La nonviolenza e' in cammino. 797



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 797 del 2 gennaio 2005

Sommario di questo numero:
1. Krishnammal Jagannathan: "Hai visto i miei figli?"
2. "Emergency" per le vittime del maremoto
3. Giuliano Pontara: Ripensare i diritti
4. Maria Carrozza intervista Pat Patfoort
5. Theresa Wolfwood intervista Rosita Escobar
6. La "Carta" del Movimento Nonviolento
7. Per saperne di piu'

1. TESTIMONIANZE. KRISHNAMMAL JAGANNATHAN: "HAI VISTO I MIEI FIGLI?"
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 30 dicembre 2004 riprendiamo questo
intervento di Krishnammal Jagannathan (per contatti: Krishnammal
Jagannathan, Lafti, Vinoba Ashram, Kuthur - 611 105 Nagapattinam District,
Tamilnadu, India). Krishnammal, segretaria generale del Lafti, e' insieme a
suo marito Jagannathan una delle piu' grandi figure della nonviolenza nel
mondo; su Krishnammal e Jagannathan cfr. il libro di Laura Coppo, Terra
gamberi contadini ed eroi, Emi, Bologna 2002. Per sostenere le attivita' di
soccorso e ricostruzione da parte del movimento gandhiano Lafti,
l'associazione italiana Overseas (tel. 059785425), da tempo partner della
organizzazione indiana, raccoglie fondi su uno speciale conto corrente]

Nel solo distretto di Nagapattinam, quello in cui lavora il nostro movimento
Lafti (Land for Tiller's freedom), il maremoto ha ucciso almeno cinquemila
persone, ci sono migliaia di dispersi e altre sessantamila hanno perso le
case.
Sulle coste di Nagapattinam e Velankanni venti dei cento villaggi costieri
di pescatori sono andati interamente distrutti. Fra questi c'e'
Akkaraipattei; lo conosciamo bene, perche' Jagannathan, mio marito, l'anno
scorso ha digiunato li' per moltissimi giorni, nella nostra lotta contro gli
allevamenti intensivi di gamberetti che non solo danneggiavano i circostanti
campi di riso ma contribuivano a erodere le coste e inquinare le acque.
Da tempo Jagannathan chiedeva invano la creazione di una cintura verde sulla
costa per proteggerla dalla furia delle acque. L'acqua del mare e' entrata
fino alle cittadine di Nagai e Velankanni, quest'ultimo famoso centro di
pellegrinaggi. Molti i morti cristiani arrivati qui per le festivita'
natalizie. I villaggi che realizzano progetti del Lafti sono stati
risparmiati, non ci sono morti e hanno subito danni limitati perche' nelle
parti piu' interne. Anche il collegio dei bambini e delle bambine che
studiano col Lafti e' stato risparmiato. Ma a pochi chilometri, tante di
quelle persone che con noi condividevano la lunga lotta nonviolenta sono
morte o hanno perso tutto. Circa 10.000 case di mattoni e 7.000 capanne sono
state spazzate via.
*
Sul pavimento del campus dell'ospedale di Nagapattinam sono stati deposti i
corpi di oltre mille bambini di meno di dieci anni. Altri li ha sepolti
direttamente la sabbia. E' triste che a causa dei timori di epidemie si
debbano seppellire velocemente e in massa cosi' tante persone, senza nemmeno
identificarle.
Spezza il cuore vedere bambini rimasti senza genitori che ricevono con un
sorriso panni e cibo nei centri di assistenza. Ma gli adulti sono distrutti.
Anziane donne si disperano e dicono di non aver mai visto niente di simile.
E poi "Aiya en pillayai Pathingala": "hai visto i miei bambini?", e' la
domanda che ricorre di piu' da queste parti.
Gli sfollati sono radunati in oltre settanta centri, allestiti in templi,
scuole e altri spazi pubblici. Le istituzioni locali e le organizzazioni del
posto, fra cui il Lafti, stanno operando per soddisfare i bisogni
elementari: cibo, acqua, abiti, farmaci. Ma presto si porra' il problema di
dare una casa a tutti quelli che l'hanno persa. Seguendo i nostri schemi di
costruzione di case, pensiamo che si potrebbero costruire moduli
prefabbricati dal costo unitario di circa 800 euro, dando oltretutto lavoro
a persone rimaste senza mezzi di sussistenza.

2. APPELLI. "EMERGENCY" PER LE VITTIME DEL MAREMOTO
[Da Marco Carnazzo, del gruppo di Emergency di Bologna (per contatti:
emergencybologna at virgilio.it), riceviamo e diffondiamo questo comunicato di
"Emergency", la prestigiosa associazione umanitaria italiana per la cura e
la riabilitazione delle vittime delle guerre e delle mine antiuomo]

Un team di Emergency e' in partenza per lo Sri Lanka, uno dei Paesi
maggiormente colpiti dal maremoto di domenica 26 dicembre.
Questa missione e' stata decisa anche a seguito del contatto avuto con
l'ambasciata dello Sri Lanka in Italia che ha segnalato alcune priorita',
alle quali cercheremo di far fronte nel piu' breve tempo possibile, vista la
gravita' della situazione soprattutto dal punto di vista sanitario.
"Abbiamo deciso di focalizzare il nostro intervento in favore della
popolazione dello Sri Lanka non solo perche' e' una delle zone maggiormente
colpite dal maremoto - dichiara Teresa Sarti, presidente di Emergency - ma
anche perche' questa catastrofe ha portato alla superficie molte mine
antiuomo che giacevano sepolte in quest'area dove sono ancora attivi focolai
di guerra".
I contributi a sostegno di questo intervento possono essere versati sul
conto corrente postale n. 28426203 oppure on line tramite il sito internet
www.emergency.it, indicando nella causale "vittime maremoto Sri Lanka".
Per informazioni e contatti: Emergency, tel. 02863161, fax: 0286316336,
e-mail: info at emergency.it, sito: www.emergency.it

