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La nonviolenza e' in cammino. 703
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 703
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Mon, 13 Oct 2003 21:40:04 +0200
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 703 del 14 ottobre 2003 Sommario di questo numero: 1. Enrico Peyretti: in memoria di Achille Croce 2. Lidia Menapace: donne a Perugia 3. Via dall'Iraq, subito 4. Subito una legge che riconosca il diritto di voto a tutti i residenti 5. Annibale Furatocchi: sulla proposta di Lidia Menapace, con una postilla giuridica 6. Ausilia Riggi Pignata: sulla proposta di Lidia Menapace (parte terza e conclusiva) 7. Prossima la pubblicazione di "Nonviolenza e femminismi" di Monica Lanfranco e Maria G. Di Rienzo 8. Mariuccia Ciotta presenta "Elephant" di Gus Van sant 9. Elio Rindone: canaglia a chi? 10. Massimiliano Pilati: il 18 ottobre a Bologna un incontro lillipuziano 11. Enrico Morganti: un ricordo di Bepi Tomai 12. Luca Salvi: un medico in Africa 13. La "Carta" del Movimento Nonviolento 14. Per saperne di piu' 1. LUTTI. ENRICO PEYRETTI: IN MEMORIA DI ACHILLE CROCE [Ringraziamo Enrico Peyretti (per contatti: peyretti at tiscali.it) per questo ricordo. Enrico Peyretti e' uno dei principali collaboratori di questo foglio, ed uno dei maestri piu' nitidi della cultura e dell'impegno di pace e di nonviolenza. Tra le sue opere: (a cura di), Al di la' del "non uccidere", Cens, Liscate 1989; Dall'albero dei giorni, Servitium, Sotto il Monte 1998; La politica e' pace, Cittadella, Assisi 1998; Per perdere la guerra, Beppe Grande, Torino 1999; della sua fondamentale ricerca bibliografica Difesa senza guerra. Bibliografia storica delle lotte nonarmate e nonviolente, una edizione a stampa - ma il lavoro e' stato successivamente aggiornato - e' in Fondazione Venezia per la ricerca sulla pace, Annuario della pace. Italia / maggio 2000 - giugno 2001, Asterios, Trieste 2001, un'edizione aggiornata e' apparsa recentemente in questo stesso notiziario (e contiamo di presentarne prossimamente un'edizione nuovamente aggiornata). Una piu' ampia bibliografia dei principali scritti di Enrico Peyretti e' nel n. 477 del 15 gennaio 2003 di questo notiziario] E' morto venerdi' 3 ottobre Achille Croce, di Condove (Torino), umile, saggio, fervoroso e genuino apostolo della nonviolenza in valle di Susa e oltre, fino dagli anni '60. Una umilta' serena e sorridente e una pura semplicita' coprivano di discrezione la sua vita interiore e il suo pensiero religioso, sempre in cerca di sorgenti spirituali, senza lasciare la tradizione cristiana. Lascia scritti semplici e chiari, ma profondi, sulla liberazione personale e civile dalla violenza. Gli siamo grati di una bella eredita' spirituale e ideale. Ci rimane la dolcezza del suo rapporto umano apertissimo, la gioia con cui incontrava tutti per strada o ci accoglieva nella sua casa: un vero testimone popolare di nonviolenza positiva, vissuta nel quotidiano. Di lui e' giusto dire che il Padre ha nascosto le cose preziose ai sapienti e ai saggi e le ha rivelate ai semplici (cfr. Matteo 11, 25). Fondo' il gruppo valsusino di azione nonviolenta al tempo dell'impegno per la legge sull'obiezione di coscienza. A questo scopo fece digiuni pubblici, anche nei giardini di Porta Nuova a Torino, distribui' volantini davanti a chiese e caserme, per cui fu processato per antimilitarismo. Aveva fatto il militare, ma restitui' il congedo e venne degradato, a suo onore. Operaio alla Moncenisio, presento' una mozione, votata dalla stragrande maggioranza, con cui gli operai si rifiutavano di produrre armi. Vegetariano, lavorava con amore il suo orto, e ogni venerdi' non parlava, per potere vivere meglio la dimensione interiore. Autodidatta di filosofia, scrisse riflessioni personali sulla vita, che offriva agli amici. Manifesto' contro le aggressioni militari delle due superpotenze di allora, per la riconversione delle industrie militari in civili, insieme a chiunque cercasse sinceramente questi obiettivi. Nel 1972 il suo gruppo ospito' Ramsahai Purohit, maestro gandhiano, in marcia da New Delhi a New York per offrire all'Onu il progetto di una forza permanente nonarmata e nonviolenta per il mantenimento e la costruzione della pace. Partecipo' alle prime Perugia-Assisi e aiuto' il sorgere del gruppo torinese del Mir (Movimento Internazionale per la Riconciliazione). Occupo' un campo di tiro al piccione, in difesa degli animali, e fu per questo malmenato, ma ne ottenne la chiusura. Fece digiuni contro la guerra nei Balcani e contro la Tav (treno ad alta velocita') nella valle. Fu per diversi anni nella redazione di "Dialogo in valle". Il suo impegno ha generato l'impegno di tanti altri, per la pace, per la politica a servizio delle cose giuste. I suoi amici valsusini e torinesi vorranno riascoltare il suo lascito fecondo. 2. INCONTRI. LIDIA MENAPACE: DONNE A PERUGIA [Ringraziamo Lidia Menapace (per contatti: llidiamenapace at virgilio.it) per questo intenso resoconto. Lidia Menapace e' nata a Novara nel 1924, partecipa alla Resistenza, e' poi impegnata nel movimento cattolico, pubblica amministratrice, docente universitaria, fondatrice del "Manifesto"; e' tra le voci piu' alte e significative della cultura delle donne, dei movimenti della societa' civile, della nonviolenza in cammino. La maggior parte degli scritti e degli interventi di Lidia Menapace e' dispersa in quotidiani e riviste, atti di convegni, volumi di autori vari; tra i suoi libri cfr. (a cura di), Per un movimento politico di liberazione della donna, Bertani, Verona 1973; La Democrazia Cristiana, Mazzotta, Milano 1974; Economia politica della differenza sessuale, Felina, Roma 1987; (a cura di, ed in collaborazione con Chiara Ingrao), Ne' indifesa ne' in divisa, Sinistra indipendente, Roma 1988; Il papa chiede perdono: le donne glielo accorderanno?, Il dito e la luna, Milano 2000; Resiste', Il dito e la luna, Milano 2001] La sera del 10 ottobre, nel corso dei seminari dell'"Onu dei popoli" si e' svolta anche una assemblea di donne, ottenuta per la prima volta, e che si chiede alla Tavola della pace di inserire abitualmente nel programma dei lavori intorno alla marcia Perugia-Assisi. La richiesta e stata presentata e sostenuta dalle donne del Comitato internazionale 8 marzo, attivo a Perugia da anni con varie iniziative (ne parleremo un'altra volta). L'organizzazione e' stata molto efficente e calda: per non perdere tempo nessuna introduzione, ma un testo proposto all'approvazione