La nonviolenza e' in cammino. 703



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 703 del 14 ottobre 2003

Sommario di questo numero:
1. Enrico Peyretti: in memoria di Achille Croce
2. Lidia Menapace: donne a Perugia
3. Via dall'Iraq, subito
4. Subito una legge che riconosca il diritto di voto a tutti i residenti
5. Annibale Furatocchi: sulla proposta di Lidia Menapace, con una postilla
giuridica
6. Ausilia Riggi Pignata: sulla proposta di Lidia Menapace (parte terza e
conclusiva)
7. Prossima la pubblicazione di "Nonviolenza e femminismi" di Monica
Lanfranco e Maria G. Di Rienzo
8. Mariuccia Ciotta presenta "Elephant" di Gus Van sant
9. Elio Rindone: canaglia a chi?
10. Massimiliano Pilati: il 18 ottobre a Bologna un incontro lillipuziano
11. Enrico Morganti: un ricordo di Bepi Tomai
12. Luca Salvi: un medico in Africa
13. La "Carta" del Movimento Nonviolento
14. Per saperne di piu'

1. LUTTI. ENRICO PEYRETTI: IN MEMORIA DI ACHILLE CROCE
[Ringraziamo Enrico Peyretti (per contatti: peyretti at tiscali.it) per questo
ricordo. Enrico Peyretti e' uno dei principali collaboratori di questo
foglio, ed uno dei maestri piu' nitidi della cultura e dell'impegno di pace
e di nonviolenza. Tra le sue opere: (a cura di), Al di la' del "non
uccidere", Cens, Liscate 1989; Dall'albero dei giorni, Servitium, Sotto il
Monte 1998; La politica e' pace, Cittadella, Assisi 1998; Per perdere la
guerra, Beppe Grande, Torino 1999; della sua fondamentale ricerca
bibliografica Difesa senza guerra. Bibliografia storica delle lotte
nonarmate e nonviolente, una edizione a stampa - ma il lavoro e' stato
successivamente aggiornato - e' in Fondazione Venezia per la ricerca sulla
pace, Annuario della pace. Italia / maggio 2000 - giugno 2001, Asterios,
Trieste 2001, un'edizione aggiornata e' apparsa recentemente in questo
stesso notiziario (e contiamo di presentarne prossimamente un'edizione
nuovamente aggiornata). Una piu' ampia bibliografia dei principali scritti
di Enrico Peyretti e' nel n. 477 del 15 gennaio 2003 di questo notiziario]
E' morto venerdi' 3 ottobre Achille Croce, di Condove (Torino), umile,
saggio, fervoroso e genuino apostolo della nonviolenza in valle di Susa e
oltre, fino dagli anni '60.
Una umilta' serena e sorridente e una pura semplicita' coprivano di
discrezione la sua vita interiore e il suo pensiero religioso, sempre in
cerca di sorgenti spirituali, senza lasciare la tradizione cristiana. Lascia
scritti semplici e chiari, ma profondi, sulla liberazione personale e civile
dalla violenza. Gli siamo grati di una bella eredita' spirituale e ideale.
Ci rimane la dolcezza del suo rapporto umano apertissimo, la gioia con cui
incontrava tutti per strada o ci accoglieva nella sua casa: un vero
testimone popolare di nonviolenza positiva, vissuta nel quotidiano. Di lui
e' giusto dire che il Padre ha nascosto le cose preziose ai sapienti e ai
saggi e le ha rivelate ai semplici (cfr. Matteo 11, 25).
Fondo' il gruppo valsusino di azione nonviolenta al tempo dell'impegno per
la legge sull'obiezione di coscienza. A questo scopo fece digiuni pubblici,
anche nei giardini di Porta Nuova a Torino, distribui' volantini davanti a
chiese e caserme, per cui fu processato per antimilitarismo. Aveva fatto il
militare, ma restitui' il congedo e venne degradato, a suo onore. Operaio
alla Moncenisio, presento' una mozione, votata dalla stragrande maggioranza,
con cui gli operai si rifiutavano di produrre armi. Vegetariano, lavorava
con amore il suo orto, e ogni venerdi' non parlava, per potere vivere meglio
la dimensione interiore. Autodidatta di filosofia, scrisse riflessioni
personali sulla vita, che offriva agli amici. Manifesto' contro le
aggressioni militari delle due superpotenze di allora, per la riconversione
delle industrie militari in civili, insieme a chiunque cercasse sinceramente
questi obiettivi. Nel 1972 il suo gruppo ospito' Ramsahai Purohit, maestro
gandhiano, in marcia da New Delhi a New York per offrire all'Onu il progetto
di una forza permanente nonarmata e nonviolenta per il mantenimento e la
costruzione della pace. Partecipo' alle prime Perugia-Assisi e aiuto' il
sorgere del gruppo torinese del Mir (Movimento Internazionale per la
Riconciliazione). Occupo' un campo di tiro al piccione, in difesa degli
animali, e fu per questo malmenato, ma ne ottenne la chiusura. Fece digiuni
contro la guerra nei Balcani e contro la Tav (treno ad alta velocita') nella
valle. Fu per diversi anni nella redazione di "Dialogo in valle".
Il suo impegno ha generato l'impegno di tanti altri, per la pace, per la
politica a servizio delle cose giuste. I suoi amici valsusini e torinesi
vorranno riascoltare il suo lascito fecondo.

