[Prec. per data] [Succ. per data] [Prec. per argomento] [Succ. per argomento] [Indice per data] [Indice per argomento]
La nonviolenza e' in cammino. 738
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 738
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Sat, 22 Nov 2003 17:58:07 +0100
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 738 del 23 novembre 2003 Sommario di questo numero: 1. Movimenti, istituzioni, nonviolenza 2. Farid Adly: un appello agli intellettuali arabi e musulmani 3. Maria G. Di Rienzo: sviluppare un piano per la comunicazione 4. Luciano Benini: contro il terrorismo, contro la guerra 5. Marco D'Eramo intervista Michael Walzer 6. Rossana Rossanda: la distinzione e il legame 7. Tamar Pitch: la tensione 8. L'indice dell'Annuario della pace 2003 9. Riletture: Carla Corso, Ada Trifiro', ... E siamo partite! 10. Riletture: Marcella Delle Donne, Convivenza civile e xenofobia 11. Riletture: Sara Morace, Le donne e la globalizzazione 12. Riletture: Annamaria Rivera, Estranei e nemici 13. La "Carta" del Movimento Nonviolento 14. Per saperne di piu' 1. EDITORIALE. MOVIMENTI, ISTITUZIONI, NONVIOLENZA A noi sembra che i movimenti di lotta per la liberazione e la solidarieta', i movimenti di resistenza alle ingiustizie e alle menzogne, i movimenti per la legalita' e la democrazia, i movimenti per la pace, l'ambiente e i diritti umani, si trovino a un bivio: o fanno la scelta teorica e pratica della nonviolenza, o resteranno subalterni, o complici, o corrotti, o peggio ancora riproduttori di violenza e menzogna. Ma si trovano a un bivio anche le istituzioni, le istituzioni statali come quelle internazionali come quelle locali; ma anche le istituzioni culturali e religiose, di mutuo soccorso e di socializzazione, del territorio e delle affinita', le istituzioni che dovrebbero favorire l'incontro, il riconoscimento, la convivenza: o fanno la scelta teorica e pratica, giuridica e amministrativa, ermeneutica e metodologica, organizzativa ed operativa, della nonviolenza, o rischiano la dissoluzione sotto la spinta dell'individualismo di massa, dell'anomia organizzata, dell'eversione dall'alto, dell'appropriazione trangugiatrice ed annichilista, delle guerre e del terrorismo che tutto stanno divorando degli istituti civili che riescono a contagiare. * La nonviolenza e' gia' sentimento ed esigenza comuni a grandissima parte dell'umanita', umanita' che vede crescere una smisurata violenza che vieppiu' tutti opprime e minaccia finanche la distruzione dell'intera civilta' umana; umanita' che si rende conto che da violenza sgorga nuova violenza, da guerra guerra ulteriore, da terrore ancora e ancora terrore, in una spirale che tutto annienta. Umanita' che avverte un disperato bisogno di nonviolenza attiva in ogni genere e livello di relazioni. E quindi la nonviolenza deve divenire coscienza e motore, percorso e proposta, non solo di un'etica personale ma anche dei movimenti di impegno civile e sociale. Quei movimenti che non fanno questa scelta si condannano, quand'anche vincessero, a un cupo degenerare in nuove strutture oppressive: e' la tragedia e la lezione di tante esperienze rivoluzionarie del Novecento. Ma nel Novecento vi sono stati anche grandissimi movimenti di lotta che hanno fatto la scelta - almeno prevalente - della nonviolenza: il movimento delle donne piu' di ogni altro nitido e luminoso, il movimento operaio, il movimento antirazzista, la Resistenza antifascista che in grandissima parte e' stata pura nonviolenza in atto, e cosi' la lotta contro i totalitarismi in varie aree del mondo. * Ma la nonviolenza e' gia' anche esigenza posta e obiettivo implicito - ma cogente, seppur non ancora del tutto a tutti visibile - delle carte costituzionali, dei codici giuridici e dei trattati internazionali nei loro punti piu' alti di affermazione della dignita' umana e di promozione della civile convivenza. La nonviolenza e' gia' anche principio giuriscostituente e criterio istitutivo di quello spazio politico che e' il proprium degli esseri umani come Hannah Arendt ha dimostrato con insuperata profondita' e finezza. E quindi la nonviolenza deve divenire anche codificazione giuridica, base legislativa, cardine istituzionale, proposta amministrativa, precipuo elemento informatore dell'organizzazione della cosa pubblica e delle relazioni sociali e politiche, dei rapporti economici, dei negozi giuridici, degli ordinamenti oltre che dei costumi. * Non c'e' tempo da perdere. E dunque e' compito delle persone amiche della nonviolenza, di questa convocazione ed esigenza comprese e portatrici, gia' persuase (per adottare quel forte e cosi' profondamente caratterizzato termine capitiniano), uscire dalla subalternita', ed assumere consapevolezza del valore di cui devono essere concreta espressione e nitida proposizione qui e adesso: devono proporre la nonviolenza in tutta la sua forza e ricchezza, senza timidezze e senza reticenze; devono proporre la nonviolenza come teoria-prassi che deve informare, illimpidire, inverare diritto e dignita', deve essere coscienza comune dei movimenti, pratica della critica della ragion pratica, progetto-processo politico e sociale, principio giuriscostituente. Per un'umanita' di uomini e donne liberi ed eguali che sconfigga terrorismo e guerre, e salvi l'umanita' intera, l'umanita' di tutti. 2. APPELLI. FARID ADLY: UN APPELLO AGLI INTELLETTUALI ARABI E MUSULMANI [Ringraziamo Farid Adly (per contatti: farid.adly at tiscalinet.it) per questo intervento diffuso in occasione della giornata del dialogo cristiano-islamico; un appello - come scrive l'autore- "per l'assunzione di responsabilita' da parte di noi intellettuali arabi in Italia e in Europa. Costruiamo ponti, non muri". Farid Adly, autorevole giornalista e prestigioso militante per i diritti umani, e' direttore di "Anbamed, notizie dal Mediterraneo"] Ora basta. Ogni nostro ulteriore silenzio e' complice. Noi intellettuali arabi e musulmani, presenti in Italia ed in Europa, non possiamo piu' esimerci dal prendere una posizione chiara ed esplicita di rifiuto del terrorismo. Non ci sentiamo affatto messi sul banco degli accusati, ma non possiamo lo stesso sottrarci al nostro ruolo. Dopo gli attentati che hanno falcidiato vite umane, di persone innocenti, non possiamo continuare a tergiversare sulle colpe del colonialismo occidentale e sulla potenza dell'impero americano. Leggiamo su molta stampa araba analisi su un diabolico complotto ordito contro l'islam e dibattiti sull'appassionato e nello stesso tempo futile tema: a chi giova? Questo e' un lusso che si possono permettere soltanto coloro che hanno tempo da perdere. Il cancro del terrorismo colpisce prima di tutto le nostre societa' d'origine, avviluppandole in un futuro oscurantista. Urge invece una chiarezza nel nostro campo. Ora. Non e' una resa a forze esterne, ma una difesa del bene piu' prezioso che possediamo: la vita ed il futuro di uomini e donne. Di ogni luogo, credo, religione e nazione. Agli appelli ed alle azioni di chi chiama alla guerra tra civilta', dobbiamo contrapporre la fede nel dialogo e nella costruzione di ponti. Continuare a lamentarsi soltanto delle colpe, passate e presenti, dell'occidente alimenta il senso di frustrazione che gli arabi vivono ancora, a quasi mezzo secolo dall'indipendenza politica. Se abbiamo da recriminare, lo