La nonviolenza e' in cammino. 738



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 738 del 23 novembre 2003

Sommario di questo numero:
1. Movimenti, istituzioni, nonviolenza
2. Farid Adly: un appello agli intellettuali arabi e musulmani
3. Maria G. Di Rienzo: sviluppare un piano per la comunicazione
4. Luciano Benini: contro il terrorismo, contro la guerra
5. Marco D'Eramo intervista Michael Walzer
6. Rossana Rossanda: la distinzione e il legame
7. Tamar Pitch: la tensione
8. L'indice dell'Annuario della pace 2003
9. Riletture: Carla Corso, Ada Trifiro', ... E siamo partite!
10. Riletture: Marcella Delle Donne, Convivenza civile e xenofobia
11. Riletture: Sara Morace, Le donne e la globalizzazione
12. Riletture: Annamaria Rivera, Estranei e nemici
13. La "Carta" del Movimento Nonviolento
14. Per saperne di piu'

1. EDITORIALE. MOVIMENTI, ISTITUZIONI, NONVIOLENZA
A noi sembra che i movimenti di lotta per la liberazione e la solidarieta',
i movimenti di resistenza alle ingiustizie e alle menzogne, i movimenti per
la legalita' e la democrazia, i movimenti per la pace, l'ambiente e i
diritti umani, si trovino a un bivio: o fanno la scelta teorica e pratica
della nonviolenza, o resteranno subalterni, o complici, o corrotti, o peggio
ancora riproduttori di violenza e menzogna.
Ma si trovano a un bivio anche le istituzioni, le istituzioni statali come
quelle internazionali come quelle locali; ma anche le istituzioni culturali
e religiose, di mutuo soccorso e di socializzazione, del territorio e delle
affinita', le istituzioni che dovrebbero favorire l'incontro, il
riconoscimento, la convivenza: o fanno la scelta teorica e pratica,
giuridica e amministrativa, ermeneutica e metodologica, organizzativa ed
operativa, della nonviolenza, o rischiano la dissoluzione sotto la spinta
dell'individualismo di massa, dell'anomia organizzata, dell'eversione
dall'alto, dell'appropriazione trangugiatrice ed annichilista, delle guerre
e del terrorismo che tutto stanno divorando degli istituti civili che
riescono a contagiare.
*
La nonviolenza e' gia' sentimento ed esigenza comuni a grandissima parte
dell'umanita', umanita' che vede crescere una smisurata violenza che
vieppiu' tutti opprime e minaccia finanche la distruzione dell'intera
civilta' umana; umanita' che si rende conto che da violenza sgorga nuova
violenza, da guerra guerra ulteriore, da terrore ancora e ancora terrore, in
una spirale che tutto annienta. Umanita' che avverte un disperato bisogno di
nonviolenza attiva in ogni genere e livello di relazioni.
E quindi la nonviolenza deve divenire coscienza e motore, percorso e
proposta, non solo di un'etica personale ma anche dei movimenti di impegno
civile e sociale. Quei movimenti che non fanno questa scelta si condannano,
quand'anche vincessero, a un cupo degenerare in nuove strutture oppressive:
e' la tragedia e la lezione di tante esperienze rivoluzionarie del
Novecento. Ma nel Novecento vi sono stati anche grandissimi movimenti di
lotta che hanno fatto la scelta - almeno prevalente - della nonviolenza: il
movimento delle donne piu' di ogni altro nitido e luminoso, il movimento
operaio, il movimento antirazzista, la Resistenza antifascista che in
grandissima parte e' stata pura nonviolenza in atto, e cosi' la lotta contro
i totalitarismi in varie aree del mondo.
*
Ma la nonviolenza e' gia' anche esigenza posta e obiettivo implicito - ma
cogente, seppur non ancora del tutto a tutti visibile - delle carte
costituzionali, dei codici giuridici e dei trattati internazionali nei loro
punti piu' alti di affermazione della dignita' umana e di promozione della
civile convivenza. La nonviolenza e' gia' anche principio giuriscostituente
e criterio istitutivo di quello spazio politico che e' il proprium degli
esseri umani come Hannah Arendt ha dimostrato con insuperata profondita' e
finezza.
E quindi la nonviolenza deve divenire anche codificazione giuridica, base
legislativa, cardine istituzionale, proposta amministrativa, precipuo
elemento informatore dell'organizzazione della cosa pubblica e delle
relazioni sociali e politiche, dei rapporti economici, dei negozi giuridici,
degli ordinamenti oltre che dei costumi.
*
Non c'e' tempo da perdere.
E dunque e' compito delle persone amiche della nonviolenza, di questa
convocazione ed esigenza comprese e portatrici, gia' persuase (per adottare
quel forte e cosi' profondamente caratterizzato termine capitiniano), uscire
dalla subalternita', ed assumere consapevolezza del valore di cui devono
essere concreta espressione e nitida proposizione qui e adesso: devono
proporre la nonviolenza in tutta la sua forza e ricchezza, senza timidezze e
senza reticenze; devono proporre la nonviolenza come teoria-prassi che deve
informare, illimpidire, inverare diritto e dignita', deve essere coscienza
comune dei movimenti, pratica della critica della ragion pratica,
progetto-processo politico e sociale, principio giuriscostituente.
Per un'umanita' di uomini e donne liberi ed eguali che sconfigga terrorismo
e guerre, e salvi l'umanita' intera, l'umanita' di tutti.

2. APPELLI. FARID ADLY: UN APPELLO AGLI INTELLETTUALI ARABI E MUSULMANI
[Ringraziamo Farid Adly (per contatti: farid.adly at tiscalinet.it) per questo
intervento diffuso in occasione della giornata del dialogo
cristiano-islamico; un appello - come scrive l'autore- "per l'assunzione di
responsabilita' da parte di noi intellettuali arabi in Italia e in Europa.
Costruiamo ponti, non muri". Farid Adly, autorevole giornalista e
prestigioso militante per i diritti umani, e' direttore di "Anbamed, notizie
dal Mediterraneo"]

Ora basta.
Ogni nostro ulteriore silenzio e' complice.
Noi intellettuali arabi e musulmani, presenti in Italia ed in Europa, non
possiamo piu' esimerci dal prendere una posizione chiara ed esplicita di
rifiuto del terrorismo.
Non ci sentiamo affatto messi sul banco degli accusati, ma non possiamo lo
stesso sottrarci al nostro ruolo.
Dopo gli attentati che hanno falcidiato vite umane, di persone innocenti,
non possiamo continuare a tergiversare sulle colpe del colonialismo
occidentale e sulla potenza dell'impero americano.
Leggiamo su molta stampa araba analisi su un diabolico complotto ordito
contro l'islam e dibattiti sull'appassionato e nello stesso tempo futile
tema: a chi giova? Questo e' un lusso che si possono permettere soltanto
coloro che hanno tempo da perdere. Il cancro del terrorismo colpisce prima
di tutto le nostre societa' d'origine, avviluppandole in un futuro
oscurantista.
Urge invece una chiarezza nel nostro campo. Ora.
Non e' una resa a forze esterne, ma una difesa del bene piu' prezioso che
possediamo: la vita ed il futuro di uomini e donne. Di ogni luogo, credo,
religione e nazione.
Agli appelli ed alle azioni di chi chiama alla guerra tra civilta', dobbiamo
contrapporre la fede nel dialogo e nella costruzione di ponti.
Continuare a lamentarsi soltanto delle colpe, passate e presenti,
dell'occidente alimenta il senso di frustrazione che gli arabi vivono
ancora, a quasi mezzo secolo dall'indipendenza politica. Se abbiamo da
recriminare, lo dobbiamo fare nei confronti delle nostre classi dirigenti
che hanno fallito il loro compito e hanno fatto prevalere interessi
personali e di casta rispetto a quelli generali e pubblici.
Soltanto un riscatto basato sulla razionalita' e sull'affermazione della
tolleranza, potra' condurre i popoli arabi e musulmani fuori dal pantano del
terrorismo e dall'arretratezza.
Non possiamo ripetere l'errore compiuto nei confronti del popolo algerino,
lasciato solo tra l'incudine del terrorismo ed il martello del potere dei
militari corrotti.
Ciascuno, nel suo ambito, deve agire coerentemente con i valori che esprime.
Ridurci a osservatori silenti del collasso, a vista d'occhio, di ogni valore
della nostra civilta', e' una resa a chi vuole strumentalizzare l'Islam e la
tradizione araba, rinnegando il richiamo alla pace ed alla fraternita'
lanciati quattordici secoli fa dal profeta Mohammed.
Non lasciamo in mano a dei pazzi sanguinari l'eredita' di quattordici secoli
di civilta' arabo-islamica.
Diamo un esempio di opposizione chiara e coraggiosa, per non lasciare una
moltitudine di giovani in preda al sopprimente pensiero della pura e stupida
violenza.

