[comunicati_lilliput] Violenza sociale e conflitto: interviene Rete Lilliput



Comunicato stampa Rete Lilliput
Ufficio Stampa Rete Lilliput: Cristiano Lucchi 339/6675294 -
ufficiostampa at retelilliput.org


Quasi tutti gli uomini muoiono per i rimedi che usano più che per le loro
malattie. (Molière)

Violenza: Rete Lilliput propone alcune riflessioni

per (reimpostare) un confronto nella società e nel movimento
Le occasioni per ascoltare e capire ragioni diverse dalla propria non sono
mai troppe, e dunque ben venga anche la discussione aperta dall'intervento
di Sergio Segio. C'è qualcosa, tuttavia, di questa discussione, che non ci
convince, e vogliamo dirlo subito.

La prima cosa che non ci convince è il tono accusatorio che molti
interventi hanno assunto. La violenza politica e più in generale la
violenza come modalità di linguaggio e mezzo di intervento nella realtà è
secondo noi una malattia, per così dire, da cui nessuno può dirsi del tutto
immune. Nessuno, dentro o fuori il "movimento", nessuno dentro o fuori il
sistema politico, nessuno dentro o fuori il mondo dei media, può secondo
noi dirsi del tutto libero da tentazioni di tipo violento. La violenza
attraversa la società tutta intera, in alto come in basso, e se pure molte
coscienze -moltissime, crediamo - non sono succubi ad essa, tutte però ne
sono, pardòn, ne siamo tutti condizionati. Non può essere altrimenti.
L'accettazione di questa semplice realtà non può essere data per scontata.
E' il primo passo da compiere per guarire dalla "malattia", come l'abbiamo
chiamata. E' il primo passo da compiere per vedere se stiamo guarendo, se
ci stiamo curando (…o se invece della malattia, in realtà, non possiamo
fare a meno).

Ecco allora che c'è poca verità, c'è poca sincerità -così pare a noi- in un
dibattito sulla violenza in cui qualcuno indichi qualcun altro come
maggiormente responsabile di aperture o cedimenti alle derive violente. Se
una riflessione importante come questa prende le mosse da posizioni così
vicine all'accusa o all'insinuazione, come evitare che dalla volontà di
comprensione si scivoli ancora una volta allo stereotipi rassicurante,
all'autodifesa, alla generalizzazione? Può darsi che non fosse questa
l'intenzione di chi ha aperto questo dibattito, ma di certo questo è stato
un aspetto non marginale del risultato… Ma non vogliamo intervenire solo
per commentare posizioni altrui.

Noi della Rete di Lilliput crediamo nella nonviolenza e ci sforziamo di
comunicare ed agire in modo nonviolento. Siamo convinti che l'unico
antidoto vero, l'unica radicale alternativa alla violenza sia l'azione
nonviolenta. Sappiamo di essere una minoranza: ne siamo ben consapevoli.
Sappiamo che non è sempre facile incoraggiare l'adesione alla nonviolenza.
E' un lavoro che si scontra contro frequenti, quotidiane autodifese,
chiusure, obiezioni, fraintendimenti. "Nei rapporti umani e sociali", ci
viene detto, "tutto, in misura più o meno grande, è violenza, dunque è pura
illusione, -quando non presunzione- predicare la nonviolenza". Questa
obiezione -o altre, più o meno equivalenti-, non ci viene solo o
principalmente rivolta da qualche area, "estrema" o no, del "movimento dei
movimenti". Questa obiezione la incontriamo tutti i giorni al lavoro, nella
strada, sui giornali…

Questa obiezione è la salda convinzione -ammessa o no- della grande
maggioranza dei nostri politici -di ogni colore-, e guida evidentemente il
mondo dell'economia e dell'informazione… E volendo proseguire, questa
obiezione trasuda letteralmente da un numero infinito di messaggi sparati
da tutte le televisioni, non esenti le pubblicità, i notiziari, le
testate"scientifiche" (?) o i programmi sportivi…

Quindi, chiedersi cosa favorisce la violenza -nelle varie sue forme- e cosa
la può contrastare, chiederselo non in generale e in astratto, ma qui ed
ora, nella società italiana attuale, noi crediamo possa essere utile. Noi
lo facciamo. Lo abbiamo fatto nel preparare la partecipazione alle giornate
del G8 a Genova nel luglio 2001, e lo facemmo in quelle esaltanti -e
tragiche- giornate. Non abbiamo mai smesso di farlo, come molti altri,
dentro o fuori il "movimento"… Ma chiedersi cosa favorisce e cosa contrasta
la violenza, e farlo solo col pretesto per distribuire patenti o condanne
ci sembra poco utile.