finale, invece alcune finezze come un grande vaso di rose di varie sfumature dal bianco al rosa acceso, dal quale tutte quelle che prendevano la parola levavano in dono un fiore. E' stata una cosa emozionante. La donna indiana che parlava della madre terra; la palestinese, una ginecologa che raccontava con dolce fermezza e grande serenita' e forza, ma senza gridare, la storia terribile della loro terra. Quando ha proiettato un disegno del territorio palestinese tutto frastagliato dalle postazioni israeliane mi sono distratta e ho avuto una dolorosa retrodatazione perche' mi e' venuto in mente che durante l'occupazione nazi anche le nostre citta' erano tutte interrotte da filo spinato e posti di blocco, blocchi di cemento e garitte di militari che volevano i documenti e una spiegazione del perche' volevi passare da quella strada della tua citta'; per difenderci e resistere anche noi pero' usavamo le stesse modalita' che Anna Ashrawi racconto' una volta che venne a Padova per un dibattito in cui c'ero io pure a parlare della prima Intifada, nascondigli cortili cantine passaggi nascosti finestre aperte o chiuse gerani al davanzale, un linguaggio cifrato da vita quotidiana. E da allora quanti passi indietro, e quanti motivi di autocritica da parte di noi europei per le persecuzioni nei confronti degli ebrei prima, e per non aver sostenuto anni fa la prima Intifada, una vera lotta popolare nonviolenta di difesa; e ora la seconda Intifada armata produce un delirio di avvitamenti nella violenza senza rimedio e un arretramento culturale terribile di tipo fondamentalista. Sono tornata attenta mentre la palestinese proiettava un lucido con le cifre della "malnutrizione irreversibile" tra i bambini e le bambine del suo paese, che e' passata dall'1,4 al 9,6 % nei tre anni ultimi. Insopportabile. Al palco si sono susseguite una donna del Benin, una attivissima e calda colombiana, che ha detto che le donne rifiutano e rifiuteranno di fare figli per le guerra, una coraggiosa algerina, e tutte esprimevano la tenace opposizione delle donne alla violenza e alle guerre, la poverta', le violazioni di diritti, con forza con fiducia, affidando un mandato a noi donne del mondo ricco e "di diritto". Ha preso la parola anche una israeliana di quella associazione che mette insieme genitori di caduti delle due parti, un discorso intenso, provato, che alla fine si e' concluso con l'offerta di due rose bianche alle donne palestinesi presenti e un lungo abbraccio tra loro accompagnato dai nostri applausi senza fine. Una statunitense ha parlato della vergogna del suo paese, non solo per le guerre, ma anche per i milioni di senzatetto, famiglie povere e persone emarginate che abitano il paese piu' ricco potente e aggressivo del mondo. Prendendo la parola non ho potuto non interloquire con loro e chiedere che sottoponiamo a giudizio la nostra storia e chiediamo che la Costituzione europea contenga almeno un articolo simile all'articolo 11 della Costituzione italiana, e non metta il mercato sopra il lavoro e non costituzionalizzi la Nato. Sentendo l'indiana mi era venuto in mente che gli antichi romani consideravano miniere e cave quasi un sacrilegio, come una morbosa violazione delle viscere della madre, tanto che quando una cava o miniera era esaurita chiudevano la ferita e cercavano di ripristinare il terreno (ne parleremo in un nostro seminario "Facciamo pace con la terra"). Poi ho ricordato l'iniziativa del Comitato donne di Napoli che ha, per cosi' dire, anticipato il Nobel con una iniziativa internazionale contro le lapidazioni e ha ottenuto che il Comune dia la cittadinanza onoraria alle donne soggette alla barbara condanna. Ho promesso che avrei anche scritto un testo da inviare alle giornaliste Rai perche' parlino non solo dei successi sportivi delle atlete italiane, delle sfilate di moda, delle madri depresse che si suicidano, ma anche delle donne che agiscono politicamente e se non trovano notizie sulla iraniana premio Nobel chiedano alla tv svedese. Insomma una bella cosa infine. 3. EDITORIALE. VIA DALL'IRAQ, SUBITO La guerra terroristica e stragista promossa dal governo degli Stati Uniti in Iraq prosegue. Ogni giorno agli orrori e alle devastazioni si aggiungono nuovi massacri. Occorre che la guerra cessi, e perche' cessi occorre che cessi l'occupazione militare straniera nella quale anche l'Italia e' coinvolta. Occorre che si ripristini al piu' presto la sovranita' del popolo iracheno e uno stato di diritto; occorre promuovere la democrazia nell'unico modo in cui la democrazia puo' essere promossa: con la democrazia. L'Italia sta partecipando a una guerra stragista e terrorista e a un'avventura militare colonialista e imperialista folle e scellerata, e lo sta facendo in violazione della nostra Costituzione e del diritto internazionale. Il governo italiano (e con esso la maggioranza parlamentare e il capo dello stato), con la criminale e sciagurata decisione di partecipare alla guerra e all'occupazione armata, espone anche il nostro paese a divenire teatro di azioni di guerra, espone anche i cittadini italiani ad azioni di guerra e di terrorismo. Occorre che questa pazzia cessi, occorre che si ripristini la legalita' anche nel nostro paese: occorre che l'Italia ritiri immediatamente le sue forze armate dal teatro di guerra iracheno, cessi di partecipare all'occupazione militare illegale e criminale, si adoperi per promuovere pace e ricostruzione, democrazia e diritti umani, nell'unico modo in cui democrazia e diritti, ricostruzione e pace, sono possibili: con la cessazione delle stragi, con la cessazione dell'occupazione straniera, con un piano di aiuti umanitari autentico e senza condizioni, necessario ed urgente. 4. EDITORIALE. SUBITO UNA LEGGE CHE RICONOSCA IL DIRITTO DI VOTO A TUTTI I RESIDENTI Il riconoscimento del diritto di voto a tutte le persone residenti in un dato ambito territoriale e' cosa talmente ragionevole che c'e' da stupirsi che vi siano ancora persone che vi si oppongono (e che opponendovisi rivelano la loro effettiva collocazione culturale prima ancora che politica: la cultura della segregazione). Ci sembra doveroso e necessario che quanti da anni propugnano questo riconoscimento (e chi redige questo foglio e' ovviamente nel novero) sostengano l'approvazione di una legge che tale riconoscimento statuisca. Ci sembra doveroso e necessario fare appello al parlamento affinche' predisponga, discuta e deliberi una legge che finalmente riconosca il diritto di voto a tutte le persone residenti, una legge di ragionevolezza, una legge di democrazia, una legge di civilta'. 