La nonviolenza e' in cammino. 709



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 709 del 20 ottobre 2003

Sommario di questo numero:
1. Giuliana Sgrena: in difesa di Asfaneh Noruzi
2. Octavio Paz: due lance spezzate per Chuang-Tzu
3. Luce Irigaray: parlare
4. Ali Rashid: un piano di pace dal basso
5. Jeff Halper: se fallisce la Road Map
6. Elisabetta Caravati: sulla proposta di Lidia Menapace
7. Angelo Cifatte: sulla proposta di Lidia Menapace
8. Luca Salvi: sulla proposta di Lidia Menapace
9. Tana De Zulueta: contro la tortura
10. Lanfranco Mencaroni: contro la tortura
11. Luciano Dottarelli presenta "Le solitudini nella societa' globale" di
Elena Liotta
12. In ricordo di Gabriella Lazzerini
13. La "Carta" del Movimento Nonviolento
14. Per saperne di piu'

1. DIRITTI UMANI. GIULIANA SGRENA: IN DIFESA DI ASFANEH NORUZI
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 18 ottobre 2003. Giuliana Sgrena,
intellettuale e militante femminista e pacifista tra le piu' prestigiose, e'
tra le maggiori conoscitrici italiane dei paesi e delle culture arabe e
islamiche; autrice di vari testi di grande importanza (tra cui: a cura di,
La schiavitu' del velo, Manifestolibri, Roma; Kahina contro i califfi,
Datanews, Roma; Alla scuola dei taleban, Manifestolibri, Roma); e' stata
inviata del "Manifesto" a Baghdad, sotto le bombe, durante la fase piu'
ferocemente stragista della guerra tuttora in corso]
Se ti stuprano ti lapidano, se ti difendi fino all'estremo di uccidere il
tuo aggressore ti impiccano.
Una triste sorte che accomuna le donne di diversi continenti, vittime dei
pregiudizi maschili che incoraggiano la violenza sessuale accanendosi invece
contro chi la subisce in nome della legge islamica. La stessa legge che in
caso di omicidio prevede persino l'annullamento della sentenza capitale se
la famiglia offesa accetta un risarcimento monetario.
Una possibilita' che non avra' Afsaneh Noruzi, iraniana di 32 anni, che tra
pochi giorni sara' impiccata. Afsaneh e' stata condannata a morte per aver
ucciso un ufficiale di polizia che aveva tentato di violentarla.
Il fatto e' avvenuto nel 1997 sull'isola di Kirsh, nel Golfo persico, meta
turistica iraniana. Asfaneh era ospite con la sua famiglia di un conoscente
che viveva in un appartamento adiacente e che approfittando dell'assenza del
marito della donna aveva cercato di violentarla, lei si era difesa
accoltellandolo.
La condanna e' stata implacabile: alla forca. Inutilmente l'avvocato di
Afsaneh Noruzi nel corso del processo si e' appellato ad un articolo del
codice penale islamico che prevede una reazione "proporzionata" per
difendere "la propria vita, il proprio onore, la propria castita',
proprieta' o liberta'" in caso di mancata assistenza da parte delle
autorita'. La donna, che si trova nel carcere di Bandar Abbas, e' stata
condannata il 15 marzo e la condanna e' stata confermata dalla Corte suprema
e notificata il 28 settembre.
Inutile anche l'appello della figlia quindicenne di Asfaneh, Mahdiye
Jahanghiri, che ha scritto una lettera all'ayatollah Mahmud Hashemi
Shahrudi, ultraconservatore, per chiedere "umilmente" la revisione del caso.
Per salvare la vita di Asfaneh si sono mobilitate anche tre deputate
iraniane vicine al presidente riformista Mohammed Khatami. Jamileh Kadivar,
Azam Naseripour e Tahereh Rezazadeh hanno scritto al capo dell'apparato
giudiziario, l'ayatollah Shahrudi, sostenendo che "uccidendo il suo
aggressore, Afsaneh Noruzi non ha fatto altro che compiere il proprio dovere
umano e islamico per difendere il proprio onore di donna musulmana".
In Iran, secondo le organizzazioni per i diritti umani, ogni anno vengono
eseguite tra le 150 e le 200 condanne a morte: negli ultimi anni diverse
donne sono state lapidate per relazioni extraconiugali. L'anno scorso cinque
donne sono state giustiziate, quattro delle quali per aver ucciso il marito.
Amina, la nigeriana condannata a morte per aver avuto una figlia da una
relazione extraconiugale, e' stata salvata grazie alla mobilitazione
internazionale: Amnesty international si e' occupata anche del caso di
Afsaneh Noruzi.
Ma perche' Afsaneh viene lasciata morire senza che il mondo esprima il
proprio orrore e la propria pressione sulle autorita' iraniane?

2. UMANITA'. OCTAVIO PAZ: DUE LANCE SPEZZATE PER CHUANG-TZU
[Da Octavio Paz, Chuang-Tzu, Mondadori, Milano 2000, pp. 13-14.
Octavio Paz (1914-1998) e' stato un grandissimo poeta e saggista messicano,
nel 1990 insignito del premio Nobel per la letteratura.
Chuanz-Tzu (Zhuangzi) puo' essere letto in italiano nella bella edizione dei
testi taoisti della Utet (da cui il libro di Chuang-Tzu e' ripreso
nell'edizione economica Tea) e nell'edizione presso Adelphi]
In un'epoca come la nostra, cosi' intricata di filosofie e ragionamenti
taglienti e affilati (necessario preludio alle atroci operazioni di
chirurgia sociale eseguite oggi dai politici, discepoli dei filosofi), non
c'e' niente di meglio che divulgare alcuni di questi dialoghi, cosi' ricchi
di buon senso e saggezza. Tali aneddoti ci insegnano a non fidarci delle
chimere della ragione e, soprattutto, ad avere pieta' degli uomini.
*
Quando i virtuosi - ovvero i filosofi, che credono di sapere cio' che e'
buono e cio' che e' cattivo - prendono il potere, instaurano la piu'
insopportabile delle tirannie: la tirannia dei giusti. Il regno dei
filosofi, ci dice Chuang-Tzu, si trasforma fatalmente in dispotismo e
terrore.

3. MAESTRE. LUCE IRIGARAY: PARLARE
[Da Luce Irigaray, L'oblio dell'aria, Bollati Boringhieri, Torino 1996, p.
144. Luce Irigaray, nata in Belgio, direttrice di ricerca al Cnrs a Parigi,
e' tra le piu' influenti pensatrici degli ultimi decenni. Opere di Luce
Irigaray: Speculum. L'altra donna, Feltrinelli, Milano 1975; Questo sesso
che non e' un sesso, Feltrinelli, Milano 1978;  Amante marina. Friedrich
Nietzsche, Feltrinelli, Milano 1981; Passioni elementari, Feltrinelli,
Milano 1983; Etica della differenza sessuale, Feltrinelli, Milano 1985;
Sessi e genealogie, La Tartaruga, Milano 1987; Il tempo della differenza,
Editori Riuniti, Roma 1989; Parlare non e' mai neutro, Editori Riuniti, Roma
1991; Io, tu, noi, Bollati Boringhieri, Torino 1992; Amo a te, Bollati
Boringhieri, Torino 1993; Essere due, Bollati Boringhieri, Torino 1994; La
democrazia comincia a due, Bollati Boringhieri, Torino 1994; L'oblio
dell'aria, Bollati Boringhieri, Torino 1996]
Che cosa significa parlare per chi parla? Quali effetti di retroazione ha
sulla sua vita? Come quest'ultima si disorganizza-riorganizza grazie alla
sua potenza di parola? Qual e' il potere della parola su di un'altra vita?
Un altro vivente? Non si e' forse esercitato, fino ad ora, secondo una
modalita' di appropriazione captatrice piuttosto che in quella di uno
scambio - anche di vita?

