[MEDIORIENTE] Intervento di Jeff Halper alle Nazioni Unite



Fonte: Missione Oggi - novembre 2003

L'OPINIONE


SE FALLISCE LA ROAD MAP
NON RESTA CHE BATTERSI
CONTRO L'APARTHEID
JEFF HALPER



Pubblichiamo parte di un intervento tenuto il 5 settembre alle Nazioni Unite
da Jeff Halper, presidente il Comitato israeliano contro la demolizione
delle case palestinesi.

Di Jeff Halper, urbanista israeliano e docente di antropologia
all'Università Ben Gurion del Negev, avevamo già pubblicato una lunga
intervista sul numero di gennaio 2003.

La road map, ancora sul piatto solo perché nessuno l'ha ancora dichiarata
morta, sta per essere consegnata al cestino della storia, come un altro dei
vani tentativi di raggiungere una pace giusta in Medio Oriente.

È tempo di salvare le parti buone di Israele: la cultura, la società, le
istituzioni. E di lasciar andare quello che non può essere salvato: la
"proprietà" esclusiva di un Paese, nel quale gli ebrei saranno presto una
minoranza.

 Nessuno scommetterebbe più un soldo sulla road map. Dal Dipartimento di
Stato agli attivisti internazionali, all'uomo medio sulle strade della
Palestina e di Israele: è davvero difficile trovare qualcuno che ancora
creda nella road map. Sin dall'inizio è stata liquidata come un'iniziativa
fallimentare; e, come tale, è andata ad aggiungersi ad una lunga lista di
altre analoghe: dal Tenet-Mitchell al Gunnar Jarring, al Piano Roger (del
1969, ndr). Ma è davvero così? La road map possiede un'importanza che anche
i suoi sostenitori sembrano oggi tralasciare.

SE LA ROAD MAP FALLISCE
Guardando la cosa dal basso, cioè dalla prospettiva israeliana di creare con
una campagna durata tre decenni dei "fatti sul terreno" irreversibili, la
road map rappresenta l'ultimo tentativo di una soluzione che prevede la
nascita di due Stati. Come chiunque abbia passato un po' di ore nei
Territori Occupati può confermare, Israele sta finendo di inglobare il West
Bank, di trasformare un'occupazione temporanea in uno stato permanente di
apartheid. Sharon ha perfezionato la dottrina di Jabotinsky del "Muro di
Ferro", stabilendo una tale quantità di "fatti sul terreno", che i
palestinesi possono scordarsi di avere un giorno uno Stato per conto
proprio. Gli insediamenti israeliani sono così estesi, il loro collegamento
con lo Stato d'Israele tramite un massiccio sistema d'autostrade e di
bretelle è così completo, e il Muro di Separazione che confina i palestinesi
in piccole aree è in uno stato talmente avanzato, da rendere impossibile e
ridicola la soluzione dei due Stati.
Vista la mancanza di volontà della comunità internazionale di costringere
Israele a ritirarsi dai Territori, e visto il rifiuto del Congresso
americano di esercitare qualsiasi pressione su Israele, Israele è sul punto
di emergere come il nuovo Stato del mondo dove regna l'apartheid. Soltanto
la road map sta a metà strada fra la speranza di autodeterminazione
palestinese in uno Stato (seppur piccolo) realmente sovrano, e la creazione
di uno Stato di fatto controllato da Israele. Anziché considerare la road
map solo come l'ultima delle iniziative fallite, dovremmo vederla come uno
spartiacque nel conflitto israelo-palestinese. Il suo fallimento cambierà
completamente l'intera natura della lotta per una soluzione giusta e
sostenibile della questione palestinese.

PREGI E LIMITI DELLA ROAD MAP
Come documento, la road map ha molti pregi. È il primo documento
internazionale approvato dagli Stati Uniti che intima "la fine dell'
occupazione". In effetti, è il primo in assoluto che usa il termine
"occupazione", sfidando la lunga negazione israeliana di questo dato di
fatto. È anche la prima iniziativa che si pone come obiettivo la creazione
di uno Stato palestinese vitale, andando ben oltre le negoziazioni vaghe e
dall'esito aperto degli Accordi di Oslo. Il solo uso del termine "vitale" fa
sperare che la comunità internazionale sia finalmente diventata consapevole
della strategia di Israele di stabilire "fatti sul terreno" che pregiudicano
qualsiasi negoziazione e rendono impossibile un vero Stato palestinese.
Che la scadenza sia a breve e che entro il 2005 debba sorgere uno Stato
palestinese indipendente, democratico e vitale, capace di coesistere in pace
e sicurezza accanto a quello d'Israele, è di per sé positivo. Come lo è la
natura reciproca del processo, monitorato dal Quartetto e non solo dagli
americani. Anche i riferimenti alle risoluzioni delle Nazioni Unite, agli
accordi precedentemente raggiunti dalle parti e all'iniziativa saudita, sono
positivi. Sia nei suoi contenuti che nella struttura, la road map appare
come un tentativo ben concepito, potenzialmente giusto di raggiungere "una
soluzione finale e di vasta portata del conflitto israelo-palestinese".
Ma, come si sapeva sin dall'inizio, manca la volontà di farla funzionare.
Quattro mesi dopo la sua pubblicazione, la road map sembra ad un punto
morto. La Russia e le Nazioni Unite non sono mai entrate in prima persona
nel processo, e l'Europa ha lasciato tutta la responsabilità agli Stati
Uniti. Bush, al vertice di Aqaba, ha annunciato che gli Stati Uniti
avrebbero nuovamente assunto il ruolo di mediatore unico, piegandosi così ad
una delle "riserve" chiave di Israele. Mentre la maggior parte degli sforzi
erano diretti ad assicurare "riforme" nell'Autorità palestinese (compresa l'
installazione non democratica di un premier senza alcuna credibilità
pubblica) e mentre un funzionario di basso rango del Dipartimento di Stato è
stato mandato qui per occuparsi di "sicurezza", la campagna israeliana volta
a consolidare la propria presa su West Bank, Gerusalemme Est e Gaza è
proseguita liberamente.
Visto che nessuno s'illude che la road map produca altri effetti, fra i
critici non prevale un atteggiamento del tipo "ve l'avevo detto", né una
vera sensazione di un'altra opportunità sprecata. Piuttosto c'è una forte
determinazione a continuare la lotta contro l'occupazione, indipendentemente
da quanto tempo ci vorrà. La road map, ancora sul piatto solo perché nessuno
l'ha ancora dichiarata morta, sta per essere consegnata al cestino della
storia, come un altro dei vani tentativi di raggiungere una pace giusta in
Medio Oriente.

UN APARTHEID PERMANENTE
Il significato della road map deriva sia dalla sua cadenza temporale, che
dai contenuti. Solo delle pressioni internazionali che costringano Israele a
porre fine all'occupazione, a ritirarsi completamente dai Territori
conquistati nel '67 (con piccoli aggiustamenti territoriali minori),
assicureranno il requisito fondamentale della "soluzione due-Stati": uno
Stato palestinese davvero sovrano. Se la road map fallisce o, più
probabilmente, langue (poiché l'iniziativa non verrà mai dichiarata
ufficialmente morta), entriamo in una fase di apartheid di fatto. Ad Israele
sarà permesso continuare il suo processo di incorporazione, gli Stati Uniti
entreranno nella lunga fase pre-elettorale, durante la quale non potrà
essere esercitata alcuna pressione su Israele, e ci vorranno uno o due anni
prima che un'altra iniziativa di pace venga formulata. Per quel tempo
nessuno potrà più illudersi che possa sorgere uno Stato palestinese "vitale"
. Con le proprie mani, Israele avrà escluso quest'ipotesi e avrà creato
invece un solo Stato.
Il maggior rischio per i palestinesi, in un processo di road map non ancora
dichiarata morta, è che possa essere "venduta" loro dagli americani la
versione di Stato palestinese secondo Sharon: un Batustan senza controllo
sulle frontiere, senza libertà di movimento, senza vitalità economica, senza
accesso alle sorgenti d'acqua, senza una presenza significativa a
Gerusalemme e senza una vera sovranità (il 90% del Paese resterebbe ad
Israele). Per una giusta soluzione del conflitto, dobbiamo guardarci da una
simile eventualità e combatterla.

LA LOTTA PER UN SOLO STATO
Il solo "Stato" palestinese che potrebbe emergere dalla matrice di controllo
israeliana è uno Stato palestinese Batustan. Visto che questa non è una
"soluzione" accettabile, non ne rimane che un'altra: la creazione di un solo
Stato palestinese-israeliano. La scena è dunque pronta per la prossima fase
di lotta: una campagna internazionale per un unico Stato. Essendo il popolo
palestinese e quello ebreo molto mescolati (un milione di palestinesi vive
all'interno di Israele, mentre 400mila ebrei vivono nei Territori Occupati),
la fattibilità di uno Stato bi-nazionale, con due popoli che coesistano in
una specie di federazione, non c'è. Stando così le cose, la soluzione più
pratica sembra quella di un unico Stato democratico unitario che offra
uguale cittadinanza a tutti. Allora, il nostro slogan del periodo post-road
map sarà quello della lotta sudafricana contro l'apartheid: una persona, un
voto.
In questo interminabile crepuscolo della road map, siamo ancora in piena
transizione da una soluzione a due-Stati, nella quale le nostre energie sono
investite in un estremo tentativo di porre fine all'occupazione, ad una
campagna per un solo Stato che riconosca la permanenza dell'occupazione e
cerchi quindi di neutralizzare i suoi aspetti di controllo, creando una
struttura statale comune. Nessuno degli attori è pronto ad un cambiamento
del genere: né i palestinesi, né la comunità internazionale, né gli
attivisti per la pace e i diritti umani, né gli ebrei sparsi per il mondo e,
meno che meno, gli ebrei israeliani. Rappresentanti dell'Autorità
palestinese hanno addirittura suggerito che sollevare questa questione oggi
è controproducente, superando le richieste che anche i più aperti
sostenitori della pace sono oggi pronti ad accettare.
Finché la road map offrirà un barlume di speranza che si possa fare qualcosa
riguardo all'occupazione israeliana, la discussione di scenari alternativi
resterà prematura. Ma tale discussione si aprirà inevitabilmente, se e
quando il processo della road map fallirà e la dura realtà della presenza
permanente d'Israele emergerà con chiarezza. Senza troppo considerare come
ci sentiamo all'idea di un solo Stato, è tempo che ci prepariamo sia
mentalmente che dal punto di vista pratico ad una tale eventualità e alla
lotta che una campagna anti-apartheid genera.

ALCUNE COSE CHE DOVREMMO FARE
Dovremmo utilizzare il linguaggio dei diritti umani e della legge
internazionale. Una campagna per uno Stato democratico si propone di
assicurare i diritti di tutti gli abitanti del Paese; non è contro il popolo
israeliano, né cerca in alcun modo di delegittimare la società o la cultura
israeliana. Partendo dal presupposto che la sicurezza e il benessere di
tutte le popolazioni della regione possono essere garantite solo attraverso
una soluzione politica, e che l'autodeterminazione nazionale troverà la
propria espressione attraverso un'Unione regionale del Medio Oriente,
dobbiamo presentare il singolo Stato democratico come il miglior mezzo per
tutelare i diritti collettivi e individuali, non come una minaccia.
Il fatto che l'occupazione e l'apartheid costituiscano delle gravi
provocazioni per un mondo regolato dai diritti umani e dalla legge, dovrebbe
essere un messaggio centrale. Visto il peso del conflitto
israelo-palestinese all'interno del mondo arabo e musulmano, è chiaro che il
sistema internazionale non troverà mai stabilità (compresa una risposta al
terrorismo), a meno che questa questione venga risolta e si presti una
maggiore attenzione agli effetti del conflitto.
 Dovremmo appellarci all'opinione pubblica ebraica, sia a quella che vive in
Israele che a quella della diaspora, per evitare le sofferenze sperimentate
durante la lotta contro l'apartheid in Sudafrica. Essenzialmente, il
Sionismo invitava gli ebrei ad assumersi la responsabilità del proprio
destino. Uno Stato ebreo è risultato essere politicamente e, in definitiva,
moralmente indifendibile. È tempo di salvare le parti buone di Israele: la
sua vibrante cultura nazionale, la società, le istituzioni, l'economia. E di
lasciar andare quello che non può essere salvato: la "proprietà" esclusiva
di un Paese, nel quale gli ebrei saranno presto una minoranza.

JEFF HALPER