La nonviolenza e' in cammino. 739



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 739 del 24 novembre 2003

Sommario di questo numero:
1. Ali Rashid: a sostegno dell'appello di Farid Adly
2. Da Verona a Venezia per un'Europa neutrale e attiva, disarmata e
smilitarizzata, solidale e nonviolenta
3. Nanni Salio: mi abbono ad "Azione nonviolenta" perche'...
4. Aung San Suu Kyi: governi dispotici e patriottismo
5. Fabio Alberti: cessi l'occupazione dell'Iraq
6. Marina Marrazzi e Donatella Pavone intervistano Tamar Pitch
7. Maria Luisa Boccia presenta "La guerra sospesa" di Pietro Ingrao
8. La "Carta" del Movimento Nonviolento
9. Per saperne di piu'

1. INIZIATIVE. ALI RASHID: A SOSTEGNO DELL'APPELLO DI FARID ADLY
[Ringraziamo di cuore Ali Rashid (per contatti: alirashid at tin.it) per questo
intervento che raccoglie e ripropone l'appello di Farid Adly che abbiamo
pubblicato ieri su questo stesso foglio. Al termine della lettera si fa
cenno sia al documento a sostegno della proposta di Ginevra per la pace
israelo-palestinese che abbiamo gia' pubblicato su questo foglio, da ultimo
nel n. 737, sia alla proposta del "Movimento della cultura e della
democrazia in Palestina", che pubblicheremo domani.
Ali Rashid e' il primo segretario della delegazione palestinese in Italia.
Fine intellettuale di profonda cultura, conoscitore minuzioso degli aspetti
storici, politici, economici e culturali della situazione nell'area
mediorientale, esperto di questioni internazionali, ed anche acuto
osservatore della vita italiana. E' figura di grande autorevolezza per
rigore intellettuale e morale, ed e' una delle piu' qualificate voci della
grande tradizione culturale laica palestinese. Suoi scritti appaiono sovente
nel nostro paese sui principali quotidiani democratici e sulle maggiori
riviste di cultura e politica.
Farid Adly (per contatti: farid.adly at tiscalinet.it), autorevole giornalista
e prestigioso militante per i diritti umani, e' direttore di "Anbamed,
notizie dal Mediterraneo"]

Caro Farid Adly,
aderisco convinto al tuo appello, e' importante aprire questo dibattito,
importante farlo qui in prima fase, perche' viviamo in condizione di
liberta', spero anche in condizione di sufficiente lucidita', per una
situazione oggettiva che ci permette di accedere e partecipare in condizione
di liberta' ad informazioni ed eventi, condizioni che altrove non ci sono.
Anni di regimi dittatoriali di caste corrotte come eredita' del colonialismo
e della incompiuta liberazione nazionale hanno prodotta un smarrimento
diffuso che ha vanificato il ruolo della politica come strumento di
liberazione, emancipazione e crescita complessiva.
E' evidente che la democrazia rappresenta una condizione indispensabile per
ritrovare anche l'anima persa di quella parte del mondo, per ritrovare la
forza per uscire fuori da questa tragedia collettiva ed individuale che
infittisce il buio, e dal senso di disperazione che esalto l'atto disperato
e l'impresa individuale, in nome di una "verita' assoluta" frutto
dell'isolamento politico e culturale di vaste regioni del mondo che si
vedono precipitare negli abissi, in un mondo che per certi aspetti
progredisce, o almeno da' questo immagine di se'.
*
Sono d'accordo con te, che e' inutile continuare a piangere il passato ed i
torti effettivamente subiti, e che e' ora di rimboccarsi le maniche, con
tutte le conseguenze, che entrambi per esperienza possiamo prevedere.
Molti aspettano un segnale vero di speranza ed impegno che provenga da
persone determinate e serie contro la disperazione. Disperazione che
annebbia la vista e favorisce gli atti disperati che trasformano anche la
vita stessa in strumento di morte. Una tragedia che non risparmia nessuno e
promette a tutti morte e distruzione e che rischia di fare assomigliare
sempre di piu' aggressori e vittime.
Guerra e terrorismo sono una tragedia che uccide l'umanita' di tutti, una
tragedia che va denunciata e contrastata senza per questo perdere d'occhio
le ragioni e le motivazioni opposte tra vittime ed aggressori, occupati ed
occupanti.
La resistenza, anche quella armata, e' un diritto sancito, ma come viene
esposta da alcuni sembra un lusso e non una costrizione e un immane
sacrificio che un popolo e' costretto a fare in mancanza di altri mezzi. La
resistenza armata, e noi palestinesi la conosciamo bene, non e' una scelta
romantica, bensi' drammatica, che modifica drammaticamente la vita in tutte
le sue articolazione e momenti e trasforma lo stato d'animo delle persone e
il loro modo di stare al mondo.
Andare verso la morte, uccisi ed uccisori, vittime ed assassini, rovescia la
ragione per cui si nasce e si cresce; gli atti quotidiani e le energie spese
non sono piu' un arricchimento del patrimonio umano, ma il contrario; ed
ancora di piu' quando questa scelta viene studiata e pianificata per
uccidere cittadini inermi o sparare nel mucchio: qui non e' persa solo la
speranza nel presente, ma anche la speranza nel futuro, e' la morte della
speranza stessa anche quando puo' sembrare di vincere.
Vincere che cosa se perdi te stesso?
*
La nonviolenza puo' rappresentare la conquista piu' alta che i progressisti
democratici possono fare per motivi etici, perche' nobilita non soltanto i
loro atti politici, ma anche il loro modo di vedere e di pensare il mondo e
l'essere umano nella sua centralita', dentro l'agire politico e le sue
scelte fondamentali per il futuro.
Basta vedere il presente delle situazioni post-coloniali per sapere cosa
hanno comportato e generato le scelte di opporre violenza alla violenza, e
come l'uso della violenza, non soltanto subita, inneschi un meccanismo
violento che inquina e corrompe, e' un tarlo che fa perdere il senso del
limite - come avviene anche nel campo opposto - dal quale non e' possibile
liberarsi se non attraverso altri traumi.
Al centro della nostra azione deve essere l'ottimismo e la speranza  perche'
un futuro ci sara', e Bush ed i suoi simili non potranno fare finire il
mondo come qualcuno teme.
Diversamente da molti intellettuali onesti che hanno fatto i conti con la
degradazione delle esperienze anticoloniali nei loro aspetti piu' deteriori,
Bush, Sharon, insieme a molti altri dell'establishment fatto di funzionari,
generali e governanti, continuano a formarsi studiando quei manuali prodotti
all'epoca della formazione degli Stati nazionali e delle guerre europee,
coloniali e fratricide, e della guerra fredda.
Questa e' una grande frattura che deve essere affrontata, ed in questo non
ci aiuto l'uso che si fa dei mezzi di informazione che ormai accompagnano e
precedono il cannone e diffondono di nuovo la cultura della guerra anche in
ambienti che, per crescita culturale e materiale e per drammatica memoria,
avrebbero dovuto considerare la questione da molto tempo chiusa.
*
Il superamento  dell'atteggiamento che risponde alla violenza con la
violenza nelle lotte anticoloniali, che sembrava inevitabile ed obbligato in
assenza di una capacita' di mobilitazione della comunita' internazionale,
rappresenta la condizione indispensabile perche' una nuova generazione di
politici ed intellettuali  possano traghettare l'umanita' verso l'orizzonte
nuovo che si e' aperto con la piu' grande mobilitazione che il genere umano
abbia mai fatto contro la guerra.
E' un fenomeno nuovo il cui significato sfugge a molti politici troppo presi
dalle loro abitudini e calcoli, ma e' destinato a farsi valere perche'
esprime l'evoluzione dell'umanita' che la politica non e' riuscita ancora a
rappresentare in tempi dove non sono previsti ne' profeti ne' nuove
religioni, ma politiche che valorizzino gli aspetti migliori del grande
patrimonio del genere umano.
Esprimendo a te la mia stima e rispetto, mi permetto di mettere a tua
disposizione un documento che abbiamo elaborato come un gruppo di persone di
diverse provenienza, rivolto non solo ai palestinesi ed agli arabi, ma a
tutti coloro che vedono nella questione palestinese un luogo centrale del
conflitto che agita il mondo, e una grande questione etica del nostro tempo.
Cordiali saluti,
Ali Rashid

