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La nonviolenza e' in cammino. 770
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 770
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Tue, 30 Dec 2003 22:28:45 +0100
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 770 del 30 dicembre 2003 Sommario di questo numero: 1. Rossana Rossanda ricorda Lorenza Carboni 2. Barbara Spinelli: i due minuti d'odio 3. Edoarda Masi: alle radici dell'ultima crociata 4. Danilo Zolo: processare il nemico 5. Giampaolo Calchi Novati: le leggi del piu' forte 6. Associazione giuriste d'Italia "Giudit": una legge incostituzionale 7. Ida Dominijanni: i paradossi della laicita' 8. Riviste: "A. Rivista anarchica" 9. Riviste: "Keshet. Vita e cultura ebraica" 10. Riletture: Karl Rahner, Corso fondamentale sulla fede 11. La "Carta" del Movimento Nonviolento 12. Per saperne di piu' 1. MEMORIA. ROSSANA ROSSANDA RICORDA LORENZA CARBONI [Dal quotidiano "Il manifesto" del 27 dicembre 2003. Rossana Rossanda e' nata a Pola nel 1924, allieva del filosofo Antonio Banfi, antifascista, dirigente del Pci (fino alla radiazione nel 1969 per aver dato vita alla rivista "Il Manifesto" su posizioni di sinistra), in rapporto con le figure piu' vive della cultura contemporanea, fondatrice del "Manifesto" (rivista prima, poi quotidiano) su cui tuttora scrive. Impegnata da sempre nei movimenti, interviene costantemente sugli eventi di piu' drammatica attualita' e sui temi politici, culturali, morali piu' urgenti. Opere di Rossana Rossanda: Le altre, Bompiani, Milano 1979; Un viaggio inutile, o della politica come educazione sentimentale, Bompiani, Milano 1981; Anche per me. Donna, persona, memoria, dal 1973 al 1986, Feltrinelli, Milano 1987; con Pietro Ingrao et alii, Appuntamenti di fine secolo, Manifestolibri, Roma 1995; con Filippo Gentiloni, La vita breve. Morte, resurrezione, immortalita', Pratiche, Parma 1996; Note a margine, Bollati Boringhieri, Torino 1996. Ma la maggior parte del lavoro intellettuale, della testimonianza storica e morale, e della riflessione e proposta culturale e politica di Rossana Rossanda e' tuttora dispersa in articoli, saggi e interventi pubblicati in giornali e riviste] Si e' spenta ieri, dopo tre mesi di una malattia che non le ha lasciato tregua, Lorenza Carboni. Lorenza, come dire Montegiove per i molti che in oltre dieci anni la sua voce gentile ha chiamato a confrontarsi nel settecentesco e ormai quasi deserto eremo dei Camaldolesi che sovrasta l'Adriatico a Fano. Era lei che tenacemente ha tenuto in piedi l'esile struttura che si chiama "Itinerari e Incontri", itinerari perche' studiava non dogmi ma percorsi, e incontri perche' si trattava di parlarsi e ascoltarsi fra religiosi - cattolici, protestanti, ebrei, recentemente anche musulmani - e non credenti, interrogati dalle stesse grandi domande di senso che ogni epoca storica rideclina. Lorenza era marchigiana, una bellissima piccola donna che appena andata sposa a Giovanni Pelosi, anche lui insegnante, aveva incontrato nel bergamasco i nostri compagni della Dalmine. Cattolica nel profondo, con loro aveva vissuto, dopo le speranze e qualche delusione del Concilio Vaticano Secondo, la protesta sociale, mai disgiunta nella testa di Lorenza e Giovanni dalle grandi domande cristiane. Poi erano tornati ambedue nella terra d'origine a insegnare, avevano - Giovanni ha ancora - quel dono particolare di far sentire ai ragazzi che la scuola vale la pena, anche se pare che sia diventata un'impresa sempre piu' difficile. Ma per Lorenza non c'era soltanto la scuola, c'era Montegiove e c'era una pratica ecologica condivisa con i suoi bambini e quelli di un villaggio dell'Africa occidentale a causa delle rondini, da aspettare e veder partire con il naso in su di tutta la classe e difendere da molteplici minacce, incluse quelle della fame. Aveva studiato, Lorenza, con Italo Mancini e da lui aveva preso la predilezione per Bonhoeffer, che distribuiva agli amici. Ne era venuto quell'essere a Montegiove una specie di zona franca, dove ci si trovava tre volte l'anno intorno alle interpretazioni di un testo (il Libro di Giobbe, il Cantico, il Siracide) o un tema sapienziale, di quelli ben prediletti da Benedetto Calati (terra ed esilio, legge coscienza e liberta', errore colpa peccato) o un tema dell'attualita' (la gratuita', o il dopo 1989). Nessuno di coloro che erano invitati mancava di venire una volta o l'altra - tanto rari sono i luoghi nei quali ci si parla senz'altra intenzione che ascoltarsi e discutere, condividendo i paesaggi di mattone rosato delle Marche, i sentieri del boschetto, perfino gli orari imperativi e il refettorio comune. Molto gaio perche' Lorenza non aveva nulla di spartano nel badare all'ospitalita' e, come i relatori, anche i sovrintendenti alla cucina erano volontari di quella bizzarra razza romagnola che fa manicaretti anche con il niente e discutendo magari di Roland Barthes. Era Lorenza che ci aspettava al treno sorridendo con una cortesia che poteva parere timidezza - grave errore, perche' era rimasta una ragazza allegra, piena di vitalita' e curiosita', ostinata e per niente arrendevole. Come a Benedetto Calati, che patrocino' e frequento' Montegiove finche' visse, le apparteneva un'ironia e il senso della risata, come in questa fotografia che li ritrae assieme all'eremo dopo che manifestamente egli ha infilzato con benevolenza qualcuno. Montegiove deve sopravvivere, ma sara' un'altra cosa. Perche' ci sono persone che danno la loro impronta ai luoghi ed era lei a dargli quel sorriso e quello sguardo acuto e insaziato del quale non so come faremo a meno. 2. RIFLESSIONE. BARBARA SPINELLI: I DUE MINUTI D'ODIO [Da "La stampa" del 21 dicembre 2003. Barbara Spinelli e' una prestigiosa giornalista e saggista; tra le sue opere segnaliamo particolarmente Il sonno della memoria, Mondadori, Milano 2001. Ringraziamo Nanni Salio per averci segnalato questo articolo] "Ho provato pieta' nel vedere quest'uomo distrutto trattato come una vacca cui si controllano i denti", cosi' ha dichiarato il cardinale Raffaele Martino, presidente della commissione pontificia Giustizia e Pace, subito dopo aver visto le immagini della cattura di Saddam Hussein. Un'immagine che non si dimentica facilmente, per l'indicibile violenza che contiene e per le emozioni contraddittorie che suscita: ecco un dittatore feroce che senz'altro