Strage dei militari in irak





Le reazioni alla strage di militari italiani nel sud dell'Iraq non
possono limitarsi al dolore, allo sdegno, alla solidarietà alle famiglie
delle vittime.
La strage deve sollecitare piuttosto ­ ancora una volta, dopo analoghe
stragi di militari italiani in Congo, in Bosnia, in Somalia, in Libano,
per citare solo le ultime operazioni dove sono morti soldati italiani -
una riflessione (se non sulla moralità, almeno) sull’efficacia di guerre
che pretendono di imporre la pace, sull’incisività di azioni
internazionali di “autodifesa preventiva” volte a combattere il
terrorismo nelle sue manifestazioni esteriori senza prendere in
considerazione gli aspetti profondi - e dunque le cause - di tali
manifestazioni.

Senza lasciarsi tentare da strumentalizzazioni politiche, da scorciatoie
retoriche, ma rivendicando anche in questo momento la libertà di
criticare la guerra, anche quella “umanitaria”, nella consapevolezza di
vivere nell’era della criminalizzazione del dissenso.

I militari italiani si trovano in Iraq in virtù del decreto legge
decreto legge del 10 luglio 2003, n.165, rubricato “Interventi urgenti a
favore della popolazione irachena, nonchè proroga della partecipazione
italiana a operazioni militari internazionali” e che autorizza la
realizzazione di una missione umanitaria e di ricostruzione in Iraq,
intesa ad assicurare interventi per il miglioramento delle condizioni
della popolazione irachena (cfr. articolo 1 e 6 del decreto legge
citato): si tratta dunque di una ennesima sfaccettatura riconducibile al
genus dell’intervento umanitario.

Senza qui tornare sulla controversa questione sul fondamento
legittimante dell’intervento internazionale in Irak (legittima difesa,
ricerca e distruzione delle armi di massa, esportazione della
democrazia, eliminazione del dittatore Saddam Husein?), è unanimemente
riconosciuto che l'intervento umanitario comunque rappresenti un
fallimento per il diritto internazionale in quanto viola principi
fondamentali come il divieto dell'uso della forza e il principio di
non-ingerenza.

Da parte di qualcuno si sottolinea peraltro che la prassi illecita
dell’intervento umanitario è al tempo stesso il risultato
dell'inefficienza di una comunità internazionale organizzata che, pur
avendo posto nel rispetto e nella promozione dei diritti dell'uomo uno
dei suoi fini fondamentali, si è mostrata incapace di tutelare
concretamente tali diritti attraverso vie sia pacifiche che ­ in via
residuale ma pur sempre previste dalla Carta delle Nazioni Unite ­
coercitive.

Ciò porta qualcuno a sostenere che, perché l'uso della forza a scopi
umanitari possa essere considerato comunque lecito, debbano essere
rispettate delle condizioni valide sempre e in ogni situazione; mentre
altri considerano più opportuno fare riferimento ai singoli casi presi
in considerazioni uno per volta. Si parla dunque del rispetto del
principio di buona fede (la finalità umanitaria deve essere cioè
"assorbente" senza secondi fini), dell'assoluta necessità
dell'intervento (la catastrofe umanitaria deve essere tale da non poter
prendere altri provvedimenti), del rispetto del principio di
proporzionalità (l'uso della forza deve sempre essere contenuto
nell'ambito dell'obiettivo umanitario e devono essere rispettate le
regole dello jus in bello, relativi agli obiettivi militari
perseguibili, alle armi utilizzate, al trattamento dei combattenti
nemici e della popolazione civile), ed infine del rispetto del principio
definito "dell'effetto utile" (una volta raggiunto lo scopo o rivelatosi
inefficace l'intervento, ogni azione deve cessare).

Al di là delle riflessioni di ordine strettamente giuridico, il diritto
d'ingerenza umanitaria è accusato spesso di essere una nuova modalità di
colonialismo (politico, economico ­ commerciale, culturale, militare),
per diverse ragioni: sono solo i paesi ricchi e potenti che si
permettono di esercitarlo, l'ingerenza avviene sempre dal Nord al Sud e
dall'Ovest all'Est, e attraverso questa via si mette in moto uno dei
volani più importanti della ricolonizzazione del Sud e dell'Est del
pianeta.  Efficacemente un grande filosofo tedesco ha anche parlato, a
questo proposito, di “colonialismo dei diritti umani”, imponendo una
riflessione anche sulla reale universalità di certi valori che per la
nostra cultura occidentale sono ormai acquisiti.

Più domande che risposte, e nessuna certezza. Ma già nel 1983 (!) Istvan
Pogany scrisse: "Relazioni pacifiche e sistematiche fra gli Stati
richiedono qualcosa di più del ripudio della forza delle armi.
Richiedono l'elaborazione di principi che controllino le cause dei
conflitti armati. Richiedono, inoltre, un sistema internazionale in
grado di promuovere condizioni di effettiva stabilità all'interno degli
Stati, senza le quali non può sussistere alcun ordine internazionale."
E' arrivato il momento di riflettere su come costruire un nuovo ordine
mondiale, basato sulla ricerca di consenso democratico, rinunciando ad
un dominio - rivelatosi terribilmente fragile - basato su logiche di
potenza economico-militare?

Avv. Nicola Canestrini

Direttore del Centro Italiano Studi per la Pace
www.studiperlapace.it

Giuristi Democratici Trentino - Suedtirol
www.giuristidemocratici.it