2. INCONTRI. DA VERONA A VENEZIA PER UN'EUROPA NEUTRALE E ATTIVA, DISARMATA
E SMILITARIZZATA, SOLIDALE E NONVIOLENTA
La prossima tappa del percorso della proposta di Lidia Menapace e della
"Convenzione permanente di donne contro le guerre" per un'Europa neutrale e
attiva, disarmata e smilitarizzata, solidale e nonviolenta, dopo l'incontro
di Verona dell'8 novembre da cui e' scaturito l'appello che abbiamo
riportato nei giorni scorsi, sara' a Venezia l'8 dicembre: quando verra'
presentata pubblicamente nella solenne cornice del terzo salone
dell'editoria di pace promosso dalla Fondazione Venezia per la ricerca sulla
pace, e diventera' "centro" (ancora un termine capitiniano) per la
riflessione e l'azione dei movimenti per la pace non solo italiani ma di
tutta Europa che all'appuntamento veneziano guardano con attenzione e che
dall'appello di Verona, dalla proposta di Lidia, sono convocati al dialogo e
all'iniziativa comune per affermare la nonviolenza come proposta
giuriscostituente e fondativa per un'Europa che voglia essere soggetto di
pace promotrice di pace con mezzi di pace.
A tutte e tutti appuntamento a Venezia.
Per informazioni e contatti: Giovanni Benzoni (e-mail: gbenzoni at tin.it),
Lidia Menapace (e-mail: llidiamenapace at virgilio.it), Mao Valpiana (e-mail:
azionenonviolenta at sis.it).

3. MEMORIA E PROPOSTA. NANNI SALIO: MI ABBONO AD "AZIONE NONVIOLENTA"
PERCHE'...
["Azione nonviolenta" e' la rivista mensile del Movimento Nonviolento
fondata da Aldo Capitini nel 1964, e costituisce un punto di riferimento per
tutte le persone amiche della nonviolenza. La sede della redazione e' in via
Spagna 8, 37123 Verona, tel. 0458009803, fax: 0458009212, e-mail:
azionenonviolenta at sis.it, sito: www.nonviolenti.org; l'abbonamento annuo e'
di 25 euro da versare sul conto corrente postale n. 10250363, oppure tramite
bonifico bancario o assegno al conto corrente bancario n. 18745455 presso Ba
ncoPosta, succursale 7, agenzia di Piazza Bacanal, Verona, ABI 07601, CAB
11700, intestato ad "Azione nonviolenta", via Spagna 8, 37123 Verona,
specificando nella causale: abbonamento ad "Azione nonviolenta".
Avvicinandosi la fine dell'anno, abbiamo chiesto ad alcuni autorevoli amici
della nonviolenza di motivare l'invito - che ci permettiamo di rivolgere a
tutti i lettori del nostro notiziario - a  rinnovare (o sottoscrivere per la
prima volta) l'abbonamento ad "Azione nonviolenta". Oggi risponde Nanni
Salio (per contatti: regis at arpnet.it). Nanni Salio, torinese, segretario
dell'Ipri (Italian Peace Research Institute), si occupa da diversi anni di
ricerca, educazione e azione per la pace, ed e' tra le voci piu' autorevoli
della nonviolenza in Italia. Opere di Giovanni Salio: Difesa armata o difesa
popolare nonviolenta?, Movimento Nonviolento, Perugia; Scienza e guerra (con
Antonino Drago), Edizioni Gruppo Abele, Torino 1982; Ipri, Se vuoi la pace
educa alla pace, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1983; Le centrali nucleari e
la bomba, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1984; Ipri, I movimenti per la pace,
Edizioni Gruppo Abele, Torino 1986-1989; Progetto di educazione alla pace,
Edizioni Gruppo Abele, Torino 1985-1991; Le guerre del Golfo, Edizioni
Gruppo Abele, Torino 1991; Il potere della nonviolenza, Edizioni Gruppo
Abele, Torino 1995; Elementi di economia nonviolenta, Movimento Nonviolento,
Verona 2001. Per contatti: Centro Studi "Domenico Sereno Regis", via
Garibaldi 13, 10122 Torino, tel. 011532824, fax: 0115158000, e-mail:
regis at arpnet.it, sito: www.arpnet.it/regis]