4. EDITORIALE: ALI RASHID: UN PIANO DI PACE DAL BASSO
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 18 ottobre 2003. Ali Rashid e' il primo
segretario della delegazione palestinese in Italia. Fine intellettuale di
profonda cultura, conoscitore minuzioso degli aspetti storici, politici,
economici e culturali della situazione nell'area mediorientale, esperto di
questioni internazionali, ed anche acuto osservatore della vita italiana. E'
figura di grande autorevolezza per rigore intellettuale e morale, ed e' una
delle piu' qualificate voci della grande tradizione culturale laica
palestinese. Suoi scritti appaiono sovente nel nostro paese sui principali
quotidiani democratici e sulle maggiori riviste di cultura e politica]
A forza di gridare al lupo al lupo, adesso che c'e' veramente sembra quasi
che non ci creda piu' nessuno.
Parlo del documento siglato a Gerico (e che sara' confermato, in Svizzera, a
Ginevra ufficialmente il 14 novembre) tra un folto gruppo di osraeliani e
palestinesi rappresentativi di una parte che ha dimostrato tenacia e
determinazione in due anni di trattative estenuanti e che ha discusso anche
nei minimi dettagli il futuro scenario.
Un gruppo di persone di diversi livelli di responsabilita' e reduce da
esperienze piene di errori, che non vuole commetterne altri, sulla base
della chiarezza e non sulla ambiguita' che veniva ritenuta costruttiva ai
tempi di Oslo ma che non affrontava i veri nodi del conflitto. Soprattutto
sono l'espressione di chi, nella due societa', non vuole rassegnarsi alla
inevitabilita' della barbarie della guerra di Sharon e di Bush nell'ambito
della nuova dottrina del dominio del mondo.
La forza di questa intesa sta nel fatto che non e' presentata dai massimi
leader e dai "grandi capi", non scende dall'alto ma attraversa ambedue le
societa', con un progetto da costruire attraverso l'adesione graduale e
convinta di chi intende sporcarsi le mani e rifiuta di chinare il capo di
fronte alla morte che ha gia' ucciso, con gli innocenti, la speranza, i
sogni di pace e la gioia di vivere.
Un progetto di lotta per la sopravvivenza e la civile convivenza, per quanto
resta di vivo in due popoli martoriati da lunghi anni di tragedie collettive
e personali, dove oppresso ed oppressore hanno perso buona parte della loro
umanita' ed innocenza; un progetto che vorrebbe sfuggire, anzi, sconfiggere
la dottrina della guerra permanente sbandierata a Occidente ed Oriente come
condanna irrevocabile.
*
Una pace che non puo' e non deve essere la continuazione della guerra, anche
se risente dei suoi effetti devastanti, ma la stesura di una pagina nuova
che pone fine ad essa e tenta di contrastarne e capovolgerne miti,
finalita', cultura e prassi. E che forse per questo motivo non ha avuto
l'accoglienza che merita sulla scena internazionale, e non ha occupato le
prime pagine dei mezzi di informazione: ecco un segnale di autenticita',
come lo e' anche la reazione isterica di Sharon e del suo governo di
fanatici e mediocri.
La sua forza sta nel fatto che e' un progetto dichiaratamente di parte ed
alternativo, e non ha bisogno di essere celebrato nel giardino della Casa
bianca in presenza delle cancellerie corrotte e sanguinarie di mezzo mondo,
che si sono distinte per le loro ferocia, inadeguatezza e incapacita'. Ma
richiede il sostegno di coloro che hanno riempito le strade e le piazze per
contrastare la guerra e la sua cultura e sono la maggioranza dell'umanita' e
delle sue energie vive e genuine.
Questa intesa e' piu' grande del suo contenuto, che non ha ignorato
completamente il rapporto di forza esistente, ed ha taciuto e lasciato senza
riparazione adeguate ingiustizie immani. Rappresenta infatti una nuova
tendenza che mettera' in crisi la strategia di una classe politica corrotta
e conservatrice che ha fatto dello scontro tra civilta' e religioni il suo
cavallo di battaglia ed ha arruolato un esercito di politici e giornalisti
per annientare il diritto internazionale e legittimare con le menzogne il
dominio brutale e le rapine delle risorse del pianete.
*
Un messaggio rivoluzionario - si', usiamo questa parola - giunge dalla
Palestina, dove hanno regnato, e per lunghi anni, tutte le malvagita' del
nostro tempo, occupazione militare, razzismo, distruzione sistematica,
menzogne spudorate, stupidita' e ignoranza e violazioni di ogni forma di
diritto.
Perche' va colto come un messaggio che mettera' a nudo i vari falsi re
nonostante gli ingenti mezzi messi a disposizione dei faccendieri della
politica e della guerra. E dice che la Palestina risorgera' di nuovo e sara'
ancora la questione etica del nostro tempo.

