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La nonviolenza e' in cammino. 687
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 687
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Sat, 27 Sep 2003 17:33:31 +0200
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 687 del 28 settembre 2003 Sommario di questo numero: 1. In memoria di Franco Modigliani 2. Edward Said: una finestra sul mondo 3. Nanni Salio: quale Europa per la pace? (sulla proposta di Lidia Menapace) 4. Lidia Menapace: far camminare l'idea 5. Maria G. Di Rienzo: con chi parliamo oggi? alcune tipologie 6. Stefania Giorgi: sotto la giacca 7. Lidia Menapace: occorre recidere le radici culturali della violenza 8. Unip: undicesimo corso internazionale su "La globalizzazione della violenza e l'identificazione di alternative nonviolente" 9. La "Carta" del Movimento Nonviolento 10. Per saperne di piu' 1. LUTTI. IN MEMORIA DI FRANCO MODIGLIANI Ci mancheranno le sue rampogne, ci manchera' la sua generosita', resta - grande, immensa - la sua lezione di vita e di pensiero. Non era solo un grande economista, con le cui proposte contingenti si poteva anche essere in disaccordo (e noi piu' volte lo siamo stati) ma la cui dottrina e la cui dirittura erano indiscutibili; non era solo un intellettuale che sapeva pensare con chiarezza e parlare con chiarezza, anche in faccia ai potenti e contro di essi. Perseguitato dal fascismo, uomo ad un tempo del vecchio e del nuovo mondo, premio Nobel, erede e figura di un'umanita' migliore, piu' cosciente, piu' critica, piu' solidale. Fermo oppositore del liberismo che tutto divora e travolge; fermo oppositore del totaliarismo che tutto riduce a bolo e deiezione; fermo oppostore della cialtronaggine che degrada e infine annienta le istituzioni democratiche e la civile convivenza. Non era solo un grande economista, era un uomo onesto e valoroso. 2. MAESTRI. EDWARD SAID: UNA FINESTRA SUL MONDO [Dal sito della pregevole rivista "Internazionale" (www.internazionale.it) riprendiamo questo testo scritto recentemente da Edward Said come nuova introduzione al suo classico libro Orientalismo (e che e' stato pubblicato come articolo su "Internazionale" n. 503 del 28 agosto 2003). Edward Said, prestigioso intellettuale democratico palestinese, uno dei piu' grandi umanisti del secondo Novecento, era nato a Gerusalemme nel 1935, docente di letteratura comparate alla Columbia University di New York, a New York e' deceduto il 25 settembre 2003. Autore di molti libri, tradotti in 26 lingue, tra le opere di Edward W. Said segnaliamo: Orientalismo, Bollati Boringhieri, Torino, poi Feltrinelli, Milano; La questione palestinese, Gamberetti, Roma; Cultura e imperialismo, Gamberetti, Roma; Tra guerra e pace, e Dire la verita', ambedue presso Feltrinelli, Milano; cfr. anche le raccolte di articoli La convivenza necessaria, Indice internazionale, Roma; Fine del processo di pace, Feltrinelli, Milano; e' stata recentemente pubblicata in italiano la sua autobiografia, Sempre nel posto sbagliato, Feltrinelli, Milano] Nove anni fa, nella primavera del 1994, ho scritto una postfazione a Orientalismo in cui tentavo di chiarire quello che pensavo di aver detto e non detto nel mio libro. In quella postfazione sottolineavo non soltanto i molti dibattiti che si sono aperti a partire dal 1978, anno della prima edizione del saggio, ma anche gli errori d'interpretazione sempre piu' frequenti a cui si prestava quell'opera sulle rappresentazioni correnti dell'"Oriente". Il fatto che io oggi reagisca a queste interpretazioni con piu' ironia che irritazione rivela chiaramente fino a che punto sto cedendo allíincalzare dell'eta'. La recente scomparsa di due miei grandi mentori intellettuali, politici e personali - gli scrittori e militanti Eqbal Ahmad e Ibrahim Abu-Lughod - ha suscitato in me tristezza e senso di perdita, ma anche rassegnazione e una certa ostinata volonta' di andare avanti. Nel mio libro di memorie Sempre nel posto sbagliato. Autobiografia (1999) descrivevo i mondi strani e contraddittori in cui sono cresciuto, e presentavo ai miei lettori e a me stesso una descrizione particolareggiata degli ambienti della Palestina, dell'Egitto e del Libano che hanno inciso sulla mia formazione. Ma quella era una descrizione molto personale, che si fermava prima degli anni del mio impegno politico, cominciato dopo la guerra arabo-israeliana del 1967. Orientalismo e' un libro molto legato alla dinamica tumultuosa della storia contemporanea. Nelle sue pagine sostengo che tanto il termine Oriente quanto il concetto di Occidente non hanno alcuna consistenza ontologica: entrambi sono opere dell'uomo, in parte come autoaffermazione, in parte come identificazione dell'Altro. Queste grandi finzioni si prestano facilmente alla manipolazione e all'organizzazione delle passioni collettive. Questo non e' mai stato piu' evidente di ora, quando la mobilitazione della paura, dell'odio, del disgusto e dei rinascenti orgoglio e arroganza - sentimenti che per la maggior parte hanno a che fare con l'islam e gli arabi da un lato, e "noi" occidentali dall'altro - sono imprese su larga scala. La prima pagina di Orientalismo si apre con una descrizione della guerra civile libanese. Quella guerra termino' nel 1990, ma le violenze e gli orrendi spargimenti di sangue proseguono tuttora. Abbiamo assistito al fallimento del processo di pace di Oslo, allo scoppio della seconda intifada e alle spaventose sofferenze inflitte ai palestinesi dalla nuova invasione della Cisgiordania e di Gaza. Ha fatto la sua comparsa il fenomeno degli attentatori suicidi, con tutte le sue atroci manifestazioni, nessuna delle quali naturalmente e' piu' ripugnante e apocalittica degli eventi dell'11 settembre 2001 con le loro conseguenze, le guerre contro l'Afghanistan e l'Iraq. Mentre scrivo queste righe, prosegue l'occupazione illegale dell'Iraq da parte della Gran Bretagna e degli Stati Uniti, le cui conseguenze sono autenticamente preoccupanti. Tutto cio' fa parte di quello che viene definito uno scontro fra