dobbiamo fare nei confronti delle nostre classi dirigenti che hanno fallito il loro compito e hanno fatto prevalere interessi personali e di casta rispetto a quelli generali e pubblici. Soltanto un riscatto basato sulla razionalita' e sull'affermazione della tolleranza, potra' condurre i popoli arabi e musulmani fuori dal pantano del terrorismo e dall'arretratezza. Non possiamo ripetere l'errore compiuto nei confronti del popolo algerino, lasciato solo tra l'incudine del terrorismo ed il martello del potere dei militari corrotti. Ciascuno, nel suo ambito, deve agire coerentemente con i valori che esprime. Ridurci a osservatori silenti del collasso, a vista d'occhio, di ogni valore della nostra civilta', e' una resa a chi vuole strumentalizzare l'Islam e la tradizione araba, rinnegando il richiamo alla pace ed alla fraternita' lanciati quattordici secoli fa dal profeta Mohammed. Non lasciamo in mano a dei pazzi sanguinari l'eredita' di quattordici secoli di civilta' arabo-islamica. Diamo un esempio di opposizione chiara e coraggiosa, per non lasciare una moltitudine di giovani in preda al sopprimente pensiero della pura e stupida violenza. 3. FORMAZIONE. MARIA G. DI RIENZO: SVILUPPARE UN PIANO PER LA COMUNICAZIONE [Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per questo intervento. Maria G. Di Rienzo e' una delle principali collaboratrici di questo foglio; prestigiosa intellettuale femminista, saggista, giornalista, regista teatrale e commediografa, formatrice, ha svolto rilevanti ricerche storiche sulle donne italiane per conto del Dipartimento di Storia Economica dell'Universita' di Sidney (Australia); e' impegnata nel movimento delle donne, nella Rete di Lilliput, in esperienze di solidarieta' e in difesa dei diritti umani, per la pace e la nonviolenza] La comunicazione e' il processo con cui trasmettete all'esterno idee ed informazioni che il vostro gruppo vuol fare avere alla comunita'. Cio' non significa la semplice "promozione" delle iniziative che progettate, ma il comunicare la natura della vostra organizzazione, i suoi scopi e la sua visione. Date un'occhiata spassionata al vostro programma: puo' essere buono, puo' essere il migliore possibile, ma siete sicure/i che chiunque potrebbe fruirne sara' raggiunto dal messaggio? Per alzare il livello di consapevolezza rispetto alle vostre iniziative, avete bisogno di comunicare "chi" siete. Sviluppare un piano al proposito vi rendera' la vita piu' facile. * 1. Cos'e' un piano per la comunicazione? Il suo scopo e' far si' che le persone a cui vi rivolgete abbiano il vostro messaggio, di modo che le vostre iniziative riescano e si traducano in benefici per la comunita'. Se avete creato qualcosa che vale, vorrete certamente di piu' del mero riconoscimento del vostro lavoro: vorrete, in sintesi, che cio' che e' stato creato venga usato dalla comunita' (non e' per questo che avete impegnato tempo e fatica?). Per sviluppare un piano per la comunicazione avete bisogno di farvi le seguenti domande: - Quali sono i nostri scopi? - Chi vogliamo raggiungere? - Quale ritorno abbiamo avuto fino ad ora dalle nostre tecniche comunicative? - Quante risorse abbiamo da impegnare in questo progetto? - Quali sono gli ostacoli che potremmo incontrare durante il cammino, e come li affronteremo? * 2. Perche' dovremmo pianificare la comunicazione? Perche' potete aver avuto l'idea piu' straordinaria del secolo, ma se nessuno la conosce, e nessuno ne trae vantaggio, essa non ha alcun valore pratico. Ricordate pero' che il comunicare efficacemente non risolvera' tutti i vostri problemi: se la voce di chi siete e cosa fate si spande, attrarrete di certo nuove persone, ma poi dovrete dar loro il motivo per tornare una seconda volta. Comunque, pianificare vi fornira' la mappa per andare da "a" (un'iniziativa poco utilizzata, non vista, ecc.) a "b" (un'iniziativa molto conosciuta che genera coinvolgimento ed azione). * 3. Quando dovremmo farlo? Ogniqualvolta la vostra organizzazione individua una scopo, e le attivita' ad esso correlate, dovreste riflettere sui modi di comunicare tutto cio' alle persone che intendete coinvolgere ed al resto dell'opinione pubblica. Ci sono anche altri momenti in cui dovreste pensarci: ad esempio, e' un po' che il vostro gruppo esiste, e potreste voler rinnovare l'interesse attorno ad esso, oppure state cercando fondi per delle iniziative. Ad ogni modo, una comunicazione efficace non si improvvisa: e' un processo in divenire. * 4. Come sviluppiamo questo piano? Di base, come detto sopra, ci sono cinque passi che potete fare per crearlo. - Primo passo: Quali sono i nostri scopi? Non tutte le iniziative sono uguali e cio' che farete per renderle visibili dipende molto da cosa volete ottenere. Percio' chiedetevi: vogliamo che piu' gente conosca il nostro gruppo? Stiamo cercando di coinvolgere in esso altre persone? Stiamo cercando fondi? Vogliamo dire al mondo che il nostro programma sta funzionando, anche se i media lo ignorano? Ci sono pochi dubbi sul fatto che voi avete le risposte a queste domande, e non necessitate di alcun suggerimento da parte mia; altrimenti, e' probabile che abbiate deciso di non occuparvi della comunicazione. - Secondo passo: Chi vogliamo raggiungere? Ovvero, chi la vostra organizzazione vuole informare rispetto alla sua esistenza, ai suoi scopi ed alle sue iniziative? Far girare le notizie e' importante, ma farle arrivare alle persone che volete coinvolgere e' ancora piu' importante: percio' dovete decidere chi sono queste persone e comportarvi di conseguenza. Il vostro piano per la comunicazione dovrebbe essere mirato a coloro che beneficeranno maggiormente della vostra azione. Generalmente, potete identificarli con gli indicatori del bisogno (coloro che hanno necessita' di aiuto/intervento/sostegno rispetto ad un'istanza), dell'interesse (coloro che hanno mostrato il maggior apprezzamento per il vostro lavoro), e della passata esperienza (coloro che hanno raccolto il vostro messaggio in passato). Una volta che abbiate compiuto questa analisi, lo spettro delle persone che volete raggiungere potra' essere molto specifico o molto ampio: in ogni caso, vi e' la necessita' di dare alla comunicazione le forme e i linguaggi adeguati a tale spettro. - Terzo passo: Quale ritorno abbiamo avuto fino ad ora dalle nostre tecniche comunicative? E cioe': chi sa delle vostre iniziative? E cosa si sa di esse? Lasciatemi presumere che il vostro gruppo non sia il segreto meglio tenuto al mondo: e' probabile che abbiate lavorato duro per farvi conoscere. Ma se la vostra comunicazione e' "sotto tono", priva di entusiasmo, complicata, redatta in stile burocratico o pomposo, eccetera, le persone che la ricevono la dimenticheranno in fretta. Inoltre, potreste aver usato metodi che non si accordano al gruppo di persone che volete raggiungere: se il vostro annuncio alla radio, per esempio, viene fatto durante le ore di scuola, ed e' diretto agli studenti, essi non lo riceveranno. - Quarto passo: Quante risorse abbiamo da impegnare in questo progetto? Se la vostra organizzazione e' vasta, popolare, stabilita da molti anni, ha probabilmente dei fondi a disposizione e parecchi membri: potreste percio' decidere di impegnare denaro e persone nel vostro sforzo per migliorare la comunicazione. Ma potrebbe anche darsi che la