5. RIFLESSIONE ANNIBALE FURATOCCHI: SULLA PROPOSTA DI LIDIA MENAPACE, CON UNA POSTILLA GIURIDICA [Ringraziamo il caro amico Annibale Furatocchi, da molti anni impegnato nella riflessione e nelle iniziative per la pace e la civile convivenza, per questo intervento] Vorrei esprimere il mio consentimento alla proposta formulata da Lidia Menapace per un'Europa neutrale e attiva, disarmata e smilitarizzata, solidale e nonviolenta. Spero che essa proposta, come e' stato da piu' parti auspicato, si traduca al piu' presto in un'incisiva iniziativa politica, legislativa, istituzionale ed amministrativa, oltre che culturale ed educativa in senso forte, che ottenga quei concreti risultati di cui vi e' grande, urgente bisogno. Auguro che si realizzi una convergenza ampia di soggetti diversi che renda questa proposta elemento unificante e propulsivo per un'iniziativa che coinvolga movimenti ed istituzioni di tutta Europa affinche' la scelta della nonviolenza divenga motore e cuore del processo di unificazione politica europea e caratterizzi l'Unione come attore istituzionale che informi la sua azione internazionale e la sua specifica legislazione (e quindi anche le sue strutture deputate alla sicurezza, alla difesa, alla cooperazione) al fine della promozione della pace, della democrazia, dei diritti umani, esclusivamente attraverso mezzi coerenti con tali fini, ed in primis con l'affermazione e l'inveramento, nella teoria e nella pratica, del ripudio della guerra, principio sancito fin dal preambolo della Carta delle Nazioni Unite e gia' incluso ad esempio nella Costituzione italiana (e tragicamente ancora disatteso in tutto il mondo con grave nocumento e incombente pericolo per l'umanita' intera). Rilevo en passant che nel momento in cui si va all'unificazione di entita' giuridiche gia' dotate di propria sovrana legislazione, vige il principio della salvaguardia dei diritti gia' acquisiti, talche' il fatto che almeno l'Italia abbia gia' sancito nella propria Costituzione il ripudio della guerra dovrebbe essere ragion sufficiente affinche' tale principio venga confermato nella Costituzione europea. Cosi' vuole la civilta' giuridica, cosi' e' voto comune delle genti. 6. RIFLESSIONE. AUSILIA RIGGI PIGNATA: SULLA PROPOSTA DI LIDIA MENAPACE (PARTE TERZA E CONCLUSIVA) [Ringraziamo Ausilia Riggi Pignata (per contatti: donnecosi at virgilio.it) per questo suo impegnativo intervento, di cui pubblichiamo oggi la parte terza e conclusiva. Ausilia Riggi Pignata e' un'acuta pensatrice e testimone di scelte di forte rigore intellettuale e morale e di profondo anelito alla liberazione di tutte e tutti; "si e' data - come ha scritto lei stessa - un campo circoscritto di impegno per abbattere la violenza istituzionale quando contrasta con la liberta' di coscienza; e nello stesso ambito ha particolarmente approfondito il tema 'donna e sacro' (su cui si veda il sito www.donne-cosi.org)"] Da quando leggo i vari interventi in questa ricerca, sempre, ad ogni affermazione, mi sono posta molte domande, tra cui: come educare la societa'? e a chi spetta tale compito? E il dubbio tormentoso, del quale sono fedele amica, mi fa ipotecare che senza una rieducazione generalizzata in tale materia non sortiremo a nulla. A volte ho l'impressione che parliamo dai tetti in su'. Quando assisto (tramite i mezzi di informazione) a varie mobilitazioni, alcune davvero poderose, sento tanta frustrazione, non per non poter partecipare (i miei acciacchi), quanto perche' mancano i veri interlocutori. I costruttori di pace stanno di qua, mentre dall'altra parte c'e' sordita', noncuranza, dispiegamento di "forze dell'ordine". Cerchiamo vari viottoli per arrampicarci verso mete non raggiungibili per via ordinaria, talvolta scaliamo alcuni picchi, ma. le alte montagne si rivelano ancora inaccostabili. Precedentemente ho parlato della sicurezza che nutro circa l'infinita' (si', parlo di infinita', non di potenzialita' infinite), cioe' l'innata apertura all'infinito di cui e' capace l'essere umano. Questo senso della propria dignita', che sorpassa i limiti dell'esistenza di chi ne e' portatore, va curato e sviluppato: siamo in salita, e se non si va in alto, si scivola in basso. Non mi piacerebbe che una venatura di idealismo ci facesse rifugiare nelle speranze di stampo ottocentesco, quasi che volessimo divenire "educatori dell'umanita'". Magari lo vorremmo, ma ci esprimeremmo diversamente. Quel clima e' passato, e ora ritornano alcuni dei vecchi valori, famiglia patria religione (per via di persone. di mentalita' destrorsa, forse perche' valori tradizionali); ma essi a molti di noi non bastano piu', ci sembrano rinchiusi in un orizzonte ristretto; e infatti non stanno al passo della nostra epoca. C'e' uno scompaginamento etico delle coscienze e, se reagiamo coi moralismi, sprechiamo le nostre energie, o causiamo maggiori danni. Forse tramite questa ricerca che stiamo facendo riusciremo a chiarirci le idee, con la speranza che quelle buone contagino molti. E non e' detto che alla proposta di Lidia, lungo il percorso, non se ne aggiungano altre, sussidiarie, che sfondino le mura al riparo delle quali si riuniscono i "grandi". * L'affermazione basilare: la nonviolenza deve essere metodo e fine nello stesso tempo, anche se chiara e precisa, mi fa temere che la nostra azione resti, se resta, nell'ambito delle grandi aspirazioni, e trovi diritto di cittadinanza soltanto ai confini o nei buchi neri delle istituzioni. A me, personalmente, lo stare ai confini pare bello, perche' i confini vanno abitati per scomparire come limiti, e perche', quando la violenza dilagante della guerra dovesse attraversarli, troverebbe dei custodi della liberta' a fare da diga. E' triste il quadro che ci si presenta quando pensiamo alle possibilita' di evitare le guerre. Purtroppo le azioni di tamponamento della marea di una guerra concordata nelle alte sfere, finora si sono ridotte a sfilate e proteste. Il popolo della pace ha mancato di capacita' rappresentativa e propositiva: col dire no alla guerra, il "senza se e senza ma" puo' anche essere allettante, ma non acquista piena dignita', autorevolezza, potere di contrattazione. Al di dentro delle istituzioni e' notte fonda. La politica e' divenuta continuo alterco. E l'opinione pubblica, questa grande signora in poltrona, che ha fatto finora? Non e' forse vero che la gente e' abituata a considerare le guerra una necessita'? Le domande si potrebbero moltiplicare. La