merita di pagare per i propri crimini, ecco il despota che ha gasato gli iraniani e i curdi, che ha massacrato gli sciiti e ogni sorta di oppositori, e tuttavia d'un tratto non sembrava piu' l'orrore che era stato. Sembrava aver acquisito una dignita' che poco prima non possedeva, uno sguardo umano di cui in passato non era stato capace. Era ridotto alla sua umanita', e precisamente questa umanita' e' stata imbestialita dai modi dell'arresto e della successiva spettacolarizzazione. La violenza e' indicibile perche' non e' un'esecuzione, quella ripresa dalle telecamere. E' una violenza subdola, tanto piu' sconcertante: ancor prima del processo e della condanna, si son viste in rapida sequenza due trasformazioni inaudite. Nella prima scorgiamo inaspettatamente l'essere umano, in Saddam. Nella seconda quest'umanita' appena riconquistata gli viene sprezzantemente, igienicamente strappata. Non abbiamo assistito infatti alla normale cattura di un nemico di guerra. Abbiamo assistito, in mondovisione forzata, alla trasformazione del nemico in bestia da soma che si vende sul mercato. Per venderla a buon prezzo e convincere l'acquirente si spalanca la bocca dell'animale, si guarda lo stato e l'eta' dei suoi denti, si controlla se magari nel pelo non s'annidino pidocchi. Gli acquirenti della bestia siamo tutti noi, teleconsumatori di guerre e anche cittadini che camminano ignari per strada: l'immagine della bocca aperta di Saddam e del soldato che fruga nei suoi capelli arruffati l'hanno vista anche gli abitanti di New York che passavano da Times Square. Il despota tramutato in accattone veniva riprodotto anche la', su schermo gigante: come nel film Blade Runner o - scrive su "Ha'aretz" il commentatore israeliano Rogel Alpher - come nel romanzo 1984 di Orwell. Nel romanzo e' la faccia di Emmanuel Goldstein che maniacalmente viene ritrasmessa sugli schermi. Goldstein e' il Nemico del Popolo per eccellenza, e' il Gran Sabotatore che serve da spauracchio. Il suo volto e la sua voce sono strani, osserva Orwell: fanno pensare a una pecora. Diffusa a intervalli regolari, la trasmissione cui tutta la popolazione di Oceania e' condannata s'intitola: "Due Minuti d'Odio" (Two Minutes Hate). Esattamente come Goldstein, anche Saddam e' stato in passato l'alleato piu' sicuro di chi oggi lo esibisce come preda: e' stato alleato di Washington, di Parigi, di Bonn, di Roma. Il ministro della Difesa Rumsfeld si reco' due volte a Baghdad, nel dicembre '83 e nel marzo '84, per esprimere fiducia nel tiranno e renderselo amico. La seconda volta Baghdad aveva gia' usato, contro l'Iran, l'iprite e il gas VX. * Al programma Due Minuti d'Odio abbiamo assistito tutti, domenica 14 dicembre, e non e' detto che i risultati siano positivi per la lotta delle democrazie al terrorismo. Alcuni despoti saranno spaventati da Saddam degradato ad accattone, forse. Un'intera regione del mondo, attorno al Medio Oriente, verra' forse trasformata da questo simbolo d'umiliazione, molto piu' possente dell'abbattimento della statua di Saddam. Gli uomini di Bush sosterranno forse che proprio grazie alle guerre americane Gheddafi ha cominciato a cedere e si e' dichiarato disposto, pochi giorni dopo la cattura del dittatore iracheno, a smantellare le sue armi di distruzione di massa. Ma quei Due Minuti d'Odio restano conficcati nei nostri cervelli, e non saranno guardati e ricordati solo da despoti o da partiti decisi a rovesciare i tiranni. Tutti i diseredati e gli impotenti del mondo riconosceranno se stessi e il proprio destino, nel volto di Saddam prigioniero, e risponderanno ai Due Minuti d'Odio con un senso d'abbandono e un odio raddoppiati. Non approveranno l'umiliazione di un tiranno che sugli schermi e' apparso piu' che mai essere umano nella sua nudita'. Si sentiranno proprio come lui: defraudati d'ogni eredita', ridotti a merce bovina, non rispettati come persone. Si puo' capire lo sgomento del cardinale Martino: per il cristianesimo la persona umana e' creata a immagine di Dio ed e' dunque sacra. Per tutte le grandi religioni e' cosi', e quel viso di Saddam trasformato in poster pubblicitario e' forse una vittoria militare e nel medio termine anche una vittoria politica, ma nell'immediato e' un'incalcolabile sconfitta morale, un tabu' che cade, un buco nero nell'idea che abbiamo dell'uomo, delle sue fedi. Non e' Bush con i suoi trionfalismi a risultare credibile, ma Simone Weil nel libro l'Ombra e la grazia: "Bisogna... essere sempre pronti a cambiare parte: come la Giustizia, questa 'fuggitiva dal campo dei vincitori'". * Quando la giustizia fugge dal campo dei vincitori e quando i vincitori sono le democrazie non si puo' facilmente parlare di vittoria, riportata contro i terroristi. Quando guerre e catture del nemico sono sistematicamente ottenute al di fuori della legge non c'e' da sperare molto, ne' per la diffusione della democrazia ne' per il consolidamento delle nostre stesse democrazie. E sono tante, ormai, le leggi che la guerra al terrorismo ha violato. L'offensiva contro l'Iraq e' avvenuta senza che si badasse a legittimarla internazionalmente. I guerrieri afghani o talebani rinchiusi a Guantanamo sono detenuti in dispregio della convenzione di Ginevra sui prigionieri di guerra o dei piu' elementari diritti dell'habeas corpus, che e' il diritto di ciascun "corpo umano" a esser tradotto davanti ai tribunali per sapere se la detenzione e' legittima. L'ultima violazione e' quella commessa, con igienico accanimento, sul corpo di Saddam: il governo Usa aveva accusato i soldati del rais, all'inizio della guerra, quando sulle reti arabe apparvero i volti dei militari americani catturati. Ora e' esso stesso a macchiarsi del reato di violazione della Convenzione di Ginevra, e in particolare dell'articolo 13: "I prigionieri di guerra devono... essere protetti in ogni tempo specialmente contro gli atti di violenza e d'intimidazione, contro gli insulti e la pubblica curiosita'". Lo si sa anche da guerre passate. Ci sono circostanze in cui a forza di combattere furiosamente un nemico dispotico finiamo col diventare il suo sosia. Gli stessi accordi raggiunti nelle ultime ore con Gheddafi sono significativi, e inquietanti. In apparenza Gheddafi s'e' allarmato, osservando l'esempio di Saddam. Ma in realta' e' stato un lungo negoziato, a persuadere e costringere il dittatore libico. Un negoziato oculato, condotto in