La nonviolenza e' in cammino. 732



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 732 del 16 novembre 2003

Sommario di questo numero:
1. Prime ed ultime risultanze di un'inchiesta privata sulla strage di
Nassiriya
2. Un sabato a Bisanzio
3. Quattro note sul terrorismo
4. Sull'impotenza dello pseudopacifismo
5. Giuliana Sgrena: dopo Nassiriya
6. Alessandro Pizzi: dopo Nassiryia
7. Rossana Rossanda: dopo Nassiriya
8. Andrea Cozzo: dopo Nassiriya
9. Gino Strada: dopo Nassiriya
10. Enrico Peyretti: dopo Nassiriya
11. Iaia Vantaggiato intervista Mario Rigoni Stern
12. La "Carta" del Movimento Nonviolento
13. Per saperne di piu'

1. PRIME ED ULTIME RISULTANZE DI UN'INCHIESTA PRIVATA SULLA STRAGE DI
NASSIRIYA

1. Queste sono le certe risultanze
di un'inchiesta privata sulla strage
di Nassiriya.

2. Ci siamo chiesti: sul luogo del delitto
chi trasse le vittime e le espose
all'agguato?

Ci siamo chiesti: quando una strage
in una sequenza si colloca di stragi
e' leggendo la sequenza che si coglie
chi muove i pezzi, li prende e li sacrifica
per quale piano, per quali vantaggi.
Quale partita si sta giocando qui?
Chi usa vite umane come scacchi?

Ci siamo chiesti: le vttime di guerra
di chi sono vittime?
Ci siamo chiesti: la guerra che uccide,
chi la scatena, chi ne trae frutto, chi
ne gode i profitti irrorati di sangue?

3. Abbiamo voluto ascoltare il coro dei morti.
Dei vivi il frastuono non ci ha distratto.
Sappiamo che sul luogo del delitto
torna poi l'assassino e con le fanfare. Sappiamo
che chi fa morire gli altri poi pretende
pronunciarne funebre l'elogio. Sappiamo
che chi altri fa morire, per cupo lucro,
per ideologia bestemmiatrice, per algida ignavia,
altri ancora continuera' a far morire
se non lo si ferma.

4. E questo abbiamo concluso:
quali siano stati i sicari ci e' ignoto, non cosi'
i mandanti.
E chi abbia mandato i sicari ci e' ignoto, non cosi'
chi ha mandato le vittime a morire.

E anche questo abbiamo concluso:
prima che altri debbano morire
quei mandanti possiamo arrestare:
da se stessi si sono smascherati
ora essi devon essere arrestati.

5. Era illegale mandare italiani in armi
nell'Iraq in guerra. Tutti
sapevamo che era illegale, sapevamo che era criminale.

Perche' si e' permesso al governo e al parlamento
di condannare questi innocenti a morte?

Perche' il presidente della Repubblica Italiana
non ha loro salvato la vita? Era suo dovere,
era in suo potere. Morire li ha lasciati.

Perche' nessun magistrato ha impedito quel crimine
che e' all'origine di questa strage ancora?

Era illegale mandare italiani in armi
nell'Iraq in guerra. Ora tornano essi nelle casse
non piu' vivi, inerti, per sempre
privati della luce dei giorni.

6. Perche' non abbiamo saputo salvarli?
Perche' non abbiamo voluto salvarli?

7. Questa relazione inviamo alle piu' alte
cariche dello stato italiano, poiche' hanno diritto
di sapere di cosa li accusiamo.

Questa relazione inviamo ancora
ai magistrati cui gravoso incombe
ed urgente il dovere di perseguire
i mandanti italiani a tutti noti
della famosa strage di Nassiriya.

Questa relazione inviamo inoltre
a tante persone amiche e a tante
che amiche non sono ma che hanno
parimenti il diritto e il dovere
di conoscere questi risultati
della nostra inchiesta privata,
di valutare se meritino ascolto,
di decidere cosa sia in capo a loro fare.

Questa relazione inviamo infine
ai sopravvissuti,
e ai colleghi, agli amici, ai familiari
delle vittime, il loro dolore
tra tante cose dopo la strage avvenute
e' l'unica cosa degna, l'unica cosa umana:
in quel dolore e in null'altro noi troviamo
la nostra patria: la comune umanita'.

2. EDITORIALE. UN SABATO A BISANZIO
Anche questo e' accaduto: la strage nelle sinagoghe, nel giorno del sabato,
a Istanbul. Nel cuore del cuore del mondo.
*
Vorremmo che i simboli - e questo crimine ne e' sovraccarico - non
nascondessero i fatti.
E i fatti sono i seguenti.
La strage. La strage di esseri umani innocenti. La strage di esseri umani
innocenti in preghiera. La strage di esseri umani innocenti in preghiera
nella sinagoga.
E quindi, anche: la ripresa, la continuazione, l'espansione della Shoah.
Il massacro di Istanbul non e' un episodio di un'altra vicenda, ma la
prosecuzione di una vicenda che comincia con la distruzione del tempio e la
deportazione della popolazione ebraica da parte dell'impero romano, e che
culmina nei lager.
Chi non percepisce questo, finge di non vedere.
*
Ma percepire questo significa che questa strage tutti ci riguarda e ci
convoca.
Poiche' essa non e' soltanto un episodio del terrorismo fondamentalista
islamico, ma la continuazione di una persecuzione antiebraica cui i
cristiani per secoli si sono dedicati come i carnefici piu' truci, di cui
l'Europa e' stato il teatro piu' spaventevole, e i poteri dominanti europei
gli esecutori piu' spietati.
Percepire questo significa interrogarci non solo sulle responsabilita'
altrui - dei regimi al governo in molti paesi arabi ed islamici, dei troppi
leader politici e religiosi irresponsabili, dei criminali che usano del
pretesto religioso per apporre una maschera ai loro efferati delitti; ma
anche sulle nostre responsabilita': quanto delle ideologie e delle retoriche
e delle pratiche dell'antisemitismo ancora fermenta tra noi? E quando
diciamo tra noi non diciamo soltanti i deliranti gruppuscoli neonazisti, o
gli scellerati uomini di governo che ancora esaltano Mussolini quando
parlano ex abundantia cordis, ma anche settori non irrilevanti della
sinistra italiana, ed anche del cosiddetto movimento per la pace e la
giustizia globale.
*
La strage di Istanbul ci chiede un impegno esplicito: di opposizione nitida
e senza reticenze all'antisemitismo comunque si travesta.
Ha scritto una volta Danilo Dolci, e non lo abbiamo piu' dimenticato:
"Auschwitz sta figliando nel mondo. Non sentite l'odore del fumo?".
*
Molte altre cose che in petto ci urgono avremmo in animo di dire, ma abbiamo
in queste ore il cuore in tumulto, la voce incrinata, lo sguardo offuscato
dalle lacrime ancora, ne scriveremo nei prossimi giorni.