2. INCONTRI. LIDIA MENAPACE: DONNE A PERUGIA
[Ringraziamo Lidia Menapace (per contatti: llidiamenapace at virgilio.it) per
questo intenso resoconto. Lidia Menapace e' nata a Novara nel 1924,
partecipa alla Resistenza, e' poi impegnata nel movimento cattolico,
pubblica amministratrice, docente universitaria, fondatrice del "Manifesto";
e' tra le voci piu' alte e significative della cultura delle donne, dei
movimenti della societa' civile, della nonviolenza in cammino. La maggior
parte degli scritti e degli interventi di Lidia Menapace e' dispersa in
quotidiani e riviste, atti di convegni, volumi di autori vari; tra i suoi
libri cfr. (a cura di), Per un movimento politico di liberazione della
donna, Bertani, Verona 1973; La Democrazia Cristiana, Mazzotta, Milano 1974;
Economia politica della differenza sessuale, Felina, Roma 1987; (a cura di,
ed in collaborazione con Chiara Ingrao), Ne' indifesa ne' in divisa,
Sinistra indipendente, Roma 1988; Il papa chiede perdono: le donne glielo
accorderanno?, Il dito e la luna, Milano 2000; Resiste', Il dito e la luna,
Milano 2001]
La sera del 10 ottobre, nel corso dei seminari dell'"Onu dei popoli" si e'
svolta anche una assemblea di donne, ottenuta per la prima volta, e che si
chiede alla Tavola della pace di inserire abitualmente nel programma dei
lavori intorno alla marcia Perugia-Assisi. La richiesta e stata presentata e
sostenuta dalle donne del Comitato internazionale 8 marzo, attivo a Perugia
da anni con varie iniziative (ne parleremo un'altra volta).
L'organizzazione e' stata  molto efficente e calda: per non perdere tempo
nessuna introduzione, ma un testo proposto all'approvazione finale, invece
alcune finezze come un grande vaso di rose di varie sfumature dal bianco al
rosa acceso, dal quale tutte quelle che prendevano la parola levavano in
dono un fiore. E' stata una cosa emozionante.
La donna indiana che parlava della madre terra; la palestinese, una
ginecologa che raccontava con dolce fermezza e grande serenita' e forza, ma
senza gridare, la storia terribile della loro terra.
Quando ha proiettato un disegno del territorio palestinese tutto
frastagliato dalle postazioni israeliane mi sono distratta e ho avuto una
dolorosa retrodatazione perche' mi e' venuto in mente che durante
l'occupazione nazi anche le nostre citta' erano tutte interrotte da filo
spinato e posti di blocco, blocchi di cemento e garitte di militari che
volevano i documenti e una spiegazione del perche' volevi passare da quella
strada della tua citta'; per difenderci e resistere  anche noi pero' usavamo
le stesse modalita' che Anna Ashrawi racconto' una volta che venne a Padova
per un dibattito in cui c'ero io pure a parlare della prima Intifada,
nascondigli cortili cantine passaggi nascosti finestre aperte o chiuse
gerani al davanzale, un linguaggio cifrato da vita quotidiana.
E da allora quanti passi indietro, e quanti motivi di autocritica da parte
di noi europei per le persecuzioni nei confronti degli ebrei prima, e per
non aver sostenuto anni fa la prima Intifada, una vera lotta popolare
nonviolenta di difesa; e ora la seconda Intifada armata produce un delirio
di avvitamenti nella violenza senza rimedio e  un arretramento culturale
terribile di tipo fondamentalista.
Sono  tornata attenta mentre la palestinese proiettava un lucido con le
cifre della  "malnutrizione irreversibile" tra i bambini e le bambine del
suo paese, che e' passata dall'1,4 al 9,6 % nei tre anni ultimi.
Insopportabile.
Al palco si sono susseguite una donna del Benin, una attivissima e calda
colombiana, che ha detto che le donne rifiutano e rifiuteranno di fare figli
per le guerra, una coraggiosa algerina, e tutte esprimevano la tenace
opposizione delle donne alla violenza e alle guerre, la poverta', le
violazioni di diritti, con forza con fiducia, affidando un mandato a noi
donne del mondo ricco e "di diritto".
Ha preso la parola anche una israeliana di quella associazione che mette
insieme genitori di caduti delle due parti, un discorso intenso, provato,
che alla fine si e' concluso  con l'offerta di due rose bianche alle donne
palestinesi presenti e un lungo abbraccio tra loro accompagnato dai nostri
applausi senza fine.
Una statunitense ha parlato della vergogna del suo paese, non solo per le
guerre, ma anche per i milioni di senzatetto, famiglie povere e persone
emarginate che abitano il paese piu' ricco potente e aggressivo del mondo.
Prendendo la parola non ho potuto non interloquire con loro e chiedere che
sottoponiamo a giudizio la nostra storia e chiediamo che la Costituzione
europea contenga almeno un articolo simile all'articolo 11 della
Costituzione italiana, e non metta il mercato sopra il lavoro e non
costituzionalizzi la Nato.
Sentendo l'indiana mi era venuto in mente che gli antichi romani
consideravano miniere e cave quasi un sacrilegio, come una morbosa
violazione delle viscere della madre, tanto che quando una cava o miniera
era esaurita chiudevano la ferita e cercavano di ripristinare il terreno (ne
parleremo in un nostro seminario "Facciamo pace con la terra").
Poi ho ricordato l'iniziativa del Comitato donne di Napoli che ha, per cosi'
dire, anticipato il Nobel con una iniziativa internazionale contro le
lapidazioni e ha ottenuto che il Comune dia la cittadinanza onoraria alle
donne soggette alla  barbara condanna.
Ho promesso che avrei anche scritto un testo da inviare alle giornaliste Rai
perche' parlino non solo dei successi sportivi delle atlete italiane, delle
sfilate di moda, delle madri depresse che si suicidano, ma anche delle donne
che agiscono politicamente e se non trovano notizie sulla iraniana premio
Nobel chiedano alla tv svedese.
Insomma una bella cosa infine.

3. EDITORIALE. VIA DALL'IRAQ, SUBITO
La guerra terroristica e stragista promossa dal governo degli Stati Uniti in
Iraq prosegue. Ogni giorno agli orrori e alle devastazioni si aggiungono
nuovi massacri.
Occorre che la guerra cessi, e perche' cessi occorre che cessi l'occupazione
militare straniera nella quale anche l'Italia e' coinvolta. Occorre che si
ripristini al piu' presto la sovranita' del popolo iracheno e uno stato di
diritto; occorre promuovere la democrazia nell'unico modo in cui la
democrazia puo' essere promossa: con la democrazia.
L'Italia sta partecipando a una guerra stragista e terrorista e a
un'avventura militare colonialista e imperialista folle e scellerata, e  lo
sta facendo in violazione della nostra Costituzione e del diritto
internazionale. Il governo italiano (e con esso la maggioranza parlamentare
e il capo dello stato), con la criminale e sciagurata decisione di
partecipare alla guerra e all'occupazione armata, espone anche il nostro
paese a divenire teatro di azioni di guerra, espone anche i cittadini
italiani ad azioni di guerra e di terrorismo.
Occorre che questa pazzia cessi, occorre che si ripristini la legalita'
anche nel nostro paese: occorre che l'Italia ritiri immediatamente le sue
forze armate dal teatro di guerra iracheno, cessi di partecipare
all'occupazione militare illegale e criminale, si adoperi per promuovere
pace e ricostruzione, democrazia e diritti umani, nell'unico modo in cui
democrazia e diritti, ricostruzione e pace, sono possibili: con la
cessazione delle stragi, con la cessazione dell'occupazione straniera, con
un piano di aiuti umanitari autentico e senza condizioni, necessario ed
urgente.

4. EDITORIALE. SUBITO UNA LEGGE CHE RICONOSCA IL DIRITTO DI VOTO A TUTTI I
RESIDENTI
Il riconoscimento del diritto di voto a tutte le persone residenti in un
dato ambito territoriale e' cosa talmente ragionevole che c'e' da stupirsi
che vi siano ancora persone che vi si oppongono (e che opponendovisi
rivelano la loro effettiva collocazione culturale prima ancora che politica:
la cultura della segregazione).
Ci sembra doveroso e necessario che quanti da anni propugnano questo
riconoscimento (e chi redige questo foglio e' ovviamente nel novero)
sostengano l'approvazione di una legge che tale riconoscimento statuisca.
Ci sembra doveroso e necessario fare appello al parlamento affinche'
predisponga, discuta e deliberi una legge che finalmente riconosca il
diritto di voto a tutte le persone residenti, una legge di ragionevolezza,
una legge di democrazia, una legge di civilta'.