civilta' implacabile, irrimediabile, senza fine. Io invece non lo credo. * Il potere bruto Vorrei poter affermare che negli Stati Uniti la comprensione generale del Medio Oriente, degli arabi e dell'islam e' migliorata, ma purtroppo non e' cosi'. Per diverse ragioni in Europa la situazione sembra migliore. Negli Stati Uniti l'irrigidimento delle posizioni, la morsa sempre piu' stretta delle generalizzazioni svilenti e dei cliche' trionfalistici, il dominio del potere bruto alleato con il disprezzo semplicistico per i dissidenti e gli "altri" ha trovato un degno correlativo nel saccheggio e nella distruzione delle biblioteche e dei musei iracheni. I governanti americani e i loro lacche' intellettuali sembrano incapaci di capire che la storia non si puo' cancellare come una lavagna per permettere a "noi" di scrivere il nostro futuro, imporre le nostre forme di vita e pretendere che quei popoli inferiori le seguano. E' abbastanza comune, a Washington e non solo, ascoltare importanti esponenti politici che parlano di ridisegnare la carta geografica del Medio Oriente, come se antiche societa' e una miriade di popoli si potessero rimescolare come noccioline in un barattolo. Ma questo e' accaduto spesso con l'"Oriente", concetto semi-mitico che dopo l'invasione napoleonica dell'Egitto alla fine del diciottesimo secolo e' stato fatto e rifatto innumerevoli volte dal potere che ha agito attraverso una forma di sapere, costruita appositamente, per affermare che questa e' la natura dell'Oriente e che dobbiamo affrontarla di conseguenza. In questo processo gli innumerevoli sedimenti della storia - una varieta' vertiginosa di popoli, lingue, esperienze e culture - vengono accantonati o ignorati, mandati al macero insieme ai tesori archeologici ridotti in frammenti e portati via dalle biblioteche e dai musei di Baghdad. La mia tesi e' che la storia e' fatta da uomini e donne, e puo' essere disfatta e riscritta, sempre con omissioni e silenzi, sempre con forme imposte e distorsioni tollerate, in modo che il "nostro" est, il "nostro" Oriente diventi una cosa "nostra" che possiamo possedere e dirigere a piacimento. Nutro grande considerazione per la forza e il talento che i popoli di quella regione mostrano nel continuare a lottare per la loro idea di cio' che sono e vogliono essere. L'attacco alle societa' arabe e musulmane contemporanee per la loro arretratezza, per la mancanza di democrazia e per la negazione dei diritti delle donne e' stato talmente massiccio e aggressivo che abbiamo dimenticato una cosa semplice: i concetti di modernita', illuminismo e democrazia non sono cosi' ovvi e condivisi. La disinvoltura sbalorditiva di certi giornalisti, i quali parlano in nome della politica estera senza avere la minima conoscenza della lingua realmente parlata dalla gente, ha creato dal nulla un paesaggio desertico su cui la potenza americana puo' costruire un finto modello di "democrazia" da libero mercato. Ma c'e' una differenza fra quella conoscenza di altri popoli e altri tempi che scaturisce dalla comprensione, dall'empatia, da uno studio e un'analisi attenti e condotti per amor di ricerca, e l'altra conoscenza, che s'inscrive in una campagna generale di autoaffermazione, belligeranza e guerra aperta. Indubbiamente, una delle catastrofi intellettuali della storia e' il fatto che un manipolo di politici americani non eletti abbia orchestrato una guerra imperialistica e l'abbia mossa contro una sconquassata dittatura da terzo mondo per motivi prettamente ideologici, legati al dominio del mondo, al controllo sulla sicurezza del pianeta e delle sue scarse risorse, ma mascherata nelle sue vere intenzioni, sollecitata e preparata da certi orientalisti che hanno tradito la propria vocazione di studiosi. Le persone che hanno piu' influito sul Pentagono e sul Consiglio per la sicurezza nazionale dell'amministrazione Bush sono stati personaggi come Bernard Lewis e Fouad Ajami, i due esperti del mondo arabo e islamico che hanno aiutato i falchi americani a pensare fenomeni ridicoli come la "mentalita' araba" e l'ormai secolare declino dell'islam, che soltanto la potenza americana, secondo loro, puo' arrestare. Oggi le librerie statunitensi sono piene di mediocri libercoli dai titoli allarmistici che parlano di islam e terrorismo, di minaccia araba e di pericolo musulmano, scritti da polemisti che fanno finta di avere una conoscenza mutuata da esperti che si spacciano per profondi conoscitori di quei bizzarri popoli orientali. La Cnn e la Fox tv, la miriade di commentatori evangelici e di destra ospitati da programmi radiofonici, innumerevoli tabloid e perfino riviste mediocri, hanno riciclato le stesse invenzioni non verificabili e le stesse grossolane generalizzazioni per aizzare l'"America" contro il demone straniero. * Il nocciolo del dogma La guerra contro l'Iraq non avrebbe avuto luogo se non fosse stata diffusa in modo organizzato l'idea che quelli laggiu' non sono come "noi" e non condividono i "nostri" valori: insomma, senza il nocciolo stesso del dogma tradizionale dell'orientalismo. I consiglieri americani del Pentagono e della Casa Bianca usano gli stessi cliche', gli stessi stereotipi denigratori, le stesse giustificazioni del potere e della violenza (in fin dei conti, dice il ritornello, l'unica cosa che quella gente capisce e' il linguaggio della forza) che usavano gli studiosi reclutati dai conquistatori olandesi della Malesia e dell'Indonesia, dalle armate britanniche in India, in Mesopotamia, in Egitto e in Africa occidentale, dagli eserciti francesi in Indocina e in Nordafrica. Adesso, in Iraq, queste persone sono state affiancate da una schiera di ditte appaltatrici private e di zelanti imprenditori cui verra' affidato di tutto, dalla redazione dei libri di testo e della costituzione, alla riorganizzazione della vita politica dell'Iraq e alla privatizzazione della sua industria petrolifera. Da sempre, nei discorsi ufficiali, ogni impero dichiara di non essere come gli altri, di nascere in condizioni particolari e di avere una missione: illuminare, civilizzare, portare ordine e democrazia. E da sempre sostiene di usare la forza soltanto come ultimo rimedio. Ma ancor piu' triste e' vedere che c'e' sempre un coro di volenterosi intellettuali pronti a presentare l'impero sotto una luce benevola o altruistica con parole tranquillizzanti. Venticinque anni dopo la sua prima edizione, Orientalismo torna a sollevare la questione se l'imperialismo moderno sia mai finito, o se invece sia proseguito in Oriente dopo l'ingresso di Napoleone in Egitto due secoli fa. Arabi e musulmani si sono sentiti dire che fare le vittime e lagnarsi incessantemente delle depredazioni dell'impero non e' che un modo per sottrarsi alle responsabilita' del presente. "Avete sbagliato, avete fallito", dice loro l'orientalista moderno. Sulla stessa linea si colloca il contributo letterario di V. S. Naipaul, il quale descrive le vittime dell'impero intente a lamentarsi mentre il loro paese va in malora. Che superficialita' nel valutare l'intrusione imperiale! E che scarso desiderio di tenere conto dell'interminabile successione di anni durante i quali l'impero continua a pesare sulla vita dei palestinesi, tanto per fare un esempio, oppure dei congolesi, degli algerini o degli iracheni. Si pensi, invece, alla sequenza che ha inizio con Napoleone, continua con l'ascesa degli studi orientalistici e la conquista del Nordafrica, passa attraverso analoghe imprese in Vietnam, in Egitto, in Palestina e poi, per tutto il ventesimo secolo, prosegue nella lotta per il petrolio e il controllo strategico sul Golfo, l'Iraq, la Siria, la Palestina e l'Afghanistan. Si pensi inoltre all'ascesa dei nazionalismi anticoloniali per il breve periodo dell'indipendentismo liberale, all'era dei colpi di mano militari, delle insurrezioni, delle guerre civili, del fanatismo religioso, della lotta irrazionale e della brutalita' senza mediazioni nei confronti dell'ennesimo branco di "indigeni". Ognuna di queste epoche e di queste fasi produce una sua conoscenza distorta dell'altro; ognuna da' luogo a immagini riduttive, a polemiche litigiose. In Orientalismo l'idea era usare la critica umanistica per ampliare il terreno dello scontro, per introdurre una sequenza di pensiero e di analisi piu' lunga, che potesse prendere il posto delle brevi raffiche di furia polemica in cui siamo ingabbiati, una furia che paralizza il pensiero. Quel che ho cercato di fare l'ho chiamato "umanesimo", termine che continuo ostinatamente a usare malgrado l'atteggiamento sprezzante con cui lo liquidano i sofisticati critici postmoderni. Per "umanesimo" intendo innanzitutto il tentativo di sciogliere quelle che Blake defini' poeticamente "le pastoie forgiate dalla mente", cosicche' si possa usare la propria mente in modo storico e razionale allo scopo di raggiungere una comprensione riflessiva. Aggiungo che l'umanesimo affonda le radici nel senso di comunanza con altri interpreti e altre societa' e periodi, tanto che a rigor di termini l'umanista non puo' esistere nell'isolamento. * Il contesto della storia E' dunque corretto affermare che ogni sfera e' legata all'altra e che nulla di quanto accade nel nostro mondo e' mai isolato e immune da influssi esterni. Dobbiamo parlare dei problemi dell'ingiustizia e della sofferenza collocandoli nel piu' ampio contesto della storia, della cultura e della realta' socioeconomica. Ho trascorso gran parte della mia vita, in questi ultimi trentacinque anni, a sostenere il diritto del popolo palestinese all'autodeterminazione nazionale, ma ho sempre tentato di farlo accordando piena attenzione alla realta' del popolo ebraico, delle persecuzioni e del genocidio che ha subito. La cosa importante e' che la lotta per l'uguaglianza in Palestina/Israele deve tendere a una finalita' umana, cioe' la coesistenza, non l'ulteriore repressione e negazione. In quanto umanista e studioso di letteratura, sono abbastanza anziano da aver ricevuto la mia formazione quarant'anni fa nel campo della letteratura comparata, le cui idee guida risalgono ad autori attivi in Germania fra la fine del diciottesimo secolo e l'inizio del diciannovesimo. Ma non si deve dimenticare lo straordinario contributo creativo di Giambattista Vico, il filosofo e filologo napoletano le cui idee anticiparono quelle di pensatori tedeschi come Herder e Wolf, seguiti poi da Goethe, Humboldt, Dilthey, Nietzsche, Gadamer e infine dai grandi filologi romanzi del ventesimo secolo, Erich Auerbach, Leo Spitzer ed Ernst Robert Curtius. Ai giovani dell'attuale generazione, l'idea stessa di filologia suggerisce qualcosa di insopportabilmente antiquato e stantio. In realta' la filologia e' la piu' fondamentale e creativa delle arti interpretative. Ai miei occhi e' esemplificata nel modo piu' ammirevole dall'interesse che Goethe aveva in generale per l'islam e in particolare per Hafiz, il poeta sufico persiano del quattordicesimo secolo. Una passione che lo condusse a comporre il West-oestlicher Diwan (Il Divano occidentale-orientale) e che incise sulle sue riflessioni sulla Weltliteratur (la letteratura mondiale). Goethe sosteneva che fosse possibile studiare tutte le letterature del mondo come un insieme sinfonico, leggibile sul piano teorico rispettando l'individualita' di ciascuna opera senza perdere di vista l'insieme. E' assai ironico dover constatare che, ora che questo nostro mondo globalizzato cancella gradualmente le distanze, stiamo forse avvicinandoci proprio a quella standardizzazione e a quell'uniformita' che Goethe cerco' di evitare con il suo pensiero. E' quanto affermava Erich Auerbach in un saggio pubblicato nel 1951 con il titolo Philologie der Weltliteratur. La sua grande opera Mimesis, pubblicata a Berna nel 1946 ma scritta durante la guerra, quando Auerbach era in esilio a Istanbul dove insegnava lingue romanze, doveva essere proprio una testimonianza della molteplicita' e concretezza della realta' rappresentata nella letteratura occidentale da Omero a Virginia Woolf. Tuttavia, a leggere il saggio del 1951, si avverte chiaramente che per il suo