Non ricordo esattamente quando ho cominciato a leggere, e ad abbonarmi, ad
"Azione nonviolenta", cosi' come non ricordo esattamente quando ho
cominciato a diventare "amico e persuaso della nonviolenza". Ma i primi
approcci risalgono a quand'ero ragazzino, intorno ai quindici anni.
E ricordo i primi numeri di "Azione nonviolenta", curati direttamente da
Aldo Capitini, da Pietro Pinna e alcuni degli scritti di Giuliano Pontara
che per noi, del gruppo torinese del Mai (roboante sigla del "Movimento
antimilitarista internazionale") costituirono i primi strumenti di
formazione.
L'obiezione di coscienza era allora tabu' e le nostre lotte contribuirono a
ottenere il risultato, per quanto parziale, del riconoscimento di essa con
la legge 772 del 1972. Nel contempo, a Torino fu avviata, per qualche anno,
la pubblicazione di un'altra piccola rivista, "Satyagraha" (che solo nel
titolo anticipava quella odierna, ben piu' prestigiosa), che presto
conflui', giustamente anche se in maniera sofferta per alcuni, in "Azione
nonviolenta".
^
Quarant'anni non sono poca cosa: sono il segno della maturita' e della
continuita', indispensabili per far crescere la piantina della nonviolenza
in un mondo piuttosto indifferente, se non proprio ostile.
Scorrendo le annate, si vede con chiarezza quanto andiamo dicendo da tempo:
il cambiamento di paradigma culturale e' fondamentale per invertire la rotta
e fare uscire l'umanita' dal tenebroso labirinto della violenza e della
guerra. Il messaggio della nonviolenza e' "antico come le colline", presente
e sedimentato nel profondo degli uomini e delle donne come un sogno di un
lontano passato felice (prima dell'invenzione della guerra) e la speranza di
un futuro in cui non ci sara' piu' posto per ogni forma di violenza.
Ma oggi, piu' che in passato, avvertiamo l'urgenza di affrettare il passo:
"il tempo stringe" via via di piu'. I movimenti nonviolenti sono sempre
stati alieni dal proselitismo, e in questo ricordano la stile culturale del
buddismo Mahayana. Oggi pero' siamo in presenza di scadenze che sembrano
imporre una maggior tempestivita' e capacita' di agire collettivamente. Per
questo e' necessario che i nostri strumenti di comunicazione, formazione,
sperimentazione, vengano migliorati, perfezionati e irrobustiti.
Proporre, promuovere, potenziare una rivista come "Azione nonviolenta"
diventa quindi un obiettivo fondamentale per costruire un autentico
movimento per la pace e la nonviolenza, capace di uno sguardo piu' ampio,
aperto alle nuove generazioni, in dialogo con ogni aspetto della vita
culturale, fermento e lievito per la trasformazione creativa dei conflitti
in ogni campo, dal micro al macro, dall'intrapersonale alla dimensione
internazionale.
E' un programma affascinante e un obiettivo concreto sul quale far
convergere le migliori energie presenti nel nostro paese.

4. MAESTRE. AUNG SAN SUU KYI: GOVERNI DISPOTICI E PATRIOTTISMO
[Da Aung San Suu Kyi, Libera dalla paura, Sperling & Kupfer, Milano 1996,
1998, p. 177. Aung San Suu Kyi , figlia di Aung San (il leader
indipendentista birmano assassinato a 32 anni), e' la leader nonviolenta del
movimento democratico in Myanmar (Birmania) ed ha subito - e subisce
tuttora - dure persecuzioni da parte della dittatura militare; nel 1991 le
e' stato conferito il premio Nobel per la pace. Opere di Aung San Suu Kyi:
Libera dalla paura, Sperling & Kupfer, 1996, 1998]

I governi dispotici non riconoscono la preziosa componente umana dello
Stato, considerano i cittadini come masse senza volto, incuranti e
impotenti, manipolabili a piacere. Come se la gente fosse un fattore
accidentale rispetto alla nazione e non ne costituisse carne e sangue. Il
patriottismo, che dovrebbe essere amore vitale e sollecitudine per il popolo
del proprio paese, viene da loro squalificato a livello di cortina fumogena
d'isteria, per coprire le ingiustizie di governanti autoritari che
identificano gli interessi dello Stato con le proprie limitate convenienze.

5. RIFLESSIONE. FABIO ALBERTI: CESSI L'OCCUPAZIONE DELL'IRAQ
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 22 novembre 2003. Fabio Alberti e'
impegnato nei movimenti per la pace e di solidarieta', principale animatore
dell'organizzazione non governativa "Un ponte per", attiva con interventi
umanitari in aree colpite da conflitti armati e disastri umanitari. Ci sia
consentita minima una riflessione: cospicui sono i meriti di Fabio Alberti -
che e' anche un caro amico e compagno di lotte da tanti anni - e questo
appello ne e' ennesima conferma; ma nella trama linguistica e concettuale di
questo testo si avverte ancora come un vuoto; e' necessario ormai che anche
nelle parole e negli appelli che proponiamo si passi senza piu' esitazioni
all'uso di un linguaggio esplicito nella direzione giusta: e questo
linguaggio deve dire la parola, e questa direzione tematizzare il concetto,
che ancora per troppe persone pur impegnate nella solidarieta' concreta e
nel movimento per la pace pare essere, irragionevolmente e sintomaticamente
ad un tempo, un tabu': nonviolenza. Sola la scelta della nonviolenza puo'
salvare l'umanita']

Con gli attentati di Istanbul e di Baghdad cominciano ad intravedersi le
conseguenze su scala globale che, dopo l'11 settembre, le guerre
all'Afghanistan e all'Iraq hanno impresso alle vicende politiche
internazionali. E probabilmente siamo solo all'inizio. Si sta entrando in
una spirale che sara' sempre piu' difficile interrompere senza una svolta
politica di grande portata. Non consola dire che lo avevamo previsto. Ne'
basta l'obiezione etica, morale (e di legalita') alla guerra. Oggi il
movimento per la pace e' ancora in piazza, ma aver de facto accettato l'idea
che la guerra era finita quando l'ha dichiarato Bush e non aver indagato a
sufficienza sulle ragioni politiche del conflitto ci ha reso piu' deboli.
L'emozione tremenda ha colpito tutti noi di fronte alla strage di Nassiryia,
la percezione che la guerra sta entrando in casa, ha scosso nel profondo la
societa' italiana e cominciato a costruire consenso a risposte
semplicistiche e autoritarie inscritte in un malinteso senso patriottico. Le
maniere forti andranno per la maggiore e si alimenteranno della spirale che
Nassiryia ha aperto. Gia' il clima di guerra sta determinando conseguenze,
quasi non contrastate, sul terreno dei diritti civili come la espulsione,
apparentemente per soli reati di opinione, di Abdou Kadel Mamour e di altre
sette persone.
Non illudano i risultati del sondaggio pubblicato all'indomani della strage
di Nassiriya da "La Repubblica" secondo i quali c'e' ancora una maggioranza
di opinione pubblica che resta contraria alla guerra e alla presenza
militare italiana in Iraq. A fronte della mancanza di una ipotesi politica
questa maggioranza non sara' piu' tale in breve tempo. Per evitare cio' non
basteranno le manifestazioni, sara' necessario un lavoro "casa per casa",
per contrastare lo scivolamento verso un senso comune sbrigativamente e
consolatoriamente guerrafondaio.
Non aiuta una visione semplicistica. Gli attacchi ai militari in Iraq e gli
attentati non sono la stessa cosa. La' e' ormai operante una resistenza che
ha anche consenso ed un terrorismo che risponde ad altre logiche.
Semplificare non giova: ne' fare di tutt'erba un fascio etichettando tutti
come terroristi e regalando ad Al Qaeda cio' che suo non e', ne' proclamare,
come fa qualcuno, l'appoggio a una "resistenza" che puo' mettere in
difficolta' gli Usa, ma non ricostruire la pace.
E' necessario che la vicenda irachena si chiuda al piu' presto con un
ritorno alla legalita', altrimenti restera' come una ferita infetta in grado
di diffondere il contagio in ogni parte del mondo.
E' vero che a cio' non basta il semplice ritiro delle truppe di occupazione,
ma questo rimane una condizione sine qua non, e prima avviene, meglio e'.
Gli eserciti occidentali sono parte del problema e non la soluzione.
E' vero anche che la pace e' possibile solo se il controllo dell'Iraq
tornera' in mani irachene attraverso un processo che veda la partecipazione
di tutte le parti della societa' irachena. L'annunciato passaggio del potere
da parte Usa, che pure segnala una difficolta' dei neoconservatori al potere
a Washington, puo' essere peggiore del male. Si ipotizza infatti un
passaggio di potere a iracheni "scelti" dagli occupanti che non puo' che
aprire una ulteriore fase di violenza interna.
Inoltre nessuna pacificazione e' ipotizzabile senza che i paesi confinanti
si astengano dall'intervenire negli affari interni iracheni, ma anche questo
non sara' mai possibile permanendo la minaccia della guerra permanente e la
presenza statunitense in Iraq.
E' pericolosissimo che non esista attualmente nessuno sforzo politico per
sostenere un processo di discussione tra le forze irachene sul futuro del
paese. E' pericolosissimo che gli iracheni possano oggi parlare al mondo
solo attraverso ministri senza potere o guerriglieri senza speranza.
E' per questo che si devono ritirare i soldati; non solo per rientrare nella
legalita', per evitare che l'Italia diventi obiettivo di attentati e altre
vittime inutili, ma per cambiare politica. Non per lavarsene le mani e
abbandonare gli iracheni al loro destino, ma per poter giocare un ruolo
diverso insieme ad altri paesi europei. Il movimento per la pace deve
cominciare a indicare in concreto questa strada.