somma di cio' che potete impegnare si riduca a qualche cartellone avanzato, una decina di pennarelli e due individui creativi di buona volonta'. Non scoraggiatevi: il punto e' usare cio' che avete nel modo piu' efficace ed intelligente possibile. Le parole che escono dalle vostre labbra, per esempio, sono gratis: perche' non pensare ad un bel giro del quartiere, bussando alle porte e informando le persone della vostra prossima iniziativa? - Quinto passo: Quali sono gli ostacoli che potremmo incontrare durante il cammino, e come li affronteremo? Riflettete su cio' che potrebbe ostacolarvi: le cose non sempre vanno nel modo in cui le abbiamo pianificate (se lo facessero, saremmo probabilmente tutti/e molto sorpresi/e). Non angustiatevi sui problemi che potreste dover affrontare, al punto magari di abbandonare il progetto; semplicemente, teneteli presenti. * 5. Come possiamo essere influenti ed efficaci? Come attivisti/e, svolgete una quantita' di lavori che a volte non riuscite neppure a vedere con chiarezza: ispirate, mediate, decidete, persuadete. Ci avete mai pensato? Avete tenuto conto di questo nella "contabilita'" delle vostre azioni e, soprattutto, riflettendo sulla comunicazione? Come, ad esempio, l'ispirazione e' transitata nei vostri atti e nelle vostre parole sino a muovere qualcun altro all'azione? Convincere le altre persone e' cio' che volete ottenere mediante la comunicazione. Il cuore del vostro messaggio deve poter essere espresso nel modo piu' semplice e diretto possibile, un modo costruito attorno al concetto base del messaggio stesso: "unitevi a noi", "finanziateci", "sostenete questo progetto", "firmate questo appello", "partecipate a tale azione". Il pubblico che volete raggiungere determinera' il risultato finale del vostro sforzo, quindi: - Preparate il terreno. Ovvero cogliete tutte le opportunita' per stringere nuove relazioni e per rinforzare quelle che gia' avete. Il vostro messaggio ottiene cosi' un numero maggiore di porte dalle quali entrare; voi potete non avere esperienza diretta di un segmento di persone che volete raggiungere, ma qualcuno con cui siete in relazione (come "rete", come coalizione, ecc.) puo' invece esservi direttamente coinvolto e veicolare il messaggio per voi. Un'altra buona ragione per incrementare le relazioni e' che le persone, in genere, sono piu' propense ad ascoltare chi gia' considerano "amico" o "alleato". Pensate a questa situazione: state camminando verso il negozio di alimentari per fare la spesa, e una sconosciuta vi ferma per darvi un volantino. Il testo spiega che il consiglio comunale sta ipotizzando l'abbattimento di un edificio storico per costruire un nuovo parcheggio. "Non mi pare cosi' terribile. In fondo quell'edificio e' lontano dal centro, ed e' un cumulo di rovine", potreste pensare, mentre tentate di ricordarvi cosa accidente dovete comprare. L'attivista, che ovviamente sente molto il problema, vi parlera' appassionatamente di cosa si dovrebbe fare e perche', e voi ascolterete piu' o meno distratti, dando un'occhiata all'orologio, annuendo o borbottando qualcosa: nella vostra mente si confondono barattoli e parcheggi, perche' non riuscite piu' a ricordare se Francesca vi aveva detto di comprare o no quella tal cosa... Quando infine riuscirete ad andarvene, senza aver colto granche' delle parole dell'attivista, proverete un senso di sollievo. Vi suona familiare, o almeno realistico? Allora chiedetevi: avrebbe fatto differenza se l'attivista in questione fosse stata Giovanna, che fa parte di quell'organizzazione ambientalista che partecipa alla vostra coalizione, e che durante l'ultima azione ha sostenuto il vostro gruppo con abilita' e fiducia? La mia ipotesi e' che in quest'ultimo caso il negozio di alimentari avrebbe perso, almeno per qualche minuto in piu', la propria importanza. - Comprendete che la vostra credibilita' e' fondamentale. Ovviamente, non potete arrivare a conoscere ogni singola persona che desiderate raggiungere. Piu' vasta e' l'audience a cui vi rivolgete, meno conoscerete gli individui che ne fanno parte. Quando la gente non vi conosce, e' importantissimo che cio' che si sa pubblicamente di voi sia positivo. Per essere credibili, dovete incarnare le seguenti caratteristiche: date l'impressione di sapere di cosa state parlando; avete gia' agito in modo efficace a vantaggio della comunita'; date l'impressione che si possa fidarsi di voi; siete "simili" alle persone a cui vi rivolgete (ovvero esprimete opinioni e valori che esse condividono). - Siate aperti ai suggerimenti ed alle possibilita'. Se assieme al vostro messaggio si trasmette questa attitudine: "Le cose si fanno a modo nostro o non si fanno per nulla", scordatevi di attrarre nuove persone. Essere disponibili all'ascolto ed alla modifica dovrebbe essere un'abitudine per voi: cercate di veicolare questa apertura nei modi della vostra comunicazione, offrendo spazi e tempi alle persone per condividere le loro idee, le loro preoccupazioni ed intuizioni (ne trarrete spesso anche il vantaggio di migliorare le vostre azioni grazie a questi nuovi apporti). - Parlate. Non affidate la comunicazione solo ai volantini, ai messaggi di posta elettronica, ai manifesti murali. Afferrate ogni occasione in cui potete parlare in pubblico: dell'istanza di cui vi occupate, del vostro gruppo e dei vostri scopi. Quanto meglio riuscirete a raccontare chi siete e cosa fate, tanto piu' crescera' la vostra influenza. Se durante gli incontri pubblici ve ne state silenziosi in un angolo, confidando che il volantino distribuito all'ingresso parlera' per voi, state commettendo un errore. Inoltre, se siete donne, e' probabile che tenderete ad intervenire molto meno degli uomini (almeno nei contesti misti): vi ribadisco che l'ascolto e' importante, e mi inchino alla vostra spiccata attitudine in questo senso, ma vi consiglio di meditare sul bilanciamento fra ascolto e parola. Personalmente, ho ormai partecipato a centinaia di incontri in cui le donne presenti non parlavano, ed esprimevano dubbi, opinioni ed idee solo al termine degli incontri stessi, fuori dalla sala, in piccoli gruppi informali dove si trovavano piu' a loro agio. Ragazze, quello che avete pensato pu' anche non funzionare, ma se invece fosse l'idea giusta, quella che ci mancava per rendere l'azione splendidamente efficace? C'e' bisogno del vostro apporto a livello creativo e decisionale, non dimenticatelo. Inoltre, qualora la vastita' del gruppo e la "solennita'" dell'incontro vi inibiscano, usate cio' che sapete gia' fare: invece di riunirvi in piccoli gruppi dopo, fatelo prima, e nominate fra voi una rappresentante che parlera' in pubblico, e che voi vi impegnate a sostenere durante lo sforzo che compira' a nome di tutte. - Ricordate che le persone sentono cio' che vogliono sentire. Questo per dire che in genere le persone non si spostano dalla loro opinione per il semplice fatto di averne udita una contraria. Coloro che non la pensano come voi, e che voi volete pero' raggiungere, non busseranno alla vostra porta. Dovete percio' trovare sistemi di incontrarli: un tavolo di discussione, una riunione aperta, voi stessi che partecipate ad una delle loro iniziative e prendete parola, ecc. - Non aspettatevi risultati tangibili domani mattina. Che ci piaccia o no, per fare le cose bene ci vuole tempo. Le