parallelo da Onu e Casa Bianca. Era dunque possibile smantellare un programma di armi biologiche e chimiche, senza guerra preventiva. Gheddafi non ha dovuto subire un'aggressione come Baghdad: e' stato piegato dalla diplomazia, dalle sanzioni, da una politica lenta, paziente. Lo stesso forse poteva accadere con Saddam, e secondo alcuni il rais era addirittura disposto a un passo simile a quello compiuto da Gheddafi. Lo ha rivelato sul "New York Times" un'inchiesta di James Risen, il 6 novembre scorso. Il dittatore era pronto a concessioni essenziali, poco prima che la guerra scoppiasse: a smantellare le armi, ad accogliere in Iraq ispettori americani, a organizzare libere elezioni sotto controllo internazionale. Puo' darsi fosse un bluff, ma nessuno ha chiesto di vedere le carte, e la pazienza avuta con Gheddafi non c'e' stata con Saddam. Forse perche' bastano quei Due Minuti di Odio, a seminare nel mondo la cultura della paura e a presentare l'America come potenza capace non solo di diffondere umanita' ma anche di negarla. Gli schermi piccoli e grandi s'accendono, e tutti siamo mobilitati in una guerra che ha da essere senza fine. Fin tanto che dura questa paura e questo stato d'emergenza bellico, dimenticheremo meglio quel che per Washington sta diventando sempre piu' difficile, soprattutto ora che il nemico e' catturato: costruire la pace e la democrazia, e non solo fare guerre prima che il pericolo si manifesti, e senza che il pericolo sia stato ancora provato. 3. RIFLESSIONE. EDOARDA MASI: ALLE RADICI DELL'ULTIMA CROCIATA [Dal quotidiano "Il manifesto" del 27 dicembre 2003. Edoarda Masi e' nata a Roma nel 1927, bibliotecaria nelle biblioteche nazionali di Firenze, Roma e Milano, ha insegnato letteratura cinese nell'Istituto Universitario Orientale di Napoli; ha vissuto a Pechino e a Shangai, dove ha insegnato lingua italiana all'Istituto Universitario di Lingue Straniere. Ha collaborato a numerose riviste, italiane e straniere, tra cui "Quaderni rossi", "Quaderni piacentini", "Kursbuch", "Les temps modernes". Intellettuale della sinistra critica, di straordinaria lucidita'. Opere di Edoarda Masi: La contestazione cinese, Torino 1968; Per la Cina, Milano 1978; Breve storia della Cina contemporanea, Bari 1979; Il libro da nascondere, Casale Monferrato 1985; Cento trame di capolavori della letteratura cinese, Milano 1991. Tra le sue traduzioni dal cinese in italiano: una raccolta di saggi di Lu Xun, La falsa liberta', Torino; e Confucio, I dialoghi, Milano. Edoarda Masi e' da molti anni per chi scrive queste righe una molto ascoltata maestra, proprio per questo ci permettiamo di esprimere qui un netto dissenso rispetto ad alcuni punti di questo suo pur piu' versi apprezzabile intervento] Il "pensiero unico" andrebbe meglio definito oggi "ideologia globale": favorita dalla babele linguistica, occupa le menti, prone a conformarsi alle convenzioni dominanti, impegnate a disegnare falsi nemici per negare l'evidenza di quelli reali, e a cercare la conciliazione, perfino teorica, la' dove c'e' solo divisione e lotta inevitabile. L'ideologia globale impone il comune denominatore della lotta contro il terrorismo. Tutti vi consentono, prima ancora di esigere che di questo termine venga data una chiara definizione. Sarebbe vano esercizio di ragione ricordare che il terrorismo e' una pratica di singoli individui o gruppi minoritari isolati che, per disperazione o per folle esaltazione del proprio io, si illudono, separati dalle lotte del popolo e clandestini, di poter combattere un nemico seminando, appunto, il terrore: non importa dove e fra chi, per mezzo di stragi indiscriminate oppure per mezzo di omicidi ritenuti esemplari. Alla fine dell'Ottocento il terrorismo fu teorizzato e praticato da una parte dei populisti russi, magnificamente rappresentati da Dostoevskij, e venne condannato da Lenin come controrivoluzionario, con lucidissimi argomenti. L'esperienza storica ha confermato che il carattere clandestino e destabilizzante, oltre che disumano, della pratica terroristica consente a chi detiene un potere antipopolare di impadronirsene, e confondendo le carte in tavola di usarla a sua volta cinicamente come arma efficace e segreta contro gli oppositori (basta ricordare la strategia della tensione gia' praticata in diversi paesi, ed estesa oggi a gran parte del mondo). Ignoranza e presunzione (alimentate ancora da una disperazione inconfessata) fecero risorgere in Italia velleita' terroristiche, alla fine degli anni Settanta e negli Ottanta, fra giovani che stoltamente si illudevano di agire per la rivoluzione, mentre erano strumento, per lo piu' inconsapevole, di un nemico feroce che stava operando per destabilizzare il paese e distruggere un movimento ancora immaturo, ma temuto dai detentori del potere economico e politico interno e internazionale. Non si rendevano conto di contribuire all'opera criminale con cui le forze piu' conservatrici, appoggiate dai vari servizi segreti interni e stranieri, organizzavano le stragi di ignari cittadini (piazza Fontana, Italicus, Bologna, piazza della Loggia...). * Per una cinquantina d'anni - dalla fine della seconda guerra mondiale alla caduta del muro di Berlino e all'implosione dell'Unione sovietica - ogni nefandezza esercitata sui popoli, violazione dei diritti civili e umani, interferenza negli affari interni di altri paesi, repressione di movimenti popolari con milioni di morti, e fino alla ricolonizzazione di gran parte del mondo, e' stata motivata dai governanti degli Stati Uniti e dai loro alleati con la necessita' di combattere il comunismo. Il comunismo veniva rappresentato come un'oscura congiura internazionale messa in atto con la complicita' della potenza avversa, l'Unione sovietica (in Italia o in Francia non ci rendevamo ben conto del peso di una simile ideologia, giacche' i comunisti erano troppo forti e numerosi, avevano radici troppo profonde nel popolo perche' simili panzane potessero attecchire anche fra i loro avversari). Perfino un evento formidabile come la rivoluzione cinese veniva presentato come una rivolta di banditi sanguinari contro il governo legittimo. Una volta crollata l'Unione sovietica, sconfitti o scomparsi quasi ovunque i partiti comunisti, la crociata avrebbe dovuto concludersi. Anche le alleanze militari costituite per combattere "l'impero del male" non avrebbero dovuto avere piu' ragion