autore Mimesis era una vera e propria elegia scritta in onore di un'epoca in cui gli studiosi sapevano interpretare i testi in modo filologico, concreto, con sensibilita' e intuito, usando l'erudizione e la loro eccellente padronanza di diverse lingue a sostegno di quella capacita' di comprensione cui Goethe si richiamava nella sua analisi della letteratura islamica. * La lettura filologica Una conoscenza delle lingue e della storia era necessaria ma non e' mai stata sufficiente, cosi' come la raccolta meccanica di fatti non avrebbe mai potuto costituire un metodo adeguato per cogliere il significato di un autore, poniamo, come Dante. Il requisito principale per quella lettura filologica che Auerbach e i suoi predecessori tentarono di mettere in pratica era infatti saper entrare in modo empatico, ma senza mai perdere la propria soggettivita', nella vita di un testo scritto, esaminandolo dal punto di vista del suo tempo e del suo autore. Dunque, anziche' accostarsi a tempi e culture diversi con senso di alienazione e di ostilita', la filologia applicata alla Weltliteratur richiedeva uno spirito profondamente umanistico da applicare con generosita' e ospitalita'. Solo cosi' la mente dell'interprete puo' fare posto dentro di se' a un Altro estraneo. Questa attivita' creativa, volta a far posto a opere estranee e distanti, e' l'aspetto piu' importante della missione dell'interprete. In Germania, inutile dirlo, l'avvento del nazionalsocialismo intervenne a delegittimare e distruggere tutto questo modo di pensare. Dopo la guerra, osserva Auerbach tristemente, la standardizzazione delle idee e la crescente specializzazione del sapere restrinsero gradualmente gli orizzonti di quel lavoro filologico investigativo e di quella ricerca incessante che egli aveva sostenuto. E il fatto ancor piu' deprimente e' che dopo la sua morte, avvenuta nel 1957, l'idea e la pratica della ricerca umanistica hanno perso respiro e centralita'. Anziche' leggere nel vero senso della parola, i nostri studenti sono spesso distratti dal sapere frammentario disponibile su internet e dai mass media. Ma c'e' di peggio: l'istruzione e' minacciata da ortodossie nazionalistiche e religiose spesso diffuse dai media, che puntano i riflettori in modo astorico e sensazionalistico sulle remote guerre elettroniche. Queste, mentre danno allo spettatore un senso di precisione chirurgica, in realta' oscurano le tremende sofferenze e devastazioni prodotte dalla guerra moderna. Nella loro demonizzazione di un nemico ignoto, etichettato come "terrorista" per mantenere l'opinione pubblica in stato di tensione rabbiosa, le immagini proposte dai mass media riscuotono un'attenzione eccessiva e si prestano a essere sfruttate in tempi di crisi e d'insicurezza come quelli del dopo 11 settembre. Come americano e come arabo, devo chiedere al mio lettore di non sottovalutare la visione del mondo semplificata che l'elite relativamente esigua di civili che lavora al Pentagono ha elaborato e proposto come politica americana verso l'intero mondo arabo e musulmano. Una visione in cui il terrorismo, la guerra preventiva e i cambiamenti unilaterali di regime, sostenuti dal bilancio militare piu' gonfiato della storia, sono i concetti chiave discussi incessantemente da organi d'informazione che si attribuiscono la funzione di produrre cosiddetti "esperti", i quali confermano la linea del governo. La riflessione, il dibattito, l'argomentazione razionale e i principi morali fondati sul concetto laico secondo cui gli esseri umani devono plasmare da soli la loro storia sono stati sostituiti da idee astratte che celebrano l'eccezionalita' americana e occidentale, sminuiscono l'importanza del contesto e guardano alle altre culture con disprezzo. Mi si obiettera' forse che stabilisco nessi troppo diretti fra interpretazione umanistica da una parte e politica estera dall'altra, e che una societa' tecnologica moderna, la quale oltre a un potere senza precedenti dispone di internet e degli aerei caccia F-16, deve essere comandata da temibili esperti tecnico-politici come Donald Rumsfeld e Richard Perle. Ma quel che si e' perso davvero e' il senso dello spessore e dell'interdipendenza della vita umana, che non si puo' ne' ridurre a una formuletta ne' liquidare come irrilevante. Questo e' solo un aspetto del dibattito globale. La situazione nei paesi arabi e musulmani non e' certo migliore. Anzi, come ha osservato Roula Khalaf, giornalista del quotidiano britannico "Financial Times", la regione e' scivolata in un facile antiamericanismo che denota scarsa comprensione di che cosa sia davvero la societa' statunitense. Poiche' i governi dei paesi arabi sono relativamente impotenti a influire sulla politica americana, usano le loro energie per reprimere e assoggettare i loro stessi popoli. Risultato? Risentimento, rabbia e vane imprecazioni che nulla fanno per rendere piu' aperte quelle societa' dove la concezione laica della storia e dello sviluppo umano e' stata scalzata dal fallimento e dalla frustrazione, ma anche da un islamismo fatto di apprendimento acritico dei testi e di cancellazione di forme di sapere secolare, considerate "altre" e concorrenziali. La graduale scomparsa della luminosa tradizione dell'ijtihad islamico, cioe' del processo di elaborazione delle norme islamiche a partire dal Corano, e' uno dei grandi disastri culturali del nostro tempo. Il risultato e' che ogni pensiero critico e ogni tentativo individuale di affrontare seriamente i problemi del mondo moderno sono semplicemente tramontati. * Identita' collettive Con cio' non intendo certo dire che il mondo culturale sia semplicemente regredito da una parte a un orientalismo bellicoso, e dall'altra a un rifiuto indiscriminato. Il vertice mondiale sullo sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite tenuto l'anno scorso a Johannesburg, con tutti i suoi limiti ha pero' rivelato un vasto terreno di interessi globali comuni, il che denota come fatto positivo l'emergere di una nuova collettivita' e conferisce nuova urgenza al