3. RIFLESSIONE. QUATTRO NOTE SUL TERRORISMO
1. In epoche remote vi furono guerre condotte secondo regole; che noi
chiamiamo cavalleresche, per dirne la lontananza. Battaglie tra eserciti in
campo, salva talora la vita di chi si arrendeva, il saccheggio e la
riduzione in schiavitu' dichiarati come tali.
Tutto cio' e' preistoria.
Da oltre un secolo vi sono solo guerre terroristiche.
*
2. Il terrorismo oltre che crimine scellerato e' in primo luogo arte di
governo e costruzione del consenso. Sbaglia chi crede che la pratica di esso
sia prerogativa esclusiva di gruppi segreti e non possa avere per finalita'
altro che la disgregazione, per ideologia il nichilismo.
Il terrorismo e' strumento ideato da regimi, adottato dagli stati,
efficacissima tecnica di signoria territoriale, di leadership che unifica,
di reductio ad unum del corpo sociale; e' la tecnica prediletta - di
controllo sociale e ideologico, di repressione e di propaganda a un tempo -,
e supremo il sadico piacere, e fin l'emblema oltre che l'usbergo, di ogni
totalitarismo.
La ghigliottina e' il simbolo di quel "Terrore" che al fenomeno ha dato
nome; i gulag, i lager, la bomba di Hiroshima, ne sono state le
manifestazioni piu' palesi.
Non ci sono gradazioni nel terrorismo tra un piu' e un meno: vi sono poteri
terroristi, e vi sono coloro che si oppongono al terrorismo, ad ogni
terrorismo: tertium non datur.
*
3. E' vetusta e ormai grottesca astuzia dei terroristi dichiarare che stanno
lottando contro il terrorismo, e che "a brigante, brigante e mezzo". Ma un
brigante e mezzo e' un brigante ancora peggiore del brigante. Le stragi in
nome dell'umanita' sono stragi come quelle in nome di Dio, come quelle in
nome del nulla: le stragi sono stragi, e le chiacchiere restano chiacchiere.
Le chiacchiere degli assassini preparano altre stragi. E preparano altre
stragi le chiacchiere dei vigliacchi. Perche', appunto, tertium non datur:
se non si lotta contro le uccisioni, si e' complici delle uccisioni.
*
4. Il terrorismo in quanto permanente guerra ai civili, pone fine all'antica
distinzione tra teatro di guerra e resto del mondo: non vi e' che una sola
guerra, in un mondo unificato sotto il segno del terrore.
E non vi e' che un'unica opposizione alla guerra e al terrorismo che sono
una cosa sola: e quest'unica opposizione e' la nonviolenza, che a tutte le
guerre si oppone, che a tutte le stragi, a tutte le uccisioni si oppone.
Solo la nonviolenza puo' salvare l'umanita'.

4. RIFLESSIONE. SULL'IMPOTENZA DELLO PSEUDOPACIFISMO
In Italia, dicevamo or non e' guari, non c'e' un movimento per la pace.
Ci fosse stato, avrebbe difeso la legge fondamentale del nostro paese che al
nostro paese proibisce di muovere guerra altrui; e non sarebbe stato
difficile, con tutti gli strumenti politici, amministrativi, giuridici e
culturali che la nostra democrazia a noi privilegiati offre; ma ne e'
mancata la convinzione, ci si e' lasciati sedurre dalle sirene e dalle
prebende che la societa' dello spettacolo e il regime della corruzione
mettono a disposizione di chi, per stoltezza e presunzione, o per
superficialita' e piccineria, o per vizi piu' profondi, perde ad un tempo la
percezione della realta' e il sentimento della dignita'; e ci si e' lasciati
ridurre all'impotenza, e all'ignavia. Mentre la guerra divorava persone ci
si e' accontentati di agitar flabelli, di recitar sceneggiate e liturgie, ci
si e' persi tra simulacri.
Avessimo difeso quella legge che la partecipazione italiana alla guerra
irachena proibiva, avremmo impedito che governanti della risma di quelli
descritti in Fontamara inviassero ragazzi italiani in divisa a morire in
Iraq.
Ma in Italia non c'e' un movimento per la pace.
Per questo anche noi siamo complici del governo che ha mandato a morire i
ragazzi in divisa a Nassiriya.
*
Se vi fosse un movimento per la pace, e forse questa ennesima tragedia
aprira' gli occhi a molti, esso farebbe la scelta della nonviolenza; esso
elaborerebbe e praticherebbe una strategia alternativa di intervento nei
conflitti (quella su cui in questi mesi su questo foglio abbiamo assai
ragionato muovendo dalla proposta di Lidia Menapace "per un'Europa neutrale
e attiva, disarmata e smilitarizzata, solidale e nonviolenta" e cercando di
far compiere un salto di qualita' alla riflessione delle tante persone di
volonta' buona che ancora non hanno colto la necessita' e l'urgenza della
nonviolenza).
Se vi fosse in Italia un movimento per la pace oggi dovrebbe denunciare il
governo per aver fatto morire quei ragazzi in divisa; oggi dovrebbe imporre
il ritorno della legalita' costituzionale con il riitiro immediato dei
militari italiani dalla guerra in Iraq; oggi dovrebbe imporre al nostro
paese un'azione di pace con mezzi di pace. Ma in Italia non c'e' un
movimento per la pace.
Io che scrivo queste righe non esisto.
*
Se non cessa l'occupazione militare non cessera' la guerra, e non cesseranno
le stragi. Ognuno lo capisce. La pace non e' un remoto obiettivo: la pace e'
l'unica via. Ma in Italia un movimento per la pace ancora non c'e'. Che
possa nascere e' il compito dell'ora. Ma potra' nascere solo da chi avra'
fatto, radicale, la scelta della nonviolenza. Solo la nonviolenza puo'
salvare l'umanita'.