d'essere. Invece abbiamo assistito e assistiamo a una progressiva escalation nell'aggressivita' e nella relativa propaganda, negli interventi armati fuori dei confini nazionali, nella riorganizzazione della Nato, nella repressione violenta di qualsiasi movimento popolare. L'etichetta "lotta al comunismo" e' stata sostituita con quella di "lotta al terrorismo" - per procedere sulla vecchia strada e per gli stessi inconfessati vecchi motivi, in misura piu' pesante e in forme piu' gravi. La fabbricazione di un "impero del male" appare dunque come un'assoluta necessita'. Al "terrorismo" viene arbitrariamente associata ogni forma di violenza (armata, fisica, morale) e infine di lotta (armata o disarmata): si tratti di rivolta individuale o di gruppo, insurrezione popolare, guerra di liberazione o di indipendenza, guerriglia, conflitto sociale, lotta di classe e perfino rivendicazione sindacale. Sia chiaro che neppure gli attentati contro forze nemiche organizzati segretamente nel corso di una guerra o di una guerriglia popolare possono essere condannati come terroristici. Non erano terroristiche, per esempio, le azioni dei partigiani durante la Resistenza, neppure quelle dei Gap nelle citta' occupate da truppe straniere (anche se gli stranieri occupanti le consideravano tali): erano azioni di guerra, miravano a colpire un nemico in campo aperto piu' forte, non a seminare terrore fra la popolazione; e dalla maggioranza della popolazione ricevevano il consenso. * Chi non fosse accecato dall'ideologia globale, almeno di un fatto avrebbe da rallegrarsi: le cose sono divenute assai piu' chiare. Nel periodo della "lotta al comunismo", lo scontro fra potenze (guerra fredda) si presentava come l'elemento fondamentale, l'anticomunismo poteva apparire una copertura della rivalita' degli Stati Uniti verso l'Unione sovietica. Oggi la medaglia si e' rovesciata: ridimensionata la potenza avversa e dissolto il suo carattere comunista, la lotta prosegue, piu' aperta e intensa. Contro chi, realmente, e in nome di che cosa siamo chiamati a unirci tutti e combattere? Chi si nasconde dietro "l'impero del male" vuoi comunista, vuoi terroristico? Scomparso lo scontro politico fra blocchi di potenze, emerge un conflitto piu' radicale e durevole, di cui sono taciuti i motivi e i contenuti, pur cosi' evidenti. Chiusa la guerra fredda, non e' mancata la corsa a fabbricare ideologie tutte nuove: scontro di civilta', di religioni; asse del male, stati canaglia; immigrati delinquenti; terrorismo internazionale. Accanto alle ideologie, si sono fabbricati i fatti, all'interno dei popoli guerre di religione immotivate, scontri di etnie (incerta categoria di origine razzista). Pretesti per l'ingerenza negli altrui affari interni e per l'intervento armato. Scrivono Pietro Basso e Fabio Perocco (in Gli immigrati in Europa, Franco Angeli, Milano 2003 - libro di cui si raccomanda la lettura): "Da quando si e' esaurito il ciclo di sviluppo post-bellico (1945-1973), il tasso di accumulazione del capitale e' rimasto, nel complesso, ansimante; e non potra' risollevarsi senza una massiccia iniezione supplementare di valore che puo' venire solo da una complessiva svalorizzazione della forza lavoro alla scala mondiale. Le politiche neo-liberiste che, a partire dal reaganismo e dal thatcherismo, si sono imposte, con varianti estreme o temperate, all'intero mondo, rispondono a questa necessita'". E ancora: "Il conflitto fra l'Europa delle imprese, dei governi, degli stati, degli ingegneri della cosiddetta pubblica opinione e gli immigrati e' al fondo un conflitto di classe, che e' parte integrante del piu' vasto conflitto fra capitale e lavoro. Il razzismo istituzionale, in tutte le sue varianti, non si limita infatti a inferiorizzare le popolazioni di colore: cerca di convertire tale conflitto tra capitale e lavoro in un conflitto tra lavoratori, tra popoli, tra culture, tra religioni, facendo leva su reali disuguaglianze... per acuirle fino al parossismo e allo scontro". Partendo dall'analisi della condizione riservata agli immigrati - i proletari estremi, quelli che "non hanno da perdere che le loro catene" - Basso e Perocco individuano i veri motivi sia della svolta liberista nel sistema del capitale, sia della nuova crociata contro chiunque si rivolti in qualsiasi forma a quel dominio. La nozione che il capitale contiene in se' il lavoro come elemento costitutivo assoluto e come contraddizione interna assoluta e' alla base delle teorie e della pratica della lotta di classe dalla meta' del XIX alla meta' del XX secolo. Via via che la contraddizione si esaspera, diminuisce la possibilita' dei compromessi politici. Il capitale ha bisogno di restringere sempre piu' lo spazio del lavoro, e nella seconda meta' del XX secolo arriva a divorare il lavoro quale entita' politica e a distruggere la politica quale dimensione mediatrice. Il meccanismo dell'accumulazione e della riproduzione allargata conduce alla formazione di capitali immensi strutturati in organismi di dominio globale che mirano al controllo totale e diretto degli stati-nazione e a creare un proprio dominio assoluto sul lavoro che, disperso in particelle atomizzate e flessibili, potenzialmente prive di ogni autonomia umana, sia manovrabile come oggetto e ricondotto allo stato puro di merce. Le immense masse di lavoratori, anche non industriali, che popolano le zone del mondo non metropolitane, sono le prime assoggettabili al piu' alto grado di controllo e di sfruttamento. Si torna cosi' a forme di banditismo peggio che ottocentesco, alla ricolonizzazione diretta e indiretta di gran parte del mondo. E' questa la prima fonte della politica di aggressione e della guerra permanente, con tutte le ideologie di copertura, quelle che mirano, secondo l'espressione di Basso e Perocco, a "mobilitare la popolazione lavoratrice autoctona contro altre popolazioni e contro se stessa". E' "l'antico" conflitto capitale-lavoro che ritorna centrale per contrastare la distruzione globale in atto. 4. RIFLESSIONE. DANILO ZOLO: PROCESSARE IL NEMICO [Dal quotidiano "Il manifesto" del 24 dicembre 2003. Danilo Zolo, illustre giurista, e' nato a Fiume (Rijeka) nel 1936, docente di filosofia e sociologia del diritto all'Universita' di Firenze; tra le sue opere segnaliamo almeno: Stato socialista e liberta' borghesi, Laterza, Bari 1976; Il principato democratico, Feltrinelli, Milano 1992; (a