concetto spesso banalizzato di mondo "unito". Ma tuttavia dobbiamo ammettere che nessuno puo' davvero conoscere l'unita' straordinariamente complessa del nostro mondo globalizzato. I tremendi conflitti che sospingono le persone entro categorie falsamente unificanti come "America", "Occidente" o "islam" e che inventano identita' collettive a uso e consumo di vaste masse di individui in realta' molto diversi, vanno contrastati. Per farlo disponiamo ancora delle capacita' interpretative razionali che formano il retaggio dell'educazione umanistica, intese non come un pietismo sentimentale che ci imponga di tornare ai valori tradizionali o ai classici, bensi' come pratica attiva di un discorso razionale, mondano e secolare. Il mondo secolare e' il mondo della storia cosi' come la fanno gli esseri umani. Il pensiero critico non si assoggetta agli ordini di unirsi ai ranghi di chi marcia contro questo o quel nemico riconosciuto. Anziche' a un artificioso scontro di civilta', dobbiamo dedicare la nostra attenzione al lento e paziente lavoro comune delle culture che di volta in volta si sovrappongono, prendono in prestito le une dalle altre, e coesistono. Ma per raggiungere questa visione piu' ampia occorre tempo, occorre un'indagine paziente e scettica, sorretta dalla fede in comunita' di interpretazione ben difficili da tener vive in un mondo che esige azioni e reazioni istantanee. La concezione umanistica si basa sul concetto di ruolo attivo del soggetto umano e della sua intuizione, anziche' su luoghi comuni e autorita' imposte dall'esterno. I testi vanno letti come prodotti che sono nati e continuano a vivere in mille modi che io ho definito mondani. Ma cio' non esclude affatto il potere. Al contrario, ho cercato di mostrare come il potere s'insinui persino nelle discipline piu' recondite e vi s'intrecci. L'ultima cosa, ma non in ordine d'importanza, che vorrei dire e' che l'umanesimo costituisce l'unica - oserei dire anche la massima - forma di resistenza contro le pratiche inumane e le ingiustizie che deturpano la storia dell'umanita'. 3. EDITORIALE. NANNI SALIO: QUALE EUROPA PER LA PACE? (SULLA PROPOSTA DI LIDIA MENAPACE) [Ringraziamo Nanni Salio (per contatti: regis at arpnet.it) per questo intervento. Nanni Salio, torinese, segretario dell'Ipri (Italian Peace Research Institute), si occupa da diversi anni di ricerca, educazione e azione per la pace, ed e' tra le voci piu' autorevoli della nonviolenza in Italia. Opere di Giovanni Salio: Difesa armata o difesa popolare nonviolenta?, Movimento Nonviolento, Perugia; Scienza e guerra (con Antonino Drago), Edizioni Gruppo Abele, Torino 1982; Ipri, Se vuoi la pace educa alla pace, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1983; Le centrali nucleari e la bomba, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1984; Ipri, I movimenti per la pace, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1986-1989; Progetto di educazione alla pace, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1985-1991; Le guerre del Golfo, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1991; Il potere della nonviolenza, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1995; Elementi di economia nonviolenta, Movimento Nonviolento, Verona 2001. Per contatti: Centro Studi "Domenico Sereno Regis", via Garibaldi 13, 10122 Torino, tel. 011532824, fax: 0115158000, e-mail: regis at arpnet.it, sito: www.arpnet.it/regis] Per tentare di influire sul futuro assetto politico-militare-costituzionale dell'Unione Europea, dobbiamo essere consapevoli che, al di la' delle nostre dichiarazioni di principio e dei nostri desideri, ci troviamo in una situazione di minoranza, indifferenza e pertanto di parziale debolezza. Per poterci avvicinare a un'Unione Europea come quella descritta da Lidia Menapace (neutrale, disarmata, nonviolenta e, in piu', sostenibile e solidale) sara' probabilmente necessario muoversi contemporaneamente in piu' direzioni. 1. Costruire dal basso un autentico movimento per la pace su scala europea (oltre che mondiale), capace di agire e di essere presente sulla scena politica con continuita', e non solo nelle situazioni di crisi. Prevenire e' piu' facile che intervenire. Riconciliare e' indispensabile per evitare che il ciclo perverso della violenza si autoalimenti. 2. Questo movimento dovra' operare su tutte le scale (micro, meso, macro) della vita relazionale per impedire non solo la guerra, ma ridurre ogni forma di violenza (diretta, strutturale, culturale). 3. Oltre agli obiettivi finali generali (neutralita', disarmo, nonviolenza, sostenibilita', solidarieta'), occorre individuare tappe e obiettivi intermedi, ragionevolmente raggiungibili, da proporre ai "perplessi e dubbiosi della nonviolenza". Tra questi obiettivi si puo' porre quello di un'Unione Europea che cominci a eliminare tutte le categorie di armi offensive (tra le quali primeggiano quelle di distruzione di massa, di cui proprio i paesi occidentali hanno il quasi monopolio) per realizzare una difesa autenticamente e soltanto difensiva. Insieme a questo obiettivo e' possibile indicarne un altro, complementare e in gran parte compatibile, nella costruzione di corpi civili europei di pace a carattere permanente, preparati, addestrati e finanziati a livello istituzionale. La realizzazione di questi obiettivi comportera' una graduale, ma continua, riconversione delle strutture militari (spesa militare, ricerca militare, addestramento, eserciti) in strutture civili, che dovra' essere pianificata indicando quote percentuali precise e vincolanti, da raggiungere nel corso di periodi prestabiliti, sino alla transizione totale. E' il famoso transarmo, che richiede la progettazione della transizione. Non esistono bacchette magiche, ma c'e' la possibilita' concreta di avviare un processo duraturo. 