6. RIFLESSIONE. MARINA MARRAZZI E DONATELLA PAVONE INTERVISTANO TAMAR PITCH
[Dal sito www.sgi-italia.org/riviste/bs/ riprendiamo questa intervista a
Tamar Pitch apparsa sulla bella rivista "Buddismo e societa'", n. 98 del
maggio-giugno 2003. Tamar Pitch, prestigiosa intellettuale, antropologa e
sociologa, insegna sociologia del diritto presso la facolta' di
giurisprudenza dell'universita' di Camerino. Fa parte del comitato
scientifico del Progetto citta' sicure della Regione Emilia Romagna ed e'
giudice onorario presso il Tribunale per i minorenni di Roma. Collabora a
numerose riviste italiane e straniere. Tra le sue opere: La devianza, La
Nuova Italia, Firenze 1975; Sociologia alternativa e nuova sinistra negli
Stati Uniti d'America, La Nuova Italia, Firenze 1977; Responsabilita'
limitate, Feltrinelli, Milano 1989; AA. VV., Donne in carcere, Feltrinelli,
Milano 1992; Un diritto per due. La costruzione giuridica di genere, sesso e
sessualita', Il Saggiatore, Milano 1998]

Inventati, come ogni forma di diritto nazionale, per proteggere i deboli dai
soprusi dei forti, i diritti umani internazionali possono essere a loro
volta utilizzati per esercitare potere da parte dell'occidente nei confronti
del sud del mondo. Questa e' la critica rivolta da alcuni pensatori, i quali
ritengono non universalizzabili i diritti umani poiche' modellati su criteri
astratti e percio' non rispettosi delle differenze che contraddistinguono
gli uomini e le donne reali a cui si devono applicare. Eppure, questi
diritti si dovrebbero candidare come il migliore antidoto proprio
all'imperialismo occidentale, che si esplica oggi attraverso l'economia, la
guerra, il mercato.
Dunque che fare? Difendere e rafforzare la diffusione e il rispetto di tali
diritti? Adoperarsi per assicurare la loro applicazione? E attraverso quali
strumenti?
Di questi temi - oltre che di femminismo, democrazia, globalizzazione, nuove
forme di azione politica - abbiamo discusso con Tamar Pitch, sociologa del
diritto, esperta di questioni di politica del diritto nella societa'
occidentale con particolare riguardo alle questioni di genere, nel corso di
un bell'incontro nella sua casa nel centro di Roma.
- Domanda: Come e' arrivata a occuparsi di diritto?
- Risposta: Molto casualmente. Sono laureata in antropologia culturale
all'Universita' di Firenze. All'epoca, il mio professore Tullio Seppilli
riteneva che l'antropologia culturale dovesse studiare non tanto le
cosiddette societa' altre (o primitive) ma che potesse essere adoperata per
studiare questioni che riguardano le societa' complesse, come di fatto e'
stato sempre di piu'. A me venne affidata una tesi di laurea sul concetto di
devianza. E da li' sono partita: il concetto di devianza mi ha portato a
occuparmi della deistituzionalizzazione psichiatrica, che stava cominciando
in Italia, poi della questione criminale e in seguito della problematica del
rapporto tra donne e diritto. Questo tragitto ha molto a che fare con i miei
interessi culturali e politici, ma riflette anche la carriera accademica che
ho fatto, passando da antropologia culturale a sociologia del diritto.
- D.: Si ritiene piu' un'antropologa o una sociologa?
- R.: difficile dirlo, soprattutto per le persone della mia generazione.
Dopo la laurea in lettere ho preso un master in sociologia negli Stati
Uniti: quindi la mia e' una formazione mista, anche se devo dire che dagli
anni dell'universita' l'antropologia culturale non l'ho piu' praticata,
visto che le cose di cui avevo cominciato a occuparmi erano considerate,
soprattutto negli Usa, di pertinenza della sociologia e non
dell'antropologia culturale.
- D.: Forse una formazione da antropologa culturale consente di avere un
occhio particolarmente attento al relativismo, alla differenza, piu' di
quanto non abbia un sociologo che studia le dinamiche esistenti allíinterno
di una data societa'...
- R.: Probabilmente si'. Sebbene adesso anche l'occhio del sociologo o della
sociologa sia allenato a vedere queste cose. Per quanto mi riguarda c'e' da
aggiungere che la mia biografia e' connotata da un certo status di
marginalita', che sempre aiuta in questi casi. A parte il fatto che sono una
donna, naturalmente... Mio padre era straniero, di famiglia ebraica,
vivevamo in una piccola citta' come Siena: uno statuto di marginalita' che
mi ha orientato verso questa disciplina per la tesi e in seguito mi ha
aiutato a vedere che ci sono sempre diversi punti di vista per leggere la
realta'.
- D.: Come si riflette tutto questo sull'idea che i diritti umani non sono
automaticamente universalizzabili, e che la loro applicazione deve essere
condotta in modo critico?
- R.: Premesso che mi sono occupata di politica dei diritti piu' nell'ambito
della nostra societa' che in senso internazionale, devo dire che e' stato
soprattutto il femminismo che mi ha orientato a leggere in modo critico le
questioni relative alla politica del diritto nella societa' occidentale.
Certo, non ho inventato praticamente niente: mi sono limitata a ragionare
sulle critiche che venivano fatte da molta letteratura femminista
anglo-americana alla questione dei diritti, cercando di vedere quanto queste
critiche fossero fondate e quale rapporto ci potesse essere con le critiche
provenienti da altri versanti, sempre interni all'occidente: quello dei
comunitaristi, degli intellettuali e di quei pensatori secondo i quali i
diritti cosi' come sono stati formulati si portano dietro una visione del
mondo di tipo eurocentrico occidentale.
- D.: Puo' spiegare meglio su cosa si basano queste critiche?
- R.: I diritti in generale, non solo i diritti umani, sono stati accusati
di portare con se' una visione del mondo al cui centro c'e' l'individuo - o
l'individua - isolato, neutro, astratto. Con una scarsa attenzione per
alcune differenze significative, quelle che fanno di ciascuno e di ciascuna
di noi cio' che siamo, e per i contesti sociali e culturali diversi dal
nostro, in cui magari cio' che prevale non e' tanto l'idea dell'individuo
quanto quella della famiglia allargata, della comunita', e cosi' via. Ma