5. RIFLESSIONE ANNIBALE FURATOCCHI: SULLA PROPOSTA DI LIDIA MENAPACE, CON
UNA POSTILLA GIURIDICA
[Ringraziamo il caro amico Annibale Furatocchi, da molti anni impegnato
nella riflessione e nelle iniziative per la pace e la civile convivenza, per
questo intervento]
Vorrei esprimere il mio consentimento alla proposta formulata da Lidia
Menapace per un'Europa neutrale e attiva, disarmata e smilitarizzata,
solidale e nonviolenta.
Spero che essa proposta, come e' stato da piu' parti auspicato, si traduca
al piu' presto in un'incisiva iniziativa politica, legislativa,
istituzionale ed amministrativa, oltre che culturale ed educativa in senso
forte, che ottenga quei concreti risultati di cui vi e' grande, urgente
bisogno.
Auguro che si realizzi una convergenza ampia di soggetti diversi che renda
questa proposta elemento unificante e propulsivo per un'iniziativa che
coinvolga movimenti ed istituzioni di tutta Europa affinche' la scelta della
nonviolenza divenga motore e cuore del processo di unificazione politica
europea e caratterizzi l'Unione come attore istituzionale che informi la sua
azione internazionale e la sua specifica legislazione (e quindi anche le sue
strutture deputate alla sicurezza, alla difesa, alla cooperazione) al fine
della promozione della pace, della democrazia, dei diritti umani,
esclusivamente attraverso mezzi coerenti con tali fini, ed in primis con
l'affermazione e l'inveramento, nella teoria e nella pratica, del ripudio
della guerra, principio sancito fin dal preambolo della Carta delle Nazioni
Unite e gia' incluso ad esempio nella Costituzione italiana (e tragicamente
ancora disatteso in tutto il mondo con grave nocumento e incombente pericolo
per l'umanita' intera).
Rilevo en passant che nel momento in cui si va all'unificazione di entita'
giuridiche gia' dotate di propria sovrana legislazione, vige il principio
della salvaguardia dei diritti gia' acquisiti, talche' il fatto che almeno
l'Italia abbia gia' sancito nella propria Costituzione il ripudio della
guerra dovrebbe essere ragion sufficiente affinche' tale principio venga
confermato nella Costituzione europea. Cosi' vuole la civilta' giuridica,
cosi' e' voto comune delle genti.