opinioni cambiamo lentamente: dopotutto, le persone le hanno formate nel corso di una vita, e non le muteranno dopo una sola conversazione con voi o dopo aver ricevuto per la prima volta il vostro messaggio. Influenzare le persone affinche' cambino le loro abitudini richiede forse ancora piu' tempo. Alcune cose le vedrete finalmente cambiare dopo anni di lavoro: la cosa importante, anche nella comunicazione, e' essere persistenti. * 6. E se provassimo ad usare alcuni piccoli "trucchi"? - Persuasione. Se tutti attorno a voi stessero compiendo una determinata azione, vi unireste ad essi? Stando alla "legge della persuasione" e' molto probabile che potreste. Se attorno al tavolo dove si firma la vostra petizione c'e' un mucchio di gente, e' facile che i passanti ne siano incuriositi, e si avvicinino. Se avete distribuito le vostre borsette di carta riciclata a meta' dei vostri concittadini, l'altra meta' vorra' sapere dove le hanno prese, e se possono averne una anche loro. - Date qualcosa in cambio. Eravate piccolini/e, quando avete appreso questo: se qualcuno vi sorride, ci si aspetta che voi sorridiate in risposta; se qualcuno vi fa un regalo a Natale, e voi non avete nulla per ricambiare, vi sentite maleducati, eccetera. L'idea della reciprocita' puo' essere molto potente nel convincere altri a fare qualcosa, in special modo rispetto alla raccolta di fondi. Per esempio, se siete un gruppo antiviolenza, potreste spedire alle persone del vostro indirizzario il nastro bianco che indica l'opposizione alla violenza domestica, ringraziandoli per il loro passato sostegno e chiedendo di indossare il nastro quale sostegno visibile alla vostra prossima campagna. Visto che ci siamo, nella lettera aggiungerete che se pensano ne valga la pena, potrebbero aiutarvi con un contributo finanziario, anche piccolissimo, affinche' voi possiate continuare il vostro lavoro. - Mettete le persone nella condizione di dirvi di si'. In genere, quando le persone fanno delle affermazioni, sono restie a negarle il minuto dopo, perche' vogliono apparire logiche e coerenti. Percio', se qualcuno concorda con voi per tre punti del vostro ragionamento, sara' difficile che rigetti il quarto. Esempio: "Lei pensa che i bambini e le bambine abbiano diritto alla miglior istruzione possibile?" (nemmeno Belzebu' vi dira' di no), "Si', certamente", "Ed avere una biblioteca per ragazzi/e a disposizione aiuterebbe, secondo lei?", "Be', si', credo di si'", "Sono felice che lei sia d'accordo con me. Infatti il mio gruppo sta lavorando proprio per questo. Posso spiegarle qualche dettaglio in piu'?", "Ehm, certo", "Abbiamo bisogno del sostegno della comunita', per realizzare il progetto, e quindi anche del suo. Sarebbe disposto ad aiutarci in uno di questi modi?" (offrite piu' opzioni: coinvolgimento diretto, supporto finanziario, pubblicizzazione, eccetera). * 7. Adeguate il vostro messaggio alla "lingua" parlata da coloro che intendete raggiungere. Ovvero, apprendete cosa il pubblico a cui vi rivolgete vuole e crede. Fate le vostre ricerche prima di sviluppare un piano per la comunicazione, o di incontrare gruppi direttamente (in questo caso ponete loro domande intese a conoscerli meglio, prima di tentare di coinvolgerli); altrimenti, le vostre idee ed i vostri suggerimenti potrebbero essere ignorati per ragioni che voi neppure sospettate. Esempio: una volontaria educatrice alla salute di una ong attualmente all'opera nell'Africa sub-sahariana ha tentato per mesi di convincere i giovani ad usare il preservativo per proteggersi dall'aids. Veniva ascoltata con molta attenzione e gentilezza, ma i suoi sforzi non sortivano alcun risultato. Chiacchierando informalmente con ragazze e ragazzi, ha compreso che l'idea di avere una famiglia, e di avere bambini prima di morire era molto importante per loro, e costituiva il maggior blocco all'uso del preservativo. Inoltre, dalle conversazioni scaturiva un senso fatalistico: "Dio mi prendera' con se' quando vorra', e' cosi' che vanno le cose." Una volta capito questo, la nostra amica e' stata in grado di rimodellare la propria comunicazione, parlando loro in termini di protezione del loro stesso sogno (la famiglia e dei figli), ed ha ottenuto un sensibile successo. 4. RIFLESSIONE. LUCIANO BENINI: CONTRO IL TERRORISMO, CONTRO LA GUERRA [Ringraziamo Luciano Benini (per contatti: luciano.benini at tin.it) per averci messo a disposizione il testo di questo suo intervento al consiglio comunale di Fano. Su un punto di questo intervento vorremmo esprimere, ancora una volta, il nostro diverso parere: a nostro avviso la strage di Nassiriya e' certo anche un'azione di guerra, ma insieme e' anche un atto di terrorismo. Chi analizza la guerra in corso e rammemora la storia dello "jus belli" (una storia resa ormai obsoleta e fin arcaica dalla feroce barbarie delle guerre contemporanee che nessuna regola conoscono se non la massimizzazione degli eccidi, l'annientamento dell'altro, di ogni altro da se' che limiti l'appropriazione totale e totalitaria delle risorse e dei poteri da parte dei rapinatori piu' forti) sa che ormai guerra e terrorismo coincidono, e non solo perche' l'una alimenta l'altro e viceversa, ma perche' nei mezzi e nei fini essi sono diventati una sola cosa. Cosi' la strage di Nassiriya e' terrorismo e guerra a un tempo, come i bombardamenti americani sono anch'essi a un tempo guerra e terrorismo, come era terrorismo e guerra contro lo stesso popolo iracheno il regime di Saddam Hussein. E dice quindi bene Luciano Benini, che a tutte le guerre e a tutti i terrorismi occorre opporsi, ed occorre opporsi con la scelta nitida e intransigente della nonviolenza. Luciano Benini, gia' presidente del Movimento Internazionale della Riconciliazione, da sempre impegnato in molte attivita' e iniziative di pace e di solidarieta', e' una delle persone piu' prestigiose dei movimenti nonviolenti in Italia] In questa vicenda della strage di Nassirya ci sono alcune cose che ci uniscono: il dolore per i morti, tutti i morti, civili e militari, italiani e iracheni, la vicinanza umana e cristiana con le famiglie degli uccisi, la condanna per chi con la propria violenza ha causato tante vittime. Ma in tutto il resto la pensiamo molto diversamente dal diluvio di retorica che ci ha sommerso in questi giorni, complici mezzi di informazione ormai funzionali al regime, che hanno rinunciato nella quasi totalita' dei casi a ragionare e a consentire di parlare a chi dissente. Ci sembrava impossibile riuscire ad emergere dal mare di menzogne, luoghi comuni, ipocrisia di questi giorni: poi abbiamo cominciato ad ascoltare e le ggere parole diverse, che ci hanno aperto il cuore e la mente. Ha cominciato don Vinicio Albanesi, presidente del Coordinamento nazionale delle comunita' di accoglienza, il quale il giorno dopo la strage ha scritto: "E' sempre terribile la notizia della morte in guerra di un padre, di un figlio, un fratello, un fidanzato, un marito, un amico. [Il dolore] lo proveranno tutto, senza sconti, le famiglie dei nostri carabinieri e militari, morti in Iraq. Gli uomini delle istituzioni faranno di tutto per dare solennita' a quelle morti: funerali di stato, con bandiere, fanfare e medaglie. Alle famiglie resteranno foto, lettere, telefonate. Presto ingialliranno, per lasciare il posto al silenzio duraturo della