conclusione e' la stessa: la via - per la formazione di mentalita' in grado di capire quanto sia insopportabile la violenza strutturale - e' lunga e sovraccarica di incertezze. Ma almeno imbocchiamola, fugando ogni ombra di dubbio sul nemico da combattere. Nemico che in noi si annida come residualita' di idee non assodate, e fuori di noi combacia, direttamente o indirettamente, con le strutture di potere. Fino a quando il potere sara' strutturalmente accompagnato dalla violenza e dal tacito consenso della gente comune, le nostre parole gireranno a vuoto. * Il nodo da sciogliere e' nel fatto che un po' tutti vogliono l'ordine garantito dal potere e lasciano che l'azione disturbatrice sia punita con la violenza. Ben a ragione in questa ricerca e' stata citata Hannah Arendt quando afferma che la violenza puo' distruggere il potere; e che il fine per contrastarla corre il pericolo di venire sopraffatto dai mezzi violenti. Traggo una provvisoria conclusione: la violenza e' duplice: c'e' quella fredda del potere e c'e' quella, piu' esagitata e piu' stridula (adolescenziale), contro il potere. La nostra, mi pare, e' una terza via. Stiamo dalla parte dell'ordine e dell'autorita', non come nuovi stalinisti o come nazifascisti. Quel che vogliamo si deve tradurre, come gia' detto, in proposte concrete, tali da divenire programmi di azione, leggi, "res publica"; e nello stesso tempo da dar forma alla sostanza del discorso che per ora facciamo prevalentemente a tavolino. * Mi ricordo che tempo fa Lidia Menapace proponeva la Costituente della strada. L'idea per me era affascinante. Che se n'e' fatto? Vi prego, compagne e compagni piu' giovani, non accantoniamo l'idea. Diamole corpo e anima e spirito. Non si possono far morire idee cosi' belle. Lo sappiamo, se andiamo sulla strada per chiedere ingenuamente pareri e suggerirne altri, e' facile che ci prendano per sobillatori/trici, e la maggioranza continuera' a ragionare con la mentalita' di ieri. Si affaccia alla mia mente la grande marcia di Mao, e tremo di fronte a somiglianze indebite, anche se in un certo senso c'e' da apprendere da tutto. Mi piace di piu' pensare a Cristo, che non si raccoglie misticamente a pregare in comunita' composte e di elevati pensieri, che invece manda ad evangelizzare per le vie del mondo. (Manda, si badi bene, donne e uomini). Abbiamo bisogno di acquistare autorevolezza dal basso. Non e' cosa da poco. I grandi cambiamenti hanno sortito un effetto minimo; penso, ad esempio, alla rivoluzione francese che alla fine ripiega nel termidoro, ma le cui grandi idee sono penetrate via via nell'orizzonte culturale. Voglio ribadire e approfondire due concetti. * Il primo. La frase femminista "il massimo di autorita' col minimo di potere" traduce il bisogno che abbiamo tutti/e di non sentirci schiavi di nessuna struttura di potere. Tale massima dovrebbe essere cosi' impressa nella nostra coscienza, da trasformarsi in proposta, forte e continua, al potere che ci governa, con un atteggiamento da parte nostra niente affatto umile, ma tale da apparire sobrio ed autorevole. Con la pretesa di dire apertis verbis che deve essere cancellato il concetto stesso di guerra armata. La guerra, sempre figlia della violenza, finisce con la vittoria di chi e' piu' forte e con la sconfitta di chi e' piu' debole. Pare strano che non si riesca a capire una verita' tanto elementare. La scusa che "per vincere la violenza si richiede una violenza piu' schiacciante", anche se ha una sua logica, perde maggiormente di credibilita' quando a disporre della violenza e' un'irrazionale voglia di leadership. La giustificazione della guerra proviene dalla necessita', si dice, di difesa. E si va diffondendo l'idea che, laddove si formino governi democratici, il pericolo della guerra avrebbe minor modo di attecchire. Ma come abbiamo il coraggio di dire cio', se siamo in un mondo interamente sottoposto a guerre permanenti, nelle quali proprio noi occidentali pretendiamo imporci con grande dispiegamento di forze? Se da piu' di un cinquantennio l'idea di stato sociale e' stata assimilata, anche se in modo limitato (si spera che anche i governi di destra non possano spegnere la fiammata di consapevolezza dei diritti umani), perche' non dovrebbe farsi strada anche un'idea di democrazia che ripudi la guerra? Sta a noi acquistare quell'autorevolezza in grado di denunziare che le fondamenta delle nostre democrazie sono strutturalmente imperfette. Ed e' per questo che non vogliamo aggiustamenti di facciata. Ben vengano proposte chiare, di cui incaricare nostri rappresentanti. Ma io non vorrei peccare di ingenuita' nel ritenere che basti si apra un varco di accesso a qualsiasi portavoce che possa avere potere di rappresentanza: vogliamo che si tenga conto della nostra presenza in tutti i luoghi dove il potere si esprime. Le idee sono come il seme: se ne sta sottoterra, ma annaffiato e compenetrato di calore, esce fuori allo scoperto al momento giusto. Ci vuole il partito della pace, che metta a fuoco la violenza del potere e dei poteri contro cui si va a combattere. La giusta mira e' volerlo sovranazionale e, per noi, europeo (ne parleremo in seguito). * Secondo. Se siamo contro la violenza del potere, cio' non vuol dire che non dobbiamo aspirare al potere in se': quel tanto che e' necessario per polarizzare la politica al di la' dello schema destra-sinistra. L'unico momento bello in parlamento e' quando si vedono le donne unite trasversalmente a tutti i partiti. Cio' non significa ne' aggiungere una altro partito, ne' rendere labile la diversita' tra i raggruppamenti. L'aria di movimentismo dovrebbe restare qual e'; dobbiamo aggiungere strategie di rappresentanza. A che giova la visibilita' nelle piazze, se poi i cosiddetti Grandi si chiudono nella roccaforte del potere "la' dove il destino dei popoli si cova"? A mio parere (non mi piace aggiungere "modesto", perche' il mio parere e' immodesto) si dovrebbe fare qualche passo in avanti, verso la rappresentanza giuridica. Non mi illudo sui progressi che si son fatti rispetto ai tempi in cui il potere era completamente monolitico. Dobbiamo guardare al passato, eccome; ma l'attenzione deve essere volta al presente e al futuro da non infarcire di velleitarismo. L'importante e' avere una piattaforma "chiara e distinta", e nello stesso tempo flessibile nella pratica, nel rapportarsi ai movimenti che gia' ci sono, e nel trovare il modo per inserirla pienamente nella storia. Leggo stamane: "Le piu' concrete applicazioni della difesa civile consistono