6. RIFLESSIONE. AUSILIA RIGGI PIGNATA: SULLA PROPOSTA DI LIDIA MENAPACE
(PARTE TERZA E CONCLUSIVA)
[Ringraziamo Ausilia Riggi Pignata (per contatti: donnecosi at virgilio.it) per
questo suo impegnativo intervento, di cui pubblichiamo oggi la parte terza e
conclusiva. Ausilia Riggi Pignata e' un'acuta pensatrice e testimone di
scelte di forte rigore intellettuale e morale e di profondo anelito alla
liberazione di tutte e tutti; "si e' data - come ha scritto lei stessa - un
campo circoscritto di impegno per abbattere la violenza istituzionale quando
contrasta con la liberta' di coscienza; e nello stesso ambito ha
particolarmente approfondito il tema 'donna e sacro' (su cui si veda il sito
www.donne-cosi.org)"]
Da quando leggo i vari interventi in questa ricerca, sempre, ad ogni
affermazione, mi sono posta molte domande, tra cui: come educare la
societa'? e a chi spetta tale compito? E il dubbio tormentoso, del quale
sono fedele amica, mi fa ipotecare che senza una rieducazione generalizzata
in tale materia non sortiremo a nulla.
A volte ho l'impressione che parliamo dai tetti in su'. Quando assisto
(tramite i mezzi di informazione) a varie mobilitazioni, alcune davvero
poderose, sento tanta frustrazione, non per non poter partecipare (i miei
acciacchi), quanto perche' mancano i veri interlocutori. I costruttori di
pace stanno di qua, mentre dall'altra parte c'e' sordita', noncuranza,
dispiegamento di "forze dell'ordine". Cerchiamo vari viottoli per
arrampicarci verso mete non raggiungibili per via ordinaria, talvolta
scaliamo alcuni picchi, ma. le alte montagne si rivelano ancora
inaccostabili.
Precedentemente ho parlato della sicurezza che nutro circa l'infinita' (si',
parlo di infinita', non di potenzialita' infinite), cioe' l'innata apertura
all'infinito di cui e' capace l'essere umano. Questo senso della propria
dignita', che sorpassa i limiti dell'esistenza di chi ne e' portatore, va
curato e sviluppato: siamo in salita, e se non si va in alto, si scivola in
basso.
Non mi piacerebbe che una venatura di idealismo ci facesse rifugiare nelle
speranze di stampo ottocentesco, quasi che volessimo divenire "educatori
dell'umanita'". Magari lo vorremmo, ma ci esprimeremmo diversamente. Quel
clima e' passato, e ora ritornano alcuni dei vecchi valori, famiglia patria
religione (per via di persone. di mentalita' destrorsa, forse perche' valori
tradizionali); ma essi a molti di noi non bastano piu', ci sembrano
rinchiusi in un orizzonte ristretto; e infatti non stanno al passo della
nostra epoca. C'e' uno scompaginamento etico delle coscienze e, se reagiamo
coi moralismi, sprechiamo le nostre energie, o causiamo maggiori danni.
Forse tramite questa ricerca che stiamo facendo riusciremo a chiarirci le
idee, con la speranza che quelle buone contagino molti. E non e' detto che
alla proposta di Lidia, lungo il percorso, non se ne aggiungano altre,
sussidiarie, che sfondino le mura al riparo delle quali si riuniscono i
"grandi".
*
L'affermazione basilare: la nonviolenza deve essere metodo e fine nello
stesso tempo, anche se chiara e precisa, mi fa temere che la nostra azione
resti, se resta, nell'ambito delle grandi aspirazioni, e trovi diritto di
cittadinanza soltanto ai confini o nei buchi neri delle istituzioni. A me,
personalmente, lo stare ai confini pare bello, perche' i confini vanno
abitati per scomparire come limiti, e perche', quando la violenza dilagante
della guerra dovesse attraversarli, troverebbe dei custodi della liberta' a
fare da diga.
E' triste il quadro che ci si presenta quando pensiamo alle possibilita' di
evitare le guerre. Purtroppo le azioni di tamponamento della marea di una
guerra concordata nelle alte sfere, finora si sono ridotte a sfilate e
proteste. Il popolo della pace ha mancato di capacita' rappresentativa e
propositiva: col dire no alla guerra, il "senza se e senza ma" puo' anche
essere allettante, ma non acquista piena dignita', autorevolezza, potere di
contrattazione.
Al di dentro delle istituzioni e' notte fonda. La politica e' divenuta
continuo alterco. E l'opinione pubblica, questa grande signora in poltrona,
che ha fatto finora? Non e' forse vero che la gente e' abituata a
considerare le guerra una necessita'?
Le domande si potrebbero moltiplicare. La conclusione e' la stessa: la via -
per la formazione di mentalita' in grado di capire quanto sia insopportabile
la violenza strutturale - e' lunga e sovraccarica di incertezze. Ma almeno
imbocchiamola, fugando ogni ombra di dubbio sul nemico da combattere. Nemico
che in noi si annida come residualita' di idee non assodate, e fuori di noi
combacia, direttamente o indirettamente, con le strutture di potere. Fino a
quando il potere sara' strutturalmente accompagnato dalla violenza e dal
tacito consenso della gente comune, le nostre parole gireranno a vuoto.
*
Il nodo da sciogliere e' nel fatto che un po' tutti vogliono l'ordine
garantito dal potere e lasciano che l'azione disturbatrice sia punita con la
violenza.
Ben a ragione in questa ricerca e' stata citata Hannah Arendt quando afferma
che la violenza puo' distruggere il potere; e che il fine per contrastarla
corre il pericolo di venire sopraffatto dai mezzi violenti. Traggo una
provvisoria conclusione: la violenza e' duplice: c'e' quella fredda del
potere e c'e' quella, piu' esagitata e piu' stridula (adolescenziale),
contro il potere. La nostra, mi pare, e' una terza via. Stiamo dalla parte
dell'ordine e dell'autorita', non come nuovi stalinisti o come nazifascisti.
Quel che vogliamo si deve tradurre, come gia' detto, in proposte concrete,
tali da divenire programmi di azione, leggi, "res publica"; e nello stesso
tempo da dar forma alla sostanza del discorso che per ora facciamo
prevalentemente a tavolino.
*
Mi ricordo che tempo fa Lidia Menapace proponeva la Costituente della
strada. L'idea per me era affascinante. Che se n'e' fatto? Vi prego,
compagne e compagni piu' giovani, non accantoniamo l'idea. Diamole corpo e
anima e spirito. Non si possono far morire idee cosi' belle. Lo sappiamo, se
andiamo sulla strada per chiedere ingenuamente pareri e suggerirne altri, e'
facile che ci prendano per sobillatori/trici, e la maggioranza continuera' a
ragionare con la mentalita' di ieri. Si affaccia alla mia mente la grande
marcia di Mao, e tremo di fronte a somiglianze indebite, anche se in un
certo senso c'e' da apprendere da tutto. Mi piace di piu' pensare a Cristo,
che non si raccoglie misticamente a pregare in comunita' composte e di
elevati pensieri, che invece manda ad evangelizzare per le vie del mondo.
(Manda, si badi bene, donne e uomini).
Abbiamo bisogno di acquistare autorevolezza dal basso. Non e' cosa da poco.
I grandi cambiamenti hanno sortito un effetto minimo; penso, ad esempio,
alla rivoluzione francese che alla fine ripiega nel termidoro, ma le cui
grandi idee sono penetrate via via nell'orizzonte culturale.
Voglio ribadire e approfondire due concetti.
*
Il primo. La frase femminista "il massimo di autorita' col minimo di potere"
traduce il bisogno che abbiamo tutti/e di non sentirci schiavi di nessuna
struttura di potere. Tale massima dovrebbe essere cosi' impressa nella
nostra coscienza, da trasformarsi in proposta, forte e continua, al potere
che ci governa, con un atteggiamento da parte nostra niente affatto umile,
ma tale da apparire sobrio ed autorevole. Con la pretesa di dire apertis
verbis che deve essere cancellato il concetto stesso di guerra armata.
La guerra, sempre figlia della violenza, finisce con la vittoria di chi e'
piu' forte e con la sconfitta di chi e' piu' debole. Pare strano che non si
riesca a capire una verita' tanto elementare. La scusa che "per vincere la
violenza si richiede una violenza piu' schiacciante", anche se ha una sua
logica, perde maggiormente di credibilita' quando a disporre della violenza
e' un'irrazionale voglia di leadership.
La giustificazione della guerra proviene dalla necessita', si dice, di
difesa. E si va diffondendo l'idea che, laddove si formino governi
democratici, il pericolo della guerra avrebbe minor modo di attecchire. Ma
come abbiamo il coraggio di dire cio', se siamo in un mondo interamente
sottoposto a guerre permanenti, nelle quali proprio noi occidentali
pretendiamo imporci con grande dispiegamento di forze?
Se da piu' di un cinquantennio l'idea di stato sociale e' stata assimilata,
anche se in modo limitato (si spera che anche i governi di destra non
possano spegnere la fiammata di consapevolezza dei diritti umani), perche'
non dovrebbe farsi strada anche un'idea di democrazia che ripudi la guerra?
Sta a noi acquistare quell'autorevolezza in grado di denunziare che le
fondamenta delle nostre democrazie sono strutturalmente imperfette. Ed e'
per questo che non vogliamo aggiustamenti di facciata.
Ben vengano proposte chiare, di cui incaricare nostri rappresentanti.
Ma io non vorrei peccare di ingenuita' nel ritenere che basti si apra un
varco di accesso a qualsiasi portavoce che possa avere potere di
rappresentanza: vogliamo che si tenga conto della nostra presenza in tutti i
luoghi dove il potere si esprime. Le idee sono come il seme: se ne sta
sottoterra, ma annaffiato e compenetrato di calore, esce fuori allo scoperto
al momento giusto. Ci vuole il partito della pace, che metta a fuoco la
violenza del potere e dei poteri contro cui si va a combattere. La giusta
mira e' volerlo sovranazionale e, per noi, europeo (ne parleremo in
seguito).
*
Secondo. Se siamo contro la violenza del potere, cio' non vuol dire che non
dobbiamo aspirare al potere in se': quel tanto che e' necessario per
polarizzare la politica al di la' dello schema destra-sinistra. L'unico
momento bello in parlamento e' quando si vedono le donne unite
trasversalmente a tutti i partiti. Cio' non significa ne' aggiungere una
altro partito, ne' rendere labile la diversita' tra i raggruppamenti. L'aria
di movimentismo dovrebbe restare qual e'; dobbiamo aggiungere strategie di
rappresentanza. A che giova la visibilita' nelle piazze, se poi i cosiddetti
Grandi si chiudono nella roccaforte del potere "la' dove il destino dei
popoli si cova"?
A mio parere (non mi piace aggiungere "modesto", perche' il mio parere e'
immodesto) si dovrebbe fare qualche passo in avanti, verso la rappresentanza
giuridica.
Non mi illudo sui progressi che si son fatti rispetto ai tempi in cui il
potere era completamente monolitico. Dobbiamo guardare al passato, eccome;
ma l'attenzione deve essere volta al presente e al futuro da non infarcire
di velleitarismo. L'importante e' avere una piattaforma "chiara e distinta",
e nello stesso tempo flessibile nella pratica, nel rapportarsi ai movimenti
che gia' ci sono, e nel trovare il modo per inserirla pienamente nella
storia.
Leggo stamane: "Le piu' concrete applicazioni della difesa civile consistono
attualmente negli interventi di solidarieta' alle societa' civili
attraversate dalla violenza nelle esperienze internazionali dei Corpi civili
di pace, e nella insistente richiesta ai vertici politici italiani ed
europei della loro istituzionalizzazione.
Il 'Centro studi difesa civile' e' ad esempio impegnato nella Rete italiana
dei Corpi civili di pace, nella rete europea dei servizi civili di pace, nel
progetto 'Colombia vive', e nelle 'Nonviolent Peaceforce' che hanno
dispiegato operatori per evitare il riesplodere della violenza in Sri Lanka
e che offrono inoltre sostegno alle societa' civili di Birmania, del
Guatemala, di Israele/Palestina, dell'Uganda".
Sono ben felice di quello che si realizza, ma non dobbiamo stancarci di fare
qualcosa di sostanziale al di dentro dei nostri governi quanto a
rappresentanza continua, giuridicamente valida. Se i termini in cui mi
esprimo rivelano la mia scarsa competenza politica, non altrettanto debole
e' la mia proposta che vuole essere appunto politica.
Perche', ripeto, l'importante e' penetrare nelle strutture. C'e' ancora chi
crede che basta nuocere, far violenza nei riguardi del potere, prendendo di
mira persone con nome e cognome. Sicuramente, scalzato un governo di destra
e succeduto un altro di sinistra, si tornerebbe a fare ancora guerre, fino a
che non si arrivera' a scuotere l'impianto del potere violento. Le
affermazioni generiche non servono come non servono i personalismi...
Servirebbe, nell'immediato, rafforzare il movimento della pace in modo che
non sottostia a questo o a quel partito (che poi se ne servirebbe per fini
di parte), ma che sia robusta presenza, come ad esempio i sindacati, con cui
qualsiasi governo debba confrontarsi.
Continuero' ad intervenire, dopo che si preciseranno i termini di azione
circa l'Europa.
Benissimo l'idea lanciata circa la neutralita' attiva eccetera, ma io la
vorrei tradotta in termini politici, come progetto di legge.
E' possibile? Come faremo a pretendere che la proposta si trasformi in
legge? Coloro che hanno compiuto e discusso la stesura della Costituzione
europea hanno ricevuto l'imput nostro circa la nonviolenza strutturale, tale
che il nuovo potere europeo se ne faccia garante e/o ne venga condizionato?
Non vorrei che finisse come la stupenda proposta di Costituente della
strada.
(Le due parti precedenti di questo intervento sono apparse nei numeri 698 e
700)

