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Strage dei militari in irak
- Subject: Strage dei militari in irak
- From: "Centro Studi per la Pace" <centro at studiperlapace.it>(by way of Carlo Gubitosa <c.gubitosa at peacelink.it>)
- Date: Wed, 12 Nov 2003 22:31:23 +0100
Le reazioni alla strage di militari italiani nel sud dell'Iraq non possono limitarsi al dolore, allo sdegno, alla solidarietà alle famiglie delle vittime. La strage deve sollecitare piuttosto ancora una volta, dopo analoghe stragi di militari italiani in Congo, in Bosnia, in Somalia, in Libano, per citare solo le ultime operazioni dove sono morti soldati italiani - una riflessione (se non sulla moralità, almeno) sull’efficacia di guerre che pretendono di imporre la pace, sull’incisività di azioni internazionali di “autodifesa preventiva” volte a combattere il terrorismo nelle sue manifestazioni esteriori senza prendere in considerazione gli aspetti profondi - e dunque le cause - di tali manifestazioni. Senza lasciarsi tentare da strumentalizzazioni politiche, da scorciatoie retoriche, ma rivendicando anche in questo momento la libertà di criticare la guerra, anche quella “umanitaria”, nella consapevolezza di vivere nell’era della criminalizzazione del dissenso. I militari italiani si trovano in Iraq in virtù del decreto legge decreto legge del 10 luglio 2003, n.165, rubricato “Interventi urgenti a favore della popolazione irachena, nonchè proroga della partecipazione italiana a operazioni militari internazionali” e che autorizza la realizzazione di una missione umanitaria e di ricostruzione in Iraq, intesa ad assicurare interventi per il miglioramento delle condizioni della popolazione irachena (cfr. articolo 1 e 6 del decreto legge citato): si tratta dunque di una ennesima sfaccettatura riconducibile al genus dell’intervento umanitario. Senza qui tornare sulla controversa questione sul fondamento legittimante dell’intervento internazionale in Irak (legittima difesa, ricerca e distruzione delle armi di massa, esportazione della democrazia, eliminazione del dittatore Saddam Husein?), è unanimemente riconosciuto che l'intervento umanitario comunque rappresenti un fallimento per il diritto internazionale in quanto viola principi fondamentali come il divieto dell'uso della forza e il principio di non-ingerenza. Da parte di qualcuno si sottolinea peraltro che la prassi illecita dell’intervento umanitario è al tempo stesso il risultato dell'inefficienza di una comunità internazionale organizzata che, pur avendo posto nel rispetto e nella promozione dei diritti dell'uomo uno dei suoi fini fondamentali, si è mostrata incapace di tutelare concretamente tali diritti attraverso vie sia pacifiche che in via residuale ma pur sempre previste dalla Carta delle Nazioni Unite coercitive. Ciò porta qualcuno a sostenere che, perché l'uso della forza a scopi umanitari possa essere considerato comunque lecito, debbano essere rispettate delle condizioni valide sempre e in ogni situazione; mentre altri considerano più opportuno fare riferimento ai singoli casi presi in considerazioni uno per volta. Si parla dunque del rispetto del principio di buona fede (la finalità umanitaria deve essere cioè "assorbente" senza secondi fini), dell'assoluta necessità dell'intervento (la catastrofe umanitaria deve essere tale da non poter prendere altri provvedimenti), del rispetto del principio di proporzionalità (l'uso della forza deve sempre essere contenuto nell'ambito dell'obiettivo umanitario e devono essere rispettate le regole dello jus in bello, relativi agli obiettivi militari perseguibili, alle armi utilizzate, al trattamento dei combattenti nemici e della popolazione civile), ed infine del rispetto del principio definito "dell'effetto utile" (una volta raggiunto lo scopo o rivelatosi inefficace l'intervento, ogni azione deve cessare). Al di là delle riflessioni di ordine strettamente giuridico, il diritto d'ingerenza umanitaria è accusato spesso di essere una nuova modalità di colonialismo (politico, economico commerciale, culturale, militare), per diverse ragioni: sono solo i paesi ricchi e potenti che si permettono di esercitarlo, l'ingerenza avviene sempre dal Nord al Sud e dall'Ovest all'Est, e attraverso questa via si mette in moto uno dei volani più importanti della ricolonizzazione del Sud e dell'Est del pianeta. Efficacemente un grande filosofo tedesco ha anche parlato, a questo proposito, di “colonialismo dei diritti umani”, imponendo una riflessione anche sulla reale universalità di certi valori che per la nostra cultura occidentale sono ormai acquisiti. Più domande che risposte, e nessuna certezza. Ma già nel 1983 (!) Istvan Pogany scrisse: "Relazioni pacifiche e sistematiche fra gli Stati richiedono qualcosa di più del ripudio della forza delle armi. Richiedono l'elaborazione di principi che controllino le cause dei conflitti armati. Richiedono, inoltre, un sistema internazionale in grado di promuovere condizioni di effettiva stabilità all'interno degli Stati, senza le quali non può sussistere alcun ordine internazionale." E' arrivato il momento di riflettere su come costruire un nuovo ordine mondiale, basato sulla ricerca di consenso democratico, rinunciando ad un dominio - rivelatosi terribilmente fragile - basato su logiche di potenza economico-militare? Avv. Nicola Canestrini Direttore del Centro Italiano Studi per la Pace www.studiperlapace.it Giuristi Democratici Trentino - Suedtirol www.giuristidemocratici.it
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