3. FORMAZIONE. MARIA G. DI RIENZO: SVILUPPARE UN PIANO PER LA COMUNICAZIONE
[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per
questo intervento. Maria G. Di Rienzo e' una delle principali collaboratrici
di questo foglio; prestigiosa intellettuale femminista, saggista,
giornalista, regista teatrale e commediografa, formatrice, ha svolto
rilevanti ricerche storiche sulle donne italiane per conto del Dipartimento
di Storia Economica dell'Universita' di Sidney (Australia); e' impegnata nel
movimento delle donne, nella Rete di Lilliput, in esperienze di solidarieta'
e in difesa dei diritti umani, per la pace e la nonviolenza]

La comunicazione e' il processo con cui trasmettete all'esterno idee ed
informazioni che il vostro gruppo vuol fare avere alla comunita'. Cio' non
significa la semplice "promozione" delle iniziative che progettate, ma il
comunicare la natura della vostra organizzazione, i suoi scopi e la sua
visione.
Date un'occhiata spassionata al vostro programma: puo' essere buono, puo'
essere il migliore possibile, ma siete sicure/i che chiunque potrebbe
fruirne sara' raggiunto dal messaggio? Per alzare il livello di
consapevolezza rispetto alle vostre iniziative, avete bisogno di comunicare
"chi" siete. Sviluppare un piano al proposito vi rendera' la vita piu'
facile.
*
1. Cos'e' un piano per la comunicazione?
Il suo scopo e' far si' che le persone a cui vi rivolgete abbiano il vostro
messaggio, di modo che le vostre iniziative riescano e si traducano in
benefici per la comunita'. Se avete creato qualcosa che vale, vorrete
certamente di piu' del mero riconoscimento del vostro lavoro: vorrete, in
sintesi, che cio' che e' stato creato venga usato dalla comunita' (non e'
per questo che avete impegnato tempo e fatica?).
Per sviluppare un piano per la comunicazione avete bisogno di farvi le
seguenti domande:
- Quali sono i nostri scopi?
- Chi vogliamo raggiungere?
- Quale ritorno abbiamo avuto fino ad ora dalle nostre tecniche
comunicative?
- Quante risorse abbiamo da impegnare in questo progetto?
- Quali sono gli ostacoli che potremmo incontrare durante il cammino, e come
li affronteremo?
*
2. Perche' dovremmo pianificare la comunicazione?
Perche' potete aver avuto l'idea piu' straordinaria del secolo, ma se
nessuno la conosce, e nessuno ne trae vantaggio, essa non ha alcun valore
pratico. Ricordate pero' che il comunicare efficacemente non risolvera'
tutti i vostri problemi: se la voce di chi siete e cosa fate si spande,
attrarrete di certo nuove persone, ma poi dovrete dar loro il motivo per
tornare una seconda volta. Comunque, pianificare vi fornira' la mappa per
andare da "a" (un'iniziativa poco utilizzata, non vista, ecc.) a "b"
(un'iniziativa molto conosciuta che genera coinvolgimento ed azione).
*
3. Quando dovremmo farlo?
Ogniqualvolta la vostra organizzazione individua una scopo, e le attivita'
ad esso correlate, dovreste riflettere sui modi di comunicare tutto cio'
alle persone che intendete coinvolgere ed al resto dell'opinione pubblica.
Ci sono anche altri momenti in cui dovreste pensarci: ad esempio, e' un po'
che il vostro gruppo esiste, e potreste voler rinnovare l'interesse attorno
ad esso, oppure state cercando fondi per delle iniziative. Ad ogni modo, una
comunicazione efficace non si improvvisa: e' un processo in divenire.
*
4. Come sviluppiamo questo piano?
Di base, come detto sopra, ci sono cinque passi che potete fare per crearlo.
- Primo passo: Quali sono i nostri scopi? Non tutte le iniziative sono
uguali e cio' che farete per renderle visibili dipende molto da cosa volete
ottenere. Percio' chiedetevi: vogliamo che piu' gente conosca il nostro
gruppo? Stiamo cercando di coinvolgere in esso altre persone? Stiamo
cercando fondi? Vogliamo dire al mondo che il nostro programma sta
funzionando, anche se i media lo ignorano? Ci sono pochi dubbi sul fatto che
voi avete le risposte a queste domande, e non necessitate di alcun
suggerimento da parte mia; altrimenti, e' probabile che abbiate deciso di
non occuparvi della comunicazione.
- Secondo passo: Chi vogliamo raggiungere?
Ovvero, chi la vostra organizzazione vuole informare rispetto alla sua
esistenza, ai suoi scopi ed alle sue iniziative? Far girare le notizie e'
importante, ma farle arrivare alle persone che volete coinvolgere e' ancora
piu' importante: percio' dovete decidere chi sono queste persone e
comportarvi di conseguenza. Il vostro piano per la comunicazione dovrebbe
essere mirato a coloro che beneficeranno maggiormente della vostra azione.
Generalmente, potete identificarli con gli indicatori del bisogno (coloro
che hanno necessita' di aiuto/intervento/sostegno rispetto ad un'istanza),
dell'interesse (coloro che hanno mostrato il maggior apprezzamento per il
vostro lavoro), e della passata esperienza (coloro che hanno raccolto il
vostro messaggio in passato). Una volta che abbiate compiuto questa analisi,
lo spettro delle persone che volete raggiungere potra' essere molto
specifico o molto ampio: in ogni caso, vi e' la necessita' di dare alla
comunicazione le forme e i linguaggi adeguati a tale spettro.
- Terzo passo: Quale ritorno abbiamo avuto fino ad ora dalle nostre tecniche
comunicative?
E cioe': chi sa delle vostre iniziative? E cosa si sa di esse? Lasciatemi
presumere che il vostro gruppo non sia il segreto meglio tenuto al mondo: e'
probabile che abbiate lavorato duro per farvi conoscere. Ma se la vostra
comunicazione e' "sotto tono", priva di entusiasmo, complicata, redatta in
stile burocratico o pomposo, eccetera, le persone che la ricevono la
dimenticheranno in fretta. Inoltre, potreste aver usato metodi che non si
accordano al gruppo di persone che volete raggiungere: se il vostro annuncio
alla radio, per esempio, viene fatto durante le ore di scuola, ed e' diretto
agli studenti, essi non lo riceveranno.
- Quarto passo: Quante risorse abbiamo da impegnare in questo progetto?
Se la vostra organizzazione e' vasta, popolare, stabilita da molti anni, ha
probabilmente dei fondi a disposizione e parecchi membri: potreste percio'
decidere di impegnare denaro e persone nel vostro sforzo per migliorare la
comunicazione. Ma potrebbe anche darsi che la somma di cio' che potete
impegnare si riduca a qualche cartellone avanzato, una decina di pennarelli
e due individui creativi di buona volonta'. Non scoraggiatevi: il punto e'
usare cio' che avete nel modo piu' efficace ed intelligente possibile. Le
parole che escono dalle vostre labbra, per esempio, sono gratis: perche' non
pensare ad un bel giro del quartiere, bussando alle porte e informando le
persone della vostra prossima iniziativa?
- Quinto passo: Quali sono gli ostacoli che potremmo incontrare durante il
cammino, e come li affronteremo?
Riflettete su cio' che potrebbe ostacolarvi: le cose non sempre vanno nel
modo in cui le abbiamo pianificate (se lo facessero, saremmo probabilmente
tutti/e molto sorpresi/e). Non angustiatevi sui problemi che potreste dover
affrontare, al punto magari di abbandonare il progetto; semplicemente,
teneteli presenti.
*
5. Come possiamo essere influenti ed efficaci?
Come attivisti/e, svolgete una quantita' di lavori che a volte non riuscite
neppure a vedere con chiarezza: ispirate, mediate, decidete, persuadete. Ci
avete mai pensato? Avete tenuto conto di questo nella "contabilita'" delle
vostre azioni e, soprattutto, riflettendo sulla comunicazione? Come, ad
esempio, l'ispirazione e' transitata nei vostri atti e nelle vostre parole
sino a muovere qualcun altro all'azione? Convincere le altre persone e' cio'
che volete ottenere mediante la comunicazione. Il cuore del vostro messaggio
deve poter essere espresso nel modo piu' semplice e diretto possibile, un
modo costruito attorno al concetto base del messaggio stesso: "unitevi a
noi", "finanziateci", "sostenete questo progetto", "firmate questo appello",
"partecipate a tale azione". Il pubblico che volete raggiungere determinera'
il risultato finale del vostro sforzo, quindi:
- Preparate il terreno. Ovvero cogliete tutte le opportunita' per stringere
nuove relazioni e per rinforzare quelle che gia' avete. Il vostro messaggio
ottiene cosi' un numero maggiore di porte dalle quali entrare; voi potete
non avere esperienza diretta di un segmento di persone che volete
raggiungere, ma qualcuno con cui siete in relazione (come "rete", come
coalizione, ecc.) puo' invece esservi direttamente coinvolto e veicolare il
messaggio per voi. Un'altra buona ragione per incrementare le relazioni e'
che le persone, in genere, sono piu' propense ad ascoltare chi gia'
considerano "amico" o "alleato". Pensate a questa situazione: state
camminando verso il negozio di alimentari per fare la spesa, e una
sconosciuta vi ferma per darvi un volantino. Il testo spiega che il
consiglio comunale sta ipotizzando l'abbattimento di un edificio storico per
costruire un nuovo parcheggio. "Non mi pare cosi' terribile. In fondo