3. RIFLESSIONE. GIULIANO PONTARA: RIPENSARE I DIRITTI
[Ringraziamo Giuliano Pontara (per contatti:
giuliano.pontara at philosophy.su.se) per averci messo a disposizione la sua
introduzione al libro di Philip Alston e Antonio Cassese, Ripensare i
diritti nel XXI secolo, Edizioni Gruppo Abele, Torino. Su Giuliano Pontara,
che e' uno dei massimi studiosi della nonviolenza a livello internazionale,
riproduciamo di seguito una breve notizia biografica gia' apparsa in passato
su questo notiziario (e nuovamente ringraziamo di tutto cuore Giuliano
Pontara per avercela messa a disposizione): "Giuliano Pontara e' nato a Cles
(Trento) il 7 settembre 1932. In seguito a forti dubbi sulla eticita' del
servizio militare, alla fine del 1952 lascia l'Italia per la Svezia dove poi
ha sempre vissuto. Ha insegnato Filosofia pratica per oltre trent'anni all'
Istituto di filosofia dell'Universita' di Stoccolma. E' in pensione dal
1997. Negli ultimi quindici anni Pontara ha anche insegnato come professore
a contratto in varie universita' italiane tra cui Torino, Siena, Cagliari,
Padova, Bologna, Imperia, Trento. Pontara e' uno dei fondatori della
International University of Peoples' Institutions for Peace (Iupip) -
Universita' Internazionale delle Istituzioni dei Popoli per la Pace (Unip),
con sede a Rovereto (Tn), e dal '94 e' coordinatore del Comitato scientifico
della stessa e direttore dei corsi [si e' ora dimesso, insieme all'intero
comitato scientifico - ndr]. Dirige per le Edizioni Gruppo Abele la collana
"Alternative", una serie di agili libri sui grandi temi della pace. E'
membro del Tribunale permanente dei popoli fondato da Lelio Basso e in tale
qualita' e' stato membro della giuria nelle sessioni del Tribunale sulla
violazione dei diritti in Tibet (Strasburgo 1992), sul diritto di asilo in
Europa (Berlino 1994), e sui crimini di guerra nella ex Jugoslavia (sessioni
di Berna 1995, come presidente della giuria, e sessione di  Barcellona
1996). Pontara ha pubblicato libri e saggi su una molteplicita' di temi di
etica pratica e teorica, metaetica  e filosofia politica. E' stato uno dei
primi ad introdurre in Italia la "Peace Research" e la conoscenza
sistematica del pensiero etico-politico del Mahatma Gandhi. Ha pubblicato in
italiano, inglese e svedese, ed alcuni dei suoi lavori sono stati tradotti
in spagnolo e francese. Tra i suoi lavori figurano: Etik, politik,
revolution: en inledning och ett stallningstagande (Etica, politica,
rivoluzione: una introduzione e una presa di posizione), in G. Pontara (a
cura di), Etik, Politik, Revolution, Bo Cavefors Forlag,  Staffanstorp
1971, 2 voll., vol. I, pp. 11-70; Se il fine giustifichi i mezzi, Il Mulino,
Bologna 1974; The Concept of Violence, Journal of Peace Research , XV, 1,
1978, pp. 19-32; Neocontrattualismo, socialismo e giustizia internazionale,
in N. Bobbio, G. Pontara, S. Veca, Crisi della democrazia e
neocontrattualismo, Editori Riuniti, Roma 1984, pp. 55-102; tr. spagnola,
Crisis de la democracia, Ariel, Barcelona 1985; Utilitaristerna, in
Samhallsvetenskapens klassiker, a cura di M. Bertilsson, B. Hansson,
Studentlitteratur, Lund 1988, pp. 100-144; International Charity or
International Justice?, in Democracy State and Justice, ed. by. D.
Sainsbury, Almqvist & Wiksell International, Stockholm 1988, pp. 179-93;
Filosofia pratica, Il Saggiatore, Milano 1988; Antigone o Creonte. Etica e
politica nell'era atomica, Editori Riuniti, Roma 1990; Etica e generazioni
future, Laterza, Bari 1995; tr. spagnola, Etica y generationes futuras,
Ariel, Barcelona 1996; La personalita' nonviolenta, Edizioni Gruppo Abele,
Torino 1996; Guerre, disobbedienza civile, nonviolenza, Edizioni Gruppo
Abele,  Torino 1996; Breviario per un'etica quotidiana, Pratiche, Milano
1998; Il pragmatico e il persuaso, Il Ponte, LIV, n. 10, ottobre 1998, pp.
35-49. E' autore delle voci Gandhismo, Nonviolenza, Pace (ricerca
scientifica sulla), Utilitarismo, in Dizionario di politica, seconda
edizione, Utet, Torino 1983, 1990 (poi anche Tea, Milano 1990, 1992). E'
pure autore delle voci Gandhi, Non-violence, Violence, in Dictionnaire de
philosophie morale, Presses Universitaires de France, Paris 1996, seconda
edizione 1998. Per Einaudi Pontara ha curato una vasta silloge di scritti di
Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, Einaudi, nuova edizione, Torino
1996, cui ha premesso un ampio studio su Il pensiero etico-politico di
Gandhi, pp. IX-CLXI". Una piu' ampia bibliografia degli scritti di Giuliano
Pontara (che comprende circa cento titoli) puo' essere letta nel n. 380 del
10 ottobre 2002 di questo notiziario]