Ciò detto, vogliamo rivolgerci anche, più da vicino, a chi del "movimento
dei movimenti", come noi, fa parte, a chi in esso ha investito, con la
sensazione e la speranza che qualcosa di realmente nuovo non solo si
potesse costruire, ma fosse realmente, concretamente già in cammino. Non
torniamo pertanto, ora, sulle ragioni generali del nostro agire collettivo
(il "mondo diverso" che vogliamo). Partiamo da uno dei nodi importanti
della discussione:il conflitto.

Le discussioni che animano le realtà di movimento mettono al centro i
problemi reali della nostra epoca: mancanza di accesso all'acqua per un
miliardo e quattrocento milioni di persone o il dramma delle famiglie senza
fissa dimora che vagano alla ricerca di un alloggio, occupando
disperatamente spazi lasciati vuoti nella nostra città, o ancora dei nuovi
lager dei centri di permanenza temporanea e i tanti altri "apartheid
globali" prodotti da questo modello di sviluppo. E' su conflitti come
questi che si lavora, si discute e si cerca di portare una trasformazione
positiva.

Sul conflitto occorre imparare ad esprimersi con un atteggiamento positivo
che considera il confitto come opportunità di crescita personale e sociale,
non con un atteggiamento negativo che lo definisce e lo percepisce come
qualcosa di sbagliato, e/o violento, brutto. L'atteggiamento positivo, al
contrario, vede il confitto come opportunità di crescita, sia personale che
sociale. E' un mutamento di prospettiva.

E' un mutamento difficile a farsi: si tratta niente di meno che di un
cambiamento radicale e profondo di mentalità e di cultura nei riguardi
della trasformazione sociale, della sofferenza, del piacere e delle
passioni che essa comporta per tutti. Una vera rivoluzione, che investe in
pieno i temi della democrazia e della partecipazione: un'autentica
partecipazione implica l'accettazione il calarsi nel conflitto, con i
rischi che questo comporta. Per esempio, con il rischio di perdere il
controllo, e perdere una buona fetta di potere, da parte di coloro che ce
l'hanno lo detengono, e il rischio di assumere potere da parte di chi non
ce l'ha e sinora l'ha delegato per comodità o per paura.

La costruzione di contesti sociali cooperativi e costruttivi, di luoghi
pubblici aperti alla sperimentazione di nuovi legami e di nuove pratiche
sociali, dal micro al macro livello, deve anzitutto riconoscere il
conflitto come stato o luogo naturale della relazione. Ciò significa che
per noi è sempre essenziale facilitare l'emersione e l'esplicitazione sia
del disagio, sia dei problemi, perchè entrambi questi livelli siano
affrontati positivamente. E' evidente che sussistono ancora al nostro
interno ritualismi insensati e ripetitivi: la forma-corteo come unica
modalità della manifestazione pubblica di massa, l'assemblearismo ed il
leaderismo come uniche vie per i processi di discussione e decisione
collettiva, il ricorso ad atti aggressivi e distruttivi in situazioni a
rischio. Se non saremo capaci di andare oltre, ci ridurremo ancora una
volta alla paralisi e al riflusso, e/o al circolo devastante della violenza
repressiva.

Se non si svilupperanno forme di lotta dirette ed attive (continuative,
radicali, organizzate e costruttive), le pratiche dell'aggressione
distruttiva e della violenza diretta - all'interno del movimento (vedi 4
ottobre a Roma), ma anche nella società (con la ripresa del circolo
perverso 'terrorismo-repressione') non potranno che diffondersi e crescere.

La nonviolenza è proprio la teoria-pratica politica che non cade nel
tranello delle reazione uguale contraria come unica possibilità, ma ricerca
continuamente altre vie, altre coerenze mezzi- fini, nuove possibilità di
abitare il conflitto e di costruire differenza, di favorire cambiamento, di
cercare e creare consenso. Sino a quando non ci sarà una scelta culturale
di fondo nuova, non saranno sufficienti gli accorgimenti paludati ed i
tatticismi... Nella fase che si apre, di cui questo dibattito (sinceramente
strano e sospetto per quando e come si è avviato e sta procedendo) non
sembra altro che l'introduzione, ci aspettano tempi difficili, in cui le
nostre possibilità di stare insieme come movimento si giocheranno, secondo
noi, proprio su questo: sulla chiarezza e coerenza delle nostre scelte
rispetto al rifiuto della guerra e della violenza sia come scelte politiche
(in riferimento ai governi) che come linguaggio e come cultura (in
riferimento a chiunque,singolo, gruppo o stato).

Questi, secondo noi, sono i presupposti che ci mettono in grado, che
possono mettere in grado l'intero movimento, di raccogliere il NO alla
guerra ed il SI' alla pace nella giustizia (cioè sì al cambiamento
positivo) che è maturo e presente in gran parte della società, in gran
parte delle coscienze. In Italia e nel mondo. Questa è la sfida, per noi:
la sfida della nonviolenza oggi, la sfida del movimento dei movimenti. Come
ammoniva uno dei padri della nonviolenza: sii il cambiamento che vuoi
vedere nella società.