quell'edificio e' lontano dal centro, ed e' un cumulo di rovine", potreste
pensare, mentre tentate di ricordarvi cosa accidente dovete comprare.
L'attivista, che ovviamente sente molto il problema, vi parlera'
appassionatamente di cosa si dovrebbe fare e perche', e voi ascolterete piu'
o meno distratti, dando un'occhiata all'orologio, annuendo o borbottando
qualcosa: nella vostra mente si confondono barattoli e parcheggi, perche'
non riuscite piu' a ricordare se Francesca vi aveva detto di comprare o no
quella tal cosa... Quando infine riuscirete ad andarvene, senza aver colto
granche' delle parole dell'attivista, proverete un senso di sollievo. Vi
suona familiare, o almeno realistico? Allora chiedetevi: avrebbe fatto
differenza se l'attivista in questione fosse stata Giovanna, che fa parte di
quell'organizzazione ambientalista che partecipa alla vostra coalizione, e
che durante l'ultima azione ha sostenuto il vostro gruppo con abilita' e
fiducia? La mia ipotesi e' che in quest'ultimo caso il negozio di alimentari
avrebbe perso, almeno per qualche minuto in piu', la propria importanza.
- Comprendete che la vostra credibilita' e' fondamentale. Ovviamente, non
potete arrivare a conoscere ogni singola persona che desiderate raggiungere.
Piu' vasta e' l'audience a cui vi rivolgete, meno conoscerete gli individui
che ne fanno parte. Quando la gente non vi conosce, e' importantissimo che
cio' che si sa pubblicamente di voi sia positivo. Per essere credibili,
dovete incarnare le seguenti caratteristiche: date l'impressione di sapere
di cosa state parlando; avete gia' agito in modo efficace a vantaggio della
comunita'; date l'impressione che si possa fidarsi di voi; siete "simili"
alle persone a cui vi rivolgete (ovvero esprimete opinioni e valori che esse
condividono).
- Siate aperti ai suggerimenti ed alle possibilita'. Se assieme al vostro
messaggio si trasmette questa attitudine: "Le cose si fanno a modo nostro o
non si fanno per nulla", scordatevi di attrarre nuove persone. Essere
disponibili all'ascolto ed alla modifica dovrebbe essere un'abitudine per
voi: cercate di veicolare questa apertura nei modi della vostra
comunicazione, offrendo spazi e tempi alle persone per condividere le loro
idee, le loro preoccupazioni ed intuizioni (ne trarrete spesso anche il
vantaggio di migliorare le vostre azioni grazie a questi nuovi apporti).
- Parlate. Non affidate la comunicazione solo ai volantini, ai messaggi di
posta elettronica, ai manifesti murali. Afferrate ogni occasione in cui
potete parlare in pubblico: dell'istanza di cui vi occupate, del vostro
gruppo e dei vostri scopi. Quanto meglio riuscirete a raccontare chi siete e
cosa fate, tanto piu' crescera' la vostra influenza. Se durante gli incontri
pubblici ve ne state silenziosi in un angolo, confidando che il volantino
distribuito all'ingresso parlera' per voi, state commettendo un errore.
Inoltre, se siete donne, e' probabile che tenderete ad intervenire molto
meno degli uomini (almeno nei contesti misti): vi ribadisco che l'ascolto e'
importante, e mi inchino alla vostra spiccata attitudine in questo senso, ma
vi consiglio di meditare sul bilanciamento fra ascolto e parola.
Personalmente, ho ormai partecipato a centinaia di incontri in cui le donne
presenti non parlavano, ed esprimevano dubbi, opinioni ed idee solo al
termine degli incontri stessi, fuori dalla sala, in piccoli gruppi informali
dove si trovavano piu' a loro agio. Ragazze, quello che avete pensato pu'
anche non funzionare, ma se invece fosse l'idea giusta, quella che ci
mancava per rendere l'azione splendidamente efficace? C'e' bisogno del
vostro apporto a livello creativo e decisionale, non dimenticatelo. Inoltre,
qualora la vastita' del gruppo e la "solennita'" dell'incontro vi
inibiscano, usate cio' che sapete gia' fare: invece di riunirvi in piccoli
gruppi dopo, fatelo prima, e nominate fra voi una rappresentante che
parlera' in pubblico, e che voi vi impegnate a sostenere durante lo sforzo
che compira' a nome di tutte.
- Ricordate che le persone sentono cio' che vogliono sentire. Questo per
dire che in genere le persone non si spostano dalla loro opinione per il
semplice fatto di averne udita una contraria. Coloro che non la pensano come
voi, e che voi volete pero' raggiungere, non busseranno alla vostra porta.
Dovete percio' trovare sistemi di incontrarli: un tavolo di discussione, una
riunione aperta, voi stessi che partecipate ad una delle loro iniziative e
prendete parola, ecc.
- Non aspettatevi risultati tangibili domani mattina. Che ci piaccia o no,
per fare le cose bene ci vuole tempo. Le opinioni cambiamo lentamente:
dopotutto, le persone le hanno formate nel corso di una vita, e non le
muteranno dopo una sola conversazione con voi o dopo aver ricevuto per la
prima volta il vostro messaggio. Influenzare le persone affinche' cambino le
loro abitudini richiede forse ancora piu' tempo. Alcune cose le vedrete
finalmente cambiare dopo anni di lavoro: la cosa importante, anche nella
comunicazione, e' essere persistenti.
*
6. E se provassimo ad usare alcuni piccoli "trucchi"?
- Persuasione. Se tutti attorno a voi stessero compiendo una determinata
azione, vi unireste ad essi? Stando alla "legge della persuasione" e' molto
probabile che potreste. Se attorno al tavolo dove si firma la vostra
petizione c'e' un mucchio di gente, e' facile che i passanti ne siano
incuriositi, e si avvicinino. Se avete distribuito le vostre borsette di
carta riciclata a meta' dei vostri concittadini, l'altra meta' vorra' sapere
dove le hanno prese, e se possono averne una anche loro.
- Date qualcosa in cambio. Eravate piccolini/e, quando avete appreso questo:
se qualcuno vi sorride, ci si aspetta che voi sorridiate in risposta; se
qualcuno vi fa un regalo a Natale, e voi non avete nulla per ricambiare, vi
sentite maleducati, eccetera. L'idea della reciprocita' puo' essere molto
potente nel convincere altri a fare qualcosa, in special modo rispetto alla
raccolta di fondi. Per esempio, se siete un gruppo antiviolenza, potreste
spedire alle persone del vostro indirizzario il nastro bianco che indica
l'opposizione alla violenza domestica, ringraziandoli per il loro passato
sostegno e chiedendo di indossare il nastro quale sostegno visibile alla
vostra prossima campagna. Visto che ci siamo, nella lettera aggiungerete che
se pensano ne valga la pena, potrebbero aiutarvi con un contributo
finanziario, anche piccolissimo, affinche' voi possiate continuare il vostro
lavoro.
- Mettete le persone nella condizione di dirvi di si'. In genere, quando le
persone fanno delle affermazioni, sono restie a negarle il minuto dopo,
perche' vogliono apparire logiche e coerenti. Percio', se qualcuno concorda
con voi per tre punti del vostro ragionamento, sara' difficile che rigetti
il quarto.
Esempio: "Lei pensa che i bambini e le bambine abbiano diritto alla miglior
istruzione possibile?" (nemmeno Belzebu' vi dira' di no), "Si', certamente",
"Ed avere una biblioteca per ragazzi/e a disposizione aiuterebbe, secondo
lei?", "Be', si', credo di si'", "Sono felice che lei sia d'accordo con me.
Infatti il mio gruppo sta lavorando proprio per questo. Posso spiegarle
qualche dettaglio in piu'?", "Ehm, certo", "Abbiamo bisogno del sostegno
della comunita', per realizzare il progetto, e quindi anche del suo. Sarebbe
disposto ad aiutarci in uno di questi modi?" (offrite piu' opzioni:
coinvolgimento diretto, supporto finanziario, pubblicizzazione, eccetera).
*
7. Adeguate il vostro messaggio alla "lingua" parlata da coloro che
intendete raggiungere. Ovvero, apprendete cosa il pubblico a cui vi
rivolgete vuole e crede. Fate le vostre ricerche prima di sviluppare un
piano per la comunicazione, o di incontrare gruppi direttamente (in questo
caso ponete loro domande intese a conoscerli meglio, prima di tentare di
coinvolgerli); altrimenti, le vostre idee ed i vostri suggerimenti
potrebbero essere ignorati per ragioni che voi neppure sospettate. Esempio:
una volontaria educatrice alla salute di una ong attualmente all'opera
nell'Africa sub-sahariana ha tentato per mesi di convincere i giovani ad
usare il preservativo per proteggersi dall'aids. Veniva ascoltata con molta
attenzione e gentilezza, ma i suoi sforzi non sortivano alcun risultato.
Chiacchierando informalmente con ragazze e ragazzi, ha compreso che l'idea
di avere una famiglia, e di avere bambini prima di morire era molto
importante per loro, e costituiva il maggior blocco all'uso del
preservativo. Inoltre, dalle conversazioni scaturiva un senso fatalistico:
"Dio mi prendera' con se' quando vorra', e' cosi' che vanno le cose." Una
volta capito questo, la nostra amica e' stata in grado di rimodellare la
propria comunicazione, parlando loro in termini di protezione del loro
stesso sogno (la famiglia e dei figli), ed ha ottenuto un sensibile
successo.