Gli autori dei due scritti che costituiscono questo volume (l'undicesimo)
della collana "Alternative" sono entrambi noti studiosi del diritto
internazionale dei diritti umani.
Ambedue sono anche da anni impegnati in organizzazioni internazionali di
monitoraggio e protezione di tali diritti. Philip Alston e' uno dei massimi
esperti mondiali nel campo dei diritti economici, sociali e culturali, ed e'
stato per otto anni - dal 1991 al 1998 - presidente del Comitato dell'Onu su
questi diritti. Antonio Cassese, giudice, autore di importanti lavori sui
diritti umani, ha presieduto per cinque anni - dal 1993 a 1997 - il
Tribunale dell'Aja sui crimini nella ex Iugoslavia (International Criminal
Tribunal for the former Yugoslavia).
Entrambi gli autori "prendono i diritti sul serio". Sono quindi
perfettamente coscienti dell'uso puramente ideologico cui il linguaggio dei
diritti molto bene si presta e della retorica dei diritti, spesso usata
nelle giustificazioni ufficiali di interventi "umanitari" di vario tipo (da
qualsiasi parte avvengano) allo scopo di stendere cortine di fumo su azioni
in realta' mosse da ben altre ragioni e far accettare alla gente politiche
che, nei migliori dei casi, con i diritti umani non hanno nulla a che fare
e, nei peggiori, comportano gravi e ripetute violazioni di essi.
Ambedue gli autori concordano anche nel ritenere il sistema dei diritti
umani, come concepito mezzo secolo fa, strumento sempre piu' inadeguato.
Muovendo da una concezione dinamica, essi evidenziano il bisogno di
ripensare e ridisegnare il sistema dei diritti umani in funzione del
susseguirsi sempre piu' rapido di avvenimenti che in pochi decenni hanno
profondamente cambiato il mondo. Da questo punto di vista i due scritti in
questo volume sono complementari l'uno all'altro. Alston auspica un
ripensamento del diritto internazionale in modo tale che anche degli attori
non statali siano trattati alla stregua di "soggetti" al pari degli stati.
Cassese insiste sul problema dell'enforcing, additando come particolarmente
importanti alcuni diritti "essenziali".
*
Una delle sfide cui il sistema dei diritti umani, tradizionalmente inteso su
basi puramente statocentriche, si trova di fronte e' posta dalla drastica
riduzione della sfera del potere statale e dalla parallela ascesa di potenti
attori non statali, connessa con il modello neoliberista prevalente
nell'attuale processo di globalizzazione dell'economia. Prevale la tendenza
allo stato minimo (peraltro armato fino ai denti), "guardiano notturno"
della legge e dell'ordine. Il resto e' lasciato sempre di piu' alle
operazione di un mercato globale presupposto libero, in realta' fortemente
dominato da diecimila multinazionali e da potenti istituzioni finanziarie
internazionali quali la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale.
In questo modello, caratterizzato dalla deregulation del potere di attori
privati mossi dalla logica dell'efficienza economica e della massimizzazione
del profitto, favorevole alla privatizzazione anche dei servizi pubblici
piu' essenziali, in cui le esigenze connesse al rispetto dei diritti sono
sistematicamente messe in secondo piano (a meno che non si tratti di quelle
che favoriscono le operazione del mercato e dello stato minimo), i deboli
del mondo, coloro che non hanno potere contrattuale e potere di acquisto,
sono destinati ad essere spazzati via. La logica in questo modello non e'
quella di una benigna mano invisibile che assicura continui miglioramenti
per tutti, bensi' piuttosto quella di un duro stivale - spesso assai
visibile - che a grandi pedate relega i piu' poveri e i piu' deboli nei
ghetti della poverta' assoluta.
La tesi centrale sostenuta da Alston nel suo scritto e' che, tale essendo la
situazione globale, una delle grandi sfide per il sistema dei diritti umani
e' quella di ristrutturare il diritto internazionale dei diritti estendendo
la portata del principio di responsabilita' dagli stati ad attori non
statali quali, in primo luogo, le imprese multinazionali e le grandi
organizzazioni finanziarie internazionali. Infatti, a tutt'oggi, tali
attori, in quanto attori non statali, non sono vincolati dalle norme del
diritto dei diritti. La proposta di Alston puo' avere implicazioni piu' o
meno radicali, e la fattibilita' di quanto implicato puo' essere piu' o meno
realistica. Come minimo, essa comporta che le politiche di attori non
statali del tipo menzionato dovrebbero essere monitorate da sistemi
internazionali ufficiali di controllo e attuazione dei diritti (e non solo
dal mondo delle Ong - Amnesty International, Human Rights Watch, ecc. - come
avviene oggi).
*
La lista dei diritti umani e' molto estesa e nuovi si vanno aggiungendo.
Alcuni di essi, come certi diritti civili e politici, sono diritti
"negativi" nel senso che richiedono immunita' da certi tipi di interferenza;
altri, segnatamente certi diritti economici e sociali, sono "positivi", nel
senso che implicano una pretesa di interventi di un certo tipo. I primi si
violano essenzialmente per commissione, i secondi anche per omissione. Si
dice spesso che tutti i diritti umani sono indivisibili e interdipendenti. E
in qualche senso lo sono. Ma e' chiaro che essi possono confliggere, quanto
meno nel senso che, come si continua a rilevare da varie parti, a causa
della scarsita' di risorse non tutti possono venire pienamente attuati in
breve tempo e per tutti.
Teoricamente, vi sono vari modi per risolvere conflitti tra diritti e tra
politiche alternative che incidono variamente sui diritti umani di molte
persone. Un modo e' quello di prendere tutti i diritti ugualmente sul serio
e quindi di volta in volta (cercare di) individuare la politica che
probabilmente conduce alla maggiore attuazione totale dei diritti - nel
lungo periodo dato che, plausibilmente, i diritti di individui futuri
contano tanto quanto contano quelli degli individui oggi esistenti. Secondo
questo modo di vedere non vi sono diritti umani assoluti, che non e' mai
lecito violare: tra i diritti vi possono essere trade-offs. Plausibilmente,
e fino a prova contraria, sia il numero delle persone i cui diritti sono
coinvolti, sia il numero dei diritti attuati rispettivamente non attuati o
violati, sia i gradi di attuazione, non attuazione o violazione, sono
fattori ugualmente importanti. Inutile dire che, dato il gran numero di
persone e di diritti coinvolti, le stime necessarie per individuare di volta
in volta le politiche piu' atte a massimizzare la fruizione totale dei
diritti comportano calcoli e operazioni estremamente complessi.
Un modo di rendere il problema piu' gestibile consiste forse nel dare
priorita' a pochi diritti che possono plausibilmente essere considerati
basilari, ossia tali che l'effettiva fruizione di essi e' condizione
necessaria per il perseguimento e la fruizione di tutti gli altri diritti.
Tra i diritti basilari vi saranno, plausibilmente, oltre al diritto alla
vita, il "diritto alla liberta' dalla fame" (come sancito nel Patto sui
diritti economici, sociali e culturali), e oggi si puo' certamente
aggiungere, dalla sete; o piu' in generale, un diritto di "sopravvivenza",
inteso come diritto a un nutrimento adeguato, acqua potabile, servizi
igienici e sanitari essenziali, educazione di base, insomma un diritto a
quelle risorse basilari necessarie per raggiungere quel tenore di vita
materiale e mentale a sua volta necessario per poter perseguire qualsiasi
altro valore, scelta o proprio piano di vita. Questa e' la via indicata da
Cassese il quale appunto suggerisce che la "comunita' internazionale", al
fine di non disperdere energie e poter agire piu' efficacemente nella
promozione dei diritti umani, negli anni a venire dovrebbe focalizzare
l'attenzione su un numero ristretto di diritti civili politici ed economici
"essenziali", potenziando contemporaneamente il sistema di controllo e
implementazione di essi.
*
I diritti umani pongono severi limiti alle politiche locali e globali sia
degli attori statali sia degli attori non statali. Cio' vale forse in
particolar modo per i diritti basilari, quale quello alla liberta' dalla
fame. Se la gente in alcune parti del mondo muore di fame in seguito alle