5. TESTIMONIANZE. GIULIANA SGRENA: DOPO NASSIRIYA
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 13 novembre 2003. Giuliana Sgrena,
intellettuale e militante femminista e pacifista tra le piu' prestigiose, e'
tra le maggiori conoscitrici italiane dei paesi e delle culture arabe e
islamiche; autrice di vari testi di grande importanza (tra cui: a cura di,
La schiavitu' del velo, Manifestolibri, Roma; Kahina contro i califfi,
Datanews, Roma; Alla scuola dei taleban, Manifestolibri, Roma); e' stata
inviata del "Manifesto" a Baghdad, sotto le bombe, durante la fase piu'
ferocemente stragista della guerra tuttora in corso]

Per trovare il campo militare di White horse (Cavallo bianco), dove si trova
il contingente italiano, rivolgetevi ai carabinieri, loro sono acquartierati
in centro, ci avevano detto alla nostra partenza da Baghdad.
La palazzina che aveva ospitato la camera di commercio e ora sede dei
militari dell'Arma si trova effettivamente nel centro di Nassiriya, non
lontano dal museo e dal fiume Eufrate, su una delle vie che attraversano la
citta'. Un recinto, un cancello, accanto il solito posto di controllo: una
tettoia protetta da sacchetti di sabbia. Nulla di paragonabile agli
sbarramenti che si trovano intorno alle basi americane. I carabinieri
sembravano rilassati come gli altri militari dell'operazione "Antica
Babilonia", tranne quando andavano in pattugliamento, allora non potevano
nascondere la tensione.
L'illusione era che l'immagine di "italiani, brava gente" avesse contagiato
gli iracheni di Nassiriya. L'illusione e' ora miseramente crollata,
seppellita sotto le macerie della ex camera di commercio insieme alle
diciassette vittime italiane e alle otto irachene, o forse piu', il bilancio
e' ancora provvisorio.
*
I carabinieri sono meno di quattrocento dei circa 2.700 soldati italiani
impegnati in Iraq, nell'occupazione della provincia di Dhi Qar, sotto il
comando britannico di Bassora. Il loro e' forse il compito piu' arduo:
ordine e sicurezza, oltre che addestramento della polizia locale. Durante
una nostra visita al contingente, ci avevano anche vantato il merito di aver
portato un po' di "legalita'" all'interno delle prigioni di Nassiriya:
cercando di far valere il diritto dei prigionieri ad avere assistenza
legale.
Ma il compito di addestrare la polizia irachena, essa stessa tacciata dagli
arabi di "collaborazionismo" con le forze di occupazione, non e' certo un
buon salvacondotto.
Tra l'altro, proprio i carabinieri, a meta' settembre, erano stati coinvolti
in incidenti scoppiati davanti a una caserma dove si erano radunati ex
agenti che protestavano per essere stati esclusi dalla nuova polizia. Negli
scontri, la polizia aveva sparato sulla folla provocando un morto e diversi
feriti. I carabinieri, presenti all'interno della stazione di polizia, non
avrebbero sparato ma comunque erano presenti.
Ancora prima, alla fine di luglio, il primo incidente del contingente
italiano si era verificato con i militanti del piccolo Partito comunista
operaio. Allora i carabinieri, intervenuti dopo l'assalto da parte di
islamisti armati alla sede dei comunisti, avevano trovato i militanti del
partito armati - per difendere il loro ufficio, dicevano, e probabilmente
era vero, altrimenti non ci sarebbero stati piu' - e li aveva arrestati
consegnandoli alla polizia irachena, a dire degli stessi italiani molto poco
"garantista". Quando siamo tornati a fine settembre a Nassiriya, la sede del
Partito comunista operaio era chiusa e tutto il palazzo occupato dallo
Sciiri (il Consiglio supremo per la rivoluzione islamica in Iraq).
Il resto del contingente italiano alloggiato nella base White horse, nome e
luogo ereditato dagli americani che avevano iniziato l'occupazione di
Nassiriya, ha compiti di pattugliamento ma e' anche impegnato in una
cooperazione civile-militare attraverso il Cimic, un reparto multinazionale
della Nato.
Grazie ad un budget ottenuto dalla Coalition provisional authority (Cpa,
l'autorita' dell'occupazione) puo' anche realizzare piccoli progetti di
"ricostruzione", oppure supplire artigianalmente o in modo creativo ad
alcune carenze, come quando il generale di turno ha mandato a comprare due
tute da sub in Kuwait per permettere agli operai iracheni di immergersi
nelle vasche e pulire i filtri della centrale elettrica che erano stati
intoppati dalla sabbia. Nella sede del Cimic, dove si trova anche la
rappresentanza locale del Cpa, si affollano iracheni che chiedono aiuto per
risolvere vari problemi: dalle richieste di lavoro alle denunce di
corruzione - che hanno coinvolto anche il governatore costretto a
dimettersi - di esponenti dell'ex partito Baath.
Il problema principale resta la disoccupazione, che riguarda oltre il 50%
della popolazione. E di fronte alla richiesta di un leader dei disoccupati
che voleva veder riconosciuta ufficialmente la sua Lega, altrimenti
minacciava di organizzare manifestazioni, i militari italiani si erano
preoccupati di scrivergli lo statuto e anche di ottenere dal Cpa il
riconoscimento, tamponando cosi' le proteste. Per poco.
*
Per il resto, i militari avevano cercato di recuperare le armi piu'
pericolose in circolazione - che avrebbero potuto facilmente colpire anche
la base di White horse - comprando a 250 dollari i pezzi di contraerea.
E tutti i bazooka e Rpg che circolano, oltre ai fucili? Quelli sono troppi,
non potremmo ricomprarli tutti e poi "i fucili fanno parte della cultura
locale", ci aveva detto il generale Vincenzo Lops, che comandava il
contingente.
Un'occupazione all'italiana un po' naive. Che adesso scopre tutta
l'ingenuita'.
Perche' la popolazione di Nassiriya non ha mai ignorato la natura della
presenza italiana. "Le truppe italiane sono venute al seguito di quelle
americane, per noi non fanno differenza, sono sempre truppe occupanti", ci
aveva detto anche Abu Rabia, segretario del forte Partito comunista
iracheno, che a Nassiriya e' stato fondato e che fa parte del Consiglio
governativo nominato da Paul Bremer.
E sul piano pratico, e' vero che comunque si sono adoperati per aiutare la
popolazione? avevamo chiesto. "Non hanno fatto nulla", a sostenerlo non era
solo Abu Rabia, ma anche la maggior parte dei nostri interlocutori a
Nassiriya. Ma fino a ieri in qualche modo gli italiani erano stati
tollerati.
Ora e' difficile dire se l'azione terroristica dei kamikaze e' maturata
nell'ambiente di Nassiriya e se e' anche l'effetto di un cambiamento di
atteggiamento della popolazione, comunque che la situazione fosse esplosiva
e che il quieto vivere degli italiani fosse destinato a finire era
prevedibile.
La disoccupazione nella citta' di 1.250.000 abitanti e' un problema
esplosivo. L'attivita' agricola, che costituiva il 90% dell'attivita'
produttiva, e' stata distrutta dalla decisione di Saddam di chiudere le
paludi e quindi anche la possibilita' di irrigazione in queste zone; resta
solo il commercio e l'impiego pubblico, con tutti i problemi rappresentati
dalla sospensione dei dipendenti appartenenti al partito Baath ad alti
livelli. Se i soldi arriveranno alla periferia i problemi saranno risolti,
ci aveva il generale Vincenzo Lops che comandava il contingente. Ma i soldi
non arrivano e l'occupazione si fa sempre piu' dura. Le reazioni anche.

