne in questo senso sono gia' partite in Inghilterra; non in Italia. Mi meraviglia il silenzio italiano, soprattutto dopo che nel 2000 il nostro paese ha approvato la miglior legge internazionale sulla remissione del debito. La legge 209, votata da tutti i partiti di destra e di sinistra, prevedeva la cancellazione del debito come minimo per ottomila miliardi di vecchie lire. Purtroppo, questo testo e' rimasto lettera morta: nel giro di tre anni abbiamo cancellato il debito totalmente a solo due nazioni. Credo che bisogna cogliere la tragica occasione di questo maremoto per rilanciare la discussione sulla legge 209 e sulla necessita' di una campagna internazionale affinche' lo spirito di tale testo divenga la politica comune di tutta l'Unione europea. * L'importante e' cercare di ottenere la remissione del debito senza condizioni: una tale decisione politica non deve infatti costituire un cavallo di Troia per richiedere in contropartita ai paesi interessati la liberalizzazione dei loro mercati e l'implementazione di quel pacchetto di misure liberiste note come "consenso di Washington". A chi dice che i conti non torneranno, rispondo che basterebbe che il Fondo monetario internazionale (Fmi) venda una minima parte delle sue riserve in oro per spianare tutti i debiti della terra. Una proposta di questo tipo non lo si puo' lanciare semplicemente con un editoriale su un giornale. Mi piacerebbe invece che tutte le organizzazioni che si sono messe insieme per lanciare la remissione del debito nel 2000 e hanno ottenuto la legge 209 si ritrovino al piu' presto da qualche parte a Roma, per cercare di far ripartire alla grande questo movimento. In un momento cosi' tragico e cosi' grave penso che questa sia l'unica cosa decente e veramente seria che possiamo fare. Il problema e' profondamente politico e dobbiamo tentare di risolverlo in maniera politica attraverso misure economiche e finanziarie che davvero facciano respirare le popolazioni piu' povere del pianeta e restituiscano un po' di giustizia a un mondo profondamente disuguale. 2. RIFLESSIONE. ILEANA MONTINI: AGGRESSIVITA' E POTERE [Ringraziamo Ileana Montini (per contatti: ileana.montini at tin.it) per questo intervento. Ileana Montini, prestigiosa intellettuale femminista, gia' insegnante, e' psicologa e psicoterapeuta. Nata nel 1940 a Pola da genitori romagnoli, studi a Ravenna e all'Universita' di Urbino, presso la prima scuola di giornalismo in Italia e poi sociologia; giornalista per "L'Avvenire d'Italia" diretto da Raniero La Valle; di forte impegno politico, morale, intellettuale; ha collaborato a, e fatto parte di, varie redazioni di periodici: della rivista di ricerca e studio del Movimento Femminile DC, insieme a Tina Anselmi, a Lidia Menapace, a Rosa Russo Jervolino, a Paola Gaiotti; di "Per la lotta" del Circolo "Jacques Maritain" di Rimini; della "Nuova Ecologia"; della redazione della rivista "Jesus Charitas" della "famiglia dei piccoli fratelli e delle piccole sorelle" insieme a fratel Carlo Carretto; del quotidiano "Il manifesto"; ha collaborato anche, tra l'altro, con la rivista "Testimonianze" diretta da padre Ernesto Balducci, a riviste femministe come "Reti", "Lapis", e alla rivista di pedagogia "Ecole"; attualmente collabora al "Paese delle donne". Ha partecipato al dissenso cattolico nelle Comunita' di Base; e preso parte ad alcune delle piu' nitide esperienze di impegno non solo genericamente politico ma gramscianamente intellettuale e morale della sinistra critica in Italia. Il suo primo libro e' stato La bambola rotta. Famiglia, chiesa, scuola nella formazione delle identita' maschile e femminile (Bertani, Verona 1975), cui ha fatto seguito Parlare con Dacia Maraini (Bertani, Verona). Nel 1978 e' uscito, presso Ottaviano, Comunione e liberazione nella cultura della disperazione. Nel 1992, edito dal Cite lombardo, e' uscito un libro che racconta un'esperienza per la prevenzione dei drop-out di cui ha redatto il progetto e curato la supervisione delle operatrici: titolo: "... ho qualche cosa anch'io di bello: affezionatrice di ogni cosa". Recentemente ha scritto la prefazione del libro di Nicoletta Crocella, Attraverso il silenzio (Stelle cadenti, Bassano (Vt) 2002) che racconta l'esperienza del Laboratorio psicopedagogico delle differenze di Brescia, luogo di formazione psicopedagogica delle insegnanti e delle donne che operano nelle relazioni d'aiuto, laboratorio nato a Brescia da un progetto di Ileana Montini e con alcune donne alla fine degli anni ottanta, preceduto dalla fondazione, insieme ad altre donne, della "Universita' delle donne Simone de Beauvoir". Su Ileana Montini, la sua opera, la sua pratica, la sua riflessione, hanno scritto pagine intense e illuminanti, anche di calda amicizia, Lidia Menapace e Rossana Rossanda] "Tranne chi pensa che la differenza uomo/donna sia fondata biologicamente o addirittura ontologicamente, non dovrebbe essere possibile continuare con la storia che "le donne sono piu' buone" e avvalersi dell'angelismo femminile per ricreare i presupposti della segregazione. Non siamo piu' buone, siamo 'diverse'. Le forme della differenza le abbiamo studiate a sufficienza, ma e' mancata l'analisi della 'differenza maschile': finche' anche i maschi non si analizzano e non giudicano il loro percorso storico, il patriarcato (o - non e' migliore - il fratriarcato) tenta sempre l'omologazione, lasciando alle donne la possibilita' di adeguarsi al modello unico che ha creato per se'. Ci si puo' cascare: ci sono donne oggi che diventano competitive e producono il mobbing (che altre subiscono) o che aspirano al potere 'come un uomo', come Margareth Thatcher o Condoleeza Rice, cioe' senza ripensare alle ragioni del potere e ai diritti femminili". Cosi' ha scritto Giancarla Codrignani il 2 gennaio. E anche Lidia Menapace in un suo intervento ha dato una definizione della violenza delle donne: "emancipazione imitativa". Vorrei