sull'idea stessa di "diritti umani universali" le posizioni degli studiosi
sono differenti. Il giurista Luigi Ferraioli, con il quale spesso ho
discusso tali questioni, sostiene che "universalismo dei diritti" vuole
semplicemente dire che i diritti spettano a tutti e a tutte in quanto esseri
umani. L'universalismo a suo parere finisce qui, perche' le persone non
devono esprimere nessun livello particolare di consenso nei confronti della
visione del mondo portata dai diritti. Io invece ritengo che, per essere
efficaci, i diritti debbano venire assunti, compresi, interpretati da chi,
appunto, li vuole fare valere. Da questo punto di vista essi sono portatori
di una visione del mondo, indubbiamente una visione del mondo che ha al suo
centro l'individuo isolato e come struttura portante l'assetto democratico.
Stante una democrazia cosi' come la intendiamo noi, e come l'abbiamo intesa
fino a oggi, e' difficile che possano darsi dei diritti rispettosi delle
differenze. D'altra parte, l'economista premio Nobel Amartya Sen e' molto
critico rispetto all'idea che si tratti di valori occidentali, perche'
esistono tradizioni, per esempio in India, perfettamente coerenti con questo
tipo di valori. Secondo una famosa battuta di Kofi Annan: "Provate a dire a
una madre che si vede ammazzare il figlio col machete che i diritti sono una
cosa occidentale!". Io personalmente ritengo che le critiche piu'
interessanti riguardino il problema di come rendere i diritti efficaci,
perche' non c'e' motivo di ritenere che i diritti, la democrazia ecc. non
possano essere coerenti con culture e societa' non occidentali diverse dalla
nostra, e che non vadano esportate.
- D.: Dunque il problema non sono i diritti occidentali di per se', ma i
modi che si utilizzano per farli conoscere, apprezzare, applicare al di
fuori dell'occidente senza imporli in forma egemonica?
- R.: L'egemonia occidentale, europea o americana, non ha bisogno dei
diritti per affermarsi. Come vediamo, si afferma attraverso l'economia, la
guerra, il mercato, e anche l'informazione, i mass media... Da questo punto
di vista i diritti sono una delle cose migliori che abbiamo inventato. Noi
stessi li abbiamo inventati per proteggerci, come garanzia per i piu' deboli
nei confronti dei piu' forti. E dunque, visto che un'egemonia sociale,
politica ed economica dell'occidente comunque c'e', io penso che i diritti
possano essere addirittura una cura nei confronti del veleno di cui essi
stessi sono portatori: se e' vero che i diritti sono portatori di una
visione del mondo tipicamente occidentale, e' anche vero che sono un
antidoto efficace contro il veleno che noi esportiamo. D'altro canto anche
in occidente non e' da molto che si parla di diritti. In Italia, dal punto
di vista culturale, a prescindere dalla bellissima Costituzione che abbiamo,
di diritti si comincia a parlare verso la fine degli anni '70, perche' ne'
la cultura comunista ne' la cultura cattolica se ne sono mai fatte
portavoce, e di questo si risente ancora.
- D.: Puo' fare alcuni esempi di diritti che funzionano da antidoto al
veleno della nostra occidentale tendenza all'egemonia?
- R.: Tutti i diritti sociali, alla salute, all'istruzione, al lavoro, alla
casa... Poi, per quello che riguarda la politica e la cultura, i diritti
civili, di liberta', i diritti politici - sia attivi che passivi - per
arrivare a quelli che nemmeno noi abbiamo ancora in forma di diritto
positivo, e che vengono chiamati i diritti delle nuove generazioni: diritto
alla privacy, diritto dell'ambiente ecc. Sono tutti possibili strumenti di
lotta nei confronti di un processo di globalizzazione guidato dal pensiero e
dalla politica neoliberista, che evidentemente di queste cose non tiene
conto.
- D.: E per i diritti che riguardano soprattutto le donne?
- R.: A partire dagli anni '70, sia sul versante Onu sia sul versante delle
ong (organizzazioni non governative) ci sono state conferenze,
dichiarazioni, trattati, impegni, convenzioni che hanno introdotto la
questione dei diritti umani riferiti alle donne. Molte donne e molte
femministe del sud del mondo hanno introdotto come diritti fondamentali,
come diritti umani, questioni che riguardano espressamente il genere
femminile: la violenza nei confronti delle donne, lo stupro, lo stupro
etnico, la questione del matrimonio precoce, le mutilazioni sessuali, ma
anche questioni di tipo economico, come il trasferimento della proprieta', o
l'accesso a servizi come l'educazione, la sanita'... Si tratta di questioni
che interessano tutte le donne, naturalmente, ma che hanno particolare peso
soprattutto per molte donne nel sud del mondo, visti i problemi economici,
sociali e politici che si trovano ad affrontare. Di fatto, oggi, tali
questioni vengono dibattute come diritti umani, e quindi le loro violazioni
sono considerate violazioni di diritti umani. E questa e' una novita'
importante: fino a tutti gli anni '70 (cosi' almeno le femministe dicono)
venivano privilegiate le violazioni che avvengono nella sfera pubblica,
mentre la sfera privata non era presa in considerazione. Ma cio' significava
non fornire alcuno strumento di tutela - neppure in teoria - nei confronti
del genere femminile, visto che la maggior parte delle offese e delle
violazioni subite dalle donne avviene nella sfera privata e non da parte di
autorita' pubbliche ma di parenti, mariti, padri e cosi' via. Nella realta'
questa resta comunque e ancora una questione molto complicata perche' sul
piano delle politiche vere e proprie ci si scontra sempre con un tessuto
sociale e culturale molto resistente a considerare queste cose come
violazioni o crimini nei confronti delle donne.
- D.: In uno dei suoi ultimi libri la filosofa Martha Nussbaum,
sottolineando l'importanza di considerare l'individuo-individua in una
relazione e non come un'entita' separata, parlava di "capacita'" invece che
di diritti, tenendo presenti le posizioni relazionali delle persone, la loro
vita affettiva, la loro capacita' creativa, tutte cose che nella