6. RIFLESSIONE. ALESSANDRO PIZZI: DOPO NASSIRIYA
[Ringraziamo Alessandro Pizzi (per contatti: alexpizzi at virgilio.it) per
questo intervento. Alessandro Pizzi, gia' apprezzatissimo sindaco di Soriano
nel Cimino (Vt), citta' in cui il suo rigore morale e la sua competenza
amministrativa sono diventati proverbiali, ha preso parte a molte iniziative
di pace, di solidarieta', ambientaliste, per i diritti umani e la
nonviolenza, tra cui l'azione diretta nonviolenta in Congo con i "Beati i
costruttori di pace"; ha promosso il corso di educazione alla pace presso il
liceo scientifico di Orte (l'istituto scolastico dove insegna)]

Di fronte ai tragici fatti di questi giorni, internazionali e locali, voglio
esprimere alcune opinioni.
*
Innanzi tutto esprimo le condoglianze ai familiari dei carabinieri, soldati
e civili uccisi nell'attentato di Nassiriya. Una persona uccisa rappresenta
sempre una sconfitta per l'umanita', e questa strage ci ricorda in modo
drammatico l'atrocita' della guerra.
Queste morti suscitano in me, come le vittime di tutte le guerre, dolore e
pieta'. Nello stesso tempo esprimo profonda condanna per  i governanti,
nostri e degli altri paesi, che considerano la guerra uno strumento utile e
a volte necessario.
Sento la responsabilita' di un impegno crescente, a cominciare dal posto di
lavoro, la scuola, per far avanzare una cultura di pace e per rendere il
concetto di guerra una cosa ripugnante; per affermare che la pace non si
costruisce con le armi e che le missioni fatte dagli eserciti non possono
essere di pace o nonviolente.
Credo sia necessario battersi in ogni sede per affermare il principio che la
pace, la giustizia, la liberta' non si possono imporre con le armi e con la
forza. E' giunto il momento di chiedere ai partiti che si dichiarano
pacifisti, di battersi per la diminuzione delle spese militari, ai sindacati
di battersi per la riconversione delle fabbriche di armi; negli ultimi anni
armi italiane, anche leggere, hanno insanguinato il mondo, come si evince da
un rapporto di Amnesty International pubblicato dalle Edizioni Gruppo Abele.
A me sembra che sia di fondamentale importanza l'appello di Verona dell'8
novembre, e in particolare la richiesta della costituzione di Corpi civili
di pace e della difesa civile.
Vorrei che si ricordassero piu' spesso le azioni nonviolente gia' fatte,
come quelle dei Beati i costruttori di pace. Dovremmo fare uno sforzo per
diffondere informazioni sulla Difesa popolare nonviolenta.
*
Su quello che e' accaduto nei giorni scorsi a Viterbo voglio esprimere piena
approvazione per le cose dette da Peppe Sini. Anche io ho avuto
un'esperienza, molto piu' breve della sua, di un centro sociale a Soriano,
che le amministrazioni comunali che si sono succedute dal 1998 ad oggi hanno
occupato con la scusa di emergenze (altri edifici pubblici dichiarati
pericolanti). Nel centro sociale si stava costruendo un percorso insieme ai
giovani che si basava sulla cultura della nonviolenza. Sia pur nel breve
periodo in cui il centro sociale e' rimasto aperto ci sono stati episodi di
accoglienza e  umanita', proprio come ha ricordato Peppe per il centro
sociale di Viterbo.
Parlo di questo perche' sono convinto che bisogna essere  disponibili al
dialogo finalizzato alla nonviolenza e che conduca alla convinzione che
"oggi non si possono piu' praticare mezzi che negano le ragioni per cui ci
si batte", come e' ben detto da Marco Revelli nell'intervista apparsa sul
"Manifesto" dell'8 novembre. Purtroppo c'e' da prendere atto che ci sono
delle persone che a tutto questo sono sordi.
Convinto che essere amici della nonviolenza richieda una responsabilita'
personale non posso non dichiarare l'impegno, a cominciare dal luogo di
lavoro, per la diffusione della cultura di pace attraverso la persuasione e
l'esempio.

7. RIFLESSIONE. ROSSANA ROSSANDA: DOPO NASSIRIYA
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 13 novembre 2003. Rossana Rossanda e'
nata a Pola nel 1924, allieva del filosofo Antonio Banfi, antifascista,
dirigente del Pci (fino alla radiazione nel 1969 per aver dato vita alla
rivista "Il Manifesto" su posizioni di sinistra), in rapporto con le figure
piu' vive della cultura contemporanea, fondatrice del "Manifesto" (rivista
prima, poi quotidiano) su cui tuttora scrive. Impegnata da sempre nei
movimenti, interviene costantemente sugli eventi di piu' drammatica
attualita' e sui temi politici, culturali, morali piu' urgenti. Opere di
Rossana Rossanda: Le altre, Bompiani, Milano 1979; Un viaggio inutile, o
della politica come educazione sentimentale, Bompiani, Milano 1981; Anche
per me. Donna, persona, memoria, dal 1973 al 1986, Feltrinelli, Milano 1987;
con Pietro Ingrao et alii, Appuntamenti di fine secolo, Manifestolibri, Roma
1995; con Filippo Gentiloni, La vita breve. Morte, resurrezione,
immortalita', Pratiche, Parma 1996; Note a margine, Bollati Boringhieri,
Torino 1996. Ma la maggior parte del lavoro intellettuale, della
testimonianza storica e morale, e della riflessione e proposta culturale e
politica di Rossana Rossanda e' tuttora dispersa in articoli, saggi e
interventi pubblicati in giornali e riviste]