politiche economiche di certi stati, o di certe imprese multinazionali e
certe istituzioni finanziarie internazionali, perche' questi stati, imprese,
istituzioni non sarebbero da ritenere corresponsabili di violazioni massicce
di siffatto diritto? Si considerino, a titolo di puro esempio, i due
seguenti casi.
- Le sovvenzioni dei paesi ricchi dell'Occidente alla propria agricoltura,
dell'ordine di 300 miliardi di dollari annui, e quelle alla produzione di
tabacco, dell'ordine di 200 miliardi di dollari annui - da paragonarsi ai 52
miliardi di dollari annualmente devoluti all'assistenza nei "paesi in via di
sviluppo" - producono, in questi ultimi, congiuntamente con le politiche
doganali protezionistiche praticate dai primi, ulteriore disoccupazione,
fame e miseria. Se tali sovvenzioni fossero drasticamente ridotte, e le
politiche doganali radicalmente rivedute, tanti contadini del "Terzo Mondo"
avrebbero ben altre possibilita' di esportazione dei loro prodotti, con
conseguente diminuzione della poverta' e della fame tra di essi. Non
comportano le politiche protezionistiche dei paesi occidentali violazioni di
diritti umani?
- Se gli Stati Uniti, invece di praticare il dumping della sovrapproduzione
delle proprie granaglie in Africa, comperassero quelle che ivi vengono
prodotte e quindi usassero le proprie risorse nella loro distribuzione, cio'
costituirebbe un grande stimolo per l'agricoltura africana proprio dove c'e'
maggiore bisogno di esso, con conseguente riduzione di disoccupazione,
poverta', fame tra le popolazioni locali. Le esigenze di attuazione di
diritti umani basilari non fanno si' che il dumping praticato dagli Usa
costituisca una violazione di tali diritti?
*
I diritti implicano obblighi, e se gli obblighi non vengono onorati i
diritti rimangono parole nelle Carte. Diritti umani basilari come quello
alla vita e alla liberta' dalla fame implicano un obbligo dei governi
(specie quelli che hanno ratificato i patti e le convenzioni in cui siffatti
diritti sono sanciti), nonche' della comunita' internazionale di creare
leggi, norme e istituzioni per la realizzazione di quelle politiche
necessarie alla loro attuazione - a livello globale.
Qui ci si scontra con un altro difficile problema per il sistema dei diritti
umani, quello rappresentato dall'espansione dell'egemonia - specie
militare - degli Stati Uniti nel mondo. Da piu' di mezzo secolo, la
politica, tanto interna quanto estera, degli Usa viene ufficialmente
presentata e giustificata come ispirata alla promozione dei diritti umani.
Nel gennaio del 1941 il presidente F. D. Roosvelt, in un famoso messaggio al
Congresso, proponeva una nuova societa' mondiale fondata sul rispetto, "da
parte di tutti", dei diritti alla liberta' di parola e di pensiero, alla
liberta' di culto, alla liberta' dal bisogno e alla liberta' dalla paura.
Mezzo secolo dopo, alla Conferenza mondiale sui diritti umani che ebbe luogo
a Vienna nel giugno l993, l'allora Segretario di Stato statunitense, Warren
Chistopher, ribadiva l'impegno degli Usa nella difesa "della universalita'
dei diritti umani" contro "gli aggressori di tutto il mondo e coloro che
incoraggiano la diffusione delle armi", in base a un criterio unico di
comportamento determinato dalla universalita' stessa dei diritti. E,
immancabilmente, ogniqualvolta gli Usa sono intervenuti militarmente, da
soli o alla testa di alleanze, sulla scena internazionale (interventi armati
in Somalia, Bosnia, Kosovo, Iraq) essi si sono richiamati alla protezione
dei diritti umani. Ma alle parole corrispondo di rado i fatti.
E' noto che gli Stati Uniti sono i maggiori esportatori di armi nel mondo.
E' arcinoto che gli Usa non hanno ratificato vari Patti e Convenzioni intesi
a dare maggiore concretezza ai diritti sanciti nella Dichiarazione
universale dei diritti dell'uomo. Non hanno ratificato ne' il Patto sui
diritti economici, sociali e culturali del 1966 (ritenendo che parlare di
tali diritti sia un nonsenso - una "lettera a Babbo Natale" aveva a suo
tempo ironicamente caratterizzato questa categoria di diritti l'ambasciatore
statunitense all'Onu Jeanne Kilpatrick), ne' la Convenzione
sull'eliminazione di tutte le forme di discriminazione della donna del 1979,
ne' la Convenzione internazionale sui diritti dell'infanzia del l989 (unico
paese al mondo, assieme alla Somalia, a non averla ratificata). Inoltre, pur
avendo ratificando il Patto sui diritti civili e politici, essi hanno
formulato precise riserve nei confronti dell'articolo 6(5) che proibisce la
pena di morte per reati commessi da persone antecedentemente al loro
diciottesimo anno di eta', sancendo che "nella legislazione presente e
futura" degli Usa la pena capitale puo' essere comminata anche a persone per
reati commessi quando erano minori. (Sedici stati mantengono a tutt'oggi una
legislazione che permette l'esecuzione capitale per reati commessi da
minori: tra questi, l'Arkansas e il North Carolina pongono il limite a
quattordici anni, la Louisiana e la Virginia a quindici, il Mississippi a
tredici). Gli Stati Uniti hanno anche formulato precise riserve nei
confronti dell'articolo 7 dello stesso Patto che proibisce punizioni o
trattamenti crudeli, inumani o degradanti, sancendo che gli Usa sono
vincolati da questo articolo "soltanto nella misura in cui 'punizione o
trattamento crudele, inumano o degradante' significa punizione crudele o
inusuale" come proibita dalla Costituzione degli Stati Uniti. Una simile
riserva condiziona anche l'accettazione da parte degli Usa della Convenzione
contro la tortura del 1984. Nel momento in cui sto stendendo queste righe
gli Stati Uniti - che non intendono ratificare il trattato istitutivo della
Corte penale internazionale - stanno allestendo tribunali militari speciali,
incompatibili con ogni sistema democratico e stato di diritto, per giudicare
i prigionieri tenuti a Guantanamo in condizioni che contravvengono le norme
del diritto internazionale vigente.
Una sfida per il sistema universale dei diritti umani e' quella di impedire
che con l'egemonia militare statunitense prevalga a livello globale anche la
concezione riduttiva dei diritti umani di cui la classe dirigente di questo
paese e' portatrice. La sfida puo' addirittura essere nientemeno che quella
di impedire che il diritto internazionale venga di fatto sostituito da
quello americano. E' sperabile che l'Europa firmataria del Trattato di
Amsterdam, entrato in vigore nel 1999, voglia e sia in grado di prendere
questa sfida sul serio.
*
Un'altra grande sfida per il sistema dei diritti umani nel XXI secolo e'
quella - brevemente discussa da Cassese nell'ultima parte del suo scritto -
concernente l'enforcing dei diritti - almeno di quelli essenziali. Come
Cassese rileva, tale strategia si articola essenzialmente in due direzioni:
da una parte, attraverso il perseguimento e la punizione (per scopi
preventivi, non grettamente retributivi) di persone provate colpevoli di
crimini internazionali (tortura, crimini contro l'umanita', genocidio) da
corti nazionali, o da tribunali penali internazionali; dall'altra,
attraverso il ricorso, come ultima ratio e in via del tutto eccezionale,
all'intervento armato da parte della comunita' internazionale allo scopo di
porre termine a violazioni sistematiche e massicce di diritti umani, o
almeno di quelli indicati da Cassese come "essenziali".
Su questo ultimo punto il dibattito negli ultimi dieci anni si e' fatto
sempre piu' intenso. Un numero crescente di voci, molte assai autorevoli, si
sono alzate a sostenere o rispettivamente a contestare la tesi per cui il
diritto internazionale deve essere sviluppato in modo tale da rendere
possibile legittimare in base ad esso determinati interventi militari
umanitari da parte della comunita' internazionale. Vari fautori di questa
tesi auspicano addirittura la legittimazione di siffatti interventi anche
senza l'autorizzazione dell'Onu - almeno in situazioni in cui l'Onu non sia
in grado di agire e tutte le alternative diplomatiche e quelle di intervento
non armato si siano dimostrate inefficaci. A sostegno di questa tesi si
adducono talora vari precedenti di interventi fatti a scopo umanitario - o