7. LIBRI. PROSSIMA LA PUBBLICAZIONE DI "NONVIOLENZA E FEMMINISMI" DI MONICA
LANFRANCO E MARIA G. DI RIENZO
[E' in via di pubblicazione il libro di Monica Lanfranco e Maria G. Di
Rienzo (a cura di), Donne disarmanti. Storie e testimonianze su nonviolenza
e femminismi, Edizioni Intra Moenia, pp. 280, 13 euro. Grazie alla cortesia
delle autrici ne anticipiamo qui una breve presentazione editoriale.
Monica Lanfranco, giornalista professionista, nata a Genova il 19 marzo
1959, vive a Genova; collabora con le testate delle donne "DWpress" e "Il
paese delle donne"; ha fondato il trimestrale "Marea"; dirige il semestrale
di formazione e cultura "IT - Interpretazioni tendenziose"; dal 1988 al 1994
ha curato l'Agendaottomarzo, libro/agenda che veniva accluso in edicola con
il quotidiano "l'Unita'"; collabora con il quotidiano "Liberazione", i
mensili "Il Gambero Rosso" e "Cucina e Salute"; e'' socia fondatrice della
societa' di formazione Chance. Nel 1988 ha scritto per l'editore PromoA
Donne di sport; nel 1994 ha scritto per l'editore Solfanelli Parole per
giovani donne - 18 femministe parlano alle ragazze d'oggi, ristampato in due
edizioni. Per Solfanelli cura una collana di autrici di fantasy e
fantascienza. Ha curato dal 1990 al 1996 l'ufficio stampa per il network
europeo di donne "Women in decision making". Nel 1995 ha curato il libro
Valvarenna: nonne madri figlie: un matriarcato imperfetto nelle foto di fine
secolo (Microarts). Nel 1996 ha scritto con Silvia Neonato, Lotte da orbi:
1970 una rivolta (Erga): si tratta del primo testo di storia sociale e
politica scritto anche in braille e disponibile in floppy disk utilizzabile
anche dai non vedenti e rintracciabile anche in Internet. Nel 1996 ha
scritto Storie di nascita: il segreto della partoriente (La Clessidra). Cura
e conduce corsi di formazione per gruppi di donne strutturati (politici,
sindacali, scolastici) sulla storia del movimento delle donne e sulla
comunicazione.
Maria G. Di Rienzo e' una delle principali collaboratrici di questo foglio;
prestigiosa intellettuale femminista, saggista, giornalista, regista
teatrale e commediografa, formatrice, ha svolto rilevanti ricerche storiche
sulle donne italiane per conto del Dipartimento di Storia Economica
dell'Universita' di Sidney (Australia); e' impegnata nel movimento delle
donne, nella Rete di Lilliput, in esperienze di solidarieta' e in difesa dei
diritti umani, per la pace e la nonviolenza]
Ci sara' un motivo per il quale in moltissime le storiche, le antropologhe,
le filosofe, le giornaliste, le studiose femministe centrano l'attenzione
sull'uso delle parole, e mettono in guardia sulla stretta connessione tra
violenza del linguaggio comune e violenza reale, nelle relazioni quotidiane
come nella politica, nella comunicazione mediatica e quindi nel tessuto
sociale.
Se cercate su qualunque vocabolario la parola nonviolenza non la troverete,
perche' non e' registrata cosi' come la scriviamo, senza trattino o elementi
di separazione; eppure si tratta di una piccola grande rivoluzione
semantica, simbolica e quindi di immensa portata, nel tempo, quella di
coniare una parola che si opponga, nel suo significato, ad un'altra
altrettanto potente proprio perche' la contiene, pero' anteponendo una
negazione.
Al di la' di come la si scrive, nel concetto di nonviolenza la violenza e'
contenuta perche' non la si nega: non troverete un uomo o una donna che si
dicano, sinceramente, nonviolento o nonviolenta e che non ammettano in primo
luogo che il lavoro piu' duro non e' il contrastare la violenza esterna, ma
la propria. Il lavoro pesante e' proprio questo.
Come lo e' stato, e per ogni nuova generazione di donne lo e', appropriarsi
della consapevolezza che il personale (di solito la sfera destinata alle
donne perche' relativa alle relazioni, ai sentimenti, all'emotivita') e'
politico, e far diventare questa verita' luogo comune anche presso gli
uomini.
Eccoci al punto.
Le domande che Monica Lanfranco e Maria G. Di Rienzo pongono, e che
sottendono tutto questo libro, tra le altre, sono: essere donne aiuta nella
scelta nonviolenta, costituisce un vantaggio rispetto all'essere uomini?
Le donne sono piu' portate alla nonviolenza perche' considerate meno
aggressive, piu' miti, visto che la natura le ha dotate del compito di
procreare e occuparsi dei cuccioli?
Questo libro affronta  queste domande e offre e delle risposte, anche se
dare un riscontro affermativo assoluto sarebbe, oltre che banale e
sbrigativo, davvero sbagliato.
Conclude infine il libro un articolato manuale di comportamento per l'azione
diretta nonviolenta, considerata come una terza via, un'alternativa fra il
sottomettersi alle ingiustizie e la reazione violenta contro di esse.
Con contributi di Lidia Menapace, Imma Barbarossa, Tiziana Plebani,
Rosangela Pesenti, Starhawk, Vandana Shiva, e interviste a Luisa Morgantini,
Dawn Peterson, Giancarla Codrignani.

8. CINEMA. MARIUCCIA CIOTTA PRESENTA "ELEPHANT" DI GUS VAN SANT
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 7 ottobre 2003. Mariuccia Ciotta e' acuta
studiosa di cinema e autrice di innumerevoli articoli e saggi, sovente
illuminanti]
Il fulminante "teen-movie horror" di Gus Van Sant, Elephant, appena uscito
nelle sale italiane, e struggente variazione da camera all'impetuoso
pamphlet satirico di Michael Moore, Bowling for Columbine (sempre di quella
strage d'adolescenti impauriti, in qualche modo, si tratta), da' qualche
risposta in piu' al recente e devastato stato immaginario dell'Unione in
guerra permanente. Il regista off di Will Hunting si e' chiesto come mai un
ragazzino della middle-class di un college americano decide di rispondere al
tiro di palle di carte inzuppate di saliva con una raffica di mitra che
colpisca qualcuno dei suoi compagni di classe per punirli tutti. "Il mio
film parla di altre cose oltre che del massacro in un liceo. Si potrebbe
fare qualche esempio - dice Gus Van Sant - con il clima attuale nel mondo:
gli aerei che hanno colpito il World Trade Center sarebbero come le palle di
carta masticata che i compagni lanciano a uno degli assassini. E la sua
risposta sarebbe simile a quella americana rispetto all'attacco subito".
Nello stato nebuloso del sogno, nella forma di una estasi davanti alla
realta' che si forma, la cinepresa di Gus Van Sant segue i percorsi degli
studenti nello spazio fantasma della scuola. Li segue di spalle mentre
percorrono i corridoi, quasi una telecamera d'ambiente, una spia venuta da
un altro tempo a osservare i movimenti impercettibili, i gesti automatici,
di un massacro drammatizzato, in seguito, dai media. Spettacolo super,
enfasi sulle ragioni del gesto criminale. Perche' dei ragazzini sparano
addosso ad altri ragazzini? Se invece di farsi queste domande, qualcuno
ascoltasse cosa hanno da dire, i ragazzini, sarebbe meglio, come ha rilevato
saggiamente il "diabolico" Marilyn Manson. Colpevole, secondo gli educatori,
quanto la tv, i videogames, e il cinema, come al solito. Eppure, almeno gli
statunitensi. se non gli opinionisti italiani, avrebbero dovuto meditare
sulla famosa frase scritta alla meta' dell'ottocento da Herman Melville: "Se
pure qualcuno viene offeso dai libri violenti non dovrebbe per questo essere
impermeabile ai fatti. Ma si proibiscano allora i fatti, non i libri".
"Not in my name" dicevano infatti gli striscioni dei pacifisti Usa
all'inizio della vendetta in Iraq. E invece si', per loro hanno fatto in
mille pezzi i teen-ager afghani. Ed eccoli riprodotti nelle aule specchiate
della scuola di Elephant, che evoca quella di Columbine, il massacro.
Scaturigine del film Michael Moore, Bowling for Columbine, genesi delle
stragi con armi da fuoco in America. Causa: la carenza di servizi sociali
con l'insicurezza che genera in chi e' preso dal panico perche' non ce la
fa, e' un perdente, un cancellabile...
Prodotto dalla tv via cavo Hbo, Elephant e' stato girato in pochi giorni a
Portland, con attori non professionisti selezionati tra i 1.500 che si sono
presentati ai provini. Viali alberati, i suburbi lussuosi della provincia,
giardini, macchine immense, cucine luminose, frigoriferi-armadio, adulti
assenti, a parte un padre ubriaco che cede il volante al figlio, un tipo
angelico con la zazzera biondo ossigenata, dopo aver divelto lo specchietto
di un'auto posteggiata. Rarefatto in un ralenti impercettibile (per motivi
tecnici, dice Van Sant, l'effetto e' stato mitigato) la cinepresa segue -
senza sobbalzi reality - scivolando sui pavimenti lucidi del college i
protagonisti, presentati uno a uno, o in gruppo. Le tre amiche che sbavano
dietro al bello, fidanzato con la starlette, e si accusano a vicenda di non
dedicarsi abbastanza una all'altra. La bruttina presa in giro perche' non si
mette mai gli short per fare ginnastica e anche quando se li mette, ed e' la
prima a cadere sotto il fuoco di un fucile a ripetizione, ordinato via
internet. L'atletico afroamericano che avanza fiducioso verso il compagno
armato, mentre quello sta redarguendo il preside strisciante sotto l'arma.
Sparato. Il fotografo dilettante, che colleziona ritratti di studenti e li
ferma nei giardini e nei corridoi del college per uno "shoot" premonitore.
Sparato. Un cane che ballonzola in leggero surplace alla vista dei due
teen-ager vestiti in tuta militare, carichi di sacchi, pronti a entrare in
azione. Due qualsiasi, forse anche bravi studenti, un po' annoiati, a casa,
li vediamo mentre uno suona, in modo atroce, un Beethoven da principiante o
da spot. L'altro gioca col computer a colpire sagome umane che poi si
conficcano nella neve a piedi in su.
La cinepresa si fa presenza, occhio invisibile ma pervasivo, gira intorno
alla stanza, disegna un vortice lento, inquadra gli oggetti affollati qua e
la' e certi schizzi sulle pareti. C'e' anche un elefante a carboncino...
Elephant, il titolo pero' viene da un corto prodotto dalla Hbo con la Bbc,
diretto da Alan Clark su una serie di omicidi insoluti in Nord Irlanda, film
esemplare che la televisione via cavo aveva mostrato a Gus Van Sant per
consigliarlo nel progetto, respinto precedentemente dai tre colossi Abc, Nbc
e Cbs perche' raccontare il massacro Columbine, dicevano, era come farsi
male da soli. Sotto accusa sarebbero, infatti, i loro palinsesti "violenti".
Altra allusione: gli elefanti, portati in citta', diventano pazzi.
"Diventare folli in una scuola - dice il regista - e' una cosa per cui
l'America ha bisogno di riferimenti esterni, non puo' credere che sia
conseguente alla sua realta', al suo linguaggio". Quei mostri sono
"normali". E anche se i due assassini si esaltano in tv a un documentario su
Hitler, quel che ne assumono e' la radicalita' distruttiva, l'esaltazione
mortifera in assenza di qualsiasi altra spinta propulsiva. Che c'e' da fare
se non ammazzare e morire? C'e' un bacio che i due si scambiano sotto la
doccia, primo e unico brivido, ma colpevole. Gus Van Sant scompone le
sequenze, spiazzamenti spazio-temporali. Rivede la scena al play-back
inquadrata da diversi punti di vista. La monotonia surreale dei gesti,
l'andirivieni comatoso degli studenti. Suspence del nulla.
Il manifesto del massacro e' un meraviglioso, attonito viaggio senza
spiegazioni. L'ultima giornata di un morto vivente, l'assenza di se' e la
tragedia senza effetti speciali. Gus Van Sant ha firmato un altro dei suoi
capolavori.