attualmente negli interventi di solidarieta' alle societa' civili attraversate dalla violenza nelle esperienze internazionali dei Corpi civili di pace, e nella insistente richiesta ai vertici politici italiani ed europei della loro istituzionalizzazione. Il 'Centro studi difesa civile' e' ad esempio impegnato nella Rete italiana dei Corpi civili di pace, nella rete europea dei servizi civili di pace, nel progetto 'Colombia vive', e nelle 'Nonviolent Peaceforce' che hanno dispiegato operatori per evitare il riesplodere della violenza in Sri Lanka e che offrono inoltre sostegno alle societa' civili di Birmania, del Guatemala, di Israele/Palestina, dell'Uganda". Sono ben felice di quello che si realizza, ma non dobbiamo stancarci di fare qualcosa di sostanziale al di dentro dei nostri governi quanto a rappresentanza continua, giuridicamente valida. Se i termini in cui mi esprimo rivelano la mia scarsa competenza politica, non altrettanto debole e' la mia proposta che vuole essere appunto politica. Perche', ripeto, l'importante e' penetrare nelle strutture. C'e' ancora chi crede che basta nuocere, far violenza nei riguardi del potere, prendendo di mira persone con nome e cognome. Sicuramente, scalzato un governo di destra e succeduto un altro di sinistra, si tornerebbe a fare ancora guerre, fino a che non si arrivera' a scuotere l'impianto del potere violento. Le affermazioni generiche non servono come non servono i personalismi... Servirebbe, nell'immediato, rafforzare il movimento della pace in modo che non sottostia a questo o a quel partito (che poi se ne servirebbe per fini di parte), ma che sia robusta presenza, come ad esempio i sindacati, con cui qualsiasi governo debba confrontarsi. Continuero' ad intervenire, dopo che si preciseranno i termini di azione circa l'Europa. Benissimo l'idea lanciata circa la neutralita' attiva eccetera, ma io la vorrei tradotta in termini politici, come progetto di legge. E' possibile? Come faremo a pretendere che la proposta si trasformi in legge? Coloro che hanno compiuto e discusso la stesura della Costituzione europea hanno ricevuto l'imput nostro circa la nonviolenza strutturale, tale che il nuovo potere europeo se ne faccia garante e/o ne venga condizionato? Non vorrei che finisse come la stupenda proposta di Costituente della strada. (Le due parti precedenti di questo intervento sono apparse nei numeri 698 e 700) 7. LIBRI. PROSSIMA LA PUBBLICAZIONE DI "NONVIOLENZA E FEMMINISMI" DI MONICA LANFRANCO E MARIA G. DI RIENZO [E' in via di pubblicazione il libro di Monica Lanfranco e Maria G. Di Rienzo (a cura di), Donne disarmanti. Storie e testimonianze su nonviolenza e femminismi, Edizioni Intra Moenia, pp. 280, 13 euro. Grazie alla cortesia delle autrici ne anticipiamo qui una breve presentazione editoriale. Monica Lanfranco, giornalista professionista, nata a Genova il 19 marzo 1959, vive a Genova; collabora con le testate delle donne "DWpress" e "Il paese delle donne"; ha fondato il trimestrale "Marea"; dirige il semestrale di formazione e cultura "IT - Interpretazioni tendenziose"; dal 1988 al 1994 ha curato l'Agendaottomarzo, libro/agenda che veniva accluso in edicola con il quotidiano "l'Unita'"; collabora con il quotidiano "Liberazione", i mensili "Il Gambero Rosso" e "Cucina e Salute"; e'' socia fondatrice della societa' di formazione Chance. Nel 1988 ha scritto per l'editore PromoA Donne di sport; nel 1994 ha scritto per l'editore Solfanelli Parole per giovani donne - 18 femministe parlano alle ragazze d'oggi, ristampato in due edizioni. Per Solfanelli cura una collana di autrici di fantasy e fantascienza. Ha curato dal 1990 al 1996 l'ufficio stampa per il network europeo di donne "Women in decision making". Nel 1995 ha curato il libro Valvarenna: nonne madri figlie: un matriarcato imperfetto nelle foto di fine secolo (Microarts). Nel 1996 ha scritto con Silvia Neonato, Lotte da orbi: 1970 una rivolta (Erga): si tratta del primo testo di storia sociale e politica scritto anche in braille e disponibile in floppy disk utilizzabile anche dai non vedenti e rintracciabile anche in Internet. Nel 1996 ha scritto Storie di nascita: il segreto della partoriente (La Clessidra). Cura e conduce corsi di formazione per gruppi di donne strutturati (politici, sindacali, scolastici) sulla storia del movimento delle donne e sulla comunicazione. Maria G. Di Rienzo e' una delle principali collaboratrici di questo foglio; prestigiosa intellettuale femminista, saggista, giornalista, regista teatrale e commediografa, formatrice, ha svolto rilevanti ricerche storiche sulle donne italiane per conto del Dipartimento di Storia Economica dell'Universita' di Sidney (Australia); e' impegnata nel movimento delle donne, nella Rete di Lilliput, in esperienze di solidarieta' e in difesa dei diritti umani, per la pace e la nonviolenza] Ci sara' un motivo per il quale in moltissime le storiche, le antropologhe, le filosofe, le giornaliste, le studiose femministe centrano l'attenzione sull'uso delle parole, e mettono in guardia sulla stretta connessione tra violenza del linguaggio comune e violenza reale, nelle relazioni quotidiane come nella politica, nella comunicazione mediatica e quindi nel tessuto sociale. Se cercate su qualunque vocabolario la parola nonviolenza non la troverete, perche' non e' registrata cosi' come la scriviamo, senza trattino o elementi di separazione; eppure si tratta di una piccola grande rivoluzione semantica, simbolica e quindi di immensa portata, nel tempo, quella di coniare una parola che si opponga, nel suo significato, ad un'altra altrettanto potente proprio perche' la contiene, pero' anteponendo una negazione. Al di la' di come la si scrive, nel concetto di nonviolenza la violenza e' contenuta perche' non la si nega: non troverete un uomo o una donna che si dicano, sinceramente, nonviolento o nonviolenta e che non ammettano in primo luogo che il lavoro piu' duro non e' il contrastare la violenza esterna, ma la propria. Il lavoro pesante e' proprio questo. Come lo e' stato, e per ogni nuova generazione di donne lo e', appropriarsi della consapevolezza che il personale (di solito la sfera destinata alle donne perche' relativa alle relazioni, ai sentimenti, all'emotivita') e' politico, e far diventare questa verita' luogo comune anche presso gli uomini. Eccoci al punto. Le domande che Monica Lanfranco e Maria G. Di Rienzo pongono, e che sottendono tutto questo libro, tra le altre, sono: essere donne aiuta nella scelta nonviolenta, costituisce un vantaggio rispetto all'essere uomini? Le donne sono piu' portate alla nonviolenza perche' considerate meno aggressive, piu' miti, visto che la natura le ha dotate del compito di procreare e occuparsi dei cuccioli? Questo libro affronta queste domande e offre e delle risposte, anche se dare un riscontro affermativo assoluto sarebbe, oltre che banale e sbrigativo, davvero sbagliato. Conclude infine il libro un articolato manuale di comportamento per l'azione diretta nonviolenta, considerata come una terza via, un'alternativa fra il sottomettersi alle ingiustizie e la reazione violenta contro di esse. Con contributi di Lidia Menapace, Imma Barbarossa, Tiziana Plebani, Rosangela Pesenti, Starhawk, Vandana Shiva, e interviste a Luisa Morgantini, Dawn Peterson, Giancarla Codrignani. 