spendere anch'io qualche parola su questo spinoso argomento. Riassumiamo gli esempi. Come ha ricordato Lidia Menapace nei campi di sterminio tedeschi della seconda guerra mondiale ci sono state non poche donne aguzzine e anche in modo efferato. Ultimamente hanno fatto il giro del mondo le foto della soldata americana mentre tortura i prigionieri iracheni. In Italia abbiamo avuto un recente esempio di mobbing di una sottoufficiale donna contro dei soldati. Ma si potrebbero ricordare le vere sevizie alle quali sottoponevano bambine e bambini le suore degli orfanotrofi o nei collegi contro le povere ragazze scacciate di casa perche' avevano "peccato" restando incinta, come ci narra il bellissimo film intitolato Magdalene. * In tutti questi casi risalta pero' un particolare contesto: c'e' una situazione di gruppo coeso, con regole rigide e persone che comandono. Molti anni fa negli Stati Uniti venne finanziata una strana ricerca psicologica empirica. Si trattava di arruolare temporaneamente dei volontari (tutti maschi) per vivere la situazione carceraria. Gli uni vennero nominati secondini, gli altri prigionieri. I "prigionieri" vennero "arrestati" nelle loro case con l'accusa di una insieme di reati. Vennero rinchiusi nelle celle e l'esperimento ebbe inizio. Quello che accadde in seguito fa venire la pelle d'oca. Pian piano ciascuno entro' nel ruolo. I volontari che avevano accettato di fare i prigionieri accettarono le sevizie sempre piu' dure che venivano loro inflitte dai "secondini". Lo stesso esperimento, con qualche attenuazione, venne riprodotto dopo molti anni in Inghilterra. Anche in questo caso tutti si comportarono secondo le aspettative del ruolo di vittima e di carnefice. I "secondini" avevano il potere e lo esercitarono, mentre i "prigionieri" accettarono di subirlo. Nell'esperimento inglese, poiche' erano state date regole un po' diverse, per cosi' dire "allentate", ci fu anche una ribellione momentanea. Dunque, se ne puo' dedurre che il contesto, sostanziato di regole imposte da chi sta piu' in alto e detiene il potere, condiziona i comportamenti trasformando semplici creature umane tranquille e innocue, in barbari aguzzini, mentre altre le adatta a fare le vittime. * Del resto i giornali ci hanno descritto cosa era nella vita borghese la soldata che nel carcere iracheno si e' dimostrata uguale ai suoi colleghi: una brava americana tranquilla. Appunto. Non dimentichiamo d'altronde che numerosi ex nazisti che avevano operato nei campi di sterminio, dopo la guerra erano tornati alla vita civile, e quando li trovavano i vicini di casa si meravigliavano perche' li avevano vissuti come brave persone. Lo si puo' notare, questo fenomeno, anche in una classe scolastica. Se un insegnante addita un bambino come portatore di uno qualche stigma di differenza o inferiorita', gli alunni si comporteranno con lui secondo le sue aspettative e facilmente lo emargineranno. Certamente, per quanto riguarda i casi riportati e piu' recenti, per le donne si puo' aggiungere anche l'"emancipazione imitativa". Aggressivita' e potere sono una miscela esplosiva e riguardano anche le donne. Ma e' anche vero, come scrivono Lidia e Giancarla, che le donne, escluse dal potere con la p maiuscola, hanno anche sviluppato altre traiettorie umane, altre sensibilita' e codici di comunicazione. In verita' poco presi in considerazione e poco studiati. 3. RIFLESSIONE. JEAN-MARIE MULLER: LE POSSIBILITA' DI UNA CULTURA DELLA NONVIOLENZA [Ringraziamo Enrico Peyretti (per contatti: e.pey at libero.it) per averci messo a disposizione le seguenti pagine estratte (con alcuni tagli) dal cap. 15 e dalla conclusione dalla sua traduzione del libro di Jean-Marie Muller, Il principio nonviolenza. Una filosofia della pace, Edizioni Plus - Pisa University Press, Pisa 2004 (edizione originale: Le principe de non-violence. Parcours philosophique, Desclee de Brouwer, Paris 1995); Il volume (pp. 336, euro 15) reca anche una utilissima appendice di Enrico Peyretti e una densa prefazione di Roberto Mancini. Per richieste alla casa editrice: tel. 0502212056, fax: 0502212945, e-mail: info-plus at edizioniplus.it, sito: www.edizioniplus.it. Jean-Marie Muller, filosofo francese, nato nel 1939 a Vesoul, docente, ricercatore, e' tra i più importanti studiosi del pacifismo e delle alternative nonviolente, oltre che attivo militante nonviolento. E' direttore degli studi presso l'Institut de Recherche sur la Resolution non-violente des Conflits (Irnc). In gioventu' ufficiale della riserva, fece obiezione di coscienza dopo avere studiato Gandhi. Ha condotto azioni nonviolente contro il commercio delle armi e gli esperimenti nucleari francesi. Nel 1971 fondo' il Man (Mouvement pour une Alternative Non-violente). Nel 1987 convinse i principali leader dell'opposizione democratica polacca che un potere totalitario, perfettamente armato per schiacciare ogni rivolta violenta, si trova largamente spiazzato nel far fronte alla resistenza nonviolenta di tutto un popolo che si sia liberato dalla paura. Tra le opere di Jean-Marie Muller: Strategia della nonviolenza, Marsilio, Venezia 1975; Il vangelo della nonviolenza, Lanterna, Genova 1977; Significato della nonviolenza, Movimento Nonviolento, Torino 1980; Momenti e metodi dell'azione nonviolenta, Movimento Nonviolento, Perugia 1981; Lessico della nonviolenza, Satyagraha, Torino 1992; Simone Weil. L'esigenza della nonviolenza, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1994; Vincere la guerra, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1999; Il principio nonviolenza, Plus, Pisa 2004] La violenza legittimata dalla nonviolenza La violenza e' considerata dall'uomo ragionevole che vuole agire con efficacia nella storia, come il solo mezzo per realizzare la nonviolenza, che e' il fine della storia. Se si ammette che il fine giustifica i mezzi, la nonviolenza giustifica la violenza. Da quel momento, la violenza seconda, la