4. Impegnare l'Unione Europea nel processo di riconversione ecologica dell'economia dall'attuale modello di sviluppo energivoro, consumista e non sostenibile, a un modello a bassa impronta ecologica, realmente sostenibile, fondato sull'impiego sistematico di fonti energetiche rinnovabili, decentrate, democratiche. Porsi l'obiettivo di realizzare concretamente gli obiettivi degli accordi di Kyoto e' una tappa intermedia fondamentale, in vista di obiettivi piu' maturi e impegnativi. Sganciarsi dall'economia mortifera del petrolio e' diventato un imperativo per la sopravvivenza dell'intero pianeta. 5. Avviare progetti di cooperazione decentrata, basati sul rispetto delle culture altre e sulla diffusione di tecnologie intermedie e appropriate, con i poli emergenti regionali dell'Eurasia (India, Cina, Russia, Sudest asiatico) e con le aree piu' povere (Africa, America Latina) per consentire alla stragrande maggioranza dell'umanita' di non ripercorrere gli errori commessi dagli europei in materia di conflitti, guerre e sviluppo. 6. Lanciare l'idea di un'Unione Europea dei giovani, basata sul paradigma gioioso della semplicita' volontaria, che sappia aprire prospettive e sogni fondati sull'amore, sulla felicita', sull'allegria, la leggerezza, la musica, l'arte, le espressioni culturali nonviolente. 4. EDITORIALE. LIDIA MENAPACE: FAR CAMMINARE L'IDEA [Ringraziamo Lidia Menapace (per contatti: llidiamenapace at virgilio.it) per questo intervento. Lidia Menapace e' nata a Novara nel 1924, partecipa alla Resistenza, e' poi impegnata nel movimento cattolico, pubblica amministratrice, docente universitaria, fondatrice del "Manifesto"; e' tra le voci piu' alte e significative della cultura delle donne, dei movimenti della societa' civile, della nonviolenza in cammino. La maggior parte degli scritti e degli interventi di Lidia Menapace e' dispersa in quotidiani e riviste, atti di convegni, volumi di autori vari; tra i suoi libri cfr. (a cura di), Per un movimento politico di liberazione della donna, Bertani, Verona 1973; La Democrazia Cristiana, Mazzotta, Milano 1974; Economia politica della differenza sessuale, Felina, Roma 1987; (a cura di, ed in collaborazione con Chiara Ingrao), Ne' indifesa ne' in divisa, Sinistra indipendente, Roma 1988; Il papa chiede perdono: le donne glielo accorderanno?, Il dito e la luna, Milano 2000; Resiste', Il dito e la luna, Milano 2001] Ormai prendo parola quasi solo per ringraziare: credo che potremmo anche seguire le tracce inviate da Angela Dogliotti Marasso (che naturalmente ringrazio di cuore) e vedere che cosa possiamo avviare in proposito. Continuo a pensare che la proposta di neutralita' attiva ha il pregio di partire da una base di diritto internazionale (che ovviamente dipende dalle maggioranze), che significa appunto che: 1) chi decide la neutralita' rinuncia all'uso della guerra e a politiche aggressive; 2) ammette che la comunita' internazionale possa censurare i suoi comportamenti se in contrasto con la dichiarazione di neutralita'; 3) non consente che sul suo territorio siano insediate basi militari altrui e nega il passaggio a truppe e aerei sul suo territorio. Penso che per la dimensione territoriale, politica, economica e il peso culturale l'Europa neutrale potrebbe anche diventare un luogo che le Nazioni Unite potrebbero usare per situarvi proprie istituzioni come tribunali contro i crimini di guerra e contro l'umanita', corpi di polizia internazionale anche in funzione preventiva, magistratura per esaminare appunto i comportamenti aggressivi ecc. Ma intanto e' davvero necessario far camminare l'idea e tenere aperta la possibilita' che la prossima Costituzione europea non sia del tutto impermeabile a futuri emendamenti in senso neutralista: per ora il testo giscardiano non da' molte speranze e anche le dichiarazioni del Parlamento europeo che contengono numerose osservazioni, sul terreno militare non si discostano dal testo dei governi Nato inclusa. Comunque teniamoci per mano e avanti. 5. FORMAZIONE. MARIA G. DI RIENZO: CON CHI PARLIAMO OGGI? ALCUNE TIPOLOGIE [Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per questo testo. Maria G. Di Rienzo e' una delle principali collaboratrici di questo foglio; prestigiosa intellettuale femminista, saggista, giornalista, regista teatrale e commediografa, formatrice, ha svolto rilevanti ricerche storiche sulle donne italiane per conto del Dipartimento di Storia Economica dell'Universita' di Sidney (Australia); e' impegnata nel movimento delle donne, nella Rete di Lilliput, in esperienze di solidarieta' e in difesa dei diritti umani, per la pace e la nonviolenza] Il cittadino/la cittadina "qualsiasi" Ingenuo/a - Non ha ancora capito che i potentati economici e le elites del dominio fanno esclusivamente i propri interessi; e' radicato nella propria comunita' e generalmente si colloca o pensa in posizione "centrale" nel sistema sociale di appartenenza. Riconosce e accetta pero' valori largamente condivisi quali democrazia, liberta', giustizia. Puo' essere facilmente attratto dalla nonviolenza. Schierato/a - Mostra cieca obbedienza a coloro che identifica come detentori del potere. Ritiene che ogni mezzo sia lecito per proteggere il paese, la comunita', la famiglia, ecc. dagli "estremisti" o dagli "invasori" immigrati. Puo' usare gli stessi termini del cittadino "ingenuo" (democrazia, liberta', giustizia) con significati assai differenti. E' mia esperienza personale che individui del genere comincino a riflettere sul significato degli eventi se li si fa partire dalle proprie esperienze personali, accettando anche la loro tendenza a riferirsi ad un sistema soggettivo di costi/ricavi ("Che cosa ci guadagno", "Non sono mica fessa, se tutti rubano io cosa devo fare", "Ho fatto tanto per gli altri e adesso sono solo", ecc.). Non si spostano al primo contatto, ma se il primo contatto e' efficace, torneranno a cercarvi o comunque cominceranno a pensare a se stessi ed alle relazioni umane in modo diverso. * Il ribelle/la ribelle Si identifica come costantemente in piedi su una barricata. Come per lo "schierato", ogni mezzo gli/le va bene (ai suoi occhi, il nobile fine li giustifica), inclusa la violenza e la distruzione di beni, edifici, ecc. Agisce enfatizzando emozioni come la rabbia, la