4. RIFLESSIONE. LUCIANO BENINI: CONTRO IL TERRORISMO, CONTRO LA GUERRA
[Ringraziamo Luciano Benini (per contatti: luciano.benini at tin.it) per averci
messo a disposizione il testo di questo suo intervento al consiglio comunale
di Fano. Su un punto di questo intervento vorremmo esprimere, ancora una
volta, il nostro diverso parere: a nostro avviso la strage di Nassiriya e'
certo anche un'azione di guerra, ma insieme e' anche un atto di terrorismo.
Chi analizza la guerra in corso e rammemora la storia dello "jus belli" (una
storia resa ormai obsoleta e fin arcaica dalla feroce barbarie delle guerre
contemporanee che nessuna regola conoscono se non la massimizzazione degli
eccidi, l'annientamento dell'altro, di ogni altro da se' che limiti
l'appropriazione totale e totalitaria delle risorse e dei poteri da parte
dei rapinatori piu' forti) sa che ormai guerra e terrorismo coincidono, e
non solo perche' l'una alimenta l'altro e viceversa, ma perche' nei mezzi e
nei fini essi sono diventati una sola cosa. Cosi' la strage di Nassiriya e'
terrorismo e guerra a un tempo, come i bombardamenti americani sono
anch'essi a un tempo guerra e terrorismo, come era terrorismo e guerra
contro lo stesso popolo iracheno il regime di Saddam Hussein. E dice quindi
bene Luciano Benini, che a tutte le guerre e a tutti i terrorismi occorre
opporsi, ed occorre opporsi con la scelta nitida e intransigente della
nonviolenza. Luciano Benini, gia' presidente del Movimento Internazionale
della Riconciliazione, da sempre impegnato in molte attivita' e iniziative
di pace e di solidarieta', e' una delle persone piu' prestigiose dei
movimenti nonviolenti in Italia]

In questa vicenda della strage di Nassirya ci sono alcune cose che ci
uniscono: il dolore per i morti, tutti i morti, civili e militari, italiani
e iracheni, la vicinanza umana e cristiana con le famiglie degli uccisi, la
condanna per chi con la propria violenza ha causato tante vittime.
Ma in tutto il resto la pensiamo molto diversamente dal diluvio di retorica
che ci ha sommerso in questi giorni, complici mezzi di informazione ormai
funzionali al regime, che hanno rinunciato nella quasi totalita' dei casi a
ragionare e a consentire di parlare a chi dissente.
Ci sembrava impossibile riuscire ad emergere dal mare di menzogne, luoghi
comuni, ipocrisia di questi giorni: poi abbiamo cominciato ad ascoltare e le
ggere parole diverse, che ci hanno aperto il cuore e la mente. Ha cominciato
don Vinicio Albanesi, presidente del Coordinamento nazionale delle comunita'
di accoglienza, il quale il giorno dopo la strage ha scritto: "E' sempre
terribile la notizia della morte in guerra di un padre, di un figlio, un
fratello, un fidanzato, un marito, un amico. [Il dolore] lo proveranno
tutto, senza sconti, le famiglie dei nostri carabinieri e militari, morti in
Iraq. Gli uomini delle istituzioni faranno di tutto per dare solennita' a
quelle morti: funerali di stato, con bandiere, fanfare e medaglie. Alle
famiglie resteranno foto, lettere, telefonate. Presto ingialliranno, per
lasciare il posto al silenzio duraturo della scomparsa del loro caro. Hanno
chiesto di non fare polemiche: tutti silenziosi di fronte alla morte. Ma
nonostante il silenzio imposto, rimane la domanda se il sacrificio di quelle
vite era necessario. Noi rispondiamo di no: come non era necessaria la
guerra. Hanno manomesso rapporti di intelligence dei loro paesi pur di
convincere l'opinione pubblica che era necessaria; si sono autoproclamati
angeli giustizieri prima contro le armi di distruzione di massa, poi contro
il dittatore Saddam, ora contro il terrorismo. Giustificazioni postume per
dire a tutti che la guerra era doverosa. L'Italia ha spedito contingenti di
uomini, soprattutto del sud che, con l'essere militari, si riscattano dalla
disoccupazione e dalla vita precaria. Hanno dato giustificazioni altruiste e
nobili a una guerra che non era ne' nobile, ne' gratuita. Qualcuno aveva
scongiurato di ricorrere a tutti i mezzi, ma non alla guerra, per fermare
Saddam: ricordiamo tra questi il papa. Ha invocato, pregato, attivato
messaggeri e diplomazia. Inascoltato, perche' occorreva liberare l'umanita'
dalle forze del male, rimproverandolo, nemmeno troppo discretamente, di
favorire la feroce dittatura di Saddam. In queste ore, nella nostra Italia,
la giustificazione della presenza italiana in Iraq ondeggia tra l'immagine
di soldati forti che combattono il terrorismo e quella di portatori di
umanita' che fraternizzano con le popolazioni locali. In Iraq incombe una
guerra, dichiarata vinta, ma che si dimostra non vinta. E tra le tante
vittime risultano nostri concittadini perche' sono stati identificati con il
nemico. I nostri soldati sono morti per una guerra di governi; nemmeno di
popoli. L'affetto va alle famiglie dei nostri soldati e non colmera'
l'inutilita' di vite perdute. Ritornino a casa tutti i nostri uomini:
potranno partecipare alle missioni umanitarie solo ed esclusivamente quando
saranno effettivamente garanti di pace e di fraternita': non certamente in
Iraq".
Poi due giornalisti. Cosi' ha scritto Giulietto Chiesa: "Adesso coloro che
sono responsabili diretti di quelle nostre morti cercano canagliescamente di
nascondere le loro responsabilita' sotto una coltre di retorica patriottica.
Prima che la guerra cominciasse, poi a guerra iniziata, abbiamo riempito il
paese di bandiere di pace. Molte sono rimaste - e giustamente - appese a
dimostrare che fu giusto metterle, perche' la guerra non era affatto finita.
Chi le ha lasciate aveva ragione. Le lasci, anche se i loro colori si sono
stemperati. Chi le ha ritirate le riesponga. Chi non le aveva ancora messe
le tiri fuori. E' un messaggio visivo potente, razionale, solidale,
democratico. Moltiplichiamolo, nell'interesse della ragione e della pace".
E Antonio Padellaro ha aggiunto: "Una missione, quella italiana, progettata
e organizzata da un governo che voleva dichiarare guerra a Saddam senza
farla e voleva fare la  guerra insieme a Bush senza dichiararla. Non a caso
si e' parlato di intervento "non belligerante", definizione tra le piu'
ambigue della nostra storia patria. Ma i terroristi, purtroppo, non hanno
colto la sfumatura".
Si e' parlato di terrorismo in questa vicenda: ma e' davvero cosi'? Il
terrorismo e' quello che si e' scatenato in Turchia contro le sinagoghe,
uccidendo civili in un paese che non e' in guerra. Come si puo' parlare di
terrorismo in un paese che e' in guerra, occupato militarmente da altre
potenze straniere fra cui l'Italia, in una azione mirata contro un obiettivo
militare e che ha ucciso soprattutto militari? Non e' molto piu' terrorismo
il bombardamento dell'Iraq effettuato dagli americani, a seguito del quale
sono morte migliaia di persone quasi tutte civili? Come puo' condannare
l'azione di Nassirya chi sostiene che la guerra puo' essere lo strumento per
la risoluzione delle controversie internazionali, come crede il governo
americano, come crede il governo italiano?
Noi che affermiamo il rifiuto assoluto della guerra, senza se e senza ma,
possiamo con credibilita' condannare la strage di Nassirya, non puo' farlo
chi di quella strage e' il principale responsabile per aver mandato al
macello giovani di appena vent'anni. Si', mandato al macello, anche se erano
volontari, e ben pagati. Fra le lacrime la moglie di uno di quei soldati ha
detto: "Gli avevano fatto credere che sarebbe andato a fare del bene in
un'azione di pace, ed invece l'hanno mandato a fare la guerra".
Li hanno chiamati eroi i giovani morti: "Felice il paese, che non ha bisogno
di eroi" scriveva Bertolt Brecht. Se proprio di eroi dobbiamo parlare,
allora ci viene in mente Annalena Tonelli, la volontaria italiana uccisa
qualche mese fa in Africa dopo aver servito per trenta anni i piu'
sofferenti. O Moreno Locatelli, ucciso dieci anni fa a Sarajevo da un
cecchino, volontario dei Beati i costruttori di pace. Donne e uomini di pace
davvero. Per loro niente funerali di Stato, niente lutto nazionale: non e'
funzionale al regime chi pratica il dialogo e la carita' anche coi
musulmani, o chi crede che la pace si conquista con la nonviolenza e non con
le armi.
Noi pensiamo che il modo migliore per onorare i soldati morti sia quello di
rafforzare il nostro impegno contro tutte le guerre e gli strumenti che le
rendono possibili.
La morte dei militari italiani in Iraq, che ci addolora come quella di ogni
vittima di tutte le violenze, e' conseguenza della ingiustificabile guerra
preventiva degli Stati Uniti e della presenza militare italiana, che risulta
non di pace ma di fiancheggiamento della conquista militare.
Il nostro dolore e' anche maggiore per la vicinanza che sentiamo a questi
giovani ed alle loro famiglie, e per la consapevolezza che non si e' fatto
abbastanza per impedire la loro partenza.
*
Crediamo che il governo debba ritirare un contingente militare che non
doveva inviare, ed agire subito per sostenere la costituzione di Corpi
civili di pace addestrati per missioni di pace in contesti come quello
iracheno.
Ogni rappresentante delle istituzioni, a partire dal capo dello Stato, ogni
forza presente nel governo e in parlamento e' chiamata ad assumersi la
propria responsabilita'. Una comune iniziativa europea volta a portare
distensione e pacificazione in quell'area sembra la risposta adeguata. A
questa intendiamo collaborare.
In questa prospettiva invitiamo i cittadini a sostenere concretamente la
presenza di organismi umanitari in Iraq e nel contempo ad opporsi alla
ulteriore presenza militare italiana, ed esortiamo i militari a rifiutarsi
di parteciparvi.
I soldati morti sono da onorare in quanto vittime, non perche' sono caduti
nel compiere un dovere cui dovevano rifiutarsi. Don Lorenzo Milani ricorda a
tal proposito, nella sua lettera ai giudici del 1965, il Concilio di Trento
che ha affermato: "Se le autorita' politiche comanderanno qualcosa di
iniquo, non sono assolutamente da ascoltare. Nello spiegare questa cosa al
popolo il parroco faccia notare che premio grande e proporzionato e'
riservato in cielo a coloro che obbediscono a questo precetto divino".
Non e' vero che ritirando i militari si rinuncia a sostenere la popolazione
irachena. E' vero il contrario.
Molto di piu' si potrebbe fare se i 40 milioni di euro che si spendono ogni
mese per mantenere il contingente militare italiano fossero usati per
ricostruire scuole, ospedali, centrali idriche. Non e' vero che e'
necessaria una presenza militare per fare questo: lo dimostrano le ong
italiane che con decine di operatori operano da mesi con interventi umanitar
i in tutto il paese. Sono questi gli interventi umanitari che bisogna
sviluppare.
Ancora una volta sono le parole di don Milani che ci aiutano a comprendere.
Scrisse infatti don Lorenzo a conclusione della sua risposta ai cappellani
militari: "Rispettiamo la sofferenza e la morte, ma davanti ai giovani che
ci guardano non facciamo pericolose confusioni fra il bene e il male, fra la
verita' e l'errore, fra la morte di un aggressore e quello della sua
vittima. Se volete diciamo: preghiamo per quegli infelici che, avvelenati
senza loro colpa da una propaganda d'odio, si son sacrificati per il solo
malinteso ideale di Patria...".

5. RIFLESSIONE. MARCO D'ERAMO INTERVISTA MICHAEL WALZER
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 18 novembre 2003.
Marco D'Eramo e' uno dei piu' acuti giornalisti e saggisti italiani, esperto
di questioni internazionali, ha scritto e curato vari utili libri.
Su Michael Walzer riprendiamo la seguente scheda apparsa sul quotidiano di
spalla all'articolo sotto riportato "Michael Walzer e' nato a New York nel
1935, e' sposato e ha due figlie. Si e' laureato a Brandeis, ha poi studiato
due anni a Cambridge e ha conseguito il Ph. D. ad Harvard nel 1961. Il suo
primo e importantissimo libro, sulla nascita degli Stati Uniti, e' The
Revolution of the Saints: A Study in the Origins of Radical Politics
(Harvard 1965, trad. it. Claudiana 1996). Ha insegnato a Princeton
(1962-66), ad Harvard (1966-80), prima di tornare a Princeton nel 1980 come
ordinario dell'Institute for Advanced Study. Oltre che direttore della
rivista "Dissent", e' membro del comitato editoriale di "Philosophy and
Public Affairs e di Political Theory". E' collaboratore della "New
Republic". E' coinvolto nella vita della comunita' ebraica statunitense: fa
parte del rettorato della Hebrew University, partecipa attivamente
all'International Affairs Committee of the American Jewish Congress e
dell'Institute for Jewish Policy Planning and Research al Synagogue Council
of America. Tra i suoi moltissimi altri libri, sono tradotti in italiano
Guerre giuste e ingiuste (Laterza 1990); Sfere di giustizia (Feltrinelli
1987); Esodo e rivoluzione (Feltrinelli 1986, ristampa 2003);
Interpretazione e critica sociale (Edizioni Lavoro 1990); Cosa significa
essere americani (Marsilio 1992, ristampa 2001); Sulla tolleranza (Laterza,
1998 e 2000); Ragione politica e passione (Feltrinelli 2001). Vi sono poi
libri il cui titolo italiano non corrisponde a quello inglese:
L'intellettuale militante (il Mulino 1991); Politica e profezia (Edizioni
Lavoro 1998); Geografia della morale (Dedalo 2001), Ragione e politica. Per
una critica del liberalismo (Feltrinelli 2001), Il filo della politica.
Democrazia, critica sociale, governo (Diabasis 2002), La liberta' e i suoi
nemici nell'eta' della guerra al terrorismo (Laterza 2003)".
Non c'e' bisogno di dire che alcune opinioni espresse da Walzer in questo
colloquio non ci persuadono affatto, ma a maggior ragione ci sembra utile
che i lettori possano conoscerle e trarne motivo di riflessione]

All'improvviso la pioggia cade a dirotto mentre il taxi mi porta dalla
stazione ferroviaria (un'ora e venti di treno da New York) all'Institute of
Advanced Study, dove insegno' Albert Einstein. Il tergicristallo non fa a
tempo a spazzare le cascate d'acqua, quando superiamo inzuppati joggers
colti di sorpresa dal piovasco, sotto gli alberi maestosi, in mezzo a
sterminati prati tra cui sorgono isolati gli edifici di una delle piu'
prestigiose, e piu' care, universita' al mondo.
Ancora una volta Michael Walzer mi ha dato appuntamento alle tre e mezza del
pomeriggio, ora del te' per i membri dell'istituto, nella sala con poltrone
e tappeti che, attraverso grandi porte-finestre, si apre sul parco
curatissimo. Ci sediamo nel suo ufficio dove e' succeduto in cattedra al
grande Albert Hirschman (quello di Lealta', defezione, protesta).
Michael Walzer e' una delle figure piu' eminenti della filosofia politica
americana, e uno degli esponenti piu' attivi nel dibattito della sinistra,
in particolare dalle pagine della rivista "Dissent", di cui e' direttore,
che raccoglie una parte importante della sinistra ebraica newyorkese. E,
come si vede dalla scheda bio-bibliografica pubblicata qui sopra, con il
passare degli anni l'appartenenza alla comunita' ebraica ha acquistato un
peso sempre piu' rilevante nella sua vita e nella sua riflessione.
Preoccupazioni per l'esistenza dello stato d'Israele si sono intrecciate
alle sue riflessioni sulla "guerra giusta". Cosi', contro i vari Noam
Choamsky, Howard Zinn ed Edward Said, dopo l'11 settembre 2001, Michael
Walzer ha appoggiato con forza la campagna in Afghanistan. Allora si creo'
una rottura insanabile tra l'anima liberal della sinistra e quella radical.
La guerra in Iraq sembrava aver un po' ricompattato i ranghi
dell'opposizione americana, ma una frattura rimane, come si evince dal
saggio An American Empire? che Walzer ha pubblicato sull'ultimo numero di
"Dissent", dove la polemica sta tutta nel punto interrogativo.
- Marco D'Eramo: Come si e' evoluta la sua posizione rispetto a un anno fa?
- Michael Walzer: Non so se si e' evoluta. Penso ancora, come ho scritto
sulla "New York Review of Books" e sul "Times" a febbraio e a marzo, che non
dovevamo andare in guerra contro il regime iracheno, mentre ero favorevole a
un suo contenimento che avrebbe dovuto implicare un certo uso della forza.
Ma ero contro una vera e propria guerra, e penso ancora che fosse moralmente
e politicamente sbagliata. Che lo sia politicamente, e' sempre piu'
evidente. Ma una volta iniziata la guerra, bisognava vincerla: non ho
manifestato a favore di un immediato cessate il fuoco perche' qualunque
esito diverso da una vittoria americana sarebbe stato interpretato in Medio
Oriente e nel mondo come una vittoria di Saddam, il che sarebbe stato un
disastro per gli iracheni e per gli abitanti della regione in generale. Una
volta vinta, io ero, e sono, a favore di un'occupazione multilaterale, ma
gli uomini di George W. Bush sono stati dopo la guerra altrettanto
unilateralisti di quanto lo erano stati prima della guerra e, a mio avviso,
gli europei - in particolare francesi, tedeschi e russi - sono stati
altrettanto non di aiuto quanto lo erano prima della guerra. Gli uomini di
Bush volevano condividere i costi dell'occupazione, ma non l'autorita',
mentre gli europei volevano condividere l'autorita' ma non i costi. Erano
due posizioni insostenibili che hanno portato a uno stallo che non fa altro
che confermare l'unilateralismo americano, che e' pessimo, perche'
quest'occupazione mi pare sempre piu' ardua politicamente: e' sempre piu'
improbabile che l'occupazione possa concludersi con un regime di governo
decente. Pero', proprio perche' eravamo contrari alla guerra, adesso non
possiamo prendere e andarcene: ci sono responsabilita' che si accompagnano a
ogni guerra, anche a una guerra ingiusta, specie a una guerra ingiusta.
Cosi' uno non puo' squagliarsela, ma deve sperare intanto che gli sciiti
iracheni non somiglino agli sciiti iraniani di vent'anni fa, e che i fattori
che stanno agendo nella politica iraniana siano al lavoro anche in quella
irachena. In secondo luogo bisogna sperare in una costituzione che
stabilisca protezioni per le minoranze contro una legge della maggioranza
semplice (che e' sciita): protezioni per la minoranza curda - un'autonomia
che non finisca nell'indipendenza - e per la minoranza sunnita che e' ora la
maggior forte di resistenza e opposizione. Mi pare che una soluzione
positiva di questo tipo sarebbe piu' facile da raggiungere se le Nazioni
Unite avessero un ruolo piu' importante.
- M. D'E.: Ma non c'e' una contraddizione paradossale tra un'amministrazione
che in patria e' contraria al nation building, cioe' a un ruolo importante
dello stato, e che invece si e' costretta da sola a perseguire il nation
building all'estero, in un paese occupato?
- M. W.: Certo, non e' il governo piu' adatto a portare a termine il lavoro
che va fatto. Puo' fallire o riuscire nell'instaurare la democrazia a
Baghdad, ma di sicuro e' riuscito a introdurre il capitalismo clientelare a
Baghdad con questi contratti appaltati a imprese ammanicate
all'amministrazione Bush, con un disinteresse a costituire un'imprenditoria
irachena competente e un ceto di tecnici iracheni qualificati.
- M. D'E.: La guerra all'Iraq e' stata presentata come un tassello della
"guerra al terrorismo". Proprio questo concetto mi sembra sempre piu'
scivoloso e pericoloso: la guerra e' un preciso stato giuridico, con leggi
di eccezione, con un nemico definito, con un preciso orizzonte temporale.
Mentre la "guerra al terrorismo" - una metafora come la "guerra alla
droga" - introduce una situazione giuridicamente ambigua, uno stato di
guerra in tempo di pace, una terra di nessuno nel diritto: non si dichiara
"guerra agli assassini", o "guerra agli scippatori". Inoltre anche il nemico
e' vaghissimo: gli Usa hanno dichiarato guerra non ad Al Qaeda, ma al
"terrorismo", e si sa che i tuoi martiri sono i miei terroristi e che i
terroristi che vincono diventano martiri e i martiri di una causa che ha
perso diventano terroristi.
- M. W.: No, penso che c'e' una definizione ragionevolmente oggettiva di
cio' che e' terrorismo. Gli algerini vinsero e conquistarono l'indipendenza,
ma la storia che adesso e' scritta dagli algerini dice che l'Fln adotto'
tattiche terroriste. E il primo governo instaurato nell'Algeria
indipendente, uccise, imprigiono' o esilio' sistematicamente chiunque fosse
stato implicato nel terrorismo.
- M. D'E.: Ma il termine "terrorismo" divenne di uso comune quando i
tedeschi indicarono i partigiani della resistenza come "terroristi".
- M. W.: E la Bulgaria fu definita una "democrazia popolare"! Le parole
possono essere distorte in politica. Non ci sono parole impossibili da
distorcere. Si deve usare un concetto di democrazia che ci spiega come mai
non si applicava alla Bulgaria del 1980, e un concetto di terrorismo che non
si applica ai partigiani del maquis antinazista. Altra cosa e' il concetto
di "guerra al terrorismo". In primo luogo, non penso che la guerra contro
l'Iraq ne faccia parte. La guerra in Afghanistan poteva essere connessa con
la lotta contro Al Qaeda, contro questa particolare organizzazione
terrorista responsabile dell'11 settembre. L'Iraq era una guerra che aveva
altri scopi. La "guerra al terrorismo" e' una metafora, come la "guerra alla
droga", e crea problemi non di guerra giusta o ingiusta, ma di liberta'
civili, perche' contro il terrorismo l'azione da condurre e' quella di
polizia, e l'azione di polizia mette sempre in questione le liberta' civili.
- M. D'E.: E Guantanamo?
- M. W.: I prigionieri stanno sempre la', e il governo non sa cosa fare, non
sa se processarli, pensa che rimandarli a casa sia pericoloso. Ormai e'
diventato uno scandalo e anche l'associazione centrista degli avvocati
nord-americani pensa che l'amministrazione stia stiracchiando il diritto.
- M. D'E.: Nel suo ultimo articolo su "Dissent", lei sostiene che a rigore
non si puo' parlare d'impero americano perche' impero e' un concetto vecchio
che non riesce a tenere conto delle nuove forme di dominio e di controllo.
Mi pare invece che l'amministrazione Bush stia tornando a un impero
coloniale ottocentesco.
- M. W.: Certo, tentano, ma non possono riuscirci. E la prova e' che paesi
che noi pensavamo fossero nostri satelliti, nostre Bulgarie, stati come
Cile, Messico e Turchia ci hanno sfidato sull'Iraq. E non c'era niente che
potessimo fare.
- M. D'E.: Si', gli Usa sono il primo colonialismo culturale che si esercita
per mezzo dei mass media e del web, e non attraverso gli apparati ideologici
tradizionali come scuola, religione. Ma accanto ai nuovi strumenti, usa
quelli classici: il potere di battere moneta - il dollaro ha il valore
deciso dagli Usa -, il potere militare - occupa piu' di 100 paesi con 750
basi nel mondo e addestra ufficiali di 133 paesi. Questo e' dominio
classico. E ora l'amministrazione Bush vuole accelerare il dispiegamento di
un esercito iracheno contro la guerriglia: e' una vecchia tecnica coloniale,
di uso delle truppe indigene, gli ascari, i sepoys, gli harkis.
- M. W.: Cosa vuol dire? Noi vogliamo e dobbiamo districarci dall'Iraq e
quindi ci deve essere un esercito iracheno che garantisca la stabilita' del
paese e che permetta di andarcene. Il grande errore e' stato compiuto
all'inizio dissolvendo l'esercito iracheno. Un Iraq indipendente dovra'
avere il suo esercito, e non so quale sara' la relazione di questo Iraq
indipendente con l'America. Se pensiamo che sara' un satellite, sospetto che
ci sbagliamo, che non saremo capaci di farlo.
- M. D'E.: E' piu' probabile un esito di tipo latinoamericano. Nella regione
questa tendenza e gia' presente: Mubarak in Egitto e' pro-americano e
tirannico e corrotto. Il Kuwait non e' un esempio di democrazia. Come disse
un presidente americano del dittatore Somoza: "E' un figlio di puttana, ma
e' il nostro figlio di puttana".
- M. W.: Si', puo' darsi che produciamo un altro Saddam. Certo non mi
aspetto di essere invitato in un prossimo futuro a un seminario
dell'Universita' di Baghdad sulla cittadinanza democratica. No, ma io credo
che il soft power clintoniano s'inserisca nell'internazionalismo liberale:
e' questa la forma che la legge americana ha avuto almeno fin da Truman,
seppur con qualche eccezione in America latina. Gli uomini di Bush si
ribellano a questa concezione, ma falliranno, come si puo' vedere in Iraq.
L'11 settembre ha permesso loro di perseguire il proprio ordine del giorno,
che era gia' prestabilito fin dal loro arrivo alla casa bianca, e che era
quello di un impero tradizionale, unilateralista, disinteressato alla Corte
penale internazionale, a Kyoto, ai trattati sui missili balistici. Ma non
credo che il mondo sia disponibile a questa politica e quest'impostazione
porra' gli Usa in guai sempre piu' seri.

6. MAESTRE. ROSSANA ROSSANDA: LA DISTINZIONE E IL LEGAME
[Da Rossana Rossanda, "Da Marx a Marx", in AA. VV., Classe, consigli,
partito, Alfani, Roma 1974, p. 102 (ma originariamente apparso sul
"Manifesto" mensile, n. 4 del settembre 1969). Rossana Rossanda e' nata a
Pola nel 1924, allieva del filosofo Antonio Banfi, antifascista, dirigente
del Pci (fino alla radiazione nel 1969 per aver dato vita alla rivista "Il
Manifesto" su posizioni di sinistra), in rapporto con le figure piu' vive
della cultura contemporanea, fondatrice del "Manifesto" (rivista prima, poi
quotidiano) su cui tuttora scrive. Impegnata da sempre nei movimenti,
interviene costantemente sugli eventi di piu' drammatica attualita' e sui
temi politici, culturali, morali piu' urgenti. Opere di Rossana Rossanda: Le
altre, Bompiani, Milano 1979; Un viaggio inutile, o della politica come
educazione sentimentale, Bompiani, Milano 1981; Anche per me. Donna,
persona, memoria, dal 1973 al 1986, Feltrinelli, Milano 1987; con Pietro
Ingrao et alii, Appuntamenti di fine secolo, Manifestolibri, Roma 1995; con
Filippo Gentiloni, La vita breve. Morte, resurrezione, immortalita',
Pratiche, Parma 1996; Note a margine, Bollati Boringhieri, Torino 1996. Ma
la maggior parte del lavoro intellettuale, della testimonianza storica e
morale, e della riflessione e proposta culturale e politica di Rossana
Rossanda e' tuttora dispersa in articoli, saggi e interventi pubblicati in
giornali e riviste]

Nella distinzione che Marx compie fra essere sociale e coscienza sta anche
il legame ombelicale profondo fra i due momenti; legame che li sommuove ed
interseca.

7. MAESTRE. TAMAR PITCH: LA TENSIONE
[Dall'intervento di Tamar Pitch in AA. VV., Persona, liberta', sessualita':
culture a confronto, quaderno di "Donne, parlamento, societa'", Roma s. d.
(ma ragionevolmente 1985), atti del convegno svoltosi a Roma il 15 febbraio
1985. Tamar Pitch, prestigiosa intellettuale, antropologa e sociologa,
insegna sociologia del diritto presso la facolta' di giurisprudenza
dell'universita' di Camerino. Fa parte del comitato scientifico del Progetto
citta' sicure della Regione Emilia Romagna ed e' giudice onorario presso il
Tribunale per i minorenni di Roma. Collabora a numerose riviste italiane e
straniere. Tra le sue opere: La devianza, La Nuova Italia, Firenze 1975;
Sociologia alternativa e nuova sinistra negli Stati Uniti d'America, La
Nuova Italia, Firenze 1977; Responsabilita' limitate, Feltrinelli, Milano
1989; AA. VV., Donne in carcere, Feltrinelli, Milano 1992; Un diritto per
due. La costruzione giuridica di genere, sesso e sessualita', Il Saggiatore,
Milano 1998]

La tensione, la necessaria tensione tra diritti e bisogni, tra diritti
civili e diritti sociali, che cosa vuol dire? Vuol dire che bisogna tener
conto di tutte e due le cose, e di come esse si intrecciano.

8. LIBRI. L'INDICE DELL'ANNUARIO DELLA PACE 2003
[Da Luca Kocci (per contatti: lkocci at tiscali.it) riceviamo e diffondiamo
l'indice del terzo Annuario della pace, realizzato dalla Fondazione Venezia
per la ricerca sulla pace, a cura di Luca Kocci, Asterios editore, Trieste
2003, pp. 376, a giorni in libreria]

Presentazione, Fabio Gava; Progetto Iride anno terzo, Giovanni Benzoni;
Introduzione, Luca Kocci.
1. Cronologie. "Dov'erano i pacifisti?". Dodici mesi di movimento pacifista,
Alessandro Marescotti; I fatti di un anno (giugno 2002-maggio 2003),
Salvatore Scaglione.
2. Geografie. Afghanistan, una pace lontana, Graziella Longoni e Laura
Quagliuolo; La democrazia difficile dei Balcani, Giulio Marcon; Il
laboratorio brasiliano, Ettore Masina; Cecenia, una guerra infinita,
Giulietto Chiesa; Sudan: sara' l'anno della pace?, Diego Marani.
3. Questioni. Guerra perpetua e nuovo inizio, Raniero La Valle; La guerra
del petrolio, Michele Paolini; L'Onu e la guerra irachena, Lauso Zagato;
Alleanza atlantica e Unione europea: dalla cooperazione al partenariato
strategico, Cristiana Fioravanti; Organizzazione mondiale del commercio e
guerra, Francisco Leita; Il diritto di guerra al tempo della guerra al
diritto, Domenico Gallo; Pace e Costituzione europea, Nicola Vallinoto;
L'informazione sociale tra la rete e il teleschermo, Carlo Gubitosa; La
Chiesa cattolica e la pace: bilancio di un anno. Dialogo con Tonio
Dell'Olio, Gianni Novelli; L'Islam italiano e la pace: bilancio di un anno,
Giovanni Sarubbi; Un movimento per fermare le guerre e costruire la pace,
Nanni Salio; "Fino a quando avro' fiato, io gridero': pace!". Fenomenologia
del papa pacifista, Luigi Accattoli; L'apocalisse secondo George Bush.
Dialogo con Alessandro Portelli, Valerio Gigante e Luca Kocci; Il governo
italiano, la pace e la guerra: bilancio di un anno, Massimo Paolicelli;
Commercio delle armi: dalla legge italiana alla campagna europea, Giorgio
Beretta.
4. Documenti. The national security strategy of Usa: il manifesto
dell'Impero, Raniero La Valle; Pacem in terris: la pace e' possibile.
Dialogo con Loris Capovilla, Giovanni Benzoni e Luca Kocci.
5. Fondamenti. "Quando si sconvolge un sistema internazionale". Intervista
ad Antonio Cassese, Salvatore Scaglione; Oriente e guerra, Piergiorgio
Pasqualotto; Occidente e guerra, Raniero La Valle; Poesie, Michele
Ranchetti.
6. Esperienze. Regioni per la pace: Campania - Giuliana Martirani; Toscana -
Massimo Toschi; Veneto - Diego Vecchiato; Il Forum trentino per la pace -
Vincenzo Passerini; Universita' per la pace, Valentina Mesolella; Traduttori
per la pace, Andrea Spila; Riviste per la pace, a cura di Luca Kocci;
Internet per la pace, Francesco Iannuzzelli; Libri per la pace. Consigli di
lettura dagli "invisibili"; Agende per la pace: Agenda della pace - Giovanni
Benzoni; Comportamenti di pace - Massimo Paolicelli; Ponti di pace sul
Mediterraneo - Davide Berruti; La Convenzione permanente di donne contro la
guerra, Lidia Menapace; La rete internazionale delle Donne in nero, Celeste
Grossi; La Scuola di pace di Monte Sole, Nadia Baiesi; Cefalonia, isola
della pace, Carlo Alberto Bolpin; Il Cocopa, Adriano Andruetto e Rosina
Borgi; La comunita' internazionale dei Baha'i d'Italia, Maria Teresa Vogel.
Attivita' della Fondazione Venezia per la ricerca sulla pace, Maurizio
Cermel.
Gli autori.

9. RILETTURE. CARLA CORSO, ADA TRIFIRO': ... E SIAMO PARTITE!
Carla Corso, Ada Trifiro', ... E siamo partite! Migrazione, tratta e
prostituzione straniera in Italia, Giunti, Firenze 2003, pp. 220, euro 10.
Una raccolta di testimonianze e di riflessioni la cui lettura vivamente
raccomandiamo.

10. RILETTURE. MARCELLA DELLE DONNE: CONVIVENZA CIVILE E XENOFOBIA
Marcella Delle Donne, Convivenza civile e xenofobia, Feltrinelli, Milano
2000, pp. 156, euro 16,53. Un saggio di grande chiarezza ed efficacia.

11. RILETTURE. SARA MORACE: LE DONNE E LA GLOBALIZZAZIONE
Sara Morace, Le donne e la globalizzazione. Domande di genere all'economia
globale della ri-produzione, Rubbettino, Soveria Mannelli 2001, pp. VIII +
98, euro 6,20. Una lettura appassionante e necessaria.

12. RILETTURE. ANNAMARIA RIVERA: ESTRANEI E NEMICI
Annamaria Rivera, Estranei e nemici. Discriminazione e violenza razzista in
Italia, Deriveapprodi, Roma 2003, pp. 160, euro 13. Uno studio profondo e
rigoroso arricchito da un cospicuo repertorio documentario.

13. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

14. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: luciano.benini at tin.it,
angelaebeppe at libero.it, mir at peacelink.it, sudest at iol.it, paolocand at inwind.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Per non ricevere piu' questo notiziario e' sufficiente inviare un messaggio
con richiesta di rimozione a: nbawac at tin.it

Numero 738 del 23 novembre 2003