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[MEDIORIENTE] Intervento di Jeff Halper alle Nazioni Unite
- Subject: [MEDIORIENTE] Intervento di Jeff Halper alle Nazioni Unite
- From: "Missione Oggi" <missioneoggi at saveriani.bs.it> (by way of Carlo Gubitosa <c.gubitosa at peacelink.it>)
- Date: Mon, 13 Oct 2003 18:17:26 +0100
Fonte: Missione Oggi - novembre 2003 L'OPINIONE SE FALLISCE LA ROAD MAP NON RESTA CHE BATTERSI CONTRO L'APARTHEID JEFF HALPER Pubblichiamo parte di un intervento tenuto il 5 settembre alle Nazioni Unite da Jeff Halper, presidente il Comitato israeliano contro la demolizione delle case palestinesi. Di Jeff Halper, urbanista israeliano e docente di antropologia all'Università Ben Gurion del Negev, avevamo già pubblicato una lunga intervista sul numero di gennaio 2003. La road map, ancora sul piatto solo perché nessuno l'ha ancora dichiarata morta, sta per essere consegnata al cestino della storia, come un altro dei vani tentativi di raggiungere una pace giusta in Medio Oriente. È tempo di salvare le parti buone di Israele: la cultura, la società, le istituzioni. E di lasciar andare quello che non può essere salvato: la "proprietà" esclusiva di un Paese, nel quale gli ebrei saranno presto una minoranza. Nessuno scommetterebbe più un soldo sulla road map. Dal Dipartimento di Stato agli attivisti internazionali, all'uomo medio sulle strade della Palestina e di Israele: è davvero difficile trovare qualcuno che ancora creda nella road map. Sin dall'inizio è stata liquidata come un'iniziativa fallimentare; e, come tale, è andata ad aggiungersi ad una lunga lista di altre analoghe: dal Tenet-Mitchell al Gunnar Jarring, al Piano Roger (del 1969, ndr). Ma è davvero così? La road map possiede un'importanza che anche i suoi sostenitori sembrano oggi tralasciare. SE LA ROAD MAP FALLISCE Guardando la cosa dal basso, cioè dalla prospettiva israeliana di creare con una campagna durata tre decenni dei "fatti sul terreno" irreversibili, la road map rappresenta l'ultimo tentativo di una soluzione che prevede la nascita di due Stati. Come chiunque abbia passato un po' di ore nei Territori Occupati può confermare, Israele sta finendo di inglobare il West Bank, di trasformare un'occupazione temporanea in uno stato permanente di apartheid. Sharon ha perfezionato la dottrina di Jabotinsky del "Muro di Ferro", stabilendo una tale quantità di "fatti sul terreno", che i palestinesi possono scordarsi di avere un giorno uno Stato per conto proprio. Gli insediamenti israeliani sono così estesi, il loro collegamento con lo Stato d'Israele tramite un massiccio sistema d'autostrade e di bretelle è così completo, e il Muro di Separazione che confina i palestinesi in piccole aree è in uno stato talmente avanzato, da rendere impossibile e ridicola la soluzione dei due Stati. Vista la mancanza di volontà della comunità internazionale di costringere Israele a ritirarsi dai Territori, e visto il rifiuto del Congresso americano di esercitare qualsiasi pressione su Israele, Israele è sul punto di emergere come il nuovo Stato del mondo dove regna l'apartheid. Soltanto la road map sta a metà strada fra la speranza di autodeterminazione palestinese in uno Stato (seppur piccolo) realmente sovrano, e la creazione di uno Stato di fatto controllato da Israele. Anziché considerare la road map solo come l'ultima delle iniziative fallite, dovremmo vederla come uno spartiacque nel conflitto israelo-palestinese. Il suo fallimento cambierà completamente l'intera natura della lotta per una soluzione giusta e sostenibile della questione palestinese. PREGI E LIMITI DELLA ROAD MAP Come documento, la road map ha molti pregi. È il primo documento internazionale approvato dagli Stati Uniti che intima "la fine dell' occupazione". In effetti, è il primo in assoluto che usa il termine "occupazione", sfidando la lunga negazione israeliana di questo dato di fatto. È anche la prima iniziativa che si pone come obiettivo la creazione di uno Stato palestinese vitale, andando ben oltre le negoziazioni vaghe e dall'esito aperto degli Accordi di Oslo. Il solo uso del termine "vitale" fa