codificazione dei diritti di solito non vengono tenute presenti...
- R.: Soprattutto quando si comincia a parlare di diritti umani delle donne,
e' evidente che il discorso si localizza e si concretizza non in un
individuo astratto ma in un'individua concreta con un corpo, delle
relazioni. Secondo l'idea di Martha Nussbaum e di Amartya Sen - che hanno
lavorato insieme per anni - il paradigma delle "capacita' fondamentali"
sembra piu' adatto perche' le capacita' fondamentali sono tipiche,
singolari, sono diverse per ciascuno e ciascuna di noi: non si parla piu' di
diritti di un individuo concepito come astratto ma di diritto allo sviluppo
delle proprie capacita' fondamentali, che sono diverse da individuo a
individuo. A quel punto il problema diventa quello della pratica politica e
non piu' tanto della codificazione... l'agire di singoli uomini e singole
donne, al di la' dei valori codificati.
- D.: Anche restando ai diritti codificati cosi' come sono, come si fa ad
arrivare dai palazzi di vetro, dove si dibatte della loro attuazione, alle
persone che dovrebbero usufruirne, che dovrebbero conoscerli e sapere come
farli applicare? E' una strada che appare lunga e piena di zone d'ombra...
- R.: Certamente i diritti che sono stati dichiarati dal punto di vista
internazionale mancano di agenzie, di istituzioni che possano farli
rispettare. Questa e' una cosa che piu' in generale ha a che fare con la
mancanza di una politica a livello globale. Se c'e' poca politica sul piano
nazionale, non ce n'e' nessuna sul piano globale. E questo lo vediamo
chiaro: quando c'e' la guerra non c'e' politica. D'altra parte, la politica
che c'e' e' quella che viene portata avanti dalla cosiddetta "societa'
civile": l'opinione pubblica che si muove sotto varie forme, organizzata o
poco organizzata, attraverso il movimento, le associazioni, ecc. Qui si' che
c'e' molta politica, anche se ancora non c'e' un rapporto tra questa
politica e i centri di comando effettivi della societa' globale.
- D.: Il movimento dei movimenti, che in Italia ha preso le mosse dai
girotondi e ha senz'altro ereditato molto della politica delle donne, e' un
movimento aperto ed e' difficile rinchiuderlo in una rappresentativita', in
un programma. Probabilmente la sua forza in questo momento storico e'
proprio questa...
- R.: Vorrei chiarire che anche se da noi ci sono stati i girotondi, il
movimento dei movimenti viene da Porto Alegre, dal Social Forum. Certamente
ha ripreso molte delle modalita' del movimento delle donne, senza pero'
riconoscerlo. Quello che sento dire - io non ho frequentato i luoghi del
movimento - e' che li' dentro c'e' un fortissimo maschilismo, e che non si
da' nessun riconoscimento alle donne e alla politica del femminismo. Detto
questo, anch'io non vedo come ci si possano dare programmi, fare elezioni o
altro. D'altra parte qualche cosa dovra' pure essere inventata. Io diffido
della democrazia assembleare perche' non mi pare particolarmente
democratica, si parla di democrazia partecipata. Se ne e' parlato spesso, se
ne parlava anche negli anni '60, non e' una cosa nuova. Probabilmente sul
piano locale si puo' anche tentare una cosa del genere...
- D.: Come si puo' definire una democrazia partecipata?
- R.: Faccio l'esempio di quello che fanno a Porto Alegre e che adesso e'
stato esportato in giro per l'Europa. Ci sono molte citta' o circoscrizioni
che cercano di fare questo: si concorda il bilancio locale con i cittadini
che sono interessati, che magari si riuniscono in comitati, in associazioni,
movimenti, ecc. Questa e' un'istanza di democrazia partecipata, di
democrazia dal basso. D'altra parte mi posso immaginare che chi poi si
incarica di stilare il bilancio vero e proprio siano persone che sono state
elette. Ma non si puo' dire come possa configurarsi in futuro... Certamente
noi siamo da un lato in presenza di una crisi della democrazia
rappresentativa, dall'altro di un vuoto di altre possibilita'.
- D.: Lei e' una delle fondatrici di Balena, un sito nato in occasione della
guerra in Kosovo...
- R.: Il nome Balena venne fuori in contrapposizione alla "missione
Arcobaleno", quella dei ministri piangenti che andavano a portare aiuti
umanitari in Kosovo. Come adesso in Iraq: prima distruggiamo, poi... Quello
che succedeva allora era ancora piu' paradossale: noi bombardavamo e si
diceva che portavamo aiuti umanitari. Lasciavamo affogare i profughi che
cercavano di scappare sulle nostre rive, e nel frattempo la missione
umanitaria Arcobaleno occupava le prime pagine dei giornali e tutto lo
spazio mediatico dedicato alla guerra. La nostra iniziativa nacque in modo
totalmente casuale e spontaneo: a qualcuna e' venuto in mente, mi sembra a
Bianca Pomeranzi, che non era piu' possibile stare da sole a vedere la
guerra in televisione... cosi' attraverso un giro di telefonate abbiamo
cominciato a vederci e a riunirci, poi alcune persone se ne sono andate,
altre se ne sono aggiunte: adesso siamo undici donne e continuiamo a vederci
da allora cercando di riflettere e di discutere, tanto per cominciare sulla
questione della guerra e delle guerre. Abbiamo cercato di ragionare anche
sullo slittamento linguistico, sull'uso e abuso di una retorica
femminil-femminista: con gli aiuti umanitari per giustificare la guerra in
Kosovo, con la faccenda del burqa in Afghanistan.
- D.: Avete reso visibile la strumentalizzazione dei diritti delle donne per
andare a fare la guerra...
- R.: Ci si e' spacciati per loro protettori, per chi difende le donne da
quegli incivili che stuprano (Kosovo) o mettono il burqa, senza ascoltare la
loro voce. Mentre sia in Kosovo, sia in Afghanistan, sia forse in Iraq, ci
sono organizzazioni, associazioni, movimenti di donne, che pero' sono stati
totalmente ignorati. Le donne sono state trattate non come soggetti ma come
povere vittime a cui portare aiuto e protezione. Che poi e' un discorso
classico e tradizionale: a fare del male, a stuprare soprattutto, sono
sempre gli altri, sono sempre gli stranieri, sono sempre quelli che non sono
come noi.