comunque ufficialmente presentati come tali - e avvenuti senza
l'autorizzazione dell'Onu: l'intervento armato del Vietnam in Cambogia;
l'intervento armato da parte dell'Ecowas (Economic Community of Western
African States) nel l990 in Liberia dilaniata dalla guerra civile;
l'intervento di truppe statunitensi, francesi e inglesi nel l991 nell'Iraq
del Nord, giustificato ufficialmente come necessario per proteggere le
popolazioni curde ivi residenti dopo il soffocamento della rivolta curda da
parte dell'esercito di Saddam Hussein; i bombardamenti della Nato contro la
Iugoslavia, e via dicendo. Il diritto internazionale non e' statico. Esso si
trasforma continuamente attraverso nuove interpretazioni che non sono il
risultato di conferenze diplomatiche internazionali, bensi' interpretazioni
degli stati; e quando queste interpretazioni sono sostenute da grandi
potenze e via via condivise da un numero sempre maggiore di stati, esse
diventano in prosieguo di tempo consuetudine e un po' alla volta diritto
vincolante (principio di effettivita'). Tuttavia, come Cassese rileva, non
vi e' a tutt'oggi nel diritto internazionale consuetudinario una norma
largamente accettata che sancisca interventi armati umanitari del tipo in
questione. Sia in relazione al massiccio intervento armato della Nato in
Kosovo nel 1999, sia in relazione all'intervento armato ancor piu' massiccio
degli Usa e alleati contro l'Iraq (tutti e due gli interventi, come noto,
sono avvenuti senza l'autorizzazione dell'Onu), la comunita' internazionale
e' stata profondamene divisa.
*
L'attuazione dei diritti umani richiede potere. Ma si puo' lecitamente
perseguire la loro attuazione attraverso operazioni militari che comportano
esse stesse la violazione di diritti? Questo e' il dilemma. Nella sua
trattazione vengono spesso tirati in ballo vari principi, quello di
"proporzionalita'", quello di "discriminazione" tra perpetratori di
violazioni di diritti e innocenti (tra combattenti e civili), e quello tra
"violazioni dirette" (deliberatamente volute) e "violazioni collaterali"
(previste o prevedibili, ma non deliberatamente volute) di diritti umani.
Ciascuno di questi principi solleva piu' questioni di quelle che in base ad
essi si cerca di risolvere. Le violazioni di diritti debbono essere
proporzionali: come, quanto, a che cosa? E chi lo decide quando lo sono?
Come si traccia piu' precisamente la linea di demarcazione tra coloro che
sono coinvolti in violazioni massicce di diritti (combattenti) e coloro che
non lo sono (civili)? Che senso ha, da parte delle vittime, se loro
fondamentali diritti sono violati direttamente o collateralmente? E perche'
mai le violazioni collaterali di diritti sarebbero meno importanti (quanto?)
di quelle dirette?
Qualcuno e' forse disposto ad avanzare seriamente la tesi per cui interventi
militari come quelli della Nato contro la Iugoslavia o della coalizione
Usa-Gran Bretagna (perche' di questa in effetti si e' trattato) contro
l'Iraq, non comportano nessuna violazione di diritti? Ma gia' le politiche
di sanzioni - comprese quelle decise in varie occasioni dal Consiglio di
Sicurezza (da quelle contro la Repubblica Sudafricana al tempo
dell'apartheid ufficiale, a quelle contro l'Iraq) - hanno avuto effetti
devastanti sui diritti di milioni di persone. Come rilevato in un rapporto
del Comitato delle Nazioni Unite sui diritti economici, sociali e
culturali - steso in base a un'analisi di vari tipi di sanzioni e del loro
impatto nei vari paesi colpiti - "le sanzioni determinano spesso
interruzioni nella distribuzione di cibo, prodotti farmaceutici e sanitari,
compromettono la qualita' dell'alimentazione e l'accesso all'acqua potabile,
colpiscono gravemente il funzionamento dei servizi sanitari di base e
dell'istruzione, abbattono il diritto al lavoro". Se questi sono gli effetti
sui diritti umani delle politiche di sanzioni, figurarsi quali sono quelli
connessi con i massicci interventi armati "umanitari" verificatisi gli
ultimi quindici anni! E allora?
Allora e' auspicabile che il diritto internazionale non legittimi, in nome
della tutela di diritti fondamentali, massicci interventi armati di tal
tipo. E se per mettere fine a vistose e reiterate violazioni di diritti
umani fondamentali e' ritenuto necessario, come ultima ratio, l'intervento
armato da parte della comunita' internazionale, e' ovviamente importante che
chi decide sull'ultima ratio non sia questo o quello stato o alleanza di
stati e che le forze militari da far intervenire non siano quelle di paesi
che nell'area di intervento hanno grossi interessi economici, geopolitici,
ecc. E' quindi auspicabile che un eventuale diritto di intervento armato
umanitario rimanga di esclusiva competenza dell'Onu.
E' ben vero che in seno all'Onu le decisioni di intervento le prende il
Consiglio di Sicurezza, che queste decisioni sono politiche e che,
attraverso l'istituto del veto, possono essere bloccate. Ma e' altrettanto
vero che politiche sono pure le decisioni di intervento di uno stato o
alleanza di stati. Quello che occorre, oggi piu' che mai, e' potenziare il
processo di riforma democratica e ulteriore rafforzamento dell'Onu. Nella
regia di un'Organizzazione delle Nazioni Unite piu' democratica, piu' forte
ed economicamente piu' attrezzata sono pensabili efficaci, e dal punto di
vista internazionale piu' credibili, interventi umanitari alternativi a
quelli armati: politiche di sanzioni molto selettive volte a colpire i
responsabili di massicce violazioni di diritti umani e non intere
popolazioni; impiego di vasti contingenti di verificatori (in Kosovo, per
esempio, invece di ritirare i verificatori Osce in vista e/o preparazione
dei bombardamenti, si poteva potenziarne fortemente la presenza portandoli
da poche migliaia a decine di migliaia); impiego di forze di intervento non
armate.
*
Comunque sia, l'introduzione nel diritto internazionale di una norma che
sancisca, in determinate e ben specificate condizioni, "interventi armati
umanitari" comporta l'evoluzione del diritto internazionale in direzione di
una revisione dei principi di sovranita' e non-intervento. Ma cio' puo'
avere implicazioni assai radicali. Se possono essere legittimati determinati
e ben limitati interventi armati da parte della comunita' internazionale
allo scopo di (cercare di) porre fine a massicce violazioni di diritti
basilari perpetrate contro intere popolazioni dai loro governi o da fazioni
coinvolte in una guerra civile, perche' non potrebbero parimenti essere
legittimati interventi coercitivi (non dico armati!) da parte della
comunita' internazionale nei confronti di stati - ma anche di attori non
statali - le cui politiche economiche comportano palesi e gravi violazioni
di diritti umani basilari tra le popolazioni del pianeta? E perche' non
dovrebbero trovare legittimazione - sempre che sia possibile attuarle -
misure volte a introdurre un sistema di tassazione coercitiva globale degli
stati (e delle multinazionali) al fine di realizzare una ridistribuzione un
po' piu' equa delle ricchezze e risorse del pianeta e garantire cosi'
l'effettiva fruizione di diritti umani basilari per un numero crescente di
persone? Cio' puo' a sua volta comportare una revisione del principio di
sovranita' territoriale come sancito nell'articolo 1 comma 2 dei due Patti
del '66 per cui "tutti i popoli possono disporre liberamente delle proprie
ricchezze e delle proprie risorse naturali". E' vero che questo articolo
puo' essere visto come volto a tutelare dallo sfruttamento i popoli piu'
poveri e deboli; ma e' parimenti chiaro che esso favorisce fortemente anche
quelli che sono piu' ricchi, lo siano per fortuna naturale, o come frutto di
passate immani violenze e violazioni di diritti nei confronti di altri
popoli, o per ambedue questi fattori.
La funzione del sistema dei diritti - presi sul serio - e' quella di
costituire una barriera alla violenza in tutte le sue forme, da quella
militare, a quella strutturale, a quella culturale. La grande sfida cui tale
sistema si trova di fronte nel XXI secolo e' nientemeno che quella di
riuscire a imporsi a livello globale. A rischio, altrimenti, di rivelarsi un
inganno di piu'.