8. CINEMA. MARIUCCIA CIOTTA PRESENTA "ELEPHANT" DI GUS VAN SANT [Dal quotidiano "Il manifesto" del 7 ottobre 2003. Mariuccia Ciotta e' acuta studiosa di cinema e autrice di innumerevoli articoli e saggi, sovente illuminanti] Il fulminante "teen-movie horror" di Gus Van Sant, Elephant, appena uscito nelle sale italiane, e struggente variazione da camera all'impetuoso pamphlet satirico di Michael Moore, Bowling for Columbine (sempre di quella strage d'adolescenti impauriti, in qualche modo, si tratta), da' qualche risposta in piu' al recente e devastato stato immaginario dell'Unione in guerra permanente. Il regista off di Will Hunting si e' chiesto come mai un ragazzino della middle-class di un college americano decide di rispondere al tiro di palle di carte inzuppate di saliva con una raffica di mitra che colpisca qualcuno dei suoi compagni di classe per punirli tutti. "Il mio film parla di altre cose oltre che del massacro in un liceo. Si potrebbe fare qualche esempio - dice Gus Van Sant - con il clima attuale nel mondo: gli aerei che hanno colpito il World Trade Center sarebbero come le palle di carta masticata che i compagni lanciano a uno degli assassini. E la sua risposta sarebbe simile a quella americana rispetto all'attacco subito". Nello stato nebuloso del sogno, nella forma di una estasi davanti alla realta' che si forma, la cinepresa di Gus Van Sant segue i percorsi degli studenti nello spazio fantasma della scuola. Li segue di spalle mentre percorrono i corridoi, quasi una telecamera d'ambiente, una spia venuta da un altro tempo a osservare i movimenti impercettibili, i gesti automatici, di un massacro drammatizzato, in seguito, dai media. Spettacolo super, enfasi sulle ragioni del gesto criminale. Perche' dei ragazzini sparano addosso ad altri ragazzini? Se invece di farsi queste domande, qualcuno ascoltasse cosa hanno da dire, i ragazzini, sarebbe meglio, come ha rilevato saggiamente il "diabolico" Marilyn Manson. Colpevole, secondo gli educatori, quanto la tv, i videogames, e il cinema, come al solito. Eppure, almeno gli statunitensi. se non gli opinionisti italiani, avrebbero dovuto meditare sulla famosa frase scritta alla meta' dell'ottocento da Herman Melville: "Se pure qualcuno viene offeso dai libri violenti non dovrebbe per questo essere impermeabile ai fatti. Ma si proibiscano allora i fatti, non i libri". "Not in my name" dicevano infatti gli striscioni dei pacifisti Usa all'inizio della vendetta in Iraq. E invece si', per loro hanno fatto in mille pezzi i teen-ager afghani. Ed eccoli riprodotti nelle aule specchiate della scuola di Elephant, che evoca quella di Columbine, il massacro. Scaturigine del film Michael Moore, Bowling for Columbine, genesi delle stragi con armi da fuoco in America. Causa: la carenza di servizi sociali con l'insicurezza che genera in chi e' preso dal panico perche' non ce la fa, e' un perdente, un cancellabile... Prodotto dalla tv via cavo Hbo, Elephant e' stato girato in pochi giorni a Portland, con attori non professionisti selezionati tra i 1.500 che si sono presentati ai provini. Viali alberati, i suburbi lussuosi della provincia, giardini, macchine immense, cucine luminose, frigoriferi-armadio, adulti assenti, a parte un padre ubriaco che cede il volante al figlio, un tipo angelico con la zazzera biondo ossigenata, dopo aver divelto lo specchietto di un'auto posteggiata. Rarefatto in un ralenti impercettibile (per motivi tecnici, dice Van Sant, l'effetto e' stato mitigato) la cinepresa segue - senza sobbalzi reality - scivolando sui pavimenti lucidi del college i protagonisti, presentati uno a uno, o in gruppo. Le tre amiche che sbavano dietro al bello, fidanzato con la starlette, e si accusano a vicenda di non dedicarsi abbastanza una all'altra. La bruttina presa in giro perche' non si mette mai gli short per fare ginnastica e anche quando se li mette, ed e' la prima a cadere sotto il fuoco di un fucile a ripetizione, ordinato via internet. L'atletico afroamericano che avanza fiducioso verso il compagno armato, mentre quello sta redarguendo il preside strisciante sotto l'arma. Sparato. Il fotografo dilettante, che colleziona ritratti di studenti e li ferma nei giardini e nei corridoi del college per uno "shoot" premonitore. Sparato. Un cane che ballonzola in leggero surplace alla vista dei due teen-ager vestiti in tuta militare, carichi di sacchi, pronti a entrare in azione. Due qualsiasi, forse anche bravi studenti, un po' annoiati, a casa, li vediamo mentre uno suona, in modo atroce, un Beethoven da principiante o da spot. L'altro gioca col computer a colpire sagome umane che poi si conficcano nella neve a piedi in su. La cinepresa si fa presenza, occhio invisibile ma pervasivo, gira intorno alla stanza, disegna un vortice lento, inquadra gli oggetti affollati qua e la' e certi schizzi sulle pareti. C'e' anche un elefante a carboncino... Elephant, il titolo pero' viene da un corto prodotto dalla Hbo con la Bbc, diretto da Alan Clark su una serie di omicidi insoluti in Nord Irlanda, film esemplare che la televisione via cavo aveva mostrato a Gus Van Sant per consigliarlo nel progetto, respinto precedentemente dai tre colossi Abc, Nbc e Cbs perche' raccontare il massacro Columbine, dicevano, era come farsi male da soli. Sotto accusa sarebbero, infatti, i loro palinsesti "violenti". Altra allusione: gli elefanti, portati in citta', diventano pazzi. "Diventare folli in una scuola - dice il regista - e' una cosa per cui l'America ha bisogno di riferimenti esterni, non puo' credere che sia conseguente alla sua realta', al suo linguaggio". Quei mostri sono "normali". E anche se i due assassini si esaltano in tv a un documentario su Hitler, quel che ne assumono e' la radicalita' distruttiva, l'esaltazione mortifera in assenza di qualsiasi altra spinta propulsiva. Che c'e' da fare se non ammazzare e morire? C'e' un bacio che i due si scambiano sotto la doccia, primo e unico brivido, ma colpevole. Gus Van Sant scompone le sequenze, spiazzamenti spazio-temporali. Rivede la scena al play-back inquadrata da diversi punti di vista. La monotonia surreale dei gesti, l'andirivieni comatoso degli studenti. Suspence del nulla. Il manifesto del massacro e' un meraviglioso, attonito viaggio senza spiegazioni. L'ultima giornata di un morto vivente, l'assenza di se' e la tragedia senza effetti speciali. Gus Van Sant ha firmato un altro dei suoi capolavori. 