7. LIBRI. MARIA LUISA BOCCIA PRESENTA "LA GUERRA SOSPESA" DI PIETRO INGRAO
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 22 novembre 2003.
Maria Luisa Boccia e' docente di storia della filosofia politica
all'Universita' di Siena, vicepresidente del Centro studi per la riforma
dello Stato, ed una delle piu' infuenti intellettuali italiane. Tra le opere
di Maria Luisa Boccia: L'io in rivolta. Vissuto e pensiero di Carla Lonzi,
1990; (a cura di), La legge e il corpo, 1997; (con Grazia Zuffa), L'eclissi
della madre, Pratiche, Milano 1998; La differenza politica, Il Saggiatore,
Milano 2002.
Pietro Ingrao e' nato nel 1915 a Lenola (Lt), laureato in giurisprudenza e
lettere, partecipa alla lotta clandestina antifascista e alla Resistenza.
Giornalista, direttore de "L'Unita'" dal 1947 al 1957, dal 1948 deputato del
Pci al Parlamento per varie legislature e tra il 1976 e il 1979 presidente
della Camera dei Deputati. Sono di grande rilievo le sue riflessioni sui
movimenti, le istituzioni, la storia contemporanea e le tendenze globali
attuali. Tra le opere di Pietro Ingrao: Masse e potere, Editori Riuniti,
Roma 1977; Tradizione e progetto, De Donato, Bari 1982; Le cose impossibili,
Editori Riuniti, Roma 1990; Interventi sul campo, Cuen, Napoli 1990; (con
Rossana Rossanda ed altri), Appuntamenti di fine secolo, Manifestolibri,
Roma 1995; (con Alessandro Zanotelli), Non ci sto!, Piero Manni, Lecce 2003.
Una sola osservazione ci sia consentito qui fare: manca nella riflessione,
peraltro cosi' ricca e preziosa, di Ingrao, e manca nel lessico di questo
articolo di Maria Luisa Boccia, che pure coglie e dice l'essenziale ma non
trova ancora la parola esatta, manca - diciamo - la piena intellezione, la
chiara proposizione, la scelta fin lessicale che occorre ed e' urgente, e
che si compendia in questa idea ed in questa parola: nonviolenza. Se non si
coglie, non si elabora, non si enuncia, non si fa la scelta della
nonviolenza, la lotta contro la guerra e il terrore e le ingiustizie
strutturali resta una lotta infine inadeguata e inane. Solo la nonviolenza
puo' salvare l'umanita': da maestri grandi come Pietro Ingrao e Maria Luisa
Boccia chiediamo uno studio piu' profondo e un'enunciazione piu' nitida in
tal senso: la nonviolenza non e' piu' - come in lontane riflessioni della
sinistra politica piu' avvertita che noi militanti italiani d'antan
ricordiamo bene - "un'aggiunta al socialismo", la nonviolenza e' la
condizione e la via per una possibile prospettiva non solo socialista, o
libertaria, o liberalsocialista, ma semplicemente di civilta', di umanita'.
La scelta della nonviolenza, giunti a questo "crinale apocalittico"
(Balducci), e' la discriminante e la chiave, "il varco attuale  della
storia" (Capitini): poiche' hic et nunc solo la nonviolenza puo' salvare
l'umanita' (p. s.)]