cura di), La cittadinanza, Laterza, Roma-Bari 1994; Cosmopolis, Feltrinelli, Milano 1995; Chi dice umanita', Einaudi, Torino 2000] Il significato profondo dei Tribunali militari di Norimberga e di Tokyo, istituiti dalle potenze vincitrici del secondo conflitto mondiale contro i criminali di guerra tedeschi e giapponesi, non fu quello di "fare giustizia". Fare giustizia significa tentare di interrompere la sequenza politica della divisione, dell'odio e dello spargimento del sangue per decostruire il conflitto e tentare di esorcizzarlo attraverso l'uso di mezzi giudiziari. La giustizia, in questo senso, si oppone alla faziosita' della politica perche' e' la ricerca di uno spazio di imparzialita', e' il ricorso a principi giuridici capaci di dirimere e neutralizzare il conflitto. Se la metafora della politica e' la spada, quella della giustizia e' la bilancia. Per questo c'e' chi ritiene che l'istituzione di tribunali speciali a conclusione di una guerra - internazionale o civile - puo' essere il primo passo verso la pace, non diversamente dalla amnistia, classico strumento di pacificazione della memoria collettiva e di inibizione della vendetta generalizzata. I processi internazionali di Norimberga e di Tokyo - e' stato il massimo giurista del secolo scorso a sostenerlo, Hans Kelsen - hanno stravolto l'idea di giustizia, annullandone ogni distinzione rispetto alla politica e alla guerra. Sono stati una resa dei conti, il regolamento delle pendenze, la vendetta dei vincitori sui vinti. E' stata una parodia giudiziaria con una letale valenza simbolica. Essere sconfitti e uccisi in guerra e' cosa normale e persino onorevole. Ma essere giustiziati dopo essere stati sottoposti alla giurisdizione del nemico e' una sconfitta irreparabile, e' la degradazione estrema della propria dignita' e identita'. Hedley Bull, Bert Roeling e Hannah Arendt hanno condiviso questo rifiuto della "giustiza politica" e della sua manichea contrapposizione della moralita' dei vincitori alla malvagita' degli sconfitti. * Oggi gli Stati Uniti, potenza occupante dei territori dello stato iracheno, stanno allestendo un processo contro Saddam Hussein, che nel frattempo tengono prigioniero, esibiscono come una vittima sacrificale e sottopongono a pesantissimi interrogatori, in flagrante violazione di una serie di Convenzioni internazionali, a cominciare da quelle di Ginevra del 1949. Di piu', per bocca del loro presidente Bush, fervido sostenitore della pena di morte, raccomandano l'applicazione della "pena estrema" contro il dittatore. Ritorna dunque lo spettro di Norimberga - al quale non pochi osservatori occidentali si richiamano come a un modello da imitare - e ritorna la logica della stigmatizzazione, della vendetta e del sopruso. In questo caso il sopruso e' di proporzioni conclamate. Gli Stati Uniti, con la complicita' della Gran Bretagna e di altri paesi occidentali, inclusa l'Italia, occupano militarmente l'Iraq in palese violazione della Carta delle Nazioni unite e del diritto internazionale generale. Alla luce del diritto gli occupanti meriterebbero sanzioni severissime e tuttavia accade esattamente il contrario. Sono gli aggressori a erigersi a giudici degli aggrediti in nome di valori universali - la liberta', la democrazia, il rispetto della vita - che essi hanno sistematicamente calpestato. E si richiamano al diritto nonostante il loro rifiuto di sottomettersi alla giurisdizione della Corte penale internazionale che e' stata istituita proprio a difesa di questi valori. Per opera del "proconsole" Paul Bremer e con la complicita' dell'Iraqi Governing Council, da essi istituito, gli Stati Uniti hanno frettolosamente addestrato un certo numero di giudici iracheni che dovrebbero dar vita ad un Tribunale speciale, composto di cinque membri, incaricato di giudicare Saddam Hussein e altri esponenti del suo regime. Si tratta di una procedura illegale per una lunga serie di ragioni: perche' gli Stati Uniti detengono illegalmente Saddam Hussein, perche' il Governing Council e' privo di ogni legittimita' politica, sia internazionale che interna, perche' l'istituzione di un tribunale speciale per volonta' delle forze occupanti e' illegale, perche' il tribunale non offrirebbe le minime garanzie di autonomia nei confronti della potenza occupante e di imparzialita' verso l'accusato, e infine perche', rebus sic stantibus, mancano le norme di diritto positivo iracheno sulla base delle quali giudicare i crimini dell'ex-dittatore. L'anomia giuridica e il vuoto di potere legittimo provocati dalla guerra sono tali che il processo finirebbe in una teatralizzazione propagandistica con il solo scopo di coprire i misfatti dei vincitori, di disumanizzare l'immagine del nemico e di legittimare nei suoi confronti, in quanto nemico dell'umanita', comportamenti ostili sino all'estrema disumanita'. * Un'esigenza minima di legalita' internazionale esigerebbe l'immediata consegna di Saddam Hussein a una autorita' internazionale neutrale, sotto l'egida delle Nazioni Unite, e la sua custodia in condizioni di dignitosa detenzione preventiva. Al momento opportuno potrebbe essere decisa la sua consegna alle autorita' irachene che la richiedano, a condizione che queste autorita' siano del tutto emancipate dalla occupazione straniera e siano democraticamente sostenute dalla maggioranza della popolazione. E a condizione che, nel caso che l'ex dittatore venga sottoposto a processo, sia esclusa la sanzione capitale, una sanzione che i tre Tribunali internazionali penali oggi operanti hanno abolito. L'assassinio rituale di Saddan Hussein offrirebbe un contributo non alla pacificazione dell'Iraq ma alla causa dell'odio e del terrore. 