9. RIFLESSIONE. ELIO RINDONE: CANAGLIA A CHI?
[Ringraziamo Elio Rindone (per contatti: storetfil at libero.it) per questo
intervento. Elio Rindone e' docente di storia e filosofia a Roma, fa parte
dell'Associazione nazionale docenti, tiene sovente appassionanti seminari;
e' autore di perspicui libri e saggi di argomento teologico e filosofico]
Negli ultimi anni l'amministrazione Usa ha elaborato la nozione,
determinante per la loro politica estera, di "stato-canaglia": nella
comunita' internazionale bisognerebbe distinguere gli stati perbene da
quelli fuorilegge, che non solo possiedono armi di distruzione di massa ma
sono anche pronti ad impiegarle effettivamente nei confronti di altri Paesi.
E in base a questa teoria, estranea al diritto internazionale consolidato,
si e' voluto giustificare la guerra "preventiva" contro l'Iraq.
Intanto, mentre continuano a non trovarsi le armi di distruzione di massa,
che costituirebbero la prova provata che l'Iraq potrebbe essere a ragione
considerato uno "stato-canaglia" e pericolosa centrale di terrorismo
internazionale, si moltiplicano le pubblicazioni che, svelando quanto sia
falsa la vulgata diffusa dai media controllati dalle forze al potere nei
paesi occidentali, negano sia la possibilita' di distinguere nettamente gli
stati buoni da quelli cattivi, sia il diritto degli Usa di ergersi a giudici
in materia.
William Blum, un ex funzionario del Dipartimento di stato americano, arriva
addirittura a sostenere, nel documentatissimo volume Con la scusa della
liberta', che proprio agli Stati Uniti puo' attribuirsi la qualifica di
stato-canaglia perche' e' certo che le armi le possiedono, le hanno usate e
le usano a fini terroristici.
Che cosa e', infatti, il "terrorismo"? Nel 1999 un comunicato stampa
dell'Fbi, l'ufficio investigativo statunitense, lo ha definito come "l'uso
illegale della forza diretto contro persone o proprieta' per fini
intimidatori o coercitivi nei confronti di un governo, una popolazione o
parte di essa". Sulla base di questa definizione numerose iniziative
statunitensi, che hanno suscitato e suscitano l'indignazione di tanti
cittadini americani, vanno certamente considerate atti di terrorismo.
Basti qui ricordare le armi chimiche, come il napalm, usate, per ammissione
del vicesegretario alla Difesa dell'epoca, Cyrus Vance, dagli Stati Uniti in
Vietnam; o il genocidio degli indios discendenti dei maya in Guatemala
perpetrato dagli squadroni della morte, con un coinvolgimento cosi' scoperto
della Cia, l'agenzia americana di spionaggio, da costringere il presidente
Clinton a precipitarsi nel 1999 a Citta' del Guatemala per chiedere scusa a
quel popolo.
Per non parlare degli attentati, torture, colpi di stato effettuati da
uomini di vari Paesi addestrati a tal fine da un'apposita scuola militare
che ha sede in Georgia, la Scuola delle Americhe. Quando, nel 1996, il
Pentagono fu costretto a rendere pubblici alcuni dei manuali di
addestramento utilizzati in quella scuola, il "New York Times" scrisse:
"Tutti gli americani ora possono leggere alcune delle malsane lezioni che
l'esercito degli Stati Uniti ha impartito a ufficiali di polizia e militari
degli eserciti latinoamericani".
E almeno in un caso, quello del Nicaragua, la natura terroristica di una
certa politica estera americana e' stata ufficialmente riconosciuta. Contro
l'amministrazione Reagan, che con le sue violenze aveva provocato 29.000
morti, il Nicaragua propose infatti appello alla Corte internazionale di
giustizia dell'Aja, che nel 1986 ingiunse agli Stati Uniti di porre fine
alla loro politica criminale e di pagare i danni gia' arrecati. Poiche'
Reagan rifiuto' di riconoscere la giurisdizione della Corte, il Nicaragua
chiese all'Onu di approvare una risoluzione che obbligasse tutti gli stati a
rispettare il diritto internazionale, ma in Consiglio di sicurezza gli Usa
posero il veto a tale risoluzione e non pagarono alcun prezzo per i crimini
per cui erano stati condannati.
Solo un cenno, infine, al gusto per i bombardamenti a cui le diverse
amministrazioni americane, non solo repubblicane ma anche democratiche,
sembra non riescano a sottrarsi. I bombardamenti aerei, dalle bombe atomiche
su Hiroshima e Nagasaki a quelle all'uranio impoverito nella ex-Jugoslavia,
in Afghanistan e in Iraq, cosa sono se non azioni terroristiche? A meno di
non voler considerare terrorista solo chi usa le bombe ma non possiede aerei
per lanciarle.
Che abbiano ragione coloro che considerano gli Stati Uniti non i custodi del
diritto internazionale ma uno dei principali stati-canaglia? Come definire,
in effetti, la politica di un Paese che manda alla presidenza uomini che
hanno autorizzato o sono disposti ad autorizzare azioni terroristiche su
vasta scala? "Negli Stati Uniti non potremmo considerare adatto alla
presidenza un uomo che abbia lanciato una bomba in un ristorante affollato,
ma siamo lieti di eleggere un uomo che in passato ha lanciato bombe
distruttive non solo contro un ristorante ma anche contro tutti gli edifici
intorno", osservava qualche anno fa con sgomento un politologo americano.
Paradosso che meriterebbe un'attenta riflessione anche da parte dei
politologi europei.