contro-violenza, con la quale l'uomo ragionevole combatte la violenza primaria degli uomini irragionevoli, diventa essa stessa ragionevole. Anzi, l'uomo violento ha diritto di valersi di una morale superiore a quella dell'uomo nonviolento, perche', in definitiva, soltanto la violenza e' morale, dato che essa sola puo' realizzare la nonviolenza nella storia. La violenza viene cosi' legittimata dalla nonviolenza, e tutta la critica che il nonviolento e' pronto a rivolgere al violento viene ridotta a nulla, perche' il violento puo' fondatamente avvalersi dell'argomento stesso della nonviolenza per giustificare la propria azione nella storia. Dal momento che la nonviolenza e' l'argomento inconfutabile della violenza, questa diventa totalmente indiscutibile. E infatti non e' piu' discussa. Si assiste allora all'inversione degli oneri. E' il nonviolento che si trova colto in fallo dal violento, il quale lo accusa di farsi complice della violenza, di fare il suo gioco lasciandole libero corso, di abbandonare la storia in suo potere, poiche', di per se', la nonviolenza non offre alcun mezzo tecnico per combattere l'azione irragionevole di quelli che distruggono la pace della comunita'. Ancora, si accusa il nonviolento di cullarsi nell'ipocrisia, facendogli notare che e' liberissimo di parlare di nonviolenza solo in quanto puo' godere di una sicurezza personale e collettiva di cui e' debitore a quanti non hanno esitato, assumendo su di se' i piu' grandi rischi, a ricorrere alla violenza. (...) Il nonviolento conseguente ha coscienza del fatto che e' la violenza irragionevole che avvia l'ingranaggio della violenza, e il suo rifiuto della violenza e' anzitutto rifiuto della violenza primaria che genera l'ingiustizia. Egli e' altrettanto consapevole che il suo rifiuto non puo' ridursi a una condanna morale, e che egli deve esprimerlo in una azione nella storia. * La nonviolenza come obbligo verso gli altri Certo, l'esigenza di nonviolenza richiede all'individuo che si sforzi di astenersi - tenersi lontano - da ogni impiego della violenza, ma, nello stesso tempo, e ancora piu' fortemente, vuole da lui che lotti contro la violenza che impregna i rapporti umani entro la comunita' storica a cui egli appartiene. Insomma, l'adempimento della prima richiesta appare, agli occhi di chi sceglie la nonviolenza, come la condizione necessaria, benche' non sufficiente, all'adempimento della seconda. Il destino individuale dell'uomo non ha senso che legato al destino della sua comunita' e, al di la' di questa, ma attraverso questa, legato all'umanita' tutta intera. L'uomo che ha scelto la nonviolenza ha coscienza di non poter cercare il proprio appagamento in solitudine. Egli deve realizzare la nonviolenza in seno alla sua comunita', la' dove gli altri non sono nonviolenti, o almeno non lo sono tutti. In quanto esigenza morale, la nonviolenza e', nello stesso tempo e inseparabilmente, obbligo verso se stessi e obbligo verso gli altri, in modo tale che e' inutile pretendere di stabilire una predominanza di un obbligo sull'altro. Nella vita, l'obbligo verso se stessi non si esprime che nell'obbligo verso gli altri e si realizza nella relazione con gli altri. La nonviolenza non puo' fondare una morale della pura intenzione, che porterebbe l'individuo a disinteressarsi delle conseguenze delle sue decisioni e dei suoi atti. E' proprio perche' si interessa delle conseguenze della violenza che l'uomo nonviolento la rifiuta. Come chiunque altro - e forse di piu' - il nonviolento e' cosciente del fatto che un'azione non e' morale soltanto per le sue intenzioni, ma anche, e in modo definitivo, per le sue conseguenze. L'uomo nonviolento non potrebbe ritirarsi dal mondo per salvarsi meglio dall'impurita' della violenza. Se abbandonasse il mondo, lo abbandonerebbe in realta' nelle mani di quelli che non hanno alcuno scrupolo ad agire con violenza; si farebbe in effetti complice dell'impero della violenza. E' nel mondo cosi' com'e', cioe' violento, che egli deve sforzarsi di vivere secondo l'esigenza di nonviolenza. Cio' che importa, riguardo alla morale che fonda l'esigenza di nonviolenza, non e' la purezza individuale del solitario che rifiuta di compromettersi con la realta' e rinuncia ad assumere le sue responsabilita' nella storia; cio' che importa e' il progresso effettivo della nonviolenza nelle relazioni tra le persone entro la societa'. Certo, se il nonviolento rinuncia alla violenza, e' per evitare di farsi prendere in un ingranaggio che distruggerebbe la sua umanita'. Egli esige, senza doversene scusare, che si riconosca la legittimita' di questa preoccupazione, la quale, secondo lui, e' costitutiva dell'esigenza filosofica che da' senso e trascendenza alla sua vita. Ma se il nonviolento rinuncia alla violenza, lo fa anche, e inseparabilmente, con la preoccupazione di proteggere l'umanita' degli altri affinche' almeno non abbiano a soffrire per opera sua. (...) Il rifiuto della violenza non e' un fine in se', non costituisce lo scopo che il nonviolento cerca di raggiungere. Il rifiuto della violenza non e' altro che la dimensione negativa della nonviolenza. La sua dimensione positiva e' fare progredire la nonviolenza, cioe' la giustizia, nelle relazioni umane. E' questo progresso lo scopo che il nonviolento cerca di raggiungere. * Rifiutare anzitutto la vilta' Per decidere il proprio atteggiamento di fronte all'ingiustizia, l'uomo non si trova posto davanti all'alternativa violenza-nonviolenza; dal primo momento, e' un'altra la scelta che in realta' gli si offre: quella del rifiuto dell'azione. La scelta tra violenza e nonviolenza non esiste se non per colui che ha gia' scelto di agire contro l'ingiustizia. Il dibattito su violenza e nonviolenza, dunque, non puo' essere impostato correttamente se non e' rapportato a un terzo polo: quello dell'inazione, cioe' della fuga, della passivita', della rassegnazione, che si radica nella paura e si esprime nella vilta'. Ogni discussione su questo argomento e' falsata fin quando e' organizzata in rapporto a due poli soltanto (violenza-nonviolenza) e non a tre (vilta'-violenza-nonviolenza). Bisogna riconoscere che chi ha scelto la violenza per combattere l'ingiustizia ha gia' dato prova di coraggio superando la sua paura e rifiutando di essere vile. Se la nonviolenza non e' anzitutto opposta alla vilta', incontrera' sempre incomprensione quando la si opporra' alla violenza. La questione "violenza-nonviolenza" non e' posta correttamente se non quando viene presentata la scelta tra due forme di resistenza contro l'ingiustizia e tra due forme di rischio davanti alla violenza avversaria. In entrambi i casi, l'atteggiamento puo' essere coraggioso e intrepido, l'intenzione buona e pura, la volonta' ferma e determinata. Questo non deve essere messo in discussione. La discussione deve essere su due forme di mezzi, di tecniche, di metodi d'azione, che devono essere giudicati non soltanto in funzione della loro moralita', ma anche in funzione della loro efficacia per raggiungere il fine ricercato. (...) * La violenza e' sempre irragionevole Certo, non si puo' dare lo stesso giudizio morale sulla violenza dell'uomo irragionevole e la contro-violenza dell'uomo ragionevole, eppure questa resta una violenza e, come tale, non e' ragionevole. (...) L'uomo ragionevole non puo' ignorare che, con l'essere violento, rinuncia, anche solo momentaneamente, ad avere un atteggiamento ragionevole. Non puo' non aver coscienza che si contraddice quando legittima il mezzo della violenza col fine della nonviolenza. Deve conservare la coscienza di questa contraddizione che tutte le ideologie dominanti si sforzano di occultare. Soprattutto, non deve darsi pace fin quando non arrivi a superare questa contraddizione. Per quanto possa essere effettivamente necessaria, la violenza e' una necessità tragica. Ogni violenza e' un fallimento drammatico per la comunita' degli uomini ragionevoli e nessuno di loro potrebbe lavarsi le mani e pretendersi innocente. Giustificare la violenza sotto la copertura della necessita', e' rendere la violenza effettivamente necessaria. E' gia' giustificare la violenza futura e chiudere l'avvenire nella necessita' della violenza. E' rifiutare in anticipo ogni inventivita', ogni creativita' che permetta di liberare l'avvenire dal passato. Il fatto che l'uomo ragionevole sia condotto, sotto la costrizione della necessita', a ricorrere lui stesso alla violenza per evitare una violenza peggiore, questo non puo' che determinarlo a fare in modo che, per l'avvenire, in una situazione simile e in circostanze paragonabili, non si trovi piu' prigioniero della stessa necessita'. * Il mezzo della violenza contraddice il fine della nonviolenza (...) La storia prova che, il piu' delle volte, il mezzo della violenza si sostituisce al fine della nonviolenza. Il mezzo cancella il fine. Dire che la nonviolenza e' il fine della storia, ma che questa necessita e giustifica i mezzi della violenza, significa rinviare la nonviolenza alla fine della storia, ma di una storia senza fine. Significa mettere la nonviolenza fuori dalla storia e consacrare la violenza nella storia. Quindi privare la storia di un fine, cioe' di un senso. * La violenza e' un meccanismo cieco (...) L'uomo politico pretende di decidere ragionevolmente di ricorrere alla violenza per difendere l'ordine o ristabilire la pace e giustifica la sua decisione invocando i piu' alti valori morali dell'umanita'. Ma, anzitutto, per mettere in atto la violenza bisogna chiamare degli uomini ad essere violenti. L'appello alla violenza puo' pretendere di fondarsi sulla ragione ma, per essere inteso, fa appello piu' alla passione che alla ragione. In realta', e' la passione, molto piu' della ragione, che arma il braccio di chi esegue la violenza. La violenza, dunque, ha bisogno di una propaganda che si rivolge piu' alla passione che alla ragione. Cio' che importa, nell'esecuzione della violenza, non e' piu' la morale degli uomini, ma soltanto il loro morale. Poiche' non sono ragionevoli, bisogna che gli uomini violenti siano convinti di avere ragione per ottenere, costi quel che costi, che gli altri si arrendano alla loro ragione. E per meglio sostenere il morale di quelli che mettono in atto la violenza ci si da' da fare a convincerli che svolgono il compito piu' giusto e piu' nobile che ci sia. L'ideologia ha la funzione di rendere innocente la violenza cancellando in essa ogni contraddizione tra i suoi mezzi e il fine che la giustifica. Ma la violenza non e' mai in-nocente, perche' contiene una parte irriducibile di nocumento (le due parole hanno la stessa radice: nocere, nuocere). Onorare la violenza non e' soltanto disonorare se stessi, ma e' soprattutto disonorare le vittime della violenza. Considerata in se stessa, la violenza e' sempre disonorante. Dire che e' necessaria non contraddice questa affermazione, ma, al contrario, la rinforza. Infatti non e' mai onorevole per l'uomo trovarsi prigioniero della necessita', soprattutto quando questa lo costringe a far uso di violenza verso altri uomini. L'onore dell'uomo resta la nonviolenza, anche quando la necessita' lo costringe a ricorrere alla violenza. E' di decisiva importanza che nel momento stesso in cui, sotto la pressione delle circostanze, l'uomo crede di non poter fare altro che impiegare la violenza, egli si ricordi che non c'e' onore per lui che nella nonviolenza. Le ragioni per cui l'uomo ricorre alla violenza possono essere onorevoli, ma non per questo cio' rende onorevole la violenza. * La violenza strumentalizza l'uomo In fondo alla catena degli ordini e delle obbedienze, dei sicari eseguono il lavoro sporco della violenza, che non e' per niente ragionevole ed e' la negazione stessa dei valori in nome dei quali si suppone che essi agiscano. A questa estremita' della catena, l'esecutore non e' piu' che uno strumento al servizio della violenza, un congegno meccanico, un puro strumento tecnico. A questo punto, tutto concorre a far si' che l'uomo si trovi privato della sua umanita'. E' una delle caratteristiche della violenza strumentalizzare l'uomo che la esercita. E questa strumentalizzazione e' una disumanizzazione. Nel suo libro La liberte' pour quoi faire?, Georges Bernanos descrive cosi' i rapporti che "l'uomo con la mitraglia" intrattiene con la sua arma: "La mitraglia spara ad un cenno del padrone dell'uomo con la mitraglia, e ad un cenno di questo padrone l'uomo con la mitraglia spara su qualunque cosa. (...) Nell'uomo con la mitraglia di cui parlo non e' la mitraglia l'accessorio, ma l'uomo. L'uomo di cui parlo e' a servizio della mitraglia e non la mitraglia a servizio dell'uomo, non e' "l'uomo con la mitraglia", ma "la mitraglia con l'uomo". Tutto comincia dunque con l'esaltazione della nobilta' di una causa e tutto finisce con l'accettazione delle violenze piu' ignobili. Si vanta la grandezza del sacrificio di quelli che accettano di morire per la causa, ma in realta' quegli stessi ricevono l'incarico di uccidere per la causa. Tutta la "logica" della violenza consiste precisamente nell'uccidere per non morire. E poiche' gli uomini vogliono furiosamente vivere, furiosamente uccidono. Mentre il poeta esalta la gloria di quelli che muoiono "nelle battaglie campali (...) con tutto l'apparato dei grandi funerali" (Charles Peguy, Eve), mentre il filosofo disserta sulla necessita' per l'uomo ragionevole di ricorrere alla violenza per preparare una terra di nonviolenza, mentre l'uomo politico magnifica il dovere patriottico dei cittadini di difendere l'onore degli uomini liberi, mentre il generale celebra il coraggio del soldato che sfida tutti i pericoli e corre i piu' grandi rischi per la salvezza della nazione, mentre il gran sacerdote invoca la benedizione del dio degli eserciti su quanti sono pronti a sacrificare la loro vita per compiere il loro dovere, colui che la miseria della vita ha costretto a fare delle armi il suo mestiere, o che la forza della propaganda ha costretto ad arruolarsi, l'uomo di truppa, di prima fila - proprio l'uomo con la mitraglia, perche', in quasi tutte le guerre, malgrado l'automazione e la sofisticazione dei sistemi d'arma, e' lui che ha l'ultima parola - addestrato per la battaglia, trascinato a non far caso ai sentimenti, agguerrito per dimenticare la paura, indurito per interiorizzare la crudelta' della guerra, e' lui che si trova direttamente a confronto con la violenza che lo strumentalizza e lo disumanizza. No, non e' vero che l'uomo di truppa, di prima fila, si comporta da uomo ragionevole! Nell'ubriacatura della violenza, egli non ha che disprezzo per tutti quei valori esaltati dall'uomo "ragionevole" per giustificare la guerra. Cosi', l'uomo di truppa, di prima fila, e' la materia prima dei versi del poeta, dei trattati del filosofo, dei discorsi del politico, dei proclami del generale, delle preghiere del gran sacerdote e, piu' tardi, dei racconti dello storico, ma e' prima di tutto la vittima di tutti costoro. Si obiettera' che l'uomo "ragionevole" che ha deciso di usare la violenza non ha voluto il lavoro sporco del soldato. Certo, ma ha voluto il processo che lo ha provocato per concatenazione meccanica. Quel lavoro non e' che la conseguenza inevitabile, praticamente inevitabile, della sua decisione, ed egli non puo' rifiutare di assumerne la responsabilita'. Probabilmente sarebbe ingiusto fare un processo alle intenzioni dell'uomo ragionevole che ha deciso l'impiego della violenza per difendere un causa giusta. La sua intenzione e' forse pura, ma egli non si e' interessato con sufficiente attenzione alle conseguenze della sua decisione, delle quali pretende di non essere responsabile. In realta', la violenza e' fondata su una morale dell'intenzione che esclude il piu' delle volte una morale della responsabilita'. Di nuovo, l'onere e' invertito. Quale che possa essere l'intenzione - che in effetti puo' essere pura - di colui che ha deciso di ricorrervi, la violenza non e' mai un grande fatto, ma e' sempre un lavoro sporco. La storia dimostra che, quasi sempre, si passa dalla legittimazione della violenza, considerata come una necessita' tecnica, alla sua giustificazione, onorata come una virtu' morale. Si costruisce allora una ideologia, che occulta e alla fine sopprime ogni contraddizione tra il fine e il mezzo dell'azione violenta. Se la nonviolenza e' effettivamente il fine della storia, allora l'uomo ragionevole e' sfidato a inventare dei mezzi nonviolenti per agire nella storia. Il fatto che, nel passato, il piu' delle volte, l'uomo ragionevole abbia combattuto le violenze dell'oppressione e dell'aggressione mediante l'azione violenta, dimostra la necessita' dell'azione, ma non prova la fatalita' della violenza. Certo, nella misura in cui il mezzo tecnico della violenza e' stato l'unico utilizzato per tentare di vincere le violenze irrazionali, esso era l'unico a poter dare la prova di una certa efficacia. E noi dobbiamo riconoscere che, talvolta, il suo effetto benefico nella storia e' stato piu' forte del suo aspetto malefico. Era meglio, allora, agire con questo mezzo che non agire per nulla. E' vero che il nonviolento e' anche lui erede delle lotte violente condotte nel passato, e che anche lui beneficia delle loro conquiste. Egli custodisce la memoria di queste lotte, ma cio' non lo obbliga affatto a pensare che la violenza resti oggi una necessita'. Al contrario, se e' davvero il fine della nonviolenza che ha giustificato in passato il mezzo della violenza, allora non soltanto egli ha il diritto, ma oggi ha il dovere di interrogarsi per sapere se non esistono altri mezzi che non siano in contraddizione con il fine ricercato. La questione che si pone oggi all'uomo ragionevole e' di sapere se non e' possibile inventare un'altra storia sperimentando un'altra tecnica