Si richiamino le truppe italiane dall'Iraq: questo dicono i corpi dilaniati
dei militari e dei civili. E si richiamino oggi.
Ogni giorno che passa quelli che restano sono esposti a una guerriglia piu'
forte, organizzata e - chiunque sia a dirigerla ed e' difficile che si
tratti di un gruppo terrorista straniero - che ha l'appoggio evidente della
popolazione.
La guerra all'Iraq non l'abbiamo voluta. L'ha voluta l'amministrazione
neoconservatrice americana. Non e' stata autorizzata dalle Nazioni Unite.
Non abbiamo alcun dovere di inviare un contingente italiano, ne'
dell'esercito, ne' dei carabinieri, ne' alcuna ragione di tenervelo. E'
stata, come avevamo scritto fin da quando ne gravava la minaccia e non
occorreva essere profeti, un'impresa folle, preparata dagli Usa fin nei
minimi particolari sotto il profilo dell'invasione e dello schiacciamento di
un esercito in campo, e del tutto impreparata per la fase che sarebbe
seguita. E ancor meno in vista di una guerriglia che forse, ripiegando sotto
l'urto iniziale per la grandissima sproporzione delle forze, avrebbe potuto
dispiegarsi dopo l'azione militare vera e propria. Come sta avvenendo.
*
Sappiamo dallo stesso "New York Times" che fra il Pentagono e il
Dipartimento di Stato, e al loro interno, molti militari ed esperti civili
avevano messo in guardia i falchi, ma questi, i piu' stolidi che mai abbiano
guidato gli Stati Uniti, hanno proceduto senza alcuna informazione sul paese
reale e nella convinzione che le truppe americane sarebbero state accolte
con giubilo e gli iracheni, liberati da Saddam Hussein, avrebbero tirato
giu' alcune statue del dittatore e sarebbero alacremente tornati al lavoro.
Non e' stato cosi'. Gli Usa non sono stati accolti come liberatori, ma come
occupanti. E dopo giorni di saccheggi senza precedenti cui non si sono
opposti, proteggendo ostentatamente soltanto il Ministero del petrolio, e'
cominciata una guerriglia ogni giorno piu' mirata.
E chiunque sta con gli Stati Uniti o e' venuto sotto le loro ali o e' stato
imposto da Bremer e' considerato un occupante o strumento dell'occupante e
quindi un bersaglio.
Tutti, comprese le organizzazioni umanitarie prima non presenti, compresa la
rappresentanza delle Nazioni Unite che ha patito la morte di Sergio Vieira
de Mello e dei suoi collaboratori.
E' una guerriglia nazionalista furibonda e crudele, che si serve di tutti i
mezzi, attentati suicidi inclusi, e della quale non si vede la fine.
*
Per questo gli Stati Uniti chiedono ai loro alleati, dei quali si ricordano
soltanto a posteriori, di mandare in Iraq delle truppe in modo da non essere
i soli esposti alle pallottole.
Si dice per compiti di pacificazione. Ma quale pacificazione? Li vogliono in
funzione antiguerriglia. La linea della new strategy - colpire tutto un
paese per abbattere un eventuale santuario di Al Qaeda - li ha indotti a
metter fuoco al Medio Oriente e ve li incastra.
Nessun ordine regna nell'Iraq, come in Afghanistan, dove nessun ordine e'
tornato, imperversano i signori della guerra, le donne sono costrette al
burqa come prima e in piu' torna a dilagare il papavero. Nessun problema di
strutture politiche e sociali in Medio Oriente ne' altrove puo' essere
risolto da una guerra. Al contrario. Questa non puo' che scatenare il
peggio.
*
Non e' lecito al nostro governo incoraggiare su questa strada Bush,
tantomeno sulla pelle dei soldati e dei carabinieri italiani.
Non c'e' segno che Washington abbia imparato qualcosa da quel che e'
avvenuto. Anzi, le ultime dichiarazioni di Bush non escludono che attacchi
da qualche altra parte, chiedendo poi agli alleati di funzionargli da
retrovia. E' il contrario di una politica e se l'Italia fosse amica degli
Stati Uniti invece che ai loro ordini, oltre a ritirare i propri
suggerirebbe a Bush di ritirare i suoi. Questo potrebbe fare il presidente
Ciampi che ora lo incontra.
*
La retorica del lutto non serve a niente. I cocci ormai sono fatti e
tocchera' alle Nazioni Unite raccoglierli, impresa che appare sempre piu'
dura ed esigera' tutt'altro approccio da quello di Bremer. Ma e' l'unica che
abbia un senso e offra, forse, una via di uscita.