4. MATERIALI. MARIA CARROZZA INTERVISTA PAT PATFOORT
[Dalla mailing list del gruppo di lavoro tematico sulla nonviolenza e i
conflitti della Rete di Lilliput (glt-nonviolenza at liste.retelilliput.org)
riprendiamo questa intervista. Maria Carrozza (per contatti:
carrma at libero.it) ha scritto articoli e interviste sui temi della pace
diffusi nella rete telematica. Pat Patfoort, antropologa e biologa, e'
impegnata nei movimenti nonviolenti e particolarmente nella formazione alla
nonviolenza. Tra le opere di Pat Patfoort: Una introduzione alla
nonviolenza, Edizioni del Movimento Nonviolento, 1988; Costruire la
nonviolenza, La Meridiana, Molfetta (Ba) 1992; Io voglio, tu non vuoi.
Manuale di educazione nonviolenta, Edizioni Gruppo Abele, Torino 2001]

Quella che segue e' un'intervista con l'antropologa Pat Patfoort, che ha
messo a punto, nel corso dei suoi studi, il "metodo dell'Equivalenza", un
sistema efficace e nonviolento per la risoluzione dei conflitti. E lo ha
sperimentato come metodo educativo e come strumento di mediazione, tanto
all'interno delle carceri o nei conflitti interetnici, quanto all'interno
della famiglia.
"Difendersi senza attaccare" e' il titolo del prossimo libro
dell'antropologa belga Pat Patfoort, ma soprattutto e' una formula
suggestiva per descrivere in sintesi il metodo dell'Equivalenza, il sistema
nonviolento per la soluzione dei conflitti da lei teorizzato, elaborato
lungo un percorso di studio e di lavoro ultradecennale, che ha portato la
studiosa fiamminga, trainer e mediatrice internazionale in diverse parti del
mondo, e negli ultimi anni anche in Sardegna. In poche (e non certo
esaustive) parole, mentre solitamente, in uno scambio di opinioni, lo scopo
e' di "vincere" sull'altro e di prevaricarlo, di sottometterlo alle proprie
ragioni, con il metodo dell'Equivalenza prevale lo sforzo di mettere sul
piatto della bilancia le proprie convinzioni, valori, stati d'animo, per
giungere ad una soluzione propositiva e "creativa" del conflitto d'idee.
L'Equivalenza, che si pone come alternativa al sistema comune e prevalente
di comunicazione (codificato dalla studiosa come modello del
Maggiore/minore), puo' essere decritta in negativo: non e' violenza e non
provoca sofferenza e rapporti di oppressione tra le persone (per un
approfondimento della tematica si consiglia la lettura dei testi della
Patfoort pubblicati in Italia, Costruire la nonviolenza: per una pedagogia
dei conflitti, La Meridiana, Molfetta (Bari) 1992; e Io voglio, tu non vuoi.
Manuale di educazione nonviolenta, Edizioni Gruppo Abele, Torino 2001).
Chi ha portato Pat Patfoort nell'isola e' l'associazione "La Triangola", la
onlus che ha aperto a Cagliari uno dei primi sportelli di Counseling e di
Mediazione dei conflitti (per informazioni: tel. 070725139 e 070823154,
e-mail: frances.baro at virgilio.it) e che, nell'ultima settimana di ottobre,
ha organizzato un ciclo di seminari con Pat Patfoort: uno a Cagliari e una
quattro giorni a Sassari. Attraverso "La Triangola", arriviamo a incontrare
Pat Patfoort, che ci aspetta sorridente e disponibile a rispondere alle
nostre domande.
*
Maria Carrozza: Come e' diventata mediatrice e qual e' la filosofia-guida
del suo studio sulla gestione nonviolenta dei conflitti?
Pat Patfoort: Il mio figlio maggiore ha 30 anni e 32, 33 anni fa ho iniziato
a riflettere sull'educazione nonviolenta. Il lavoro con il centro di Bruges
e' iniziato 13 anni fa. La struttura si chiama "Il fiore di fuoco", un fiore
virtuale, secondo un'antica leggenda musulmana, che trasmette molto amore
solo a chi coltiva la propria forza interiore. Il fiore significa dolcezza,
bonta', il fuoco e' forza. Questi due poli, nella mia visione di
nonviolenza, interagiscono: per essere nonviolenti bisogna avere
consapevolezza delle proprie qualita', bisogna avere autostima.
*
Maria Carrozza: ... che e' anche un concetto fondamentale della teoria
dell'Equivalenza. Quale importanza da' all'autostima?
Pat Patfoort: Per me e' molto semplice: l'autostima negli esseri umani,
specie nei bambini, deve essere coltivata, non repressa. Ad esempio, nel
rapporto tra padre e figlio, piuttosto che fare molte critiche, sottolineare
cio' che non va nel bambino, che avrebbe potuto fare meglio, il padre
potrebbe prestare piu' attenzione alle qualita', alle attitudini personali,
ai progressi che fa suo figlio.
*
Maria Carrozza: E invece cosa accade?
Pat Patfoort: Generalmente in famiglia non va cosi': un bambino che mostra
empatia con il mondo che lo circonda, che osserva le cose, viene lodato meno
di uno bravissimo a scuola, che sa far di conto velocemente, che sa leggere
ad un'eta' precoce e cosi' via... Considero questa negativita' come la
malattia della societa' contemporanea. Noi stessi l'abbiamo dentro il nostro
vissuto: ce l'hanno insegnata da piccoli, e da grandi la ripetiamo
inconsciamente e l'applichiamo ai nostri figli.
Infatti, il momento migliore per avvicinarsi alla nonviolenza e' quando ci
nasce un figlio. La nonviolenza serve a questo punto, per aiutare i piccoli
a diventare individui forti, senza frustrazioni, che non abbiano bisogno di
esercitare la violenza sugli altri per affermarsi nella societa'.
*
Maria Carrozza: L'Equivalenza e' nato come un metodo educativo, ma lo si
puo' sperimentare anche al di fuori del nucleo famigliare. Come e in che
realta'?
Pat Patfoort: Questo metodo e' funzionale a risolvere conflitti in tutti i
contesti sociali, anche in quelli piu' ampi, come, ad esempio, nelle
carceri, o in situazioni di guerra, tra gruppi contrapposti. Negli ultimi
anni ho lavorato principalmente, in Belgio con i detenuti e in Senegal con i
"Ribelli", un movimento di liberazione armato, rappresentativo delle
popolazioni del sud, che da piu' di vent'anni si oppone al governo di Dakar.
*
Maria Carrozza: Come e' arrivata in Senegal?
Pat Patfoort: Ho vissuto in Africa per oltre cinque anni, li' sono nati i
miei figli. Tre anni fa l'Unicef mi ha incaricata di sviluppare un progetto
di mediazione tra l'ala armata e la parte politica dei "Ribelli" (il
movimento ha rotto le comunicazioni con il governo nel giugno del 2003).
L'agenzia dell'Onu si rendeva conto di non poter svolgere il suo mandato,
perche' e' chiaramente impossibile nutrire, curare, salvare gli orfani di
guerra, mutilati, rifugiati e abbandonati dalle famiglie, se i bambini si
rifiutano di mangiare. In Senegal il quotidiano delle persone e' la violenza
e l'oppressione della guerra civile.
*
Maria Carrozza: E come lavora in questo terribile contesto di disperazione?
Pat Patfoort: Il mio compito e' aiutare i Ribelli a liberarsi dalla
violenza, che utilizzano esclusivamente a scopo di difesa. Con loro il
metodo dell'Equivalenza ha iniziato a funzionare. Infatti, a un certo punto,
le due parti del movimento di liberazione hanno ripreso a parlare. Il
processo di composizione del conflitto sta prendendo il via, ma il vero
problema e' costituito dalla societa' attorno, quella rappresentata del
governo centrale di Dakar, che non sa ancora cosa vuol dire gestire un
conflitto.
*
Maria Carrozza: In che senso?
Pat Patfoort: Provo a spiegarmi con un'immagine: il governo si comporta come
un genitore che, per ottenere ad ogni costo la pace tra i suoi figli, e'
convinto che basti costringerli a tenersi per mano. In Senegal e' accaduto
questo, quando Dakar ha dichiarato unilateralmente la fine della guerra
civile, organizzando una grande festa, alla quale avrebbero dovuto
partecipare tutti i Ribelli. Ma cosi' non e' stato: l'ala armata del
movimento non ha accettato quella festa, era troppo presto per accettarla,
ha fatto un passo indietro e i negoziati per la pace si sono di nuovo
arrestati.
*
Maria Carrozza: Passiamo al lavoro con i detenuti: come e perche' e'
iniziato?
Pat Patfoort: Anche in Belgio la mediazione e' un fatto nuovo, e' un
esperimento del Ministero della Giustizia per combattere il problema del
sovraffollamento e delle rivolte nelle carceri, dove il 70% dei detenuti ha
meno di 30 anni.
Come usciranno dal carcere tutti questi uomini, come dei criminali, o come
persone piu' responsabili? Queste sono le due alternative. E' ovvio
preferire la seconda. Ma come arrivare al risultato?
*
Maria Carrozza: Gia', come?
Pat Patfoort: Con il metodo nonviolento. Anche i detenuti, gli assassini ad
esempio, quelli che hanno ucciso al culmine di un'escalation di violenza,
rispondono bene al sistema dell'Equivalenza, un metodo che non ha dei
contenuti da imporre, ma la funzione di trovare una soluzione ad un
qualsivoglia conflitto.
*
Maria Carrozza: Parliamo della sua esperienza in Sardegna? Per alcuni, che
fanno riferimento al codice barbaricino, e' una terra governata da un forte
senso dell'identita', dalla vendetta e dall'invidia, che renderebbero la
societa' sarda e le sue dinamiche non paragonabili ad altre esperienze. Cosa
ne pensa?
Pat Patfoort: Che la vostra sia una comunita' particolare, lo so. Ma anche
in Sardegna ho individuato le stesse identiche dinamiche che alimentano i
conflitti in ogni parte del mondo. Ad esempio, in tre paesi confinanti dove
ho lavorato si parlava di rivalita', di attrito tra le diverse cittadinanze.
Alcuni dicevano, invece, che i conflitti non esistevano, che non sono mai
esistiti: insomma, facevano finta di niente. Ma queste dinamiche accadono in
tutto il mondo. Penso, ad esempio, al Kossovo, dove sono stata. Quest'anno,
dopo la morte in un fiume di tre ragazzini albanesi, si e' arrivati quasi di
nuovo alla guerra civile. Ancora oggi i kossovari serbi per fare la spesa al
mercato ci vanno sotto scorta.
*
Maria Carrozza: Quindi lei e' convinta che il metodo dell'Equivalenza sia,
per cosi' dire, esportabile in tutto il mondo?
Pat Patfoort: Si', certamente. E proviamo anche a ribaltare la domanda: il
sistema Maggiore/minore funziona per risolvere i conflitti? La risposta e'
scontata: il sistema Maggiore/minore ha sempre dato molti problemi. Pensiamo
all'Iraq, dove il modello e' all'apice, o in Palestina... E' chiaro che non
funziona e l'Equivalenza e' un'alternativa. C'e' ancora molto da scoprire in
materia, ma occorre provare. L'Equivalenza sembra una follia, ma solo
perche' non ci siamo abituati.

5. ESPERIENZE. THERESA WOLFWOOD INTERVISTA ROSITA ESCOBAR
[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per
averci messo a disposizione la sua traduzione di questo articolo di Theresa
Wolfwood pubblicato su www.awakenedwoman.com. Theresa Wolfwood e' la
fondatrice del Barnard-Boeker Centre Foundation (Bbcf) che organizza e
sostiene azioni per il cambiamento sociale ed l'educazione alla pace, alla
giustizia sociale, ai diritti umani ed ai diritti delle donne. Geologa, ha
lavorato in Canada, Usa, Etiopia ed Eritrea per governi e istituti
scientifici. E' la coordinatrice delle Donne in nero di Vancouver, e la
direttrice dell'organizzazione Transcend: Art for Peace che raggruppa
artisti impegnati per la pace. Ha fatto lavoro di volontariato sociale in
Nicaragua, Eritrea, Messico (Chiapas, in cui era osservatrice internazionale
per i diritti umani) e Guatemala. Poeta, saggista e fotografa, alcuni dei
suoi lavori sono nel sito www.islandnet.com/~bbcf, se invece si vogliono
vedere gli striscioni per la pace da lei creati, ve ne sono alcuni su
www.tapnet.info]

Il marchio della linea di abiti per donna "Jennifer Moore", assieme a molti
altri, utilizza il lavoro di donne e bambine del Guatemala. Migliaia di esse
lavorano nelle "maquilas" che producono abiti esclusivamente per
l'esportazione, quegli abiti che finiscono in vendita nei nostri negozi a
prezzi esorbitanti. Rosita Escobar sta girando il mondo per raccontare le
storie di queste donne e ragazze, grazie all'aiuto dell'Ecumenical Task
Force for Justice in the Americas.
Rosita e' la direttrice dell'organizzazione "Donne in solidarieta'" (Ames e'
la sigla in spagnolo), che riunisce queste lavoratrici.
Il gruppo si e' riunito per la prima volta nove anni or sono in un parco,
una domenica pomeriggio in cui le donne si trovarono insieme con nulla in
mano eccetto il proprio desiderio e la speranza di organizzarsi. Subito
dopo, una sostenitrice forni' loro i fondi iniziali, e vinsero un'auto in
una lotteria: il vento comincio' a girare. Le donne si incontrano
regolarmente ogni domenica, per discutere e organizzare seminari. La
domenica e' il loro solo giorno libero, in una settimana lavorativa di 66
ore. Eppure, centinaia di costoro hanno l'energia per "unirsi in un mondo di
speranza", come dice Rosita. "Quest'unita' da' loro speranza nel mezzo del
dolore e dello sfruttamento".
*
Sebbene la guerra civile in Guatemala sia finita, gli accordi di pace, che
prevedevano la riforma agraria, democrazia e assistenza sociale, non sono
stati implementati. Solo quest'anno, 500 comunita' rurali sono state
sfrattate con violenza dalle loro terre. Le donne e i bambini di questi
gruppi, fino ad ora circa 150.000, non hanno altra scelta che il lavoro
nelle "maquilas". Solo per continuare ad esistere, una famiglia ha
necessita' di circa 300 dollari al mese: le lavoratrici di una "maquila" a
Guatemala City ne guadagnano in media 200. Percio' i bimbi lasciano la
scuola molto presto, e si aggiungono a sorelle, fratelli e madri su un
autobus scolastico che li trasporta in una fabbrica sporca, affollata e
senza ventilazione. A dodici anni un bambino puo' lavorare legalmente, ma ci
sono creature di 7 anni che lavorano in queste fabbriche. Gli adulti hanno
ben poche garanzie e pochissimi raggiungeranno una pensione decente. Persino
gli ospedali destinati ai poveri si fanno pagare.
Ames lavora con gruppi affini in Nicaragua e Honduras, dove gli stipendi
sono persino pu' bassi. L'unita' e la solidarieta' sono importanti; tutti
coloro che lavorano nelle "maquilas" hanno diritto a sperimentare migliori
condizioni, percio' Ames incoraggia e promuove la comunicazione e la
relazione con altri gruppi a livello globale. Le lavoratrici di Ames si
trovano ogni domenica a seguire seminari sull'eguaglianza di genere, sui
diritti del lavoro e sui diritti umani; uno speciale training insegna pronto
soccorso infermieristico, un piccolo ospedale fornisce alle donne i servizi
di base. Cliniche mobili di Ames girano per le comunita' delle lavoratrici
per fornire assistenza sanitaria alle loro famiglie. Uno dei loro scopi
futuri e' la creazione di un tribunale per i diritti dei lavoratori, e nuovi
programmi diretti ai giovani (educazione ai diritti umani, educazione
sanitaria soprattutto riguardo alle malattie a trasmissione sessuale,
programmi ricreativi) si stanno avviando. Ames offre anche assistenza legale
a chi ne abbia bisogno.
Io ho incontrato Rosita in Canada: lei ha osservato che la solidarieta' e'
la cosa piu' importante, perche', ha detto, "vi sono abusi dei diritti umani
anche in Canada, e la consapevolezza e la solidarieta' daranno forza anche a
voi. L'energia per organizzarsi viene quando si costruisce solidarieta'".
Rosita ci ha pregato di lavorare con istituzioni e sindacati, chiedendo
prodotti "liberi dal sudore" e regolamenti che proteggano i lavoratori, di
sostenere il commercio equo, e di informare l'opinione pubblica. In Canada
gia' molte universita', ad esempio, hanno preso la decisione di non comprare
i prodotti dello sfruttamento.
Ho visto quella bella camicia nel negozio, una "Jennifer Moore". L'ho
lasciata li', non ne avevo veramente bisogno. Ma Rosita ci ha detto che le
lavoratrici e i lavoratori del Guatemala non ci stanno chiedendo un
boicottaggio: hanno bisogno di quel lavoro. Percio' mi sono domandata come
riconciliare il nostro vasto potere d'acquisto con la vita delle lavoratrici
guatemalteche. Ho deciso che faro' informazione con i proprietari dei
negozi, e chiedero' ai negozi del commercio equo di espandere la loro
attivita'. Ho deciso anche che mandero' una donazione ad Ames, almeno
l'equivalente dello sperequato profitto che si sarebbe guadagnato dalla
camicia che mi piaceva.

6. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

7. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it, sudest at iol.it,
paolocand at inwind.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 797 del 2 gennaio 2005

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