disperazione ed il senso di impotenza. Si oppone a regole organizzative, strutture di dialogo, codici per l'azione diretta nonviolenta: le cose si devono fare come vuole lui o lei, il cui personale bisogno di urlare, di spingere una linea di scudi antisommossa o di stare sotto la luce di un riflettore e' di gran lunga piu' importante di qualsiasi necessita' del "movimento" o del successo dell'azione. Ad eccezione degli scafati leader, che recitano la parte mentre hanno le loro brave protezioni politiche e cadono sempre in piedi, la forza attrattiva per gli altri/le altre sta nel vivere un'esistenza eccitante, "coraggiosa", rischiosa, da fieri paladini degli oppressi. E' difficile farsi ascoltare da costoro, poiche' sono molto legati a meccanismi di lealta' distorta: si percepiscono come un gruppo sotto pressione, costantemente assediato da nemici di tutti i generi, e sono percio' pronti a mentire, a negare l'evidenza dei fatti, ad assumersi responsabilita' che non hanno ("Io c'ero, non e' andata cosi'!" - questo, ad esempio, mi e' stato detto da una ragazza che non era stata presente ai fatti che si discutevano: la testimone oculare ero io...). Impossibile parlare loro mentre sono in gruppo: le dinamiche suddette e la presenza dei leader impediranno qualsiasi comunicazione onesta. E' possibile pero' ragionare con i singoli individui, e qui usate voi la vostra esperienza personale in apertura di discorso, utilizzando pero' i termini che lui/lei trova significanti nella propria scelta: ovvero descrivete quanto eccitante, coraggiosa, difficile e rischiosa, ma forte e serena ed efficace e' la vostra scelta di attivismo nonviolento. * Il riformatore/la riformatrice E' colui o colei che tenta di ottenere cambiamenti solo tramite i canali per cosi' dire "ufficiali": il voto, i procedimenti legali, i referendum. Spesso si identifica con un partito politico o ne fa parte, e puo' rivestire ruoli istituzionali (consigliere comunale, parlamentare, ecc.). Il suo impegno lo/la espone a parecchie frustrazioni, poiche' e' inserito giocoforza in una struttura gerarchica e patriarcale incline, al massimo, ad accettare piccole trasformazioni di facciata ("Ok, inseriamo un immigrato nella lista elettorale") piuttosto che un paradigma di cambiamento ("Invitiamo le organizzazioni dei migranti al tavolo decisionale per la lista elettorale ed il programma"). In piu', il rischio di cooptazione e' per il riformatore/la riformatrice molto alto, cosi' come il "richiamo della foresta" della struttura politica a cui appartiene: lui o lei puo' essere cioe' convinto/a ad abbandonare l'impegno per il cambiamento nel nome del bene del partito, o per la congiuntura politica in atto, o per salvaguardare le alleanze, ecc. Generalmente e' pero' qualcuno/a che vi ascoltera': forse all'inizio solo perche' siete un potenziale elettore o rappresentate un gruppo di potenziali elettori, ma riconoscera' i vostri valori, ne identifichera' alcuni come valori che anch'egli/ella sostiene e potrete facilmente tracciare linee d'azione comuni. * L'utopista Costui, o costei, ha ben chiara la dimensione personale del cambiamento (ha compiuto e compie nella sua vita scelte rigorose) ma e' completamente scollegato/a dal concetto di cambiamento sociale ed il suo approccio alla realta' e' spesso dogmatico. Nel presentarvi il suo stile di vita, ovviamente il migliore che esista, non riuscira' a nascondere una sorta di aristocratico disprezzo e stigmatizzera' come "inutili" azioni dirette o campagne. Dovete pero' tenere presente che questa persona ha fatto dell'impegno per il cambiamento, sia pure esclusivamente il proprio, l'asse centrale della propria esistenza: a partire da cio' che la/lo interessa potrete facilmente mostrare che egli/ella vivrebbe tali esperienze ancora piu' intensamente e felicemente se si creasse l'ambiente adatto a condividerle, e che ciascuno/a di noi puo' in questo fare la differenza. 6. RIFLESSIONE. STEFANIA GIORGI: SOTTO LA GIACCA [Dal quotidiano "Il manifesto" del 25 settembre 2003. Stefania Giorgi e' giornalista e saggista, da anni animatrice delle pagine cuturali del quotidiano "Il manifesto", ha scritto molti articoli, densi e illuminanti, su temi civili e morali, e in particolare di bioetica, di difesa intransigente della dignita' umana, quindi dal punto di vista del pensiero delle donne] Un immaginario maschile scomposto, caotico, isterico, volgare. E' quello che si e' squadernato ieri [il 24 settembre - ndr -] nell'aula del senato della nostra repubblica, con i rappresentanti piu' "anziani" del parlamento a berciare turpiloqui da caserma fascista alle parlamentari che protestavano contro l'approvazione (blindata) della legge (mostruosa) sulla procreazione assistita. Una legge inaccettabile e inapplicabile che discrimina, sanziona e vieta: la fecondazione eterologa, il ricorso alla procreazione assistita per i/le single e gay. Nel segno del primato del diritto a nascere del concepito. Un primato che mette in discussione il diritto della donna di e se essere madre e minaccia direttamente l'autodeterminazione in materia procreativa. "Non aprite quella porta", aveva tuonato Carlo Giovanardi nel 1999 durante la discussione alla camera su quel testo di legge dando la stura a dichiarazioni di voto e interventi che passavano schizofrenicamente da solenni richiami a principi morali ed etici per inesistenti famigliole fogazzariane alla messa in parola di un caos primigenio di incubi e di paure. Da inimagginabili filiazioni plurime al primato del biologico nel "nome del padre" scorsero all'epoca in quell'aula fiumi di sperma e accoppiamenti contronatura (di "incroci tra uomini e bestie" aveva parlato un parlamentare). Una selvaggia seduta di inconscio maschile - consultabile negli atti parlamentari - che metteva in scena misoginia e paura. Delle donne, del corpo delle donne, procreativamente cosi' potente da dover essere arginato a ogni costo. In primo luogo impugnando il diritto del concepito come un'arma tagliente e contundente rivolta contro di loro. Contro