8. RIFLESSIONE. ANDREA COZZO: DOPO NASSIRIYA
[Ringraziamo Andrea Cozzo (per contatti: acozzo at unipa.it) per questo
intervento. Andrea Cozzo e' docente universitario di cultura greca, studioso
e amico della nonviolenza, promotore dell'attivita' didattica e di ricerca
su pace e nonviolenza nell'ateneo palermitano]
Sono addolorato ed esterrefatto. Perche' addolorato, si capisce: perche' a
sangue e morte continuano ad aggiungersi sangue e morte. Esterrefatto,
perche' trovo che la decisione di fare restare ed anzi accrescere il numero
dei carabinieri in Iraq (ne sono partiti altri 50 da Livorno ieri) sia
espressione di un tipo di logica che contribuisce ad alimentare il
terrorismo da una parte e l'odio degli Italiani verso il mondo arabo
dall'altro. Questa decisione segue del resto alla convinzione che l'attacco
ai nostri "carabinieri di pace" sia un'ulteriore prova della malvagita'
degli "Altri" di fronte alla quale "noi" (in realta' "loro", i carabinieri o
comunque i figli di altri, non quelli propri) dobbiamo restare in Iraq "per
dargli sicurezza".
Anziche' chiedersi perche', se davvero vogliamo portare la pace, quelli che
intendiamo aiutare ci attaccano ed uccidono, ci si limita a dire che sono
malvagi e terroristi. Dallo scranno del Parlamento, con il fior di milioni
mensili e una lauta pensione assicurata dopo solo qualche anno di
legislatura, o dalla scrivania, da cui si puo' osservare il mondo con fare
altezzoso e tracotante, e' facile la retorica sugli eroi morti per la
Patria, che scarica la responsabilita' sugli "Altri".
Tuttavia, restando ostinatamente in Iraq e aspettando che gli "Altri"
cambino, o imponendo loro la nostra presenza, resta anche il problema. Anzi,
cosi' facendo, stiamo anche provvedendo ad importarlo, il problema; stiamo
quasi chiedendo agli "Altri" di volerci, per favore, attaccare anche qui,
nel nostro Paese.
Certo, in questo caso i nostri Governi risponderanno con controlli piu'
accurati che provvedano alla sicurezza, ma di chi? dei politici, non certo
dei cittadini comuni per i quali anzi si prospettano solo restrizioni di
liberta'. E, in ogni caso, questo risolve forse il problema o semplicemente
lo sposta e, per giunta, lo aggrava?
Proviamo a chiederci allora, piuttosto: perche' gli "Altri" ce l'hanno con i
carabinieri che con tanta bonta' "noi" abbiamo inviato solo per aiutare un
Paese in difficolta'?
Non e' che forse "noi" non siamo riusciti ad esser chiari e, dopo aver
concesso agli Usa l'uso delle basi militari per gli attacchi alla
popolazione di chi era "in possesso di armi di distruzione di massa" - che
invece adesso sembra chiaro che non possedeva -, e avendo mandato gente
armata e facendola alloggiare in un palazzo che portava il nome datogli
dalle forze occupanti (white horse), abbiamo fatto credere che non eravamo
la' per aiutare ma, insieme agli occupanti, per comandare?
A chi abbiamo chiesto il permesso di andare in Iraq con i nostri
carabinieri? A chi abbiamo chiesto in cosa e in che modo potevamo renderci
utili per il bene della popolazione?
*
Cosa si puo' fare, dunque?
Innanzitutto, ricordo che l'Osce (l'Organizzazione per la Sicurezza e la
Cooperazione Europea) ha istituito nel 1999 ad Istanbul il React (Rapid
Expert Assistance an Cooperation Team), formato da civili esperti di
risoluzione nonviolenta dei conflitti che si attivino, in ordine, per
prevenire il ricorso alle armi, favorire la gestione pacifica dei conflitti
bellici gia' scoppiati e lavorare per la riconciliazione; il testo
attualmente (agosto 2003) predisposto per la Convenzione Europea,
disattendendo il volere dello stesso Parlamento, limita pero' il compito del
Corpo Civile di Pace ad attivita' di protezione civile e di aiuto
umanitario: cio' non depone molto a favore dell'idea che si voglia davvero
cercare un'alternativa alle guerre. In primis si dovrebbe allora attuare
quanto deciso dall'Osce.
Riguardo poi all'urgenza concreta del caso iracheno (ma andare dietro alle
urgenze finisce con l'impedire di pensare alla prevenzione), credo che si
possa sfuggire all'alternativa che chi non e' abituato a pensare
creativamente (cioe' in modo tale da esprimere e sostenere la vita) pone
invece come ineluttabile.
Oltre che restare in Iraq armati oppure andarsene abbandonando il Paese al
caos (o agli occupanti), e' possibile, dopo avere chiesto il permesso ai
legittimi abitanti del luogo, restarvi, ma disarmati (come chiunque intenda
essere portatore di pace), mediare tra le fazioni in lotta e tentare di
persuadere gli occupanti a lasciare che gli Iracheni si scelgano da soli il
loro governo.
Si potrebbero intraprendere altre vere azioni di peacekeeping e
peacebuilding (mantenimento e costruzione della pace): sminamento,
assistenza umanitaria e ripristino dei diritti umani attraverso ong
(Organizzazioni non governative) che lavorino per il dialogo interculturale
ed interreligioso, organizzazione di strutture volte a garantire una pace
stabile attraverso l'intervento di osservatori internazionali che, ad
esempio, sorveglino la correttezza dello svolgimento di elezioni.
Il nostro governo potrebbe altresi' lavorare al contempo per una soluzione
diplomatica del conflitto israelo-palestinese, si potrebbe eliminare il
commercio delle armi (anziche' incrementarlo, come il nostro Parlamento sta
facendo).
Insomma, le possibilita' di farsi realmente benvolere da tutti gli iracheni
non mancano, pero' bisogna prima averne l'intenzione.

9. RIFLESSIONE. GINO STRADA: DOPO NASSIRIYA
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 13 novembre 2003. Gino Strada, medico
chirurgo impegnato in aree di guerra, fondatore dell'associazione umanitaria
"Emergency", e' una delle voci piu' nitide e influenti del movimento
pacifista italiano; tra le sue pubblicazioni: Pappagalli verdi, Feltrinelli,
Milano; Buskashi', Feltrinelli, Milano]

Ho lasciato l'Afghanistan pochi giorni fa.
Quando sono partito, Fahim Khan era agonizzante nel reparto di rianimazione.
Diciannove anni, dilaniato da una bomba non lontano dal palazzo reale di
Kabul, mentre stava tentando di rimettere a posto la propria casa
danneggiata dai bombardamenti. Sono partito con negli occhi il padre di
Fahim, seduto a fianco del figlio in silenziosa disperazione.
Fahim e suo padre mi sono tornati in mente ieri mattina, quando il
responsabile di Emergency mi ha chiamato da Baghdad per dirmi della strage
di Nassiriya. Altri ragazzi come Fahim, fatti a pezzi da un'altra
esplosione. Ragazzi italiani. Ho pensato ai loro padri, lontani migliaia di
chilometri, che forse non vedranno neppure i resti dei propri figli.
*
"Nessuno e' cosi' pazzo da preferire la guerra alla pace: in tempo di pace
sono i figli a seppellire i padri; con la guerra tocca ai padri di
seppellire i figli" scriveva Erodoto nel quinto secolo prima di Cristo.
La follia della guerra e' tutta qui: qualche decina di ragazzi si sono
svegliati ieri mattina in Iraq, e ieri sera non sono andati a letto, non ci
sono piu'. Hanno iniziato il grande sonno, come altri milioni di ragazzi
prima di loro, in Afghanistan e in Cecenia, in Congo e in Kosovo e nei mille
luoghi di violenza del nostro pianeta: sottratti alla vita non da un male
incurabile ma dalla volonta' e per opera di altri esseri umani.
Ogni volta che la guerra si porta via una vita umana e' una sconfitta, per
tutti, perche' ha perso l'umanita', perche' si e' persa umanita'.
Il rispetto per i morti, per il dolore dei loro congiunti puo' e deve
provocare una riflessione di tutti, anziche' la polemica di alcuni. Dobbiamo
tutti prendere atto che si e' al di fuori della ragione, ogni volta che i
rapporti tra esseri umani si esercitano con la forza, con le armi, con
l'uccisione.
L'umanita' potra' avere un futuro solo se verra' messa al bando la guerra,
se la guerra diventera' un tabu', schifoso e rivoltante per la coscienza e
per la ragione.