d'azione, diversa dalla violenza. E' vero che non basta che la nonviolenza risponda all'esigenza morale che obbliga il filosofo, e' necessario anche che essa soddisfi la necessita' tecnica che s'impone al politico. Ma e' anche un'esigenza morale, per l'uno e per l'altro, domandarsi se l'opzione per la nonviolenza non permetta di scoprire una tecnica che permetta di agire in modo ragionevole e responsabile nella storia. Per sfuggire al circolo vizioso in cui la riflessione filosofica e il pensiero politico si sono trovati chiusi per secoli, conviene nello stesso tempo rifiutare la fondatezza morale della violenza e fare un inventario delle possibilita' tecniche della nonviolenza. (...) Ora, bisogna ben riconoscerlo, quelli che affermano la necessita' della violenza, generalmente non hanno mai provato la nonviolenza. Una cosa e' dire: bisogna ricorrere alla violenza il meno possibile; altra cosa e' dire: bisogna ricorrere alla nonviolenza il piu' possibile. Se l'uomo non si prepara a mettere in atto i mezzi dell'azione nonviolenta ogni volta che e' possibile, allora la violenza sara' ogni volta necessaria. Non si puo' fare davvero risparmio di violenza se non facendo risolutamente la scelta della nonviolenza. Il risparmio di violenza non e' possibile che nella dinamica della nonviolenza. * La necessita' di costringere (...) Bisogna dunque studiare la "fattibilita'" della nonviolenza come metodo, come tecnica d'azione. Per questo, bisogna domandarsi se la nonviolenza puo' fondare un atteggiamento pratico, una regola di condotta, un comportamento che siano coerenti e vitali, cioe' che offrano, all'individuo come alla comunita', una reale promessa di durata. Certo, la nonviolenza assoluta restera' sempre, per l'individuo come per la comunita', un ideale fuori di portata, ma la questione e' di sapere se la nonviolenza puo' diventare un ideale pratico, cioe' se e' possibile definire una pratica effettiva ispirata a questo ideale. In altre parole, una pratica della nonviolenza offre sufficienti probabilita' di riuscita cosi' da poter essere scelta dall'uomo ragionevole che non ha soltanto voglia di morire bene, ma che ha proprio voglia di vivere? Piu' precisamente, bisogna domandarsi con quali probabilita' la pratica della nonviolenza e' capace di riuscire a contenere e riassorbire la violenza nei rapporti umani. Certo, esistono delle probabilita' di fallimento, che possono comportare la morte dell'individuo e anche quella della comunita'. Ma lo stesso vale per la violenza, perche' vale puramente e semplicemente per la vita. Vivere, e' ad ogni istante rischiare di morire. E le probabilita' di fallimento della violenza sono, tutto sommato, abbastanza considerevoli. Ma l'ideologia della violenza, che domina le nostre mentalita', postula nello stesso tempo lo scacco della nonviolenza e il successo della violenza. E' questo doppio postulato che ci sembra ragionevole mettere in discussione. La grande debolezza della nonviolenza e' che la violenza e' perfettamente organizzata e che la nonviolenza e' perfettamente disorganizzata. Le potenzialita' della nonviolenza non potranno essere attuate nella storia che nella misura in cui le societa' saranno determinate a metterle all'opera a livello istituzionale. Per questo, e' necessario che una maggioranza di cittadini sia convinta che la nonviolenza e' non soltanto augurabile, ma altrettanto possibile. * Le "chances" dell'azione nonviolenta (...) Certo, nell'immediato, le forze della nonviolenza non sono in grado di opporsi efficacemente alle forze della violenza che si scatenano ai quattro angoli del mondo. Quando, in un determinato territorio, sono riuniti tutti i fattori di esplosione della violenza, essa esplode effettivamente e l'irreparabile sopravviene senza che nessuno possa pretendere di evitarlo. Perche' e' gia' troppo tardi. L'azione deve essere intrapresa ben prima che si produca l'esplosione. Certamente, non c'e' alcuna fatalita' in questo scatenamento della violenza contro l'uomo, perche' non e' assolutamente fatale che i fattori che provocano la violenza siano riuniti, ma, dal momento che lo sono per responsabilita' degli uomini, diventa inevitabile che la violenza si scateni. Probabilmente, ne' i mezzi della violenza ne' quelli della nonviolenza potranno spegnere l'incendio delle paure, delle passioni e degli odi. Sara' necessario che questi si consumino e si spengano da soli. Il sistema della violenza che ha dominato le societa' per secoli non ha finito di gettare il suo veleno mortale nel nostro presente, ma anche, probabilmente, nel nostro avvenire. Sforzandoci di smantellare quel sistema, dovremo prendere atto della parte di violenza irreparabile che esso continua a generare. * La nonviolenza e' più realista della violenza Noi non abbiamo mai certezze quando si tratta di valutare le conseguenze delle nostre azioni; in larga misura sono imprevedibili e ci sfuggono. Questo e' vero tanto per l'azione violenta quanto per l'azione nonviolenta e ci deve portare a dar prova della piu' grande prudenza nelle nostre decisioni. Questa prudenza ci obbliga a calcolare cio' che le conseguenze delle nostre azioni possono implicare di irreparabile e irrimediabile. Qui si vede che la prudenza ci consiglia di evitare l'azione violenta e di preferire l'azione nonviolenta. Poiche', secondo ogni probabilita', quella contiene in se' piu' conseguenze irreversibili di questa. Riguardo alla prudenza, che fonda la saggezza pratica dell'uomo ragionevole, la violenza appare come una im-prudenza, cioe' una mancanza di previsione delle conseguenze che essa comporta, nostro malgrado. D'altronde, non bisogna giudicare soltanto le conseguenze immediate della violenza. Bisogna tentare di prevedere e valutare anche le sue conseguenze lontane, quelle che puo' produrre in altri luoghi e tempi. L'efficacia della violenza non deve essere giudicata nell'istante, ma nella durata. La contro-violenza puo' avere