sperare che la comunità internazionale sia finalmente diventata consapevole della strategia di Israele di stabilire "fatti sul terreno" che pregiudicano qualsiasi negoziazione e rendono impossibile un vero Stato palestinese. Che la scadenza sia a breve e che entro il 2005 debba sorgere uno Stato palestinese indipendente, democratico e vitale, capace di coesistere in pace e sicurezza accanto a quello d'Israele, è di per sé positivo. Come lo è la natura reciproca del processo, monitorato dal Quartetto e non solo dagli americani. Anche i riferimenti alle risoluzioni delle Nazioni Unite, agli accordi precedentemente raggiunti dalle parti e all'iniziativa saudita, sono positivi. Sia nei suoi contenuti che nella struttura, la road map appare come un tentativo ben concepito, potenzialmente giusto di raggiungere "una soluzione finale e di vasta portata del conflitto israelo-palestinese". Ma, come si sapeva sin dall'inizio, manca la volontà di farla funzionare. Quattro mesi dopo la sua pubblicazione, la road map sembra ad un punto morto. La Russia e le Nazioni Unite non sono mai entrate in prima persona nel processo, e l'Europa ha lasciato tutta la responsabilità agli Stati Uniti. Bush, al vertice di Aqaba, ha annunciato che gli Stati Uniti avrebbero nuovamente assunto il ruolo di mediatore unico, piegandosi così ad una delle "riserve" chiave di Israele. Mentre la maggior parte degli sforzi erano diretti ad assicurare "riforme" nell'Autorità palestinese (compresa l' installazione non democratica di un premier senza alcuna credibilità pubblica) e mentre un funzionario di basso rango del Dipartimento di Stato è stato mandato qui per occuparsi di "sicurezza", la campagna israeliana volta a consolidare la propria presa su West Bank, Gerusalemme Est e Gaza è proseguita liberamente. Visto che nessuno s'illude che la road map produca altri effetti, fra i critici non prevale un atteggiamento del tipo "ve l'avevo detto", né una vera sensazione di un'altra opportunità sprecata. Piuttosto c'è una forte determinazione a continuare la lotta contro l'occupazione, indipendentemente da quanto tempo ci vorrà. La road map, ancora sul piatto solo perché nessuno l'ha ancora dichiarata morta, sta per essere consegnata al cestino della storia, come un altro dei vani tentativi di raggiungere una pace giusta in Medio Oriente. UN APARTHEID PERMANENTE Il significato della road map deriva sia dalla sua cadenza temporale, che dai contenuti. Solo delle pressioni internazionali che costringano Israele a porre fine all'occupazione, a ritirarsi completamente dai Territori conquistati nel '67 (con piccoli aggiustamenti territoriali minori), assicureranno il requisito fondamentale della "soluzione due-Stati": uno Stato palestinese davvero sovrano. Se la road map fallisce o, più probabilmente, langue (poiché l'iniziativa non verrà mai dichiarata ufficialmente morta), entriamo in una fase di apartheid di fatto. Ad Israele sarà permesso continuare il suo processo di incorporazione, gli Stati Uniti entreranno nella lunga fase pre-elettorale, durante la quale non potrà essere esercitata alcuna pressione su Israele, e ci vorranno uno o due anni prima che un'altra iniziativa di pace venga formulata. Per quel tempo nessuno potrà più illudersi che possa sorgere uno Stato palestinese "vitale" . Con le proprie mani, Israele avrà escluso quest'ipotesi e avrà creato invece un solo Stato. Il maggior rischio per i palestinesi, in un processo di road map non ancora dichiarata morta, è che possa essere "venduta" loro dagli americani la versione di Stato palestinese secondo Sharon: un Batustan senza controllo sulle frontiere, senza libertà di movimento, senza vitalità economica, senza accesso alle sorgenti d'acqua, senza una presenza significativa a Gerusalemme e senza una vera sovranità (il 90% del Paese resterebbe ad Israele). Per una giusta soluzione del conflitto, dobbiamo guardarci da una simile eventualità e combatterla. LA LOTTA PER UN SOLO STATO Il solo "Stato" palestinese che potrebbe emergere dalla matrice di controllo israeliana è uno Stato palestinese Batustan. Visto che questa non è una "soluzione" accettabile, non ne rimane che un'altra: la creazione di un solo Stato palestinese-israeliano. La scena è dunque pronta per la prossima fase di lotta: una campagna internazionale per un unico Stato. Essendo il popolo palestinese e quello ebreo molto mescolati (un milione di palestinesi vive all'interno di Israele, mentre 400mila ebrei vivono nei Territori Occupati), la fattibilità di uno Stato bi-nazionale, con due popoli che coesistano in una specie di federazione, non c'è. Stando così le cose, la soluzione più pratica sembra quella di un unico Stato democratico unitario che offra uguale cittadinanza a tutti. Allora, il nostro slogan del periodo post-road map sarà quello della lotta sudafricana contro l'apartheid: una persona, un voto. In questo interminabile crepuscolo della road map, siamo ancora in piena transizione da una soluzione a due-Stati, nella quale le nostre energie sono investite in un estremo tentativo di porre fine all'occupazione, ad una campagna per un solo Stato che riconosca la permanenza dell'occupazione e cerchi quindi di neutralizzare i suoi aspetti di controllo, creando una struttura statale comune. Nessuno degli attori è pronto ad un cambiamento del genere: né i palestinesi, né la comunità internazionale, né gli attivisti per la pace e i diritti umani, né gli ebrei sparsi per il mondo e, meno che meno, gli ebrei israeliani. Rappresentanti dell'Autorità palestinese hanno addirittura suggerito che sollevare questa questione oggi è controproducente, superando le richieste che anche i più aperti sostenitori della pace sono oggi pronti ad accettare. Finché la road map offrirà un barlume di speranza che si possa fare qualcosa riguardo all'occupazione israeliana, la discussione di scenari alternativi resterà prematura. Ma tale discussione si aprirà inevitabilmente, se e quando il processo della road map fallirà e la dura realtà della presenza permanente d'Israele emergerà con chiarezza. Senza troppo considerare come ci sentiamo all'idea di un solo Stato, è tempo che ci prepariamo sia mentalmente che dal punto di vista pratico ad una tale eventualità e alla lotta che una campagna anti-apartheid genera. ALCUNE COSE CHE DOVREMMO FARE Dovremmo utilizzare il linguaggio dei diritti umani e della legge internazionale. Una campagna per uno Stato democratico si propone di assicurare i diritti di tutti gli abitanti del Paese; non è contro il popolo israeliano, né cerca in alcun modo di delegittimare la società o la cultura israeliana. Partendo dal presupposto che la sicurezza e il benessere di tutte le popolazioni della regione possono essere garantite solo attraverso una soluzione politica, e che l'autodeterminazione nazionale troverà la propria espressione attraverso un'Unione regionale del Medio Oriente, dobbiamo presentare il singolo Stato democratico come il miglior mezzo per tutelare i diritti collettivi e individuali, non come una minaccia. Il fatto che l'occupazione e l'apartheid costituiscano delle gravi provocazioni per un mondo regolato dai diritti umani e dalla legge, dovrebbe essere un messaggio centrale. Visto il peso del conflitto israelo-palestinese all'interno del mondo arabo e musulmano, è chiaro che il sistema internazionale non troverà mai stabilità (compresa una risposta al terrorismo), a meno che questa questione venga risolta e si presti una maggiore attenzione agli effetti del conflitto. Dovremmo appellarci all'opinione pubblica ebraica, sia a quella che vive in Israele che a quella della diaspora, per evitare le sofferenze sperimentate durante la lotta contro l'apartheid in Sudafrica. Essenzialmente, il Sionismo invitava gli ebrei ad assumersi la responsabilità del proprio destino. Uno Stato ebreo è risultato essere politicamente e, in definitiva, moralmente indifendibile. È tempo di salvare le parti buone di Israele: la sua vibrante cultura nazionale, la società, le istituzioni, l'economia. E di lasciar andare quello che non può essere salvato: la "proprietà" esclusiva di un Paese, nel quale gli ebrei saranno presto una minoranza. JEFF HALPER
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