10. RIFLESSIONE. ENRICO PEYRETTI: DOPO NASSIRIYA
[Ringraziamo Enrico Peyretti (per contatti: peyretti at tiscali.it) per questo
intervento. Enrico Peyretti e' uno dei principali collaboratori di questo
foglio, ed uno dei maestri piu' nitidi della cultura e dell'impegno di pace
e di nonviolenza. Tra le sue opere: (a cura di), Al di la' del "non
uccidere", Cens, Liscate 1989; Dall'albero dei giorni, Servitium, Sotto il
Monte 1998; La politica e' pace, Cittadella, Assisi 1998; Per perdere la
guerra, Beppe Grande, Torino 1999; e' disponibile nella rete telematica la
sua fondamentale ricerca bibliografica Difesa senza guerra. Bibliografia
storica delle lotte nonarmate e nonviolente, di cui abbiamo pubblicato il
piu' recente aggiornamento nei numeri 714-715 di questo foglio, ricerca una
cui edizione a stampa - ma il lavoro e' stato appunto successivamente
aggiornato - e' in Fondazione Venezia per la ricerca sulla pace, Annuario
della pace. Italia / maggio 2000 - giugno 2001, Asterios, Trieste 2001. Una
piu' ampia bibliografia dei principali scritti di Enrico Peyretti e' nel n.
731 del 15 novembre 2003 di questo notiziario]

Una notizia del Gr1 delle sette di stamani, sabato 15 novembre, dice che
l'arcivescovo di Torino chiamerebbe "martiri della pace" i militari italiani
uccisi in Iraq, e ne auspicherebbe addirittura la canonizzazione. Io non
vedo "La Stampa" e quindi eventuali altre versioni della notizia. Spero che
la notizia sia inesatta o infondata, ma, indipendentemente da tutto cio',
vorrei comunicare fiduciosamente nella comunita' ecclesiale cattolica alcune
mie riflessioni.
Gia' l'eccessiva quantita' di canonizzazioni, criticata da osservatori
cattolici molto seri, sconsiglierebbe l'idea. Inoltre, mentre veri martiri
della giustizia, della pace e della nonviolenza - come Martin Luther King,
Oscar Romero, Marianella Garcia, il vescovo Gerardi, per dire solo alcuni
dei tanti di fede cristiana - vengono certamente riconosciuti tali dal
popolo cristiano, ma non dalla ufficialita' della chiesa, la beatificazione
di questi poveri militari italiani, anche solo come opinione personale senza
canonizzazione rituale, sarebbe estremamente ambigua.
Nonostante le buone e sincere intenzioni personali, che supponiamo nei
militari, non e' oggettivamente lavorare per la pace l'accodarsi, armati, ad
un esercito invasore; non e' lavorare per la pace lo stare sotto il comando
degli invasori in una terra militarmente occupata, terra appartenente ad un
popolo violentato da questa guerra; una guerra che il governo Usa, come
sappiamo fin troppo bene, ha voluto ostinatamente, contro la gran parte
dell'opinione mondiale e delle chiese, ma con l'approvazione del governo
italiano.
L'amministrazione Usa, in questa orribile vicenda, si dimostra incapace di
pensare metodi costruttivi e rispettosi dei diritti e dei percorsi degli
altri popoli, mentre pretende di imporre la propria interessata visione
delle forme politiche, dei diritti e dei rapporti economici. Questa
politica, che si ammanta dei diritti umani universali, danneggia proprio il
valore universale della cultura dei diritti e dei doveri e della comune
dignita' umana.
Il fatto che in Iraq ci fosse una dittatura non giustifica, evidentemente,
lo scempio del paese che gli Usa e alleati hanno fatto o, come il governo
italiano, approvato e fiancheggiato.
I nostri soldati erano e sono oggettivamente collaboratori di quello
scempio. Il giudizio morale e cristiano sulla loro azione sara'
misericordioso, ma non puo' essere di esaltazione. Cio' sarebbe dare un
avallo religioso all'inganno perpetrato dal governo italiano, a danno degli
stessi militari inviati e sacrificati in un compito ingiusto.
La ricostruzione materiale, sociale, civile in Iraq puo' oggi essere aiutata
dalla comunita' internazionale, soltanto sotto l'egida della istituzione di
pace che e' l'Onu, e soltanto mediante rappresentanti civili di paesi che
non abbiano partecipato ne' approvato la guerra.
Come tutti possono vedere, la guerra favorisce il terrorismo, perche' gli
somiglia nella sostanza violenta, e si differenzia soltanto per il fatto di
venire dallo stato invece che da bande oscure. Ma lo stato non ha un maggior
diritto dei banditi di fare violenza, perche' il suo senso umano e' quello
di abolire la violenza pubblica.
Solo la giustizia tra i popoli, e quindi la loro unita', potrebbe isolare e
sconfiggere con mezzi giusti l'ingiustizia grande del terrorismo.
Vedere nel terrorismo l'unico e massimo male, serve a nasconderne altri,
anche piu' vasti e profondi, in cui noi, popoli dell'occidente ricco, siamo
maggiormente implicati e corresponsabili.
Se pensiamo che "nel Sud del mondo ogni giorno muore per fame e per malattie
facilmente curabili un numero di persone almeno sei volte superiore a quello
delle persone uccise l'11 settembre" (Alejandro Bendana, Charles
Villa-Vicencio, La riconciliazione difficile. Dalla guerra a una pace
sostenibile, Edizioni Gruppo Abele, Torino 2002, p. 131), allora cominciamo
a vedere le cose come stanno e gli obblighi morali, poi anche politici, che
ne derivano per noi.
I piu' saggi consigli precedenti questa guerra, tra cui quelli molto chiari
della nostra chiesa, prevedevano questa serie di sofferenze e tragedie del
popolo iracheno, dei militari statunitensi, e ora anche italiani, e non
possono oggi venire contraddetti per compiacere la retorica militare e
governativa.