di noi. * Le parlamentari ieri sono entrate in aula e si sono tolte le giacche per mostrare le magliette che indossavano con la scritta "nessuna legge contro il corpo delle donne". E' a quel punto che gli argini si sono rotti e la misoginia piu' becera e berciante si e' fatta strada tra i banchi di Palazzo Madama. Certamente a causa di una pratica battagliera che bypassa commissioni e gruppi parlamentari, certamente per la trasversalita' della protesta che accomuna rappresentanti dell'opposizione e della coalizione di governo, molto per la frase stampata che non domanda mediazioni. Contro le "veterofemministe" ree di aver infranto le "regole" parlamentari e aver nominato il nocciolo del problema - l'asimmetria di uomini e donne nella procreazione - sono state scagliate con violenza parole pesantissime. Una triste replica di quello che i nostri legislatori troppo spesso dimostrano di pensare quando si discutono questioni che hanno a che fare con la sfera della sessualita' e della differenza sessuale, tra donne e uomini. Era accaduto durante il dibattito per la legge sull'interruzione volontaria della gravidanza e per quello sulla legge contro la violenza sessuale. E' accaduto di nuovo ieri. * "Richiudete quella porta", verrebbe da urlare di fronte alla violenza ingiuriosa scagliata contro deputate e senatrici. "Non siamo diversi, ma siamo come gli altri cittadini e come tali siamo tenuti a comportarci" ha commentato Pierferdinando Casini. Ma, viene inquietantemente da domandarsi, in quale altro luogo del nostro paese - scuola, mercato, quartiere, condominio, luogo di lavoro - sarebbe potuto accadere quello che e' accaduto ieri nel nostro parlamento? Eppure e' accaduto, proprio mentre, di la' dell'Oceano, chi e' alla guida del nostro paese e ci rappresenta all'estero invitava gli imprenditori americani a investire in Italia tirando fuori dal cappello l'ennesimo numero da "navigato" chansonnier. Un paese appetibile, depurato dai comunisti, paradisiaco per far soldi, persino morire (vista l'abolizione dell'imposta sulla successione), non prima - lascia intendere - di aver fatto sesso. Magari con le "bellissime segretarie" enumerate tra le attrattive del Belpaese. Di certo ieri Palazzo Madama e il New York Stock Exchange sono stati scambiati per uno spogliatoio maschile. Degli anni cinquanta. 7. RIFLESSIONE. LIDIA MENAPACE: OCCORRE RECIDERE LE RADICI CULTURALI DELLA VIOLENZA [Ringraziamo Lidia Menapace (per contatti: llidiamenapace at virgilio.it) anche per questo intervento] E ormai costume che dopo le piu' vergognose esternazioni di Bossi o un ministro o addirittura Berlusconi dichiari "Tranquilli, sta parlando ai suoi elettori"; anzi da ultimo il presidente del consiglio si e' spinto piu' avanti, soggiungendo che del resto Bossi e' il piu' fidato dei collaboratori e obbedisce sempre. Se per disgrazia fossi una elettrice di Bossi considererei tali parole fortemente razziste, come per l'appunto se l'elettorato di Bossi fosse per natura sciocco e potesse essere tenuto buono con parole prepotenti seguite da atti di sottomissione. Come cittadina della repubblica italiana che non ho nulla a che fare con Bossi o con Berlusconi, ma non puo' ne' vuole disinteressarsi di quel che fanno e dicono, osservo che spacciare tali volgarita' per "politica" non e' lecito: e' come sostenere che la doppiezza piu' greve e' una buona politica: invece avere un discorso per il popolo e uno per il palazzo e' cosa disgustosa. Ma - si dira' - "che te ne importa? e' cosa loro". Purtroppo non e' cosi': l'esempio dei potenti viene imitato dalle persone piu' fragili, inesperte e sprovvedute e la conseguenza per tutti e tutte e' che l'atmosfeta si inquina, le relazioni involgariscono, passano prepotenza, bugie, volgarita' (la bellezza delle segretarie vantata in incontri internazionali da Berlusconi! non sentivo piu' una espressione cosi' dalle barzellette sui "cumenda" milanesi del "Bertoldo"). * Qualche giorno fa e' successa una cosa molto importante subito uscita dal novero delle notizie sulle quali si torna, si discute, si emettono giudizi e si prendono decisioni. Infatti ormai i nostri telegiornali sono costituiti da fatti di cronaca nera, lo stillicidio dei marines uccisi, necrologi e meteo oltre all'onnipresente calcio. La notizia e' che un numero non irrilevante di piloti israeliani con ottimi stati di servizio, campagne, medaglie e glorie hanno scritto che si rifiutano di fare gli omicidi mirati di capi delle fazioni armate palestinesi perche in mezzo e' inevitabile che capitino dei civili. Coraggiosi, molto militari, non certo pacifisti dato che se potessero uccidere in modo mirato e sicuro pare che non si rifiuterebbero: ma comunque da lodare perche' cercano di praticare la disobbedienza verso ordini giudicati immorali: quello che dopo la Shoa' ebrei e non ebrei hanno imputato agli ufficiali nazi, colpevoli appunto di aver "obbedito a ordini inmorali" e non fu considerato ammissibile che si difendessero dicendo che appunto avevano obbedito a ordini. Il capo di stato maggiore dell'aeronautica israeliana ha giudicato severamente i suoi ufficiali e li fara' condannare perche' non hanno obbedito agli ordini. CIo' che mi augustia forse di piu' nella vicenda mediorientale e' che se ci si mette sulla strada della violenza, guerra, armi, risposta violenta, nessuno e' escluso dagli orrori, nemmeno chi li ha subiti. Che israeliani facciano rappresaglie, vogliano obbedienza cieca e assoluta, che i palestinesi si siano infilati nella seconda intifada sciaguratamente armata (e che dura da tre anni!), e' una spina, ma dimostra che se non si recidono le radici anche culturali della violenza e del militarismo non se ne esce. 8. INIZIATIVE. UNIP: UNDICESIMO CORSO INTERNAZIONALE SU "LA GLOBALIZZAZIONE DELLA VIOLENZA E L'IDENTIFICAZIONE DI ALTERNATIVE NONVIOLENTE" [Dal sito della International University of Peoples' Institutions for Peace - Universita' Internazionale delle Istituzioni dei Popoli per la Pace (in sigla: Iupip-Unip), www.iupip.unimondo.org, riprendiamo e