10. INCONTRI. MASSIMILIANO PILATI: IL 18 OTTOBRE A BOLOGNA UN INCONTRO
LILLIPUZIANO
[Riportiamo ampi stralci da un comunicato diffuso da Massimiliano Pilati
(per contatti: massi.pilati at lillinet.org). Massimiliano Pilati fa parte del
comitato di coordinamento del Movimento Nonviolento; e' impegnato nel nodo
trentino della Rete di Lilliput ed e' referente nazionale del gruppo di
lavoro tematico "nonviolenza e conflitti" della Rete di Lilliput; fa parte
del coordinamento nazionale della campagna "Pace da tutti i balconi".
Condividiamo l'opinione che sarebbe assai opportuno che la Rete Lilliput nel
suo insieme - dismettendo finalmente i toni grottescamente trionfalistici e
solipsistici cui talora taluni suoi esponenti si abbandonano, e le non rare
condotte discutibili che hanno favorito confusioni ed errori non lievi -
avviasse una piu' profonda e rigorosa riflessione sulla nonviolenza, che
pure alla sua fondazione aveva dichiarato di porre a base del suo modo di
essere e di agire; a tal fine la riflessione e l'attivita' del gruppo di
lavoro tematico "Nonviolenza e conflitti" puo' essere di grande utilita', se
ovviamente sapra' costantemente evitare ed energicamente contrastare
atteggiamenti goliardici ed ambigui, faciloneria e subalternita', una
visione debole ed annacquata della nonviolenza (che a quel punto nonviolenza
non e' piu', ma una ridicola e ignobile caricatura di essa); limiti che ci
sembra abbiano purtroppo opacizzato non poco il dibattito e l'azione di gran
parte del movimento per la pace e la giustizia]
Care amiche e cari amici delle associazioni pacifiste e nonviolente,
lillipuziane e non, vi scrivo per invitarvi caldamente a partecipare al
prossimo incontro del Gruppo di lavoro tematico "Nonviolenza e conflitti"
della Rete di Lilliput che si terra' a Bologna presso il Centro Poggeschi,
in Via Guerrazzi 14, il 18 ottobre 2003 dalle ore 10 alle 18.
Ritengo questo incontro importante perche' potrebbe consentirci di impostare
assieme il programma di lavori per l'autunno-inverno 2003 e soprattutto per
il prossimo anno. A fine novembre ci sara' l'assemblea programmatica della
rete ed e' fondamentale arrivarci con le idee ben chiare, e, magari, con
poche proposte, ma largamente condivise e che abbiano quindi alle spalle chi
ci possa lavorare.
Ci siamo accorti tutti che le nostre iniziative possono funzionare solo se
largamente condivise dai nodi e dalle associazioni (che di Lilliput sono il
motore trainante). Purtroppo a volte accade che le singole associazioni
programmino il loro lavoro autonomamente e che l'impegno lillipuziano sia
vissuto come un'aggiunta, come un "fare qualcosa in piu'". Credo che se
riuscissimo, ovviamente mantenendo le autonomie e le singole tipicita' di
ogni singola associazione, a coordinarci maggiormente e magari a
concentrarci veramente su poche iniziative e campagne condivise,  potremmo
riuscire ad avere ottimi risultati.
Il Gruppo di lavoro tematico "Nonviolenza e conflitti" si e' formato
nell'inverno del 2001 e da allora ritengo sia stato molto utile e un
importante  strumento di crescita e di lavoro per la rete tutta; sappiamo
bene che ci sono grossi limiti e sappiamo anche che i carichi di lavoro
interni andrebbero distribuiti meglio, ma forse, assieme, con un maggior
apporto umano, culturale, di competenza e di energie delle associazioni e
dei nodi si potrebbe dare alla rete uno splendido strumento...
Durante il 2002 e il 2003 siamo stati attivissimi per contrastare le guerre,
per costruire stili di vita nonviolenti, per attivare, con i Gruppi di
azione nonviolenta, la nostra nonviolenza...
Ci siamo detti che la Rete Lilliput deve riuscire ad essere sempre piu'
propositiva contro le politiche guerrafondaie... dobbiamo riuscire a
costruire una vera e propria politica permanente di azione nonviolenta
contro le economie di guerra.

11. MEMORIA. ENRICO MORGANTI: UN RICORDO DI BEPI TOMAI
[Ringraziamo Enrico Morganti (per contatti: pov1934 at iperbole.bologna.it) per
questo ricordo.
Enrico Morganti e' presidente del Centro servizi volontariato bolognese.
Bepi Tomai, costruttore di pace, educatore di educatori, persona serena e
gentile, appassionata e benigna, e' stato direttore generale del Formez. Tra
le sue opere: Il volontariato. Istruzioni per l'uso, Feltrinelli, Milano
1994]
Avete fatto bene a ricordare Bepi Tomai. Abbiamo lavorato insieme nell'Enaip
(Ente nazionale Acli istruzione professionale) per molti anni.
Lo ricordo come una persona competente, razionale, con il sorriso sulle
labbra, ed una sana vena di ironia. Un collega che ti arricchisce.
Il sottoscritto ed Antonio Picchi (all'epoca membro della presidenza
nazionale delle Acli) lo ricordiamo con affetto e stima.

12. ESPERIENZE. LUCA SALVI: UN MEDICO IN AFRICA
[Ringraziamo Luca Salvi (per contatti: lukesalvi at libero.it) per questo
intervento. Luca Salvi fa parte del gruppo di iniziativa territoriale della
Banca Etica a Verona; e' impegnato in iniziative per la pace, la giustizia,
i diritti umani]
La tragica morte di Annalena Tonelli mi offre lo spunto per ricordare un
altro eroico, silenzioso volontario, che da quasi trent'anni opera come
medico in Africa, il dottor Carlo Spagnolli.
Carlo opera in Zimbabwe, uno dei paesi un tempo piu' ricchi e fertili
dell'Africa e che adesso e' decimato dalla piaga dell'aids, con il 40% di
sieropositivi e oltre un milioni di bambini resi orfani da questa malattia.
Pressoche' da solo, dirige un ospedale e ha dato vita a scuole
professionali, un asilo e un centro di accoglienza per questi orfani,
salvando migliaia di vite in tutti questi anni e gettando le basi per un
futuro migliore. Attualmente e' in prima linea in un progetto di cura
all'aids mediante farmaci generici acquistati in India. Tutto questo senza
chiedere un soldo al governo italiano, ma aiutato solamente dalla Fondazione
"Amici del senatore Spagnolli" (www.assamicispagnolli.org) e dalla carita'
di tanti amici che lo conoscono e lo stimano.
Carlo ci chiede di ricordare il sacrificio di Annalena aiutando e stando
vicini, sia materialmente che moralmente, a tutti quei volontari che, spinti
solamente dall'amore per il prossimo e dalla rabbia contro le ingiustizie,
rischiano e offrono la loro vita per il riscatto dell'Africa. Quanti
sprechi, quante cose inutili riempiono il vuoto delle nostre vite, e quanta
gioia, quanta vita, nonostante tutto, ho visto negli occhi dei bambini del
dottor Spagnolli. Pensiamoci qualche volta, ricordiamoci dell'Africa, culla
dell'umanita', e dei volontari che offrono la loro vita per il riscatto
dell'Africa. Con la loro opera essi riscattano anche noi.

13. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

14. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti, la e-mail e': azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: lucben at libero.it;
angelaebeppe at libero.it; mir at peacelink.it, sudest at iol.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it. Per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Per non ricevere piu' questo notiziario e' sufficiente inviare un messaggio
con richiesta di rimozione a: nbawac at tin.it

Numero 703 del 14 ottobre 2003