degli effetti immediati che lasciano pensare che abbia diminuito la quantita' di violenza nella storia. Ma, col tempo, si rischia di scoprire che ha delle conseguenze indirette negative, degli effetti secondari perversi e che in definitiva ha aumentato la quantita' di violenza nel mondo. A questo riguardo, la nonviolenza offre piu' garanzie per preservare l'avvenire. Cio' che distingue chi ha scelto la nonviolenza da chi si adatta alla violenza, non e' un piu' grande idealismo riguardo alla nonviolenza, ma un piu' grande realismo riguardo alla violenza. Poiche' la violenza, in definitiva, e' una utopia. Nel suo significato etimologico, la u-topia e' cio' che non esiste in alcun luogo. Ora, precisamente, se la violenza esiste dappertutto, in nessun luogo essa raggiunge il fine che pretende di giustificarla. Mai, da nessuna parte, la violenza realizza la giustizia tra gli uomini; mai, in alcun luogo, la violenza apporta una soluzione umana agli inevitabili conflitti umani che costituiscono la trama della storia. * Conclusione (...) Prima di essere un'azione, la violenza e' un atteggiamento: un atteggiamento verso gli altri uomini, che produce un atteggiamento nei riguardi della morte e dell'omicidio. (Osserviamo che la vilta' e' anch'essa un atteggiamento). Allo stesso modo, la nonviolenza e' anzitutto ed essenzialmente un atteggiamento: un atteggiamento diverso (dalla vilta' e) dalla violenza, un diverso atteggiamento verso gli altri uomini, che produce un diverso atteggiamento nei riguardi della morte e dell'omicidio. La nonviolenza e' l'atteggiamento etico e spirituale dell'uomo in piedi che riconosce la violenza come la negazione dell'umanita' e che decide di rifiutare di sottomettersi al suo dominio. Un simile atteggiamento e' fondato sulla convinzione esistenziale che la nonviolenza e' una resistenza alla violenza piu' forte della contro-violenza. Cio' a cui mira, in sostanza, l'azione nonviolenta, e' creare le condizioni che permettano all'avversario che ha scelto la violenza di cambiare atteggiamento. Questo obiettivo e' una scommessa che implica un rischio di morte. E' precisamente in questo rischio che si trova la speranza della vita. Se la nonviolenza fosse soltanto un metodo di azione che cercasse di ottenere con altri mezzi cio' a cui mira la violenza, bisognerebbe allora giudicarla soltanto dai suoi risultati, che sarebbero gli unici a giustificarla. E converrebbe cambiare metodo quando fosse giudicata inefficace. Ma se la nonviolenza e' un atteggiamento, l'atteggiamento dell'uomo ragionevole che cerca di dare senso e trascendenza alla sua esistenza, allora essa e' giustificata da se stessa. E l'uomo ragionevole non ha una ragione per cambiare di atteggiamento. Tuttavia, pur essendo la nonviolenza un atteggiamento che risulta da una scelta personale, essa alimenta un progetto di civilizzazione, che ha la vocazione di inscriversi nella storia. La costruzione di questa civilta' della nonviolenza rappresenta oggi una superiore posta in gioco per l'avvenire dell'umanita' come per l'avvenire di ognuna delle nostre societa'. Essa richiede il meglio delle energie di tutti gli uomini di buona volonta'. Ciascuno, nella misura delle proprie possibilita', puo' agire per aprire delle brecce nel sistema della violenza che domina le nostre societa', delle brecce che siano altrettanti varchi verso un avvenire in cui l'uomo riconoscera' l'altro uomo come proprio simile. E' vero che non sarebbe ragionevole affermare che questa civilta' della nonviolenza trionfera' - purtroppo non e' vero che "la verita' finisce sempre per trionfare" - ma e' certamente ragionevole voler agire perche' essa possa poco a poco prevalere sugli arcaismi di cui siamo ancora prigionieri. Abbiamo la profonda convinzione che, all'alba del XXI secolo, e' in questa volonta' che risiede la speranza degli uomini. 4. INCONTRI. MARINA PRATURLON: UN INCONTRO CON FATEMA MERNISSI A ROMA [Dal sito de "Il foglio del paese delle donne" (http://womenews.net.nuke) riprendiamo ampi stralci del resoconto di un recente incontro con Fatema Mernissi all'Universita' di Roma. Marina Praturlon collabora alla rivista "Dissensi.net". Fatema (ma il nome puo' essere traslitterato anche in Fatima) Mernissi, e' nata a Fez, in Marocco, nel 1940, acutissima intellettuale, docente di sociologia, studiosa del Corano, narratrice; tra i suoi libri disponibili in italiano: Le donne del Profeta, Ecig, 1992; Le sultane dimenticate, Marietti, 1992; Chahrazad non e' marocchina, Sonda, 1993; La terrazza proibita, Giunti, 1996; L'harem e l'Occidente, Giunti, 2000; Islam e democrazia, Giunti, 2002; Karawan. Dal deserto al web, Giunti, 2004] Nonostante le pessime condizioni del tempo, erano in molti, giovani e meno giovani, ad accogliere martedi' 9 novembre l'appello ad incontrare Fatema Mernissi, sociologa e scrittrice marocchina nota in Italia soprattutto per il grande successo ottenuto dal suo romanzo La terrazza proibita. Ospite della facolta' di Scienze della formazione (Universita' Roma 3), alla presenza di sociologi, filosofi e di un attento pubblico, la Mernissi ha colto questa occasione per parlare soprattutto del dialogo fra l'Islam e l'Occidente cristiano, facendo presente che e' improprio confondere termini geografici (come Occidente) con termini religiosi-culturali come Islam, e che dunque all'Occidente non si contrapppone l'Islam, ma semmai i paesi islamici nelle loro diversita' culturali, anche molto evidenti (si pensi alla differenza fra il Marocco e lo Yemen o l'Indonesia). In effetti, oltre che come scrittrice, la Mernissi e' apprezzata in Europa soprattutto per aver intessuto, in questi anni dominati dalla paura, una rete di scambi interculturali con l'Islam democratico e per essersi fatta portavoce di una societa' civile islamica vivace ed attiva, desiderosa di dialogare con l'Occidente sui temi scottanti della giustizia globale e della convivenza pacifica fra diversi. Anche