5. RIFLESSIONE. JEFF HALPER: SE FALLISCE LA ROAD MAP
[Dal sito di Peacelink (www.peacelink.it)  riportiamo questo estratto da un
intervento tenuto il 5 settembre alle Nazioni Unite da Jeff Halper, ripreso
dalla bella rivista dei missionari saveriani "Missione Oggi" (per contatti:
missioneoggi at saveriani.bs.it) di novembre 2003. Jeff Halper, pacifista
israeliano, e' urbanista e docente di antropologia all'Universita' Ben
Gurion del Negev, e presidente del Comitato israeliano contro la demolizione
delle case palestinesi]
Nessuno scommetterebbe piu' un soldo sulla road map. Dal Dipartimento di
stato agli attivisti internazionali, all'uomo medio sulle strade della
Palestina e di Israele: e' davvero difficile trovare qualcuno che ancora
creda nella road map. Sin dall'inizio e' stata liquidata come un'iniziativa
fallimentare; e, come tale, e' andata ad aggiungersi ad una lunga lista di
altre analoghe: dal Tenet-Mitchell al Gunnar Jarring, al piano Roger (del
1969 - ndr). Ma e' davvero cosi'? La road map possiede un'importanza che
anche i suoi sostenitori sembrano oggi tralasciare.
*
Se la Road Map fallisce
Guardando la cosa dal basso, cioe' dalla prospettiva israeliana di creare
con una campagna durata tre decenni dei "fatti sul terreno" irreversibili,
la road map rappresenta l'ultimo tentativo di una soluzione che prevede la
nascita di due Stati. Come chiunque abbia passato un po' di ore nei
Territori Occupati puo' confermare, Israele sta finendo di inglobare il West
Bank, di trasformare un'occupazione temporanea in uno stato permanente di
apartheid. Sharon ha perfezionato la dottrina di Jabotinsky del "Muro di
Ferro", stabilendo una tale quantita' di "fatti sul terreno", che i
palestinesi possono scordarsi di avere un giorno uno Stato per conto
proprio. Gli insediamenti israeliani sono cosi' estesi, il loro collegamento
con lo Stato d'Israele tramite un massiccio sistema d'autostrade e di
bretelle e' cosi' completo, e il Muro di Separazione che confina i
palestinesi in piccole aree e' in uno stato talmente avanzato, da rendere
impossibile e ridicola la soluzione dei due Stati.
Vista la mancanza di volonta' della comunita' internazionale di costringere
Israele a ritirarsi dai Territori, e visto il rifiuto del Congresso
americano di esercitare qualsiasi pressione su Israele, Israele e' sul punto
di emergere come il nuovo Stato del mondo dove regna l'apartheid. Soltanto
la road map sta a meta' strada fra la speranza di autodeterminazione
palestinese in uno Stato (seppur piccolo) realmente sovrano, e la creazione
di uno Stato di fatto controllato da Israele. Anziche' considerare la road
map solo come l'ultima delle iniziative fallite, dovremmo vederla come uno
spartiacque nel conflitto israelo-palestinese. Il suo fallimento cambiera'
completamente l'intera natura della lotta per una soluzione giusta e
sostenibile della questione palestinese.
*
Pregi e limiti della Road Map
Come documento, la road map ha molti pregi. E' il primo documento
internazionale approvato dagli Stati Uniti che intima "la fine
dell'occupazione". In effetti, e' il primo in assoluto che usa il termine
"occupazione", sfidando la lunga negazione israeliana di questo dato di
fatto. E' anche la prima iniziativa che si pone come obiettivo la creazione
di uno Stato palestinese vitale, andando ben oltre le negoziazioni vaghe e
dall'esito aperto degli accordi di Oslo. Il solo uso del termine "vitale" fa
sperare che la comunita' internazionale sia finalmente diventata consapevole
della strategia del governo di Israele di stabilire "fatti sul terreno" che
pregiudicano qualsiasi negoziazione e rendono impossibile un vero Stato
palestinese.
Che la scadenza sia a breve e che entro il 2005 debba sorgere uno Stato
palestinese indipendente, democratico e vitale, capace di coesistere in pace
e sicurezza accanto a quello d'Israele, e' di per se' positivo. Come lo e'
la natura reciproca del processo, monitorato dal Quartetto e non solo dagli
americani. Anche i riferimenti alle risoluzioni delle Nazioni Unite, agli
accordi precedentemente raggiunti dalle parti e all'iniziativa saudita, sono
positivi. Sia nei suoi contenuti che nella struttura, la road map appare
come un tentativo ben concepito e potenzialmente giusto di raggiungere "una
soluzione conclusiva e di vasta portata del conflitto israelo-palestinese".
Ma, come si sapeva sin dall'inizio, manca la volonta' di farla funzionare.
Quattro mesi dopo la sua pubblicazione, la road map sembra ad un punto
morto. La Russia e le Nazioni Unite non sono mai entrate in prima persona
nel processo, e l'Europa ha lasciato tutta la responsabilita' agli Stati
Uniti. Bush, al vertice di Aqaba, ha annunciato che gli Stati Uniti
avrebbero nuovamente assunto il ruolo di mediatore unico, piegandosi cosi'
ad una delle "riserve" chiave di Israele.
Mentre la maggior parte degli sforzi erano diretti ad assicurare "riforme"
nell'Autorita' palestinese (compresa l'installazione non democratica di un
premier senza alcuna credibilita' pubblica) e mentre un funzionario di basso
rango del Dipartimento di Stato e' stato mandato qui per occuparsi di
"sicurezza", la campagna israeliana volta a consolidare la propria presa su
West Bank, Gerusalemme Est e Gaza e' proseguita liberamente.
Visto che nessuno s'illude che la road map produca altri effetti, fra i
critici non prevale un atteggiamento del tipo "ve l'avevo detto", ne' una
vera sensazione di un'altra opportunita' sprecata. Piuttosto c'e' una forte
determinazione a continuare la lotta contro l'occupazione, indipendentemente
da quanto tempo ci vorra'. La road map, ancora sul piatto solo perche'
nessuno l'ha ancora dichiarata morta, sta per essere consegnata al cestino
della storia, come un altro dei vani tentativi di raggiungere una pace
giusta in Medio Oriente.
*
Un apartheid permanente
Il significato della road map deriva sia dalla sua cadenza temporale, che
dai contenuti. Solo delle pressioni internazionali che costringano Israele a
porre fine all'occupazione, a ritirarsi completamente dai Territori
conquistati nel '67 (con piccoli aggiustamenti territoriali minori),
assicureranno il requisito fondamentale della "soluzione due-Stati": uno
Stato palestinese davvero sovrano.
Se la road map fallisce o, piu' probabilmente, langue (poiche' l'iniziativa
non verra' mai dichiarata ufficialmente morta), entriamo in una fase di
apartheid di fatto. Ad Israele sara' permesso continuare il suo processo di
incorporazione, gli Stati Uniti entreranno nella lunga fase pre-elettorale,
durante la quale non potra' essere esercitata alcuna pressione su Israele, e
ci vorranno uno o due anni prima che un'altra iniziativa di pace venga
formulata. Per quel tempo nessuno potra' piu' illudersi che possa sorgere
uno Stato palestinese "vitale".
Con le proprie mani, Israele avra' escluso quest'ipotesi e avra' creato
invece un solo Stato.
Il maggior rischio per i palestinesi, in un processo di road map non ancora
dichiarata morta, e' che possa essere "venduta" loro dagli americani la
versione di Stato palestinese secondo Sharon: un bantustan senza controllo
sulle frontiere, senza liberta' di movimento, senza vitalita' economica,
senza accesso alle sorgenti d'acqua, senza una presenza significativa a
Gerusalemme e senza una vera sovranita' (il 90% del Paese resterebbe ad
Israele).
Per una giusta soluzione del conflitto, dobbiamo guardarci da una simile
eventualita' e combatterla.
*
La lotta per un solo stato
Il solo "Stato" palestinese che potrebbe emergere dalla matrice di controllo
israeliana e' uno Stato palestinese bantustan. Visto che questa non e' una
"soluzione" accettabile, non ne rimane che un'altra: la creazione di un solo
Stato palestinese-israeliano. La scena e' dunque pronta per la prossima fase
di lotta: una campagna internazionale per un unico Stato. Essendo il popolo
palestinese e quello ebreo molto mescolati (un milione di palestinesi vive
all'interno di Israele, mentre quattrocentomila ebrei vivono nei Territori
Occupati), la fattibilita' di uno Stato bi-nazionale, con due popoli che
coesistano in una specie di federazione, non c'e'. Stando cosi' le cose, la
soluzione piu' pratica sembra quella di un unico Stato democratico unitario
che offra uguale cittadinanza a tutti. Allora, il nostro slogan del periodo
post-road map sara' quello della lotta sudafricana contro l'apartheid: una
persona, un voto.
In questo interminabile crepuscolo della road map, siamo ancora in piena
transizione da una soluzione a due-Stati, nella quale le nostre energie sono
investite in un estremo tentativo di porre fine all'occupazione, ad una
campagna per un solo Stato che riconosca la permanenza dell'occupazione e
cerchi quindi di neutralizzare i suoi aspetti di controllo, creando una
struttura statale comune. Nessuno degli attori e' pronto ad un cambiamento
del genere: ne' i palestinesi, ne' la comunita' internazionale, ne' gli
attivisti per la pace e i diritti umani, ne' gli ebrei sparsi per il mondo
e, meno che meno, gli ebrei israeliani. Rappresentanti dell'Autorita'
palestinese hanno addirittura suggerito che sollevare questa questione oggi
e' controproducente, superando le richieste che anche i piu' aperti
sostenitori della pace sono oggi pronti ad accettare.
Finche' la road map offrira' un barlume di speranza che si possa fare
qualcosa riguardo all'occupazione israeliana, la discussione di scenari
alternativi restera' prematura. Ma tale discussione si aprira'
inevitabilmente, se e quando il processo della road map fallira' e la dura
realta' della presenza permanente d'Israele emergera' con chiarezza. Senza
troppo considerare come ci sentiamo all'idea di un solo Stato, e' tempo che
ci prepariamo sia mentalmente che dal punto di vista pratico ad una tale
eventualita' e alla lotta che una campagna anti-apartheid genera.
*
Alcune cose che dovremmo fare
Dovremmo utilizzare il linguaggio dei diritti umani e della legge
internazionale. Una campagna per uno Stato democratico si propone di
assicurare i diritti di tutti gli abitanti del Paese; non e' contro il
popolo israeliano, ne' cerca in alcun modo di delegittimare la societa' o la
cultura israeliana. Partendo dal presupposto che la sicurezza e il benessere
di tutte le popolazioni della regione possono essere garantite solo
attraverso una soluzione politica, e che l'autodeterminazione nazionale
trovera' la propria espressione attraverso un'Unione regionale del Medio
Oriente, dobbiamo presentare il singolo Stato democratico come il miglior
mezzo per tutelare i diritti collettivi e individuali, non come una
minaccia.
Il fatto che l'occupazione e l'apartheid costituiscano delle gravi
provocazioni per un mondo regolato dai diritti umani e dalla legge, dovrebbe
essere un messaggio centrale. Visto il peso del conflitto
israelo-palestinese all'interno del mondo arabo e musulmano, e' chiaro che
il sistema internazionale non trovera' mai stabilita' (compresa una risposta
al terrorismo), a meno che questa questione venga risolta e si presti una
maggiore attenzione agli effetti del conflitto.
Dovremmo appellarci all'opinione pubblica ebraica, sia a quella che vive in
Israele che a quella della diaspora, per evitare le sofferenze sperimentate
durante la lotta contro l'apartheid in Sudafrica. Nella sua essenza, il
sionismo invitava gli ebrei ad assumersi la responsabilita' del proprio
destino. Uno Stato ebraico e' risultato essere politicamente e, in
definitiva, moralmente indifendibile. E' tempo di salvare le parti buone di
Israele: la sua vibrante cultura nazionale, la societa', le istituzioni,
l'economia. E di lasciar andare quello che non puo' essere salvato: la
"proprieta'" esclusiva di un Paese, nel quale gli ebrei saranno presto una
minoranza.

6. RIFLESSIONE. ELISABETTA CARAVATI: SULLA PROPOSTA DI LIDIA MENAPACE
[Ringraziamo Elisabetta Caravati (per contatti: e-mail:
elisabettacaravati at libero.it) per questo intervento. Elisabetta Caravati e'
impegnata nell'esperienza delle Donne in nero a Varese (sito:
www.donneinnerovarese.org) ed e' autrice di acuti interventi sui temi della
pace, della solidarieta', dei diritti]
La guerra contro l'Iraq ha diviso i governi europei impedendo all'Europa di
agire in modo responsabile ed efficace. Allo stesso tempo decine di milioni
di cittadini europei hanno dato voce ad un'Europa dei popoli unita attorno
ai valori della pace, della giustizia e del diritto internazionale dei
diritti umani.
Il mondo e' in uno stato di pericolo, i rischi sono terribili, la posta in
gioco elevatissima, e noi non possiamo accettare il silenzio e l'inazione
dell'Europa, se i governi restano divisi, i cittadini europei hanno la
responsabilita' di unirsi e di agire con determinazione e lungimiranza per
dare vita ad un'Europa che si metta al servizio della pace e della
promozione del bene comune mondiale.
Un'Europa capace di affrontare le grandi sfide aperte mettendo un freno al
dilagare della guerra, dell'ingiustizia, del terrorismo e del crescente
disordine internazionale.
*
Occorre agire subito.
Abbiamo bisogno urgente di un'Europa decisa a costruire e affermare se
stessa come soggetto politico di pace, autonomo e indipendente; determinata
a costruire un ordine mondiale piu' giusto, pacifico e democratico centrato
sulle Nazioni Unite e sul diritto internazionale dei diritti umani; decisa a
combattere la fame, la sete, le malattie e la poverta', promuovendo
un'economia di giustizia; decisa a contrastare ogni piano di "guerra
infinita", di "scontro di civilta'" o di terrorismo; per costruire nel
Mediterraneo, nei Balcani e nel Medio Oriente una comunita' di pace;
impegnata a ridefinire coerentemente i suoi rapporti di amicizia e
cooperazione con tutti i paesi vicini, con gli Stati Uniti, con il mondo
arabo e con il resto del mondo.
Il mondo ha disperato bisogno di una nuova Europa e noi, cittadini europei,
consapevoli delle nostre grandi responsabilita' storiche, vogliamo lavorare
insieme affinche' l'Europa che stiamo costruendo si metta realmente a
servizio della pace, della giustizia e della democrazia internazionale.
Nessuno resti a guardare.

7. RIFLESSIONE. ANGELO CIFATTE: SULLA PROPOSTA DI LIDIA MENAPACE
[Ringraziamo Angelo Cifatte (per contatti: acifatte at iol.it) per questo
intervento. Angelo Cifatte, costruttore di pace, amico della nonviolenza, fa
parte della Tavola della pace ed e' impegnato da sempre in molte attivita'
ed esperienze di pace, di solidarieta', per la giustizia e i diritti]
Ho letto non tutti i pezzi provocati dalla sempre carissima Lidia Menapace,
che ho rivisto a Perugia. In effetti, sono sempre impressionato dalla sua
capacita' e determinazione a cogliere spunti positivi, come anche da ultimo
ha colto tra le donne la sera di venerdi' 10, dopo una giornata pesante.
L'appuntamento di Perugia quest'anno, a mio avviso, ha rappresentato un
punto molto alto di riflessione e di proposta, perche' si e' concentrato
molto utilmente sull'Europa, sulla nuova fase costituente europea e quindi s
ui contenuti politici oggetto di un possibile impegno. Sia come proposito
nostro, sia come suggerimento per altri.
Come proposito nostro, e' ovvio che la Tavola della pace vede rinnovato da
ora un suo forte impegno, a tutti i livelli (internazionale, europeo,
nazionale e locale), in tutte le sue componenti. Mi auguro che queste
chiariscano rapidamente tra loro incomprensioni e diffidenze, per dedicarsi
totalmente alla causa della promozione della pace, ossia alla
sensibilizzazione, alla formazione, alla promozione di politiche di pace,
per la promozione della cooperazione internazionale, dei diritti umani.
Ciascuno nel proprio specifico ha un mare di cose da fare: basta prendere
spunto quotidianamente dai media, per partire. Occorre organizzare sempre
meglio il proprio impegno, coinvolgendo e responsibilizzando sempre piu' chi
di dovere. Da impiegato comunale, per esempio, so che in ogni ente locale
c'e' un "ufficio passi carrai"; mentre sono certo che non ovunque c'e' un
ufficio che si occupi sistematicamente e quotidianamente di pace,
cooperazione e diritti. Se facessimo una campagna sistematica di
rivendicazione a tal scopo?
Come suggerimento per altri, sono venute fuori proposte importantissime:
1. la proposta che dovrebbe fare l'Unione europea all'Assemblea generale
delle Nazioni Unite di una "Convenzione internazionale per la
riorganizzazione dell'Onu" rilancia un progetto gia' formulato a Perugia nel
1995, che in questi otto anni ha ricevuto tante verifiche: in senso
positivo, per tutti coloro che l'hanno ulteriormente proposto e forse
perfezionato; in negativo, per tutte le volte in cui abbiamo dovuto
constatare quanto un'Onu inadeguata non possa assolvere al suo compito
fondamentale.
2. la proposta che si vada alle elezioni europee anche con la formulazione
di un progetto di nuova Costituente europea, da aprirsi con tale esplicito
mandato subito, all'insediamento del nuovo Parlamento europeo. Tutti
avvertiamo i limiti dell'attuale "Trattato costituzionale", che pure verra'
varato. Gia' e' un passo avanti. Ma in questi anni, o mesi, sentiamo quanto
si possa e si debba andare ancora piu' avanti: il diritto alla pace, la
enorme "questione acqua", e quindi tale diritto all'acqua, sono per esempio
altri due temi molto richiamati a Perugia ed oggetto di specifiche
rivendicazioni e proposte. Su cio', nei prossimi mesi, tutti i soggetti che
si presenteranno al corpo elettorale europeo dovranno pronunciarsi
chiaramente.
Sono tutte formulazioni che richiedono ormai una verifica non
"nell'enunciazione", ma "nelle cose". Lavoriamo perche' si proceda in tale
senso al piu' presto.

8. RIFLESSIONE. LUCA SALVI: SULLA PROPOSTA DI LIDIA MENAPACE
[Ringraziamo Luca Salvi (per contatti: lukesalvi at libero.it) per questo
intervento. Luca Salvi fa parte del gruppo di iniziativa territoriale della
Banca Etica a Verona; e' impegnato in iniziative per la pace, la giustizia,
i diritti umani]
La globalizzazione e' come le stagioni, non si puo' fermare, c'e' e basta,
secondo le parole di Nelson Mandela. Lo stesso vale per il processo che sta
portando alla nascita dell'Europa Unita.
Sono processi che non si possono fermare ma che devono essere governati e
umanizzati, ovvero messi al servizio dell'uomo.
Percio', come dobbiamo opporci a questa globalizzazione a senso unico, cosi'
dobbiamo opporci ad un'Europa a senso unico, dei mercati e dei mercanti,
all'Europa di Berlusconi, succube degli Stati Uniti, e all'Europa della
Difesa militare. Per difenderci poi da chi? Da masse di disperati che,
escluse e oppresse da questo sistema di morte, chiedono solo un pezzo di
pane, un po' d'acqua, una casa, una vita sicura e dignitosa?
L'Europa, dopo centinaia di anni di guerre, e' riuscita a garantire a
(quasi) tutti i suoi cittadini cinquant'anni di pace, di benessere e di
sicurezza sociale ma, se da un lato non puo' dimenticare le proprie tremende
responsabilita' storiche (colonialismo) e attuali (sfruttamento economico,
vendita di armi e sostegno a regimi corrotti e dittatoriali)
nell'impoverimento del terzo mondo, dall'altro non puo' chiudersi nella sua
torre d'avorio incurante di tutto cio' che accade al di fuori, e non solo
lontano, ma anche in Cecenia o nei Balcani.
Infatti la pace e la giustizia sono indivisibili, o ce li ha il mondo intero
o non ci sono per nessuno, come dimostra la piaga del terrorismo
internazionale, che in questi ultimi anni si e' esacerbata e rischia prima o
poi di colpire anche l'Europa.
*
Per questo noi sogniamo e lavoriamo per un'altra Europa, aperta, solidale e
nonviolenta, attivamente impegnata nella difesa e nella promozione dei
diritti umani e nella salvaguardia dell'ambiente, in tutto il mondo e per
tutti.
Cio' richiede un impegno permanente, con metodi nonviolenti e attraverso
un'informazione approfondita e alternativa ai grandi monopoli, tentando di
vivere con sobrieta' e di consumare l'essenziale, contrastando un modello
economico profondamente ingiusto e violento che crea esclusione e
sfruttamento, accogliendo le opinioni degli altri, aiutando i profughi e i
poveri, sia vicini che lontani, e pretendendo dai politici che votiamo una
maggior sensibilita' a questi temi.
Il cambiamento passa dalle nostre scelte quotidiane: sosteniamo la finanza
etica, il commercio equo e solidale, il consumo critico, l'informazione
alternativa, aderiamo a campagne di pressione o boicottaggio, adottiamo
nuovi stili di vita, scegliamo la pace e la nonviolenza attiva, la
partecipazione e l'impegno sociale e politico.
Soprattutto, insegniamo ai nostri figli a ragionare con la propria testa, ad
amare i loro fratelli piu' poveri e sfortunati e ad indignarsi di fronte
alle ingiustizie.
Insegniamo loro cio' che e' giusto, non cio' che conviene.
Solo cosi' un'altra Europa sara' possibile.

9. RIFLESSIONE. TANA DE ZULUETA: CONTRO LA TORTURA
[Dal sito di "Nonluoghi" (www.nonluoghi.it) riprendiamo questo intervento
inviato da Tana de Zulueta all'incontro "Mai piu' come al G8. Formazione
alla nonviolenza delle forze di polizia, legge sulla tortura, commissione
d'inchiesta. La lezione del luglio 2001 e la risposta delle istituzioni"
svoltosi recentemente a Genova. Tana de Zulueta e' una prestigiosa
giornalista e senatrice]
Il tema che affrontate oggi e' di vitale rilevanza per l'evoluzione delle
democrazie e per l'affermazione dei diritti umani  e della persona, proprio
nel momento in cui si assiste ad una sorta di revisione delle filosofie del
diritto, nazionale e internazionale,  attraverso un cambiamento delle
regole, alle volte  esplicitamente, ma piu' spesso con modalita'
striscianti, che stanno progressivamente assumendo connotazioni di
involuzione molto allarmanti.
Il pensiero va immediatamente all'11 settembre, utilizzato, in Occidente, a
motivo scatenante per l'imposizione di politiche di guerra, di contrasto e
di repressione dei fenomeni terroristici, affermando, attorno ad esse, le
necessita' di sicurezza globale.
Questa nuova realta' ha portato alla luce tutta la fragilita' del diritto
internazionale che, seppure saldo nei suoi principi fondanti scritti sugli
orrori del secolo scorso, viene minato alle sue basi proprio da coloro che
ne dovrebbero essere i garanti e che, invece, lo disattendono o lo
dichiarano addirittura superato.
Se riuscite a reperirlo - lo trovate facilmente in internet - vi consiglio
la lettura di un fondo di Claudio Magris, pubblicato sul "Corriere della
Sera" dell'8 settembre scorso, dal titolo "Maestri e allievi a scuola di
tortura. L'Occidente liberale perde se rinnega se stesso affidandosi
all'orrore". Magris ci racconta del lavoro di intelligence, della tortura
assurta a metodo di interrogatorio "in modo da ottenere sempre una
risposta", dai lager nazisti ai gulag staliniani, dall'Algeria coloniale
descritta nel film di Pontecorvo "La battaglia di Algeri" - alle piu' atroci
dittature latinoamericane di Argentina, Cile, Panama, ecc., dal Vietnam
all'Indocina e, perche' no, all'Iraq di oggi, quando si scopre che il
Pentagono utilizza proprio il film di Pontecorvo come materiale di studio
per affrontare la guerriglia irachena. Magris ci avverte su una "tranquilla
abitudine" di ignavia, di non voler vedere, di giustificare tutto, dove
tutto e' possibile e permesso e dove tutto puo' diventare orribile.
*
Come immagino saprete, sono presentatrice di un disegno di legge che
introduce nel nostro ordinamento penale il reato di tortura.
Prima ancora di un'iniziativa legislativa si tratta, in realta', di un atto
dovuto, di un adeguamento della normativa interna a quella sopranazionale
per colmare le lacune del diritto interno (gli atti di tortura che non
provocano lesioni gravi sono oggi punibili solo a querela di parte e
rischiano quindi l'impunita', cosi' come le sottili torture psicologiche non
rientranti nel novero delle lesioni personali) e costituire norma di
chiusura dell'ordinamento a garanzia dei diritti umani di tutti cittadini.
Insieme ai numerosi colleghi parlamentari che hanno voluto sottoscriverlo lo
presentammo, e non a caso, nell'agosto del 2001, ovvero subito dopo i fatti
accaduti durante il G8 di Genova e prima dell'11 settembre, quando non erano
ancora prevedibili quelle lacerazioni al diritto internazionale prodotte
dalla teorizzata e praticata unilateralmente guerra preventiva
all'Afghanistan e all'Iraq e dalla disattesa applicazione, in particolare ai
combattenti ma non solo, delle principali Convenzioni internazionali in
materia di conflitti (Convenzione di Ginevra) e di giurisprudenza
internazionale (la Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti
crudeli, inumani o degradanti).
Prima di entrare nello specifico nazionale, ovvero nel  tema del vostro
convegno, vorrei solo e brevemente fare un richiamo al terribile salto di
qualita' e all'incertezza giurisprudenziale delle modalita' di arresto,
detenzione, interrogatorio e di eventuale processo che, pressoche' in
assenza di qualsiasi controllo o contrappeso democratico, vengono praticati
a Guantanamo Bay e negli altri carceri speciali allestiti dalle autorita'
militari americane al di fuori di regole sia interne che internazionali.
Ricordate le prime immagini di Guantanamo dei detenuti ingabbiati all'aperto
in stie, incaprettati, bendati su occhi, bocca e orecchie?
La deprivazione sensoriale e' tortura.
La privazione del sonno e' un trattamento inumano e degradante.
E' tortura l'uso di farmaci o di sostanze psicotrope negli interrogatori
(circostanza, quest'ultima,  peraltro pure ammessa per la prima volta dagli
Stati Uniti).
Sono trattamenti inumani la nudita' e altre imposizioni degradanti.
Sono torture e trattamenti inumani e degradanti le botte, le vessazioni -
anche verbali -, il semplice trattenimento per ore in piedi e a braccia
alzate.
Questa situazione, questa nuova realta', questa deriva autoritaria, va
contrastata con tutti i mezzi democratici, politici, culturali e sociali
possibili.
"Distratti dalla Liberta'" e' il titolo della denuncia scritta efficacemente
da Lorenzo Guadagnucci perche' - prendo a prestito le sue parole - "non
possiamo lasciar perdere, ne' farci sopraffare da chi promuove
l'indifferenza e la rassegnazione".
Occorre ritrovare la capacita' di indignazione, perche' fatti come quelli di
Genova, Napoli, Cosenza, Milano non abbiano a ripetersi.
C'e' un regime di impunita' che pesta in una sorta di zona grigia. La
mancata censura e punizione degli illeciti sembra iscriversi in una
normalita' di indifferenza istituzionale; non riguarda mai gli agenti di
polizia e delle forze dell'ordine, ne' i funzionari ne' i dirigenti con
responsabilita' di comando e orientamento. Una superprotezione odiosa che ha
trovato copertura politica nell'attuale governo e che, drammaticamente,
accresce la lontananza tra istituzioni e societa' civile.
Eppure avvisaglie importanti c'erano state e tutto cio' poteva essere
evitato. Sarebbe stato sufficiente prendere in considerazione i rilievi
fatti dal Cpt (Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle
pene o trattamenti inumani e degradanti) che, nel suo rapporto sull'Italia,
aveva denunciato, su tali comportamenti, rischi e derive.
*
C'e' una battaglia politica, e soprattutto culturale, da fare in Italia
perche' la promozione e protezione dei diritti umani divenga patrimonio
accettato e condiviso nella societa' e nelle sue articolazioni istituzionali
e amministrative.
Non possiamo e non dobbiamo essere "distratti". Nulla deve passare
inosservato e in silenzio. Dobbiamo incalzare i nostri rappresentanti
politici a farsi carico della promozione e protezione dei diritti umani e
pretendere, da chi ha l'incarico di governo,  risposte chiare e
comportamenti conseguenti.
Occorre che il nostro paese adegui il proprio ordinamento  giuridico e
amministrativo recependo e adottando tutte le indicazioni maturate in
materia in ambito comunitario e internazionale a partire, per fare un
esempio, dal recepimento della risoluzione n. 48/134 del 1993 dell'Assemblea
Generale delle Nazioni Unite che invita gli Stati membri a dotarsi di
istituzioni nazionale indipendenti per la promozione e protezione dei
diritti umani. Ovvero, occorre realizzare degli efficaci contrappesi
democratici in grado di proteggere i diritti dei piu' vulnerabili e
svantaggiati e dare voce uguale a tutti i membri della societa'.
Concludo il mio contributo con una frase a me cara del segretario generale
delle Nazioni Unite Kofi Annan: "Costruire forti istituzioni nazionali per i
diritti umani e' cio' che a lungo termine assicurera' che i diritti umani
siano protetti e promossi in maniera forte e duratura". Sono d'accordo con
lui e credo che questa sia l'unica vera strada che possa condurci alla
costruzione di un mondo migliore.

10. RIFLESSIONE. LANFRANCO MENCARONI: CONTRO LA TORTURA
[Ringraziamo Lanfranco Mencaroni (per contatti: Associazione nazionale amici
di Aldo Capitini, e-mail: capitini at tiscalinet.it) per averci trasmesso
questo intervento gia' apparso nel bel sito del "Cos in rete"
(www.cosinrete.it). Lanfranco Mencaroni, amico e collaboratore di Aldo
Capitini, e' infaticabile prosecutore dell'opera comune, animatore
dell'Associazione nazionale amici di Aldo Capitini (per contatti:
capitini at tiscalinet.it) e curatore del sito del "Cos in rete"
(www.cosinrete.it) che mette a disposizione una ricchissima messe di testi
di e su Capitini, ed e' un fondamentale punto di riferimento per amici e
studiosi della nonviolenza]
Ha fatto bene Claudio Magris a dedicare un fondo del "Corriere della Sera",
l'8 settembre 2003, alla tortura.
Si era saputo che il Pentagono aveva permesso di studiare i metodi di
tortura illustrati bene da Gillo Pontecorvo nel suo film sulla "Battaglia di
Algeri". Agli Usa serviranno nella lotta contro il terrorismo, ai francesi
servirono nelle guerre coloniali, ai generali argentini nello sterminio
degli oppositori politici, bollati tutti come comunisti, anche se non lo
erano.
Parlare della tortura l'8 settembre e' stato utile anche per ricordare l'uso
esteso e atroce della tortura fatto dai fascisti e dai tedeschi contro i
nostri partigiani, che si concludeva sempre con il rito della impiccagione.
Magris conclude il suo articolo con un ricordo: "'Pagina 12' riporta una
frase del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa che non conoscevo e che
potrebbe essere una definizione della democrazia, della civilta',
dell'umanita' stessa. A chi gli suggeriva di usare la tortura con i
brigatisti rossi detenuti per scoprire dove era tenuto prigioniero Moro,
Dalla Chiesa avrebbe risposto: 'L'Italia puo' permettersi di perdere Aldo
Moro, ma non puo' permettersi di introdurre la tortura'".
Magris ritiene che l'uso della tortura da parte dei paesi democratici sia
oltre che inumano anche contradditorio.
E' vero, infatti, che per infliggere dolore violento a un nostro simile
indifeso occorre essere convinti che l'oggetto della nostra azione non sia
una persona come noi, bensi' un individuo "inferiore" per razza, per sesso,
per condizione sociale o per idee, comunque un altro da noi, sulla vita del
quale possiamo avere qualsiasi diritto.
Questa demonizzazione del nemico che ci permette di torturarlo e ucciderlo
senza rimorso e' pratica antica e comune a tutti i poteri, utilizzata in
tutte le guerre, usata da tutti i criminali.
La schiavitu', abolita legalmente dalla Rivoluzione francese, e' stata
praticata negli Stati Uniti fino alla conclusione della guerra civile nella
seconda meta' dell'Ottocento, e' ancora praticata in Africa, in Asia e anche
da molte bande criminali nei nostri paesi avanzati.
Il riconoscimento dei diritti dell'altro e' un obiettivo ancora lontano per
le donne in tutto il mondo, per i neri e i gialli presso i bianchi, per i
poveri nei confronti dei ricchi.
In questo mare di discriminazione, nemmeno il socialismo ha saputo dare una
spinta decisiva alla scomparsa della tortura.
La tortura e' un ingrediente quotidiano dei film, dei fumetti, dei giochi
che riempiono le giornate degli spettatori grandi e piccoli.
La tortura, purtroppo, non e' ancora scomparsa dagli scenari punitivi che la
divinita' riserva alle persone giudicate indegne di andare in paradiso.
Noi crediamo che soltanto la scelta della nonviolenza, con la diffusione
della educazione alla nonviolenza fin dai bambini, con il rifiuto assoluto
di qualsiasi giustificazione per la violenza, sapra' mettere l'umanita' nel
sentiero capace di vincere anche l'uso della tortura.

11. RIFLESSIONE. LUCIANO DOTTARELLI PRESENTA "LE SOLITUDINI NELLA SOCIETA'
GLOBALE" DI ELENA LIOTTA
[Ringraziamo Luciano Dottarelli (per contatti: ldottarelli at libero.it) per
questo intervento, che sintetizza alcune delle cose da lui dette in
occasione di una presentazione pubblica del libro di Elena Liotta a Viterbo.
Luciano Dottarelli, docente e saggista, apprezzatissimo pubblico
amministratore, e' uno dei collaboratori piu' autorevoli, e degli amici piu'
cari, di questo foglio. Tra le opere di Luciano Dottarelli: Popper e il
gioco della scienza, Erre Emme, Roma 1992; Kant e la metafisica come
scienza, Ere Emme, Roma 1995.
Luciano Comini e' insegnante, musicista, in mille forme educatore e
soprattutto con l'esempio e l'amicizia, impegnato nell'esperienza del centro
comunitario di Celleno, animatore infaticabile della Piccola Editrice,
sempre generosamente attivo in iniziative di pace, di solidarieta', di
cooperazione internazionale, di sostegno alle lotte per i diritti e la
liberazione dei popoli e delle persone.
Elena Liotta e' psicoterapeuta e psicologa analista, nata a Buenos Aires,
vive da diversi anni a Orvieto (di cui e' stata anche assessora comunale
alle politiche sociali), svolge attivita' clinica, formativa e culturale in
ambito psicoanalitico e socio-educativo. Tra le numerose pubblicazioni di
Elena Liotta segnaliamo: Educare al se', Edizioni scientifice Ma. Gi, Roma
2001; Le solitudini nella societa' globale, La Piccola Editrice, Celleno
(Vt) 2003]
Quando Luciano Comini de La Piccola Editrice mi ha chiesto di presentare
questo libro di  Elena Liotta (Le solitudini nella societa' globale), il
primo pensiero e' stato quello di non essere la persona piu' adatta a
valorizzarne i contenuti.
Sembrera' paradossale per chi di voi mi conosce soprattutto per un impegno
come quello politico, che si gioca e si consuma quasi per intero nel
presente -  eppure io, come lettore di libri,  sono poco attratto alla
dimensione dell'attualita' e del presente.
Non solo perche' sono convinto - come dice Borges - che "l'attualita'
incandescente che ci esaspera ed esalta e con frequenza ci schiaccia, non e'
altro che una riverberazione imperfetta di vecchie discussioni" e quindi,
poiche' "la realta' e' sempre anacronistica", si studia meglio il presente
sui libri del passato. Se fosse solo questo, potrebbe anche trattarsi di una
mera strategia di prudenza intellettuale, la quale consiglierebbe una
congrua decantazione nel tempo di ogni analisi, per poter vagliare cio' che
e' effimero e cio' che e' duraturo.
Ma non e' solo questo. La diffidenza nei confronti dell'analisi
(specialmente storico-sociologica) del presente nasce in me dalla mancata
condivisione dell'attitudine di fondo che muove, quasi sempre, l'analista
della contemporaneita' (parlo ovviamente della sua figura "tipica"): la
convinzione che la dimensione attuale presenti elementi di discontinuita'
con il passato talmente forti e significativi da giustificarne una
trattazione specifica.
E' quella che Giorgio Colli, il grande studioso della sapienza greca e di
Nietzsche, chiamava "l'incantesimo della storia", l'illusione della continua
novita' del presente, che ci tiene lontani dalla comprensione che "la vita
profonda si attinge dal pozzo del passato" perche' "nel profondo nulla
cambia, non c'e' divenire".
E' evidente che si tratta di opposti stili di pensiero, di modi entrambi
unilaterali di interpretare e di sentire il mondo.
Come estremi di quel continuum che sono le concrete e multiformi modalita'
di comprensione della realta', essi sono stati fissati dalla tradizione
culturale nella figura emblematica dell'opposizione  tra  la concezione di
Machiavelli e  quella di Guicciardini.
Il primo, convinto della sostanziale immutabilita' della "natura" umana,
che - dopo essersi tutto il giorno "ingaglioffato" con gli uomini del
presente - di notte, per comprendere davvero l'uomo, si volge alla lettura e
al dialogo con i classici latini; il secondo che, enfatizzando la
discontinuita' del presente rispetto al passato, rimprovera proprio "coloro
che a ogni parola allegano e' romani" perche' le circostanze storiche sono
continuamente mutevoli e solo la "discrezione", la capacita' di distinguere
situazioni ogni volta nuove, aiuta a comprendere il mondo.
In questa polarita' - forse per carattere, in parte per una consapevole
scelta etica - sono attratto dalla prospettiva non storica, quella che
sospinge a cogliere cio' che di permanente accomuna gli esseri umani al di
la' delle differenze di spazio e tempo.
Ho dunque aperto il libro di Elena Liotta con in testa queste riserve
mentali, questi pensieri e queste domande.
Le solitudini oggi, nella societa' globale: potranno essere davvero
sostanzialmente diverse da quelle del passato?
Ho trovato un libro di una sobrieta' espressiva che potrei dire classica,
ricco di consapevolezza culturale e di pietas per il destino delle persone.
Il forte aggancio al paradigma psicologico junghiano consente all'autrice di
non perdere mai di vista la dimensione universale della solitudine e di pres
entare il proprio lavoro come una fenomenologia delle sue figure odierne.
Sullo sfondo dell'analisi agiscono le nozioni di inconscio collettivo e di
archetipo, come forma universale che riceve ogni volta il suo contenuto
concreto dall'esperienza vivente degli individui. La contemporaneita',
l'oggi della societa' globale non crea ma riempie di nuova concretezza la
forma della solitudine e ne fa scaturire nuove figure.
Questo approccio, ancorato ad un punto di vista che resta stabile e
permanente, consente di cogliere la societa' globale nella sua effettiva
novita', nella sua reale discontinuita' con il passato. Qualita' che le
derivano sostanzialmente dal rilievo e dalla pervasivita' che ha raggiunto
la dimensione tecnica.
La circolarita' della societa' tecnologica, in cui la realta' esterna non e'
piu' veramente tale, perche' quasi interamente produzione dell'uomo,
imprigiona, come in una sorta di tela di ragno, gli stessi esseri umani e
produce nuove solitudini come la sindrome del tecnoautismo.
Altri aspetti essenziali della societa' tecnologica, come la logica dell'usa
e getta, la rimozione del passato, la forzatura dei processi naturali e il
sogno dell'onnipotenza, l'eccesso di relazione/comunicazione e la sua
massificazione, generano frustrazione, distacco, esclusione e fanno nascere
nuove forme di solitudine, come quella rabbiosa del terrorista o quella muta
del dissociato, che non vuole o non puo' combattere la societa' che pure non
condivide.
Oppure producono nuove incarnazioni delle forme tradizionali: la solitudine
dell'artista, del mistico o quella dell'eroe, che oggi si ripresenta nella
veste  della persona ambiziosa, attiva e premiata dal successo sociale che
pero', quasi come un moderno Sisifo, appare condannata a sostenere il peso
di una ripetitivita' tanto frenetica quanto priva di significato, spenta,
inutile.
Anche quella che Ortega y Gasset avrebbe chiamava la "dialettica delle
generazioni" e' resa piu' drammatica dall'accelerazione nel ritmo dello
sviluppo tecnologico. L'anziano e' escluso da conoscenze che corrono sulle
nuove tecnologie mentre il patrimonio di cui realmente dispone, il sapere
sulla vita e sugli esseri umani, finisce disperso perche' la sua
trasmissione richiederebbe tempo vero e relazioni significative, che
mancano. Cosi' le giovani generazioni crescono private del ricordo e
dell'insegnamento di quella saggezza che nasceva dalla sedimentazione della
pena e della fatica della vita, sospinte ancora piu' affannosamente nel
vortice del presente, senza che nessuno, tantomeno la scuola, abbia loro
fornito gli strumenti per costruire una autonoma capacita' di tenuta emotiva
di fronte alle difficolta' della vita.
A partire proprio dalla consapevolezza di quel "grande imbroglio" che e'
l'omissione educativa degli ultimi decenni ("non aver insegnato ai figli non
solo che la vita e' dura, ma soprattutto come affrontarla quando lo diventa,
come reggere le frustrazioni, come imparare l'attesa, come sviluppare la
pazienza, come tollerare i disagi, come costruire la continuita'
dell'impegno in qualunque cosa, dallo studio al lavoro alle relazioni
affettive, come rispettare davvero se stessi e gli altri"), puo' avvenire un
recupero in positivo della dimensione della solitudine e del silenzio.
E' ancora il riferimento a Jung, alla prospettiva teleologica
dell'"individuazione", della attuazione del Se', che guida l'autrice a
cogliere questa ambivalenza della solitudine, la quale, pur connessa
inscindibilmente ad un vissuto di perdita o di esclusione, puo' essere
attraversata fino in fondo e trasformarsi in quella capacita' di distanza e
di concentrazione che consente di rimanere individualita' autocentrate e
libere all'interno di una comunita'.
Lungo il percorso di riflessione che - a partire dal rispetto per se stessi
e per la propria interiorita' - vuole condurre ad una piu' libera e
consapevole apertura agli altri ed alla costruzione di una dimensione di
valori comuni condivisi, si potrebbero incontrare, venendo da altre
confluenze, autori decisivi del passato e della contemporaneita'.
Dal Kant, che pur consapevole della "socievolezza insocievole" dell'uomo non
dispera della possibilita' di "abitare un mondo comune"; al Marcuse che
ammonisce che ogni interiorita' che non tenga a mente Auschwitz e'
inautentica, perche' fuga e scappatoia; ai salmi degli Atti della presenza
aperta di Aldo Capitini, in cui la parola "solitudine" risuona ad ogni
versetto, sia per dare nome al sentimento rabbioso di vendetta che diventa
"onnipotenza sull'offesa" ricevuta dal mondo, sia - "da un punto di
trascendenza piu' alto" - per indicare la "porta suprema" che apre al mondo,
la solitudine che "splende quando si spezza e sorride".
Mi piacerebbe che quella tensione, che anche Elena Liotta ritrova  oggi
soprattutto nei contesti dei Social Forum di tutto il mondo e che spinge di
nuovo a ricercare indispensabili "valori comuni di primo orientamento" per
pensare ed affrontare i  problemi di tutti, riconoscesse qui il proprio
radicamento e le proprie limpide coordinate culturali -  piuttosto che nella
suggestione di categorie come "moltitudine", "nuova barbarie", "defezione"
(Michael Hardt - Antonio Negri, Impero) che si definiscono da se' "oblique e
diagonali".

12. LUTTI. IN RICORDO DI GABRIELLA LAZZERINI
[Dal sito della Libreria delle donne di Milano (www.libreriadelledonne.it)
riprendiamo questo ricordo. Gabriella Lazzerini e' stata una prestigiosa
intellettuale e militante femminista e pacifista, insegnante, poetessa,
educatrice autentica, una delle animatrici dell'esperienza della Libreria
delle donne di Milano (nel cui sito si puo' leggere anche una sua utile
"Bibliografia sulla guerra")]
Sei andata via troppo presto, elegante ed inafferrabile nel tuo abito viola.
E noi siamo qui, fuori dalla tua porta, per la prima volta a disagio,
proprio con te che ci hai insegnato l'agio e il piacere delle piccole cose
di sempre. E la liberta', anche quella scomoda di chi sperimenta sguardi
diversi sul mondo. E la politica prima, quella delle donne.
Ci stringiamo forte per non disperdere il calore dei ricordi, trattenere
l'impronta dell'assenza e l'affettivita' tra noi riscoperta e finalmente
nominata.
Siamo rimaste sospese nel vuoto di un secondo, lungo e pieno come un secolo,
prima di riprendere il viaggio.
Le tue amiche Costanza, Licia, Tina.

13. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

14. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti, la e-mail e': azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: lucben at libero.it;
angelaebeppe at libero.it; mir at peacelink.it, sudest at iol.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it. Per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Per non ricevere piu' questo notiziario e' sufficiente inviare un messaggio
con richiesta di rimozione a: nbawac at tin.it

Numero 709 del 20 ottobre 2003