9. RIFLESSIONE. ELIO RINDONE: CANAGLIA A CHI? [Ringraziamo Elio Rindone (per contatti: storetfil at libero.it) per questo intervento. Elio Rindone e' docente di storia e filosofia a Roma, fa parte dell'Associazione nazionale docenti, tiene sovente appassionanti seminari; e' autore di perspicui libri e saggi di argomento teologico e filosofico] Negli ultimi anni l'amministrazione Usa ha elaborato la nozione, determinante per la loro politica estera, di "stato-canaglia": nella comunita' internazionale bisognerebbe distinguere gli stati perbene da quelli fuorilegge, che non solo possiedono armi di distruzione di massa ma sono anche pronti ad impiegarle effettivamente nei confronti di altri Paesi. E in base a questa teoria, estranea al diritto internazionale consolidato, si e' voluto giustificare la guerra "preventiva" contro l'Iraq. Intanto, mentre continuano a non trovarsi le armi di distruzione di massa, che costituirebbero la prova provata che l'Iraq potrebbe essere a ragione considerato uno "stato-canaglia" e pericolosa centrale di terrorismo internazionale, si moltiplicano le pubblicazioni che, svelando quanto sia falsa la vulgata diffusa dai media controllati dalle forze al potere nei paesi occidentali, negano sia la possibilita' di distinguere nettamente gli stati buoni da quelli cattivi, sia il diritto degli Usa di ergersi a giudici in materia. William Blum, un ex funzionario del Dipartimento di stato americano, arriva addirittura a sostenere, nel documentatissimo volume Con la scusa della liberta', che proprio agli Stati Uniti puo' attribuirsi la qualifica di stato-canaglia perche' e' certo che le armi le possiedono, le hanno usate e le usano a fini terroristici. Che cosa e', infatti, il "terrorismo"? Nel 1999 un comunicato stampa dell'Fbi, l'ufficio investigativo statunitense, lo ha definito come "l'uso illegale della forza diretto contro persone o proprieta' per fini intimidatori o coercitivi nei confronti di un governo, una popolazione o parte di essa". Sulla base di questa definizione numerose iniziative statunitensi, che hanno suscitato e suscitano l'indignazione di tanti cittadini americani, vanno certamente considerate atti di terrorismo. Basti qui ricordare le armi chimiche, come il napalm, usate, per ammissione del vicesegretario alla Difesa dell'epoca, Cyrus Vance, dagli Stati Uniti in Vietnam; o il genocidio degli indios discendenti dei maya in Guatemala perpetrato dagli squadroni della morte, con un coinvolgimento cosi' scoperto della Cia, l'agenzia americana di spionaggio, da costringere il presidente Clinton a precipitarsi nel 1999 a Citta' del Guatemala per chiedere scusa a quel popolo. Per non parlare degli attentati, torture, colpi di stato effettuati da uomini di vari Paesi addestrati a tal fine da un'apposita scuola militare che ha sede in Georgia, la Scuola delle Americhe. Quando, nel 1996, il Pentagono fu costretto a rendere pubblici alcuni dei manuali di addestramento utilizzati in quella scuola, il "New York Times" scrisse: "Tutti gli americani ora possono leggere alcune delle malsane lezioni che l'esercito degli Stati Uniti ha impartito a ufficiali di polizia e militari degli eserciti latinoamericani". E almeno in un caso, quello del Nicaragua, la natura terroristica di una certa politica estera americana e' stata ufficialmente riconosciuta. Contro l'amministrazione Reagan, che con le sue violenze aveva provocato 29.000 morti, il Nicaragua propose infatti appello alla Corte internazionale di giustizia dell'Aja, che nel 1986 ingiunse agli Stati Uniti di porre fine alla loro politica criminale e di pagare i danni gia' arrecati. Poiche' Reagan rifiuto' di riconoscere la giurisdizione della Corte, il Nicaragua chiese all'Onu di approvare una risoluzione che obbligasse tutti gli stati a rispettare il diritto internazionale, ma in Consiglio di sicurezza gli Usa posero il veto a tale risoluzione e non pagarono alcun prezzo per i crimini per cui erano stati condannati. Solo un cenno, infine, al gusto per i bombardamenti a cui le diverse amministrazioni americane, non solo repubblicane ma anche democratiche, sembra non riescano a sottrarsi. I bombardamenti aerei, dalle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki a quelle all'uranio impoverito nella ex-Jugoslavia, in Afghanistan e in Iraq, cosa sono se non azioni terroristiche? A meno di non voler considerare terrorista solo chi usa le bombe ma non possiede aerei per lanciarle. Che abbiano ragione coloro che considerano gli Stati Uniti non i custodi del diritto internazionale ma uno dei principali stati-canaglia? Come definire, in effetti, la politica di un Paese che manda alla presidenza uomini che hanno autorizzato o sono disposti ad autorizzare azioni terroristiche su vasta scala? "Negli Stati Uniti non potremmo considerare adatto alla presidenza un uomo che abbia lanciato una bomba in un ristorante affollato, ma siamo lieti di eleggere un uomo che in passato ha lanciato bombe distruttive non solo contro un ristorante ma anche contro tutti gli edifici intorno", osservava qualche anno fa con sgomento un politologo americano. Paradosso che meriterebbe un'attenta riflessione anche da parte dei politologi europei. 