in questa occasione, come nel suo recente libro Karawan: dal deserto al web, uno dei temi ricorrenti e' stato quello della comunicazione perche' secondo la Mernissi questa societa' civile islamica a grande maggioranza giovanile, che conosce la lingua e la cultura europea, che utilizza con disinvoltura tv satellitari e internet, non vive nella chiusura e nella paura come noi spesso la immaginiamo, ma al contrario e' aperta e desiderosa di rompere questo muro di silenzio che ci divide, con gli strumenti pacifici della parola, del viaggio e della conoscenza reciproca. In Marocco e' possibile trovare donne e ragazzi che navigano negli internet-cafe' fino alle undici di sera a dispetto delle statistiche che danno i paesi islamici a bassa alfabetizzazione informatica (perche' vengono contati i computer comprati individualmente e non quelli condivisi nei luoghi pubblici), e questa rete di comunicazione con il mondo e' un'altra faccia dell'Islam, ben diversa da quella retrograda e violenta che riempie i nostri schermi televisivi. Quello che Fatema Mernissi ci ha regalato e' la buona notizia che questo mondo pacifico e aperto nei Paesi islamici esiste, e' in crescita, lavora per combattere gli integralismi religiosi, culturali e politici nel mondo, e che l'Islam come religione non ha in se stesso il germe della violenza e dell'intolleranza. Piuttosto il problema dei paesi islamici oggi e' il gap generazionale fra i cittadini e la dirigenza politica, i primi giovanissimi e la seconda anziana e largamente minoritaria e non rappresentativa. Quello che sta accadendo nei paesi islamici e' un movimento di emancipazione che si basa sull'insofferenza dei ragazzi che appartengono al mondo globalizzato del web e usano la tecnologia per uscire dall'isolamento culturale in cui vivono da quando e' scoppiato il conflitto con l'Iraq. Questa generazione, come ha fatto acutamente notare la storica Bonacchi della Fondazione Basso, conosce la cultura occidentale assai piu' di quanto noi conosciamo l'Islam, perche' rispetto al periodo coloniale in cui l'Occidente aveva una discreta conoscenza della cultura che andava a dominare, oggi la situazione si e' rovesciata: noi non conosciamo le culture "altre", compreso l'Islam, ma i cittadini islamici conoscono benissimo la nostra cultura, la nostra scienza, le nostre lingue, la nostra tecnologia. Ci siamo resi conto di questo solo quando il terrorismo islamico ci ha sorpreso con il suo uso disinvolto ed esperto di ogni aspetto del nostro sapere. Su questo punto Fatema Mernissi ci ha comunicato tutto il suo stupefacente ottimismo, che ci ha tenuto a distinguere dalla stupidita', riguardo alla possibilita' che si crei una grande rete di contatti pacifici e fecondi che restituisca all'Islam la sua antica vocazione di dialogo e di tolleranza, quell'universalismo che ha permesso, nei secoli del suo splendore, una cosi' grande diffusione nel mondo e il fiorire di una cultura raffinata che si nutriva delle diversita'. Questo orgoglio islamico, per noi ascoltatori piuttosto sorprendente, ha provocato alcune osservazioni e domande fra il pubblico e fra i docenti presenti, soprattutto riguardo alla possibilita' di interpretare i testi sacri islamici nella direzione del dialogo e della tolleranza. A questo proposito la Mernissi ha ricordato un dato essenziale che caratterizza l'Islam religioso: la mancanza di un'autorita' centrale indiscussa e depositaria dell'esegesi del Corano... Il mondo islamico e' molto di piu' di quello che in Occidente si crede, e' una vasta societa' civile che ha bisogno del dialogo con le altre societa' civili per rompere questo isolamento, che in realta' e' reciproco; anche noi, infatti, abbiamo bisogno di rompere il nostro isolamento dal mondo islamico, perche' questo isolamento favorisce il pregiudizio e l'integralismo sia da una parte che dall'altra, a danno della societa' civile e della pace. 5. MATERIALI. BENITO D'IPPOLITO: QUATTRO VECCHI VOLANTINI DEI TEMPI DELLA PRIMA GUERRA DEL GOLFO [In questo mese pubblicheremo un nuovo quaderno della serie dei "Materiali per la riflessione" utilizzati nel corso di educazione alla pace presso il liceo scientifico di Orte (Vt). Da esso abbiamo estratto questi vecchi versi del nostro amico Benito D'Ippolito, diffusi anche come parti di volantini al tempo della prima guerra del Golfo, e gia' riproposti anni fa su questo notiziario. Chi desiderasse ricevere per e-mail l'intero quaderno (o anche i precedenti) puo' farne richiesta alla nostra redazione (e-mail: nbawac at tin.it)] Quando verranno le aquile a dirti che e' il momento tu digli di no, che hai ancora da fare che c'e' il caffe' sul gas, il rubinetto da aggiustare che hai promesso a Maria che domani la portavi al cinema. Quando verranno le aquile, tu digli di no. * Qualcuno ancora grida "viva le catene"? qualcuno ancora s'agita a mazzate nel rigagnolo, Crono ancora disquatra, divora, vomita esserini? l'uomo s'arrovescia dunque in scimmia, in drago, in sasso? "Agli uomini che conservano una certa lucidita' e un certo senso dell'onesta', noi diciamo: e' falso che si possa difendere la liberta' qui imponendo la servitu' altrove". Diciamo, anche: che e' falso si possa difendere la liberta' altrove imponendo qui la servitu'. * Sotto le bombe intelligenti, stupidi uomini tirano le cuoia, vacui guardano il cielo gli occhi dei superstiti. * Il dito coltello del padrone trancia il cuore in petto ai contadini col solo crescere dell'unghia. C'e' modo di uccidere senza un sussulto. "Come potrebbe esservi un uomo ricco se non vi fossero migliaia di poveri?". 6. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 7. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it, sudest at iol.it, paolocand at inwind.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 799 del 4 gennaio 2005 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione).
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