"Solo se penso che io posso influire sulle vicende del potere sia pure per
un grammo e se unito ad altri, posso influire assai piu' di un grammo.
Politica per me e' questo: io e altri insieme; soggetti politici e
collettivi, non precostituiti da una qualche provvidenza, ma cresciuti nel
conflitto storicamente determinato in atto nella societa'. Fuori di cio' non
saprei fare politica. Dico di piu': francamente non vedo perche' dovrei
interessarmi di politica". Pietro Ingrao conclude cosi' nell'81 la sua
riflessione Contro la riduzione della politica a guerra, ora riproposta al
centro del volume La guerra sospesa. I nuovi connubi tra politica e armi.
Questa visione della politica segna uno spartiacque temporale nella lettura
del presente, e dell'"evento che fa tappa": la guerra preventiva, con la
quale il ritorno alla normalita' della guerra compie un ulteriore salto di
qualita'. "Torna sul trono la scienza dell'uccidere" e si riaprono "domande
aspre sul senso e sulle forme che assume la politica nello schiudersi del
terzo millennio".
Ingrao giudica troppo gracile la risposta messa in campo dall'incontro tra
movimenti "nuovissimi", associazionismo, sindacati, partiti. E' mancata la
capacita', perfino la ricerca, di incidere sulla trama dei poteri. Senza
questo nesso l'agire politico collettivo muta di segno: noi, non dimentichi
delle citta' ricolme "di quei corpi che stringevano alla gola" e, pero',
"cosi' lontani dal potere". Come, perche', quando, si e' profilata la
frattura per cui quell'"io e altri insieme" non e' piu' la via maestra nella
lotta contro la riduzione della politica a guerra? Ingrao coglie di questa
discontinuita' una doppia faccia: la sconfitta del movimento operaio, con il
declino di una tradizione politica, delle sue forme organizzate, delle sue
culture, delle sue esperienze; la possibilita', o necessita', che dal vivo
della piaga che brucia - la guerra - e dalle urgenti domande sulla politica
si aprano altri sentieri: "che io non riesco a vedere", avendo in testa,
scrive, "inchiodata, la forma partito. E torno ad essa...".
Per orientarsi in questa ambivalenza e' essenziale comprendere le mutazioni
e i tempi che hanno determinato il contesto entro il quale si colloca il
ritorno della guerra. Questo libro di Ingrao ci aiuta a farlo, a partire da
quel centro e spartiacque, fornito dal testo dell'81. In un senso piu'
circoscritto lo si puo' assumere come scansione in due parti del libro: la
prima costituita da tre saggi, tutti degli anni '80, la seconda da una
selezione degli scritti sulle guerre del dopo '89.
*
Tutti i testi degli anni '80 ragionano attorno a senso, storia e pratica
della politica, non riducibile al dominio della forza e al suo esercizio, e
dunque, alla guerra, non solo sempre presente come possibile esito ma, come
sostiene Carl Schmitt, quale radice prima delle categorie del Politico.
Letti insieme permettono di ricostruire una linea di ricerca che attraversa
tutto il decennio, in esplicita controtendenza rispetto al dibattito
culturale e politico prevalente a sinistra, e di coglierne, con evidenza, le
caratteristiche piu' rilevanti per l'oggi.
Innanzitutto l'anticipazione di questioni entrate solo di recente
nell'agenda politica, nelle bibliografie aggiornate, per non dire della
retorica imperante nella sfera pubblica mediatica. Dai mutamenti strutturali
che segnano l'era della globalizzazione; alle inedite forme dei
saperi/poteri, contraddistinti da concentrazioni, senza precedenti, di
conoscenze e tecnologie, e da un'incisivita' radicale sulle esistenze; al
mutato intreccio tra i sistemi di regolazione e decisione degli
Stati-nazione e la dislocazione di poteri che li scavalcano e spiazzano,
mettendone in questione "le capacita' sovrane", mutando lo spazio e le
funzioni del "governo politico", senza che questo significhi una scomparsa;
all'emergere di istanze di liberta', non soddisfacibili in termini di
garanzia dei diritti, e pero' connesse a un'esasperata enfasi
individualistica, esposte a derive di frantumazione, a chiusure identitarie
e particolaristiche; all'urgenza, e alle difficolta', di costruire un'Europa
dotata di poteri politici democratici e di uno spazio sociale, senza i quali
non c'e' modo ne' di contrastare l'egemonia imperiale degli Usa e le
oligarchie del globale, ne' di evitare il risorgere di nazionalismi rissosi.
Ma su tutto pesa l'interrogativo su chi decide della guerra, come puo' darsi
cittadinanza politica, senza neppure conoscere la portata di queste scelte,
la potenza dei mezzi, i legami con i sistemi produttivi e della ricerca
scientifica. Da qui lo scetticismo sulla riduzione drastica di questi
processi a problemi di governabilita'. E da qui la diagnosi sulla politica,
sui rischi di un suo avvitarsi crescente nel circolo vizioso tra
concentrazione di poteri e frantumazione corporativa.
*
Se il quadro delineato e' quello di una "crisi reale" della politica pensata
e praticata nel ciclo del compromesso socialdemocratico, la refrattarieta'
profonda di Ingrao ad ogni semplificazione lo porta a scartare una lettura
catastrofica. Senza nascondersi che nella crisi e' inscritta
un'insufficienza e, di piu', una sconfitta della propria parte politica,
anzi misurandosi con essa, ne trae un'indicazione di fondo, quella di
operare senza remore una revisione, ma giocando una carta precisa, quella
della "creativita' collettiva", perche' e' "impensabile ripartire con un
silenzio dal basso". Se e' in questione il senso della democrazia
rappresentativa; se, cosi' com'e', essa consente al piu' di amministrare,
patendo di una dipendenza crescente da altri poteri; se la crisi di
rappresentanza investe non solo la funzione aggregante, organizzativa dei
partiti e dei sindacati, ma la loro capacita' simbolica, la crisi genera
anche spinte alla ricerca di forme politiche, che si richiamano al "vissuto
personale" e ripropongono l'esigenza di un protagonismo allargato, oltre le
forme gia' costituite. Tutto questo produce tumulto, ma fuori di esso non
c'e' sbocco.
Ingrao scommette, negli anni '80, sulla possibilita' di una revisione
orientata non solo dai processi, ma dalle rotture praticate da un arco di
soggetti e di culture che autonomamente hanno agito la crisi della
rappresentanza e dei partiti. Il Crs (Centro per la riforma dello stato) che
allora dirige ne e' stato un laboratorio, ovviamente non senza limiti e
contraddizioni. Ma, come e' noto, l'innovazione ha preso alla fine di quel
cruciale decennio un'altra strada. Quella del nuovismo ideologico che, lungi
da impegnarsi nella difficile revisione, ha avuto come premessa e suggello
la fine del Pci e con essa il sequestro della tradizione, l'inibizione a
comprendere le ragioni stesse della sconfitta, della quale l'89 e' piu' il
simbolo che l'evento inaugurale di un suo superamento.
Ancora oggi il modo in cui si controlla, si plasma, si agisce
sull'organizzazione della vita, le relazioni sociali, l'essere umano,
disegna una trama articolata, resiste a ogni semplificazione della politica,
ma il divario tra i luoghi del potere e il protagonismo politico, diffuso e
differenziato, si e' allargato. Al punto da apparire proprio sulle decisioni
cruciali incolmabile. Il ritorno della guerra, come dottrina piu' ancora che
come effettiva sua messa in atto, esercita il suo imperio a tutti i livelli.
*
"La guerra bisogna sempre guardarla in faccia", afferma Ingrao nelle pagine
che chiudono il libro, sulla guerra in Iraq. Farlo vuol dire "rispondere
alla sua violenza: combattere e sostenere l'aggredito che lotta con le armi
in pugno". In uno scenario mutato, dove l'opposizione alla guerra e alla
dottrina preventiva, non sembra in grado di influire sui poteri, la legge
della forza stringe nella sua morsa anche il pensiero.
La domanda che pongo a Ingrao, e a tutti e tutte noi che non sappiamo fare e
non siamo interessati a una politica della forza (riprendo le sue parole) e'
la seguente: se resistere voglia dire combattere frontalmente chi la
esercita e la teorizza o se questo non favorisca, viceversa, il perpetuarsi
del suo imperio. Resistere non richiede, piuttosto, di tenere vivo e
operante, nelle menti e nei cuori, nelle azioni e nei discorsi, un altro
ordine di senso ed esperienza? Il "che fare" non dovrebbe rispondere
all'esigenza primaria di spezzare la ripetizione della legge della forza?
Esigenza che ritrovo espressa proprio in quelle pagine che ho indicato come
fulcro del pensiero di Ingrao sul nodo cruciale del rapporto tra guerra e
politica. Dopo aver richiamato il fatto che ogni cambiamento di regime
politico, ogni lotta contro il dominio si e' compiuta con uno scontro
armato, Ingrao si chiede se dobbiamo dedurne che vi sia un rapporto di
necessita', o se non dobbiamo invece interrogarci su quanto e come questo
abbia inciso sui fini, sui soggetti, sugli sbocchi di quelle lotte. Per il
movimento operaio parla esplicitamente di catastrofi, effetto della visione
dicotomica amico/nemico e della tendenziale militarizzazione del conflitto.
E insiste sul passaggio - nel secondo dopoguerra del secolo scorso - a una
politicita' del conflitto che include mediazioni e negoziati, complica i
soggetti e le pratiche, combina contrapposizione con reciproche influenze e
contaminazioni. La politica, insomma, rivela uno spessore che lo schema
della lotta amico/nemico non comprende, anzi oscura.
Politica di pace, dunque, non e' da intendersi come il contrario della
guerra, o meglio l'instaurarsi di un ordine, depurato dal conflitto. E'
"costruzione di forme, scelta di terreni e di strumenti". Questa politica ha
bisogno di fantasia, dice Ingrao, proprio per incidere piu' a fondo nella
dinamica dei processi e dei soggetti in campo. Se il punto a cui e'
pervenuta la scienza dell'uccidere e la dottrina della guerra mettono paura
come non mai, "bisogna cercare ostinatamente altri modi di regolazione dei
conflitti e delle disuguaglianze feroci" che il capitalismo reca con se'.
Sono parole del 2001.
Se questa ricerca oggi si rivela piu' difficile, le ragioni per puntare su
questa strada non sono venute meno. Anzi dovrebbe essere piu' viva la
consapevolezza che le "catastrofi" del combattere la guerra, subendone la
logica, potranno essere peggiori di quelle che abbiamo conosciuto. E' la
cronaca quotidiana a ricordarcelo. E dunque il "che fare" non puo' che
ripartire da una ritessitura paziente dei fili spezzati dell'agire "io e
altri insieme". Se nello scenario mondiale non ne individuiamo con nettezza
ne' i soggetti, ne' le forme, il tumulto non e' sedato, e la scommessa e'
ancora quella di ripartire da qui.

8. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

9. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: luciano.benini at tin.it,
angelaebeppe at libero.it, mir at peacelink.it, sudest at iol.it, paolocand at inwind.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Per non ricevere piu' questo notiziario e' sufficiente inviare un messaggio
con richiesta di rimozione a: nbawac at tin.it

Numero 739 del 24 novembre 2003