5. RIFLESSIONE. GIAMPAOLO CALCHI NOVATI: LE LEGGI DEL PIU' FORTE [Dal quotidiano "Il manifesto" del 19 dicembre 2003. Giampaolo Calchi Novati, nato nel 1935, docente universitario, e' tra i massimi esperti italiani delle questioni del sud del mondo. Tra le opere di Giampaolo Calchi Novati: Neutralismo e guerra fredda (1963); L'Africa nera non e' indipendente (1964); Le rivoluzioni nell'Africa nera (1967); La rivoluzione algerina (1969); Decolonizzazione e terzo mondo (1979); La decolonizzazione (1983); Dopo l'apartheid (a cura di, 1986); L'Africa (1987); Nord/Sud (1987); Maghreb (a cura di, 1993); Il Corno d'Africa nella storia e nella politica (1994); Dalla parte dei leoni (1995); Storia dell'Algeria indipendente (1998); Il canale della discordia (1998)] Pochi giorni prima della cattura di Saddam, in Iraq e' stato istituito un tribunale speciale, composto da iracheni, per giudicare i crimini del regime del Baath. Gli osservatori piu' sereni avevano subito obiettato che una simile corte era priva della legittimita' e indipendenza necessarie per assicurare un minimo di validita' ai verdetti di questo e di altri tribunali dello stesso genere, in presenza di un'autorita' contestata come, nel caso dell'Iraq, le forze d'occupazione americane. Non e' detto comunque che l'ipotetico processo all'ex rais si svolgera' davanti a questo tribunale. I dubbi avanzati sul tribunale speciale di Baghdad possono essere estesi ad altri tribunali che funzionano o potrebbero essere attivati prossimamente nella periferia turbolenta e tormentata del mondo post-bipolare. E' generale la tendenza, in questa fase, muovendo magari da buone intenzioni, a incrociare la politica e la giustizia, con risultati discutibili o francamente perversi. Malgrado la maggiore dignita' che e' stata loro conferita dalla matrice Onu, anche i tribunali sui crimini commessi in Jugoslavia nelle guerre che hanno accompagnato il suo disfacimento o nel Ruanda del genocidio contro i tutsi non sfuggono in effetti a riserve che riguardano in ultima analisi la loro imparzialita' e l'universalita' (almeno virtuale) della loro ratio. * Proprio ai primi di dicembre il Tribunale penale internazionale per il Ruanda (Tpir), con sede ad Arusha in Tanzania, ha emanato alcune condanne che fanno discutere. Il Tpir e' stato creato dalle Nazioni Unite ed e' un po' il fratello minore del Tribunale per la Jugoslavia che risiede all'Aja. Fino all'agosto scorso i due tribunali avevano addirittura alla testa un medesimo procuratore, il magistrato svizzero Carla Del Ponte. Le sentenze di cui si parla hanno comminato l'ergastolo a due esponenti del passato regime hutu e una condanna a 27 anni di reclusione (35 secondo alcune fonti) per un terzo. I tre imputati erano accusati, e sono stati ritenuti responsabili, di delitti a mezzo stampa o radio-televisione. Uno di essi, Ferdinand Nahimana, storico e professore, e' uno dei fondatori della Radio-Televisione delle Mille colline (Rtlm), di cui divenne l'ideologo e il direttore di fatto. L'altro ergastolo e' stato pronunciato contro Hassan Ngeze, che, senza avere i precedenti intellettuali di Nahimana, si improvviso' una professione di giornalista lanciando nel 1990 la rivista "Kangura" e pubblicando un libello, intitolato Les Dix Commandements des Hutus, che era un inno alla "caccia ai tutsi". Figura fra i fondatori della Rtlm, di cui durante il genocidio secondo i giudici era il "numero due", anche il terzo condannato, Jean-Bosco Barayagwiza, gia' funzionario internazionale prima di andare a far parte del gruppo piu' esagitato dell'oltranzismo hutu al servizio dell'ala dura del governo del presidente Habyarimana. La sua condanna a una pena detentiva meno grave si giustifica con alcuni errori a suo danno nel corso del giudizio che sono stati ammessi anche dalla corte. Tutto il processo, iniziato nel 2000, ha peccato di lungaggini, confusione e approssimazione, che, sembra, non avrebbero inficiato tuttavia la sostanza delle accuse. L'aspetto innovativo e controverso di questi giudizi, e delle relative sentenze di condanna, deriva dal fatto che i reati contestati non erano di partecipazione diretta ai massacri ma di istigazione alla violenza razziale. I difensori hanno gridato allo scandalo come se le trasmissioni della famigerata Radio delle Mille colline, che preparo' e sostenne gli assassinii di massa, spesso indicando i diversi bersagli alle milizie hutu o ai singoli cittadini in preda a quella furia omicida, possano essere scambiate per "opinioni" da tutelare in nome della liberta' d'espressione. Vero e' che per trovare un precedente del genere bisogna tornare ai tempi del processo di Norimberga contro i capi del nazismo. Piu' fondati appaiono altri interrogativi che hanno a che fare da una parte con le responsabilita' dei sobillatori o complici occulti, meno esposti dei "media dell'odio", e dall'altra con l'ambito della giurisdizione del Tpir, a cui il governo ruandese vuole impedire di investigare o istruire processi sulle vendette perpetrate dal regime tutsi nel dopo-genocidio. Fra l'altro, sarebbero state le pressioni di Paul Kagame, l'"uomo forte" del regime di Kigali, ad aver portato alla sostituzione della Del Ponte con la scusa della sua doppia carica, all'Aja e ad Arusha, con conseguente scarso attivismo del Tribunale per il Ruanda, che con uno staff di 872 persone e un bilancio di 88 milioni di dollari all'anno ha prodotto solo 17 sentenze in nove anni (contro le 30 condanne in 10 anni del Tribunale dell'Aja). Prima delle ultime tre condanne, erano stati giudicati dal Tpir solo personaggi secondari. Le associazioni delle vittime avevano espresso la loro sfiducia invitando i testimoni a non deporre piu' davanti al Tribunale. * Sulle colpe e sui colpevoli da ricercare in Belgio e in altre capitali dell'alta politica c'e' qualcosa di piu' di un sospetto. Il generale Romeo Dallaire e' un militare canadese che comandava la missione distaccata dall'Onu in Ruanda per mantenere la pace. La piccola forza di caschi blu si dimostro' del tutto impotente quando esplose il genocidio. Dallaire ha pubblicato un libro drammatico sulla sua esperienza (J'ai serre' la main du diable) e in un recente servizio sul "Monde" ha ribadito le sue accuse. La sintesi del suo pensiero e' presto fatta: "Questo mondo diretto da Stati Uniti, Francia e Regno Unito, ha facilitato e incoraggiato il genocidio". Le grandi potenze avrebbero sabotato, per motivi differenti, l'operazione dell'Onu, negandole i mezzi e il mandato che avrebbero forse potuto prevenire o quanto meno arrestare la carneficina. Gli ottocentomila tutsi uccisi in cento giorni, per lo piu' a colpi di machete, continuano a turbare la mente di Dallaire. Inchieste anche complesse sulle varie responsabilita' a livello di governi e organismi internazionali sono state condotte dall'Oua e dalla stessa Francia. Malgrado tutto, pero', nessuno fuori del Ruanda e' mai stato chiamato a rispondere, fosse pure politicamente, di quelle cataste di morti. * Dopo Auschwitz si ripete sempre "mai piu'". Ma e' angoscioso e imbarazzante dover constatare che nei fatti