11. RIFLESSIONE. IAIA VANTAGGIATO INTERVISTA MARIO RIGONI STERN
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 13 novembre 2003.
Iaia Vantaggiato e' una prestigiosa intellettuale e giornalista impegnata
per la pace e i diritti.
Mario Rigoni Stern e' uno dei massimi scrittori italiani del Novecento,
testimone dell'orrore della guerra, impegnato per la pace, la dignita' delle
persone e la solidarieta' tra i popoli; ne Il sergente nella neve (il suo
capolavoro, edito da Einaudi, Torino 1953) ha narrato la tragedia della
ritirata della spedizione militare italiana in Russia nella seconda guerra
mondiale]

Un rotolo di fogli conservati in uno zaino, un giaciglio, una baracca: il
lager tedesco di Masuria. Qui comincia l'attivita' letteraria di Mario
Rigoni Stern, all'epoca sergente maggiore nel corpo degli alpini e poi
sopravvissuto alla drammatica ritirata di Russia dell'esercito italiano
consumatasi tra la fine del '42 e l'inizio del '43. A quell'esperienza,
Rigoni Stern dedichera' le pagine di uno dei libri piu' intensi e vibranti
del dopoguerra, Il sergente nella neve, che Elio Vittorini pubblichera' per
i "Gettoni" di Einaudi nel 1953. Di quest'anno e' la sua ultima raccolta di
scritti - Storie dall'altipiano - curata da Eraldo Affinati per i Meridiani.
Con Mario Rigoni Stern proviamo a cercare parole adatte a commentare la
strage compiuta ieri a Nassiriya nella quale 17 italiani - undici
carabinieri, quattro soldati dell'esercito e due civili - hanno trovato la
morte. E, con loro, molti iracheni tra i quali anche numerosi bambini.
- Iaia Vantaggiato: Quella di Nassiriya e' la strage piu' grave compiuta
contro una missione italiana cosiddetta di pace da quando, nel 1961 in
Congo, tredici nostri aviatori vennero trucidati.
- Mario Rigoni Stern: Lei dice, a ragione, "cosiddetta di pace". Perche' ad
occasionare questo danno, questa tragedia, sono stati gli americani -
l'amministrazione americana, intendo - con quella loro caccia insensata di
armi segrete e di distruzione di massa della cui esistenza non sono mai
riusciti a fornire, del resto, prova alcuna. E forse ora sarebbe il caso che
cominciassero a cavarsela da soli.
- I. V.: Al momento, pero', la guerra e' piombata anche addosso a noi.
- M. R. S.: Vede, questa situazione e' ormai diventata un vero vespaio. Gli
iracheni che si ribellano all'occupazione americana non fanno piu'
distinzione tra americani, inglesi, italiani o quant'altri. E hanno ragione.
- I. V.: Vuol dire che il discorso retorico costruito intorno alla categoria
degli "italiani brava gente" non regge piu'?
- M. R. S.: A volte abbiamo condotto missioni che veramente hanno giovato
alla pace. Ma non e' questo il caso. Stiamo attraversando un brutto momento
e temo che momenti anche peggiori di questo ci aspettano. Certo resta il
dolore. Come sempre quando si vede morire qualcuno.
- I. V.: Non vede, insomma, nessun senso - che so, politico, militare,
strategico - che possa, non dico giustificare, ma almeno spiegare questa
missione?
- M. R. S.: Assolutamente no. Il nostro coinvolgimento e' stato
esclusivamente determinato dal desiderio di Silvio Berlusconi di far bella
figura non tanto con gli Stati Uniti intesi come popolo o nazione ma con
George Bush.
- I. V.: Crede sia arrivato il momento di ritirare le nostre truppe da un
fronte che - a dispetto della presunta fine della guerra - sembra essere
diventato ancora piu' caldo?
- M. R. S.: A questa guerra e al nostro intervento "di pace", io sono sempre
stato contrario, e contro l'invio delle nostre truppe in Iraq ho anche
manifestato. Da questa idea nessuno potra' dissuadermi. Ritirare le nostre
truppe dall'Iraq sarebbe, certamente, la soluzione migliore ma temo che
molti la prenderebbero come un atto di vigliaccheria. Piu' che le singole
nazioni, in questo momento dovrebbe intervenire l'Onu. Riprendere a farsi
sentire.
- I. V.: Ma e' proprio l'Onu che - insieme alla Croce Rossa - sta procedendo
a una vera e propria smobilitazione.
- M. R. S.: Segno piu' che evidente della brutta piega che hanno preso i
fatti. L'Onu dovrebbe riprendere ad imporsi cosi' come l'opinione pubblica -
soprattutto europea - dovrebbe cominciare a far sentire la sua voce.
- I. V.: Il cosiddetto dopoguerra in Iraq quanto le ricorda il lontano ma
mai dimenticato Vietnam?
- M. R. S.: Al Vietnam ho pensato da subito. Non si poteva non farlo di
fronte all'esplodere delle prime ribellioni, alla messa in atto delle prime
azioni partigiane. Perche' di resistenza si tratta nonostante il peso di
fanatismi e fondamentalismi che su di essa grava ma che tuttavia
meriterebbero un discorso a parte.
- I. V.: "In nome della patria". Lei ha vissuto sulla sua pelle il
significato di questa espressione. Cosa significa per lei?
- M. R. S.: Questa parola ci ha visto morire per il mondo e sempre dalla
parte del torto. Con Hitler, con i nazisti. In Grecia, Russia, Jugoslavia.
Dal 10 giugno del '40 le nostre sono state solo guerre di aggressione. Del
resto, chi dice sempre "amore amore amore" non sa amare. Lo stesso e' per la
patria. Chi insiste sul concetto di amore di patria non ama la patria. Io
ritengo che Berlusconi non ami l'Italia ma solo se stesso e, naturalmente, i
suoi soldi.

12. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

13. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti, la e-mail e': azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: luciano.benini at tin.it;
angelaebeppe at libero.it; mir at peacelink.it, sudest at iol.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it. Per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Per non ricevere piu' questo notiziario e' sufficiente inviare un messaggio
con richiesta di rimozione a: nbawac at tin.it

Numero 732 del 16 novembre 2003