10. INCONTRI. MASSIMILIANO PILATI: IL 18 OTTOBRE A BOLOGNA UN INCONTRO LILLIPUZIANO [Riportiamo ampi stralci da un comunicato diffuso da Massimiliano Pilati (per contatti: massi.pilati at lillinet.org). Massimiliano Pilati fa parte del comitato di coordinamento del Movimento Nonviolento; e' impegnato nel nodo trentino della Rete di Lilliput ed e' referente nazionale del gruppo di lavoro tematico "nonviolenza e conflitti" della Rete di Lilliput; fa parte del coordinamento nazionale della campagna "Pace da tutti i balconi". Condividiamo l'opinione che sarebbe assai opportuno che la Rete Lilliput nel suo insieme - dismettendo finalmente i toni grottescamente trionfalistici e solipsistici cui talora taluni suoi esponenti si abbandonano, e le non rare condotte discutibili che hanno favorito confusioni ed errori non lievi - avviasse una piu' profonda e rigorosa riflessione sulla nonviolenza, che pure alla sua fondazione aveva dichiarato di porre a base del suo modo di essere e di agire; a tal fine la riflessione e l'attivita' del gruppo di lavoro tematico "Nonviolenza e conflitti" puo' essere di grande utilita', se ovviamente sapra' costantemente evitare ed energicamente contrastare atteggiamenti goliardici ed ambigui, faciloneria e subalternita', una visione debole ed annacquata della nonviolenza (che a quel punto nonviolenza non e' piu', ma una ridicola e ignobile caricatura di essa); limiti che ci sembra abbiano purtroppo opacizzato non poco il dibattito e l'azione di gran parte del movimento per la pace e la giustizia] Care amiche e cari amici delle associazioni pacifiste e nonviolente, lillipuziane e non, vi scrivo per invitarvi caldamente a partecipare al prossimo incontro del Gruppo di lavoro tematico "Nonviolenza e conflitti" della Rete di Lilliput che si terra' a Bologna presso il Centro Poggeschi, in Via Guerrazzi 14, il 18 ottobre 2003 dalle ore 10 alle 18. Ritengo questo incontro importante perche' potrebbe consentirci di impostare assieme il programma di lavori per l'autunno-inverno 2003 e soprattutto per il prossimo anno. A fine novembre ci sara' l'assemblea programmatica della rete ed e' fondamentale arrivarci con le idee ben chiare, e, magari, con poche proposte, ma largamente condivise e che abbiano quindi alle spalle chi ci possa lavorare. Ci siamo accorti tutti che le nostre iniziative possono funzionare solo se largamente condivise dai nodi e dalle associazioni (che di Lilliput sono il motore trainante). Purtroppo a volte accade che le singole associazioni programmino il loro lavoro autonomamente e che l'impegno lillipuziano sia vissuto come un'aggiunta, come un "fare qualcosa in piu'". Credo che se riuscissimo, ovviamente mantenendo le autonomie e le singole tipicita' di ogni singola associazione, a coordinarci maggiormente e magari a concentrarci veramente su poche iniziative e campagne condivise, potremmo riuscire ad avere ottimi risultati. Il Gruppo di lavoro tematico "Nonviolenza e conflitti" si e' formato nell'inverno del 2001 e da allora ritengo sia stato molto utile e un importante strumento di crescita e di lavoro per la rete tutta; sappiamo bene che ci sono grossi limiti e sappiamo anche che i carichi di lavoro interni andrebbero distribuiti meglio, ma forse, assieme, con un maggior apporto umano, culturale, di competenza e di energie delle associazioni e dei nodi si potrebbe dare alla rete uno splendido strumento... Durante il 2002 e il 2003 siamo stati attivissimi per contrastare le guerre, per costruire stili di vita nonviolenti, per attivare, con i Gruppi di azione nonviolenta, la nostra nonviolenza... Ci siamo detti che la Rete Lilliput deve riuscire ad essere sempre piu' propositiva contro le politiche guerrafondaie... dobbiamo riuscire a costruire una vera e propria politica permanente di azione nonviolenta contro le economie di guerra. 11. MEMORIA. ENRICO MORGANTI: UN RICORDO DI BEPI TOMAI [Ringraziamo Enrico Morganti (per contatti: pov1934 at iperbole.bologna.it) per questo ricordo. Enrico Morganti e' presidente del Centro servizi volontariato bolognese. Bepi Tomai, costruttore di pace, educatore di educatori, persona serena e gentile, appassionata e benigna, e' stato direttore generale del Formez. Tra le sue opere: Il volontariato. Istruzioni per l'uso, Feltrinelli, Milano 1994] Avete fatto bene a ricordare Bepi Tomai. Abbiamo lavorato insieme nell'Enaip (Ente nazionale Acli istruzione professionale) per molti anni. Lo ricordo come una persona competente, razionale, con il sorriso sulle labbra, ed una sana vena di ironia. Un collega che ti arricchisce. Il sottoscritto ed Antonio Picchi (all'epoca membro della presidenza nazionale delle Acli) lo ricordiamo con affetto e stima. 12. ESPERIENZE. LUCA SALVI: UN MEDICO IN AFRICA [Ringraziamo Luca Salvi (per contatti: lukesalvi at libero.it) per questo intervento. Luca Salvi fa parte del gruppo di iniziativa territoriale della Banca Etica a Verona; e' impegnato in iniziative per la pace, la giustizia, i diritti umani] La tragica morte di Annalena Tonelli mi offre lo spunto per ricordare un altro eroico, silenzioso volontario, che da quasi trent'anni opera come medico in Africa, il dottor Carlo Spagnolli. Carlo opera in Zimbabwe, uno dei paesi un tempo piu' ricchi e fertili dell'Africa e che adesso e' decimato dalla piaga dell'aids, con il 40% di sieropositivi e oltre un milioni di bambini resi orfani da questa malattia. Pressoche' da solo, dirige un ospedale e ha dato vita a scuole professionali, un asilo e un centro di accoglienza per questi orfani, salvando migliaia di vite in tutti questi anni e gettando le basi per un futuro migliore. Attualmente e' in prima linea in un progetto di cura all'aids mediante farmaci generici acquistati in India. Tutto questo senza chiedere un soldo al governo italiano, ma aiutato solamente dalla Fondazione "Amici del senatore Spagnolli" (www.assamicispagnolli.org) e dalla carita' di tanti amici che lo conoscono e lo stimano. Carlo ci chiede di ricordare il sacrificio di Annalena aiutando e stando vicini, sia materialmente che moralmente, a tutti quei volontari che, spinti solamente dall'amore per il prossimo e dalla rabbia contro le ingiustizie, rischiano e offrono la loro vita per il riscatto dell'Africa. Quanti sprechi, quante cose inutili riempiono il vuoto delle nostre vite, e quanta gioia, quanta vita, nonostante tutto, ho visto negli occhi dei bambini del dottor Spagnolli. Pensiamoci qualche volta, ricordiamoci dell'Africa, culla dell'umanita', e dei volontari che offrono la loro vita per il riscatto dell'Africa. Con la loro opera essi riscattano anche noi. 13. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 14. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti, la e-mail e': azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: lucben at libero.it; angelaebeppe at libero.it; mir at peacelink.it, sudest at iol.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it. Per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Per non ricevere piu' questo notiziario e' sufficiente inviare un messaggio con richiesta di rimozione a: nbawac at tin.it Numero 703 del 14 ottobre 2003
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