quel monito e' inteso dai piu' in modo riduttivo: "mai piu' per i bianchi". Soprattutto quando si tratta di violenze o usurpazioni di diritti a danno di popoli africani, asiatici o arabi, tanto piu' se attuate dalle potenze europee o dagli Stati Uniti, o da Israele (lasciando da parte i "mostri" locali), la vigilanza della cosiddetta "comunita' internazionale" - e, peggio, della coscienza dell'umanita' tutta - e' a dir poco distratta o compiacente. Anche quando non siano in atto strumentalizzazioni politiche. Per il solo "effetto lontananza". Nel caso del Ruanda e' stato varato un tribunale internazionale, ma anch'esso opera a senso unico. Non e' di buon auspicio per gli altri tribunali che dovrebbero o potrebbero pronunciarsi sui fatti della Liberia, della Sierra Leone o del Congo, senza contare appunto l'Iraq, dove pesa in modo particolare il vulnus di un'occupazione che l'arresto di Saddam Hussein non ha certo reso piu' legale. Questi tribunali, limitiamoci al quadro africano, sono una componente essenziale di un sistema di "risoluzione dei conflitti" che ha bisogno di un'estrema cautela, di neutralita'. Si sa invece che l'intervento delle grandi potenze, dal cui benvolere dipendono in modo eccessivo per i finanziamenti, gli esperti o consiglieri, e per la raccolta delle prove, e' sempre orientato a soddisfare interessi di parte, siano essi economici o strategici o piu' semplicemente clientelari in vista di un determinato "ordine". Oggi si fa politica anche e sempre di piu' attraverso l'azione mediatica. E qui torna pertinente l'incriminazione di Nahimana e degli altri estremisti hutu per reati di natura "ideologica". Nessun paragone e' possibile ovviamente fra le Mille colline, in quella determinata emergenza, e la Cnn o Fox News. Ma che dire di quell'insieme di informazione (o disinformazione) e propaganda che concorre a fare "consenso", nei nostri paesi o sul piano mondiale, a sostegno di una politica "democratica" che puo' avere, come ha avuto, effetti letali per le persone, le cose e le istituzioni internazionali o di paesi che sono poco protetti perche' illiberali o poveri o al bando per qualche motivo? E' anche cosi' che si arriva alle auto-assoluzioni e alla presunzione di innocenza. Secondo i risultati di una ricerca effettuata da studiosi dell'Universita' del Maryland, fra un quarto e la mete' della popolazione americana credeva ancora ieri che sono state accertate prove di legami fra l'Iraq di Saddam e Al Qaeda, che dopo l'invasione sono state rinvenute armi di distruzione di massa in Iraq e che l'opinione pubblica internazionale ha avallato la guerra intrapresa da Bush. Fatte tutte le debite proporzioni, ci si puo' chiedere se non siamo davanti a un'altra discrasia a vantaggio dei soliti potenti. * I governi dell'Africa o del mondo islamico, e ancora di piu' i movimenti non-statali che agiscono nell'ombra, usano trincerarsi dietro le frustrazioni o le rivendicazioni delle masse sfavorite. Pretesti fin troppo evidenti per accreditare le loro politiche, spesso repressive e autoritarie. Il paradosso e' che tutte queste discriminazioni nei fatti risparmiano le elites e colpiscono pressoche' solo le popolazioni. Tanto per restare alla fattispecie del Ruanda, il presidente Kagame e' gia' stato a Parigi avviando un principio di riconciliazione con il paese che a suo tempo Kigali accuso' di aver armato l'apparato di potere degli hutu. L'Operazione Turchese orchestrata dalla Francia per "coprire" la propria rete di supporto rimasta in Ruanda e' stata perdonata? Con quali ricompense? Il Ruanda, intanto, a conferma che il suo governo ha ben meritato agli occhi di chi conta, e' stato incluso dai dirigenti americani fra gli stati che possono concorrere alle opere di ricostruzione in Iraq. 6. APPELLI. ASSOCIAZIONE GIURISTE D'ITALIA "GIUDIT": UNA LEGGE INCOSTITUZIONALE [Dal sito de "Il paese delle donne" (www.womenews.net) riprendiamo questo appello dell'Associazione giuriste d'Italia "Giudit"] L'associazione giuriste d'Italia "Giudit" invita giuriste e giuristi a discutere e studiare insieme i possibili percorsi argomentativi sugli aspetti di illegittimita' costituzionale della legge sulla fecondazione assistita. La legge in materia di procreazione medicalmente assistita una legge mostruosa sotto molti profili: 1. perche' e' il frutto delle paure che popolano le fantasie maschili di fronte alla liberta' femminile nella procreazione; 2. perche' propone pratiche sadiche sui corpi e le menti delle donne, che saranno - tra l'altro - costrette a sottoporsi a trattamenti ormonali devastanti e a subire coattivamente l'impianto dei tre embrioni "legittimi"; 3. perche' a questi fini sacrifica la laicita' dello stato di diritto; 4. perche' e' una legge programmaticamente inefficace e destinata inevitabilmente a produrre effetti perversi e discriminatori (turismo riproduttivo, mercato nero dei gameti, ecc.). Per contrastare questa legge una delle strade politico-giuridiche praticabili e' mostrarne i profili di contrasto con i principi sanciti dalla Carta Costituzionale. A tal fine l'associazione "Giudit" invita giuriste e giuristi che hanno gia' riflettuto e operato sui temi dell'autodeterminazione e della liberta' riproduttiva in relazione alle innovazioni tecnologiche, a discutere e studiare insieme i possibili percorsi argomentativi sugli aspetti di illegittimita' costituzionale di questa legge. Secondo noi, infatti, la legge costituisce una inaccettabile aggressione alla liberta' e ai diritti fondamentali di donne e uomini. In particolare la legge viola: a. il rispetto della dignita', principio che include il riconoscimento della liberta' di compiere autonomamente le scelte fondamentali della propria vita personale, tra cui quelle riproduttive; b. il diritto di liberta' personale; c. il diritto alla salute; d. il principio di non discriminazione; e. il principio di liberta' della ricerca scientifica. Cio' detto, riteniamo che altro sia il modo in cui il diritto possa, e debba, intervenire a regolare questa materia. Avvertiamo la necessita' di una discussione aperta e ancora da approfondire sugli aspetti nuovi e problematici connessi allo sviluppo delle biotecnologie. Dunque ci sentiamo impegnate a fare in modo che il dibattito politico e culturale non resti pietrificato innanzi alla ferocia della pretesa giuridica, ma al contrario proceda con maggiore slancio e coinvolga