scomparsa del loro caro. Hanno chiesto di non fare polemiche: tutti silenziosi di fronte alla morte. Ma nonostante il silenzio imposto, rimane la domanda se il sacrificio di quelle vite era necessario. Noi rispondiamo di no: come non era necessaria la guerra. Hanno manomesso rapporti di intelligence dei loro paesi pur di convincere l'opinione pubblica che era necessaria; si sono autoproclamati angeli giustizieri prima contro le armi di distruzione di massa, poi contro il dittatore Saddam, ora contro il terrorismo. Giustificazioni postume per dire a tutti che la guerra era doverosa. L'Italia ha spedito contingenti di uomini, soprattutto del sud che, con l'essere militari, si riscattano dalla disoccupazione e dalla vita precaria. Hanno dato giustificazioni altruiste e nobili a una guerra che non era ne' nobile, ne' gratuita. Qualcuno aveva scongiurato di ricorrere a tutti i mezzi, ma non alla guerra, per fermare Saddam: ricordiamo tra questi il papa. Ha invocato, pregato, attivato messaggeri e diplomazia. Inascoltato, perche' occorreva liberare l'umanita' dalle forze del male, rimproverandolo, nemmeno troppo discretamente, di favorire la feroce dittatura di Saddam. In queste ore, nella nostra Italia, la giustificazione della presenza italiana in Iraq ondeggia tra l'immagine di soldati forti che combattono il terrorismo e quella di portatori di umanita' che fraternizzano con le popolazioni locali. In Iraq incombe una guerra, dichiarata vinta, ma che si dimostra non vinta. E tra le tante vittime risultano nostri concittadini perche' sono stati identificati con il nemico. I nostri soldati sono morti per una guerra di governi; nemmeno di popoli. L'affetto va alle famiglie dei nostri soldati e non colmera' l'inutilita' di vite perdute. Ritornino a casa tutti i nostri uomini: potranno partecipare alle missioni umanitarie solo ed esclusivamente quando saranno effettivamente garanti di pace e di fraternita': non certamente in Iraq". Poi due giornalisti. Cosi' ha scritto Giulietto Chiesa: "Adesso coloro che sono responsabili diretti di quelle nostre morti cercano canagliescamente di nascondere le loro responsabilita' sotto una coltre di retorica patriottica. Prima che la guerra cominciasse, poi a guerra iniziata, abbiamo riempito il paese di bandiere di pace. Molte sono rimaste - e giustamente - appese a dimostrare che fu giusto metterle, perche' la guerra non era affatto finita. Chi le ha lasciate aveva ragione. Le lasci, anche se i loro colori si sono stemperati. Chi le ha ritirate le riesponga. Chi non le aveva ancora messe le tiri fuori. E' un messaggio visivo potente, razionale, solidale, democratico. Moltiplichiamolo, nell'interesse della ragione e della pace". E Antonio Padellaro ha aggiunto: "Una missione, quella italiana, progettata e organizzata da un governo che voleva dichiarare guerra a Saddam senza farla e voleva fare la guerra insieme a Bush senza dichiararla. Non a caso si e' parlato di intervento "non belligerante", definizione tra le piu' ambigue della nostra storia patria. Ma i terroristi, purtroppo, non hanno colto la sfumatura". Si e' parlato di terrorismo in questa vicenda: ma e' davvero cosi'? Il terrorismo e' quello che si e' scatenato in Turchia contro le sinagoghe, uccidendo civili in un paese che non e' in guerra. Come si puo' parlare di terrorismo in un paese che e' in guerra, occupato militarmente da altre potenze straniere fra cui l'Italia, in una azione mirata contro un obiettivo militare e che ha ucciso soprattutto militari? Non e' molto piu' terrorismo il bombardamento dell'Iraq effettuato dagli americani, a seguito del quale sono morte migliaia di persone quasi tutte civili? Come puo' condannare l'azione di Nassirya chi sostiene che la guerra puo' essere lo strumento per la risoluzione delle controversie internazionali, come crede il governo americano, come crede il governo italiano? Noi che affermiamo il rifiuto assoluto della guerra, senza se e senza ma, possiamo con credibilita' condannare la strage di Nassirya, non puo' farlo chi di quella strage e' il principale responsabile per aver mandato al macello giovani di appena vent'anni. Si', mandato al macello, anche se erano volontari, e ben pagati. Fra le lacrime la moglie di uno di quei soldati ha detto: "Gli avevano fatto credere che sarebbe andato a fare del bene in un'azione di pace, ed invece l'hanno mandato a fare la guerra". Li hanno chiamati eroi i giovani morti: "Felice il paese, che non ha bisogno di eroi" scriveva Bertolt Brecht. Se proprio di eroi dobbiamo parlare, allora ci viene in mente Annalena Tonelli, la volontaria italiana uccisa qualche mese fa in Africa dopo aver servito per trenta anni i piu' sofferenti. O Moreno Locatelli, ucciso dieci anni fa a Sarajevo da un cecchino, volontario dei Beati i costruttori di pace. Donne e uomini di pace davvero. Per loro niente funerali di Stato, niente lutto nazionale: non e' funzionale al regime chi pratica il dialogo e la carita' anche coi musulmani, o chi crede che la pace si conquista con la nonviolenza e non con le armi. Noi pensiamo che il modo migliore per onorare i soldati morti sia quello di rafforzare il nostro impegno contro tutte le guerre e gli strumenti che le rendono possibili. La morte dei militari italiani in Iraq, che ci addolora come quella di ogni vittima di tutte le violenze, e' conseguenza della ingiustificabile guerra preventiva degli Stati Uniti e della presenza militare italiana, che risulta non di pace ma di fiancheggiamento della conquista militare. Il nostro dolore e' anche maggiore per la vicinanza che sentiamo a questi giovani ed alle loro famiglie, e per la consapevolezza che non si e' fatto abbastanza per impedire la loro partenza. * Crediamo che il governo debba ritirare un contingente militare che non doveva inviare, ed agire subito per sostenere la costituzione di Corpi civili di pace addestrati per missioni di pace in contesti come quello iracheno. Ogni rappresentante delle istituzioni, a partire dal capo dello Stato, ogni forza presente nel governo e in parlamento e' chiamata ad assumersi la propria responsabilita'. Una comune iniziativa europea volta a portare distensione e pacificazione in quell'area sembra la risposta adeguata. A questa intendiamo collaborare. In questa prospettiva invitiamo i cittadini a sostenere concretamente la presenza di organismi umanitari in Iraq e nel contempo ad opporsi alla ulteriore presenza militare italiana, ed esortiamo i militari a rifiutarsi di parteciparvi. I soldati morti sono da onorare in quanto vittime, non perche' sono caduti nel compiere un dovere cui dovevano rifiutarsi. Don Lorenzo Milani ricorda a tal proposito, nella sua lettera ai giudici del 1965, il Concilio di Trento che ha affermato: "Se le autorita' politiche comanderanno qualcosa di iniquo, non sono assolutamente da ascoltare. Nello spiegare questa cosa al popolo il parroco faccia notare che premio grande e proporzionato e' riservato in cielo a coloro che obbediscono a questo precetto divino". Non e' vero che ritirando i militari si rinuncia a sostenere la popolazione irachena. E' vero il contrario. Molto di piu' si potrebbe fare se i 40 milioni di euro che si spendono ogni mese per mantenere il contingente militare italiano fossero usati per ricostruire scuole, ospedali, centrali idriche. Non e' vero che e' necessaria una presenza militare per fare questo: lo dimostrano le ong italiane che con decine di operatori operano da mesi con interventi umanitar i in tutto il paese. Sono questi gli interventi umanitari che bisogna sviluppare. Ancora una volta sono le parole di don Milani che ci aiutano a comprendere. Scrisse infatti don Lorenzo a conclusione della sua risposta ai cappellani militari: "Rispettiamo la sofferenza e la morte, ma davanti ai giovani che ci guardano non facciamo pericolose confusioni fra il bene e il male, fra la verita' e l'errore, fra la morte di un aggressore e quello della sua vittima. Se volete diciamo: preghiamo per quegli infelici che, avvelenati senza loro colpa da una propaganda d'odio, si son sacrificati per il solo malinteso ideale di Patria...". 