anche chi e' rimasto/a finora silenzioso/a. 7. RIFLESSIONE. IDA DOMINIJANNI: I PARADOSSI DELLA LAICITA' [Dal quotidiano "Il manifesto" del 24 dicembre 2003. Ida Dominijanni (per contatti: idomini at ilmanifesto.it), giornalista e saggista, e' una prestigiosa intellettuale femminista] Sono passati solo pochi giorni dal solenne annuncio della legge sulla laicita' da parte di Chirac, e gia' le cronache raccontano di alcune manifestazioni spontanee contro la legge e a favore dell'uso "libero" del velo. Sono manifestazioni di donne delle banlieues, ma non di sole donne: le accompagnano padri, fratelli, amici. Le organizzazioni islamiche ufficiali non c'entrano e non commentano. Le due ragazze che hanno organizzato il corteo parigino (via Internet, tanto per smentire in partenza i tagli con l'accetta fra arcaicita' islamica e modernita' occidentale) dicono che non hanno nessuno alle spalle e che portare il velo e' una loro scelta. Bisogna crederci? E' difficile rispondere. La scrittrice iraniana Chahdortt Djavan ad esempio, intervistata qualche giorno fa dalla "Stampa", e' sicura di no: "Il fatto di assoggettarsi volontariamente non rende meno infame l'assoggettamento. Se ci sono delle donne che vogliono portare volontariamente questo simbolo di umiliazione, le altre hanno il diritto di contestarlo". Certo che si', le altre hanno il diritto di contestarlo. Pero' le due ragazze alla testa del piccolo corteo parigino col foulard una bianco l'altra nero non sembrano tanto assoggettate. E la simbologia della manifestazione manda messaggi complicati. Che vorra' dire ad esempio quel foulard tricolore bianco, rosso e blu portato da alcune? Un tentativo di sintesi (fatta dal basso, non per legge) fra appartenenza cultural-religiosa all'Islam e cittadinanza francese, parrebbe. E gli slogan? Ecco due buoni esempi di come i valori universali occidentali possano essere facilmente presi in castagna: 'Tolleranza, dove sei?', 'Lasciateci il velo: liberte', egalite'". Tradotto: che fine fa la liberta', se in suo nome si impone un divieto? Che fine fa la tolleranza, se in suo nome non si tollera una religione? Che fine fa l'uguaglianza, se non sopporta le diversita'? * Su "Le Monde", che dopo il pronunciamento di Chirac a favore della legge sulla laicita' ha pubblicato diverse opinioni sul tema, il sociologo Edgar Morin ha messo in guardia dall'uso di "usare un martello pneumatico per rompere un uovo". Alain Touraine invece ha difeso la legge come garanzia della costruzione di uno spazio di neutralita' protetta, nel quale i conflitti identitari non diminuiranno ma potranno essere meglio vissuti e affrontati. La filosofa Elisabeth de Fontenay l'ha difesa senz'altro. Aristide Zolberg, professore di scienze politiche alla New York University, ha detto che la legge rischia di produrre l'effetto perverso di rafforzare le resistenze invece di scioglierle, imponendo un'ardua scelta fra fede religiosa e integrazione nella cittadinanza francese; ha ricordato i terribili conflitti che opposero cattolici e protestanti dal 1840 in poi nel nuovo continente; ha avanzato l'ipotesi che l'adozione di pratiche morbide di tolleranza sia preferibile all'adozione di leggi dure e poco flessibili. Sono tutte opinioni plausibili (io preferisco la prima e l'ultima). Cosa resta ancora da dire? Questo. A me non piace l'ennesimo conflitto fatto in nome e per conto delle donne ma senza prestare grande ascolto a cio' che le donne dicono. Una posizione a favore della laicita' e contro l'oppressione del velo rischia di scontrarsi con il paradosso con cui si e' gia' scontrata ai tempi della guerra in Afghanistan, quando Bush chiamo' il mondo a combattere i talebani per liberare le afghane dal velo e molto femminismo americano ed europeo si trovo' stretto nella morsa fra istanza pacifista e istanza di difesa dei diritti delle afghane. Una posizione di massima tolleranza delle identita' religiose rischia di subordinare il problema dell'oppressione femminile a quello del pluralismo. Sono paradossi interni alla logica occidentale dei diritti universali; quello che risulta chiaro e' che le donne, escluse in partenza da quella logica all'inizio della sua parabola, non vi possono essere incluse oggi senza svelarne i trucchi e le aporie. Invece che legiferare in loro nome, converrebbe ascoltarne la parola e l'esperienza: quando parla di oppressione e quando parla di liberta', e quando trova nuove combinazioni per risignificare simboli scaduti e ideologie provate. 8. RIVISTE: "A. RIVISTA ANARCHICA" Nel numero 295 del dicembre 2003 di "A. Rivista anarchica" come sempre molti i testi di straordinario interesse. "A. Rivista anarchica" e' una delle migliori riviste italiane di cultura e politica, e vivamente raccomandiamo ai nostri interlocutori di leggerla e di sostenerla. Per contatti: c. p. 17120, 20170 Milano; tel. 022896627, fax: 0228001271, e-mail: arivista at tin.it, sito www.arivista.org (un sito eccellente, in cui e' possibile consultare l'archivio della rivista, invero un prezioso strumento di conoscenza e di lavoro). 9. RIVISTE: "KESHET. VITA E CULTURA EBRAICA" Una rivista da leggere dalla prima all'ultima pagina "Keshet. Vita e cultura ebraica", di cui e' uscito il n. 1-2, anno II, settembre-ottobre 2003. Una rivista che apporta contributi fondamentali per una cultura e una prassi di pace; in questo ultimo numero raccomandiamo particolarmente l'editoriale dell'amico e maestro Bruno Segre (che di "Keshet" e' direttore, e che come tutti sanno e' uno straordinario costruttore di pace). Per contatti: via S. Gimignano 10, 20146 Milano, tel. 024150800, fax: 024151178, e-mail: keshet at libero.it 10. RILETTURE. KARL RAHNER: CORSO FONDAMENTALE SULLA FEDE Karl Rahner, Corso fondamentale sulla fede, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (Mi) 1977, quinta edizione 1990, pp. 600, lire 32.000. Una grande opera dell'illustre teologo (1904-1984). 11. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 12. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: luciano.benini at tin.it, angelaebeppe at libero.it, mir at peacelink.it, sudest at iol.it, paolocand at inwind.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Per non ricevere piu' questo notiziario e' sufficiente inviare un messaggio con richiesta di rimozione a: nbawac at tin.it Numero 770 del 30 dicembre 2003
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