5. RIFLESSIONE. MARCO D'ERAMO INTERVISTA MICHAEL WALZER [Dal quotidiano "Il manifesto" del 18 novembre 2003. Marco D'Eramo e' uno dei piu' acuti giornalisti e saggisti italiani, esperto di questioni internazionali, ha scritto e curato vari utili libri. Su Michael Walzer riprendiamo la seguente scheda apparsa sul quotidiano di spalla all'articolo sotto riportato "Michael Walzer e' nato a New York nel 1935, e' sposato e ha due figlie. Si e' laureato a Brandeis, ha poi studiato due anni a Cambridge e ha conseguito il Ph. D. ad Harvard nel 1961. Il suo primo e importantissimo libro, sulla nascita degli Stati Uniti, e' The Revolution of the Saints: A Study in the Origins of Radical Politics (Harvard 1965, trad. it. Claudiana 1996). Ha insegnato a Princeton (1962-66), ad Harvard (1966-80), prima di tornare a Princeton nel 1980 come ordinario dell'Institute for Advanced Study. Oltre che direttore della rivista "Dissent", e' membro del comitato editoriale di "Philosophy and Public Affairs e di Political Theory". E' collaboratore della "New Republic". E' coinvolto nella vita della comunita' ebraica statunitense: fa parte del rettorato della Hebrew University, partecipa attivamente all'International Affairs Committee of the American Jewish Congress e dell'Institute for Jewish Policy Planning and Research al Synagogue Council of America. Tra i suoi moltissimi altri libri, sono tradotti in italiano Guerre giuste e ingiuste (Laterza 1990); Sfere di giustizia (Feltrinelli 1987); Esodo e rivoluzione (Feltrinelli 1986, ristampa 2003); Interpretazione e critica sociale (Edizioni Lavoro 1990); Cosa significa essere americani (Marsilio 1992, ristampa 2001); Sulla tolleranza (Laterza, 1998 e 2000); Ragione politica e passione (Feltrinelli 2001). Vi sono poi libri il cui titolo italiano non corrisponde a quello inglese: L'intellettuale militante (il Mulino 1991); Politica e profezia (Edizioni Lavoro 1998); Geografia della morale (Dedalo 2001), Ragione e politica. Per una critica del liberalismo (Feltrinelli 2001), Il filo della politica. Democrazia, critica sociale, governo (Diabasis 2002), La liberta' e i suoi nemici nell'eta' della guerra al terrorismo (Laterza 2003)". Non c'e' bisogno di dire che alcune opinioni espresse da Walzer in questo colloquio non ci persuadono affatto, ma a maggior ragione ci sembra utile che i lettori possano conoscerle e trarne motivo di riflessione] All'improvviso la pioggia cade a dirotto mentre il taxi mi porta dalla stazione ferroviaria (un'ora e venti di treno da New York) all'Institute of Advanced Study, dove insegno' Albert Einstein. Il tergicristallo non fa a tempo a spazzare le cascate d'acqua, quando superiamo inzuppati joggers colti di sorpresa dal piovasco, sotto gli alberi maestosi, in mezzo a sterminati prati tra cui sorgono isolati gli edifici di una delle piu' prestigiose, e piu' care, universita' al mondo. Ancora una volta Michael Walzer mi ha dato appuntamento alle tre e mezza del pomeriggio, ora del te' per i membri dell'istituto, nella sala con poltrone e tappeti che, attraverso grandi porte-finestre, si apre sul parco curatissimo. Ci sediamo nel suo ufficio dove e' succeduto in cattedra al grande Albert Hirschman (quello di Lealta', defezione, protesta). Michael Walzer e' una delle figure piu' eminenti della filosofia politica americana, e uno degli esponenti piu' attivi nel dibattito della sinistra, in particolare dalle pagine della rivista "Dissent", di cui e' direttore, che raccoglie una parte importante della sinistra ebraica newyorkese. E, come si vede dalla scheda bio-bibliografica pubblicata qui sopra, con il passare degli anni l'appartenenza alla comunita' ebraica ha acquistato un peso sempre piu' rilevante nella sua vita e nella sua riflessione. Preoccupazioni per l'esistenza dello stato d'Israele si sono intrecciate alle sue riflessioni sulla "guerra giusta". Cosi', contro i vari Noam Choamsky, Howard Zinn ed Edward Said, dopo l'11 settembre 2001, Michael Walzer ha appoggiato con forza la campagna in Afghanistan. Allora si creo' una rottura insanabile tra l'anima liberal della sinistra e quella radical. La guerra in Iraq sembrava aver un po' ricompattato i ranghi dell'opposizione americana, ma una frattura rimane, come si evince dal saggio An American Empire? che Walzer ha pubblicato sull'ultimo numero di "Dissent", dove la polemica sta tutta nel punto interrogativo. - Marco D'Eramo: Come si e' evoluta la sua posizione rispetto a un anno fa? - Michael Walzer: Non so se si e' evoluta. Penso ancora, come ho scritto sulla "New York Review of Books" e sul "Times" a febbraio e a marzo, che non dovevamo andare in guerra contro il regime iracheno, mentre ero favorevole a un suo contenimento che avrebbe dovuto implicare un certo uso della forza. Ma ero contro una vera e propria guerra, e penso ancora che fosse moralmente e politicamente sbagliata. Che lo sia politicamente, e' sempre piu' evidente. Ma una volta iniziata la guerra, bisognava vincerla: non ho manifestato a favore di un immediato cessate il fuoco perche' qualunque esito diverso da una vittoria americana sarebbe stato interpretato in Medio Oriente e nel mondo come una vittoria di Saddam, il che sarebbe stato un disastro per gli iracheni e per gli abitanti della regione in generale. Una volta vinta, io ero, e sono, a favore di un'occupazione multilaterale, ma gli uomini di George W. Bush sono stati dopo la guerra altrettanto unilateralisti di quanto lo erano stati prima della guerra e, a mio avviso, gli europei - in particolare francesi, tedeschi e russi - sono stati altrettanto non di aiuto quanto lo erano prima della guerra. Gli uomini di Bush volevano condividere i costi dell'occupazione, ma non l'autorita', mentre gli europei volevano condividere l'autorita' ma non i costi. Erano due posizioni insostenibili che hanno portato a uno stallo che non fa altro che confermare l'unilateralismo americano, che e' pessimo, perche' quest'occupazione mi pare sempre piu' ardua politicamente: e' sempre piu' improbabile che l'occupazione possa concludersi con un regime di governo decente. Pero', proprio perche' eravamo contrari alla guerra, adesso non possiamo prendere e andarcene: ci sono responsabilita' che si accompagnano a ogni guerra, anche a una guerra ingiusta, specie a una guerra ingiusta. Cosi' uno non puo' squagliarsela, ma deve sperare intanto che gli sciiti iracheni non somiglino agli sciiti iraniani di vent'anni fa, e che i fattori che stanno agendo nella politica iraniana siano al lavoro anche in quella irachena. In secondo luogo bisogna sperare in una costituzione che stabilisca protezioni per le minoranze contro una legge della maggioranza semplice (che e' sciita): protezioni per la minoranza curda - un'autonomia che non finisca nell'indipendenza - e per la minoranza sunnita che e' ora la maggior forte di resistenza e opposizione. Mi pare che una soluzione positiva di questo tipo sarebbe piu' facile da raggiungere se le Nazioni Unite avessero un ruolo piu' importante. - M. D'E.: Ma non c'e' una contraddizione paradossale tra un'amministrazione che in patria e' contraria al nation building, cioe' a un ruolo importante dello stato, e che invece si e' costretta da sola a perseguire il nation building all'estero, in un paese occupato? - M. W.: Certo, non e' il governo piu' adatto a portare a termine il lavoro che va fatto. Puo' fallire o riuscire nell'instaurare la democrazia a Baghdad, ma di sicuro e' riuscito a introdurre il capitalismo clientelare a Baghdad con questi contratti appaltati a imprese ammanicate all'amministrazione Bush, con un disinteresse a costituire un'imprenditoria irachena competente e un ceto di tecnici iracheni qualificati. - M. D'E.: La guerra all'Iraq e' stata presentata come un tassello della "guerra al terrorismo". Proprio questo concetto mi sembra sempre piu' scivoloso e pericoloso: la guerra e' un preciso stato giuridico, con leggi di eccezione, con un nemico definito, con un preciso orizzonte temporale. Mentre la "guerra al terrorismo" - una metafora come la "guerra alla droga" - introduce una situazione giuridicamente ambigua, uno stato di guerra in tempo di pace, una terra di nessuno nel diritto: non si dichiara "guerra agli assassini", o "guerra agli scippatori". Inoltre anche il nemico e' vaghissimo: gli Usa hanno dichiarato guerra non ad Al Qaeda, ma al "terrorismo", e si sa che i tuoi martiri sono i miei terroristi e che i terroristi che vincono diventano martiri e i martiri di una causa che ha perso diventano terroristi. - M. W.: No, penso che c'e' una definizione ragionevolmente oggettiva di cio' che e' terrorismo. Gli algerini vinsero e conquistarono l'indipendenza, ma la storia che adesso e' scritta dagli algerini dice che l'Fln adotto' tattiche terroriste. E il primo governo instaurato nell'Algeria indipendente, uccise, imprigiono' o esilio' sistematicamente chiunque fosse stato implicato nel terrorismo. - M. D'E.: Ma il termine "terrorismo" divenne di uso comune quando i tedeschi indicarono i partigiani della resistenza come "terroristi". - M. W.: E la Bulgaria fu definita una "democrazia popolare"! Le parole possono essere distorte in politica. Non ci sono parole impossibili da distorcere. Si deve usare un concetto di democrazia che ci spiega come mai non si applicava alla Bulgaria del 1980, e un concetto di terrorismo che non si applica ai partigiani del maquis antinazista. Altra cosa e' il concetto di "guerra al terrorismo". In primo luogo, non penso che la guerra contro l'Iraq ne faccia parte. La guerra in Afghanistan poteva essere connessa con la lotta contro Al Qaeda, contro questa particolare organizzazione terrorista responsabile dell'11 settembre. L'Iraq era una guerra che aveva altri scopi. La "guerra al terrorismo" e' una metafora, come la "guerra alla droga", e crea problemi non di guerra giusta o ingiusta, ma di liberta' civili, perche' contro il terrorismo l'azione da condurre e' quella di polizia, e l'azione di polizia mette sempre in questione le liberta' civili. - M. D'E.: E Guantanamo? - M. W.: I prigionieri stanno sempre la', e il governo non sa cosa fare, non sa se processarli, pensa che rimandarli a casa sia pericoloso. Ormai e' diventato uno scandalo e anche l'associazione centrista degli avvocati nord-americani pensa che l'amministrazione stia stiracchiando il diritto. - M. D'E.: Nel suo ultimo articolo su "Dissent", lei sostiene che a rigore non si puo' parlare d'impero americano perche' impero e' un concetto vecchio che non riesce a tenere conto delle nuove forme di dominio e di controllo. Mi pare invece che l'amministrazione Bush stia tornando a un impero coloniale ottocentesco. - M. W.: Certo, tentano, ma non possono riuscirci. E la prova e' che paesi che noi pensavamo fossero nostri satelliti, nostre Bulgarie, stati come Cile, Messico e Turchia ci hanno sfidato sull'Iraq. E non c'era niente che potessimo fare. - M. D'E.: Si', gli Usa sono il primo colonialismo culturale che si esercita per mezzo dei mass media e del web, e non attraverso gli apparati ideologici tradizionali come scuola, religione. Ma accanto ai nuovi strumenti, usa quelli classici: il potere di battere moneta - il dollaro ha il valore deciso dagli Usa -, il potere militare - occupa piu' di 100 paesi con 750 basi nel mondo e addestra ufficiali di 133 paesi. Questo e' dominio classico. E ora l'amministrazione Bush vuole accelerare il dispiegamento di un esercito iracheno contro la guerriglia: e' una vecchia tecnica coloniale, di uso delle truppe indigene, gli ascari, i sepoys, gli harkis. - M. W.: Cosa vuol dire? Noi vogliamo e dobbiamo districarci dall'Iraq e quindi ci deve essere un esercito iracheno che garantisca la stabilita' del paese e che permetta di andarcene. Il grande errore e' stato compiuto all'inizio dissolvendo l'esercito iracheno. Un Iraq indipendente dovra' avere il suo esercito, e non so quale sara' la relazione di questo Iraq indipendente con l'America. Se pensiamo che sara' un satellite, sospetto che ci sbagliamo, che non saremo capaci di farlo. - M. D'E.: E' piu' probabile un esito di tipo latinoamericano. Nella regione questa tendenza e gia' presente: Mubarak in Egitto e' pro-americano e tirannico e corrotto. Il Kuwait non e' un esempio di democrazia. Come disse un presidente americano del dittatore Somoza: "E' un figlio di puttana, ma e' il nostro figlio di puttana". - M. W.: Si', puo' darsi che produciamo un altro Saddam. Certo non mi aspetto di essere invitato in un prossimo futuro a un seminario dell'Universita' di Baghdad sulla cittadinanza democratica. No, ma io credo che il soft power clintoniano s'inserisca nell'internazionalismo liberale: e' questa la forma che la legge americana ha avuto almeno fin da Truman, seppur con qualche eccezione in America latina. Gli uomini di Bush si ribellano a questa concezione, ma falliranno, come si puo' vedere in Iraq. L'11 settembre ha permesso loro di perseguire il proprio ordine del giorno, che era gia' prestabilito fin dal loro arrivo alla casa bianca, e che era quello di un impero tradizionale, unilateralista, disinteressato alla Corte penale internazionale, a Kyoto, ai trattati sui missili balistici. Ma non credo che il mondo sia disponibile a questa politica e quest'impostazione porra' gli Usa in guai sempre piu' seri. 6. MAESTRE. ROSSANA ROSSANDA: LA DISTINZIONE E IL LEGAME [Da Rossana Rossanda, "Da Marx a Marx", in AA. VV., Classe, consigli, partito, Alfani, Roma 1974, p. 102 (ma originariamente apparso sul "Manifesto" mensile, n. 4 del settembre 1969). Rossana Rossanda e' nata a Pola nel 1924, allieva del filosofo Antonio Banfi, antifascista, dirigente del Pci (fino alla radiazione nel 1969 per aver dato vita alla rivista "Il Manifesto" su posizioni di sinistra), in rapporto con le figure piu' vive della cultura contemporanea, fondatrice del "Manifesto" (rivista prima, poi quotidiano) su cui tuttora scrive. Impegnata da sempre nei movimenti, interviene costantemente sugli eventi di piu' drammatica attualita' e sui temi politici, culturali, morali piu' urgenti. Opere di Rossana Rossanda: Le altre, Bompiani, Milano 1979; Un viaggio inutile, o della politica come educazione sentimentale, Bompiani, Milano 1981; Anche per me. Donna, persona, memoria, dal 1973 al 1986, Feltrinelli, Milano 1987; con Pietro Ingrao et alii, Appuntamenti di fine secolo, Manifestolibri, Roma 1995; con Filippo Gentiloni, La vita breve. Morte, resurrezione, immortalita', Pratiche, Parma 1996; Note a margine, Bollati Boringhieri, Torino 1996. Ma la maggior parte del lavoro intellettuale, della testimonianza storica e morale, e della riflessione e proposta culturale e politica di Rossana Rossanda e' tuttora dispersa in articoli, saggi e interventi pubblicati in giornali e riviste] Nella distinzione che Marx compie fra essere sociale e coscienza sta anche il legame ombelicale profondo fra i due momenti; legame che li sommuove ed interseca. 7. MAESTRE. TAMAR PITCH: LA TENSIONE [Dall'intervento di Tamar Pitch in AA. VV., Persona, liberta', sessualita': culture a confronto, quaderno di "Donne, parlamento, societa'", Roma s. d. (ma ragionevolmente 1985), atti del convegno svoltosi a Roma il 15 febbraio 1985. Tamar Pitch, prestigiosa intellettuale, antropologa e sociologa, insegna sociologia del diritto presso la facolta' di giurisprudenza dell'universita' di Camerino. Fa parte del comitato scientifico del Progetto citta' sicure della Regione Emilia Romagna ed e' giudice onorario presso il Tribunale per i minorenni di Roma. Collabora a numerose riviste italiane e straniere. Tra le sue opere: La devianza, La Nuova Italia, Firenze 1975; Sociologia alternativa e nuova sinistra negli Stati Uniti d'America, La Nuova Italia, Firenze 1977; Responsabilita' limitate, Feltrinelli, Milano 1989; AA. VV., Donne in carcere, Feltrinelli, Milano 1992; Un diritto per due. La costruzione giuridica di genere, sesso e sessualita', Il Saggiatore, Milano 1998] La tensione, la necessaria tensione tra diritti e bisogni, tra diritti civili e diritti sociali, che cosa vuol dire? Vuol dire che bisogna tener conto di tutte e due le cose, e di come esse si intrecciano. 8. LIBRI. L'INDICE DELL'ANNUARIO DELLA PACE 2003 [Da Luca Kocci (per contatti: lkocci at tiscali.it) riceviamo e diffondiamo l'indice del terzo Annuario della pace, realizzato dalla Fondazione Venezia per la ricerca sulla pace, a cura di Luca Kocci, Asterios editore, Trieste 2003, pp. 376, a giorni in libreria] Presentazione, Fabio Gava; Progetto Iride anno terzo, Giovanni Benzoni; Introduzione, Luca Kocci. 1. Cronologie. "Dov'erano i pacifisti?". Dodici mesi di movimento pacifista, Alessandro Marescotti; I fatti di un anno (giugno 2002-maggio 2003), Salvatore Scaglione. 2. Geografie. Afghanistan, una pace lontana, Graziella Longoni e Laura Quagliuolo; La democrazia difficile dei Balcani, Giulio Marcon; Il laboratorio brasiliano, Ettore Masina; Cecenia, una guerra infinita, Giulietto Chiesa; Sudan: sara' l'anno della pace?, Diego Marani. 3. Questioni. Guerra perpetua e nuovo inizio, Raniero La Valle; La guerra del petrolio, Michele Paolini; L'Onu e la guerra irachena, Lauso Zagato; Alleanza atlantica e Unione europea: dalla cooperazione al partenariato strategico, Cristiana Fioravanti; Organizzazione mondiale del commercio e guerra, Francisco Leita; Il diritto di guerra al tempo della guerra al diritto, Domenico Gallo; Pace e Costituzione europea, Nicola Vallinoto; L'informazione sociale tra la rete e il teleschermo, Carlo Gubitosa; La Chiesa cattolica e la pace: bilancio di un anno. Dialogo con Tonio Dell'Olio, Gianni Novelli; L'Islam italiano e la pace: bilancio di un anno, Giovanni Sarubbi; Un movimento per fermare le guerre e costruire la pace, Nanni Salio; "Fino a quando avro' fiato, io gridero': pace!". Fenomenologia del papa pacifista, Luigi Accattoli; L'apocalisse secondo George Bush. Dialogo con Alessandro Portelli, Valerio Gigante e Luca Kocci; Il governo italiano, la pace e la guerra: bilancio di un anno, Massimo Paolicelli; Commercio delle armi: dalla legge italiana alla campagna europea, Giorgio Beretta. 4. Documenti. The national security strategy of Usa: il manifesto dell'Impero, Raniero La Valle; Pacem in terris: la pace e' possibile. Dialogo con Loris Capovilla, Giovanni Benzoni e Luca Kocci. 5. Fondamenti. "Quando si sconvolge un sistema internazionale". Intervista ad Antonio Cassese, Salvatore Scaglione; Oriente e guerra, Piergiorgio Pasqualotto; Occidente e guerra, Raniero La Valle; Poesie, Michele Ranchetti. 6. Esperienze. Regioni per la pace: Campania - Giuliana Martirani; Toscana - Massimo Toschi; Veneto - Diego Vecchiato; Il Forum trentino per la pace - Vincenzo Passerini; Universita' per la pace, Valentina Mesolella; Traduttori per la pace, Andrea Spila; Riviste per la pace, a cura di Luca Kocci; Internet per la pace, Francesco Iannuzzelli; Libri per la pace. Consigli di lettura dagli "invisibili"; Agende per la pace: Agenda della pace - Giovanni Benzoni; Comportamenti di pace - Massimo Paolicelli; Ponti di pace sul Mediterraneo - Davide Berruti; La Convenzione permanente di donne contro la guerra, Lidia Menapace; La rete internazionale delle Donne in nero, Celeste Grossi; La Scuola di pace di Monte Sole, Nadia Baiesi; Cefalonia, isola della pace, Carlo Alberto Bolpin; Il Cocopa, Adriano Andruetto e Rosina Borgi; La comunita' internazionale dei Baha'i d'Italia, Maria Teresa Vogel. Attivita' della Fondazione Venezia per la ricerca sulla pace, Maurizio Cermel. Gli autori. 9. RILETTURE. CARLA CORSO, ADA TRIFIRO': ... E SIAMO PARTITE! Carla Corso, Ada Trifiro', ... E siamo partite! Migrazione, tratta e prostituzione straniera in Italia, Giunti, Firenze 2003, pp. 220, euro 10. Una raccolta di testimonianze e di riflessioni la cui lettura vivamente raccomandiamo. 10. RILETTURE. MARCELLA DELLE DONNE: CONVIVENZA CIVILE E XENOFOBIA Marcella Delle Donne, Convivenza civile e xenofobia, Feltrinelli, Milano 2000, pp. 156, euro 16,53. Un saggio di grande chiarezza ed efficacia. 11. RILETTURE. SARA MORACE: LE DONNE E LA GLOBALIZZAZIONE Sara Morace, Le donne e la globalizzazione. Domande di genere all'economia globale della ri-produzione, Rubbettino, Soveria Mannelli 2001, pp. VIII + 98, euro 6,20. Una lettura appassionante e necessaria. 12. RILETTURE. ANNAMARIA RIVERA: ESTRANEI E NEMICI Annamaria Rivera, Estranei e nemici. Discriminazione e violenza razzista in Italia, Deriveapprodi, Roma 2003, pp. 160, euro 13. Uno studio profondo e rigoroso arricchito da un cospicuo repertorio documentario. 13. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 14. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: luciano.benini at tin.it, angelaebeppe at libero.it, mir at peacelink.it, sudest at iol.it, paolocand at inwind.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Per non ricevere piu' questo notiziario e' sufficiente inviare un messaggio con richiesta di rimozione a: nbawac at tin.it Numero 738 del 23 novembre 2003
- Prev by Date: La nonviolenza e' in cammino. 737
- Next by Date: [Riflessioni] - E' morto Elvio Tortora... un uomo antico...
- Previous by thread: La nonviolenza e' in cammino. 737
- Next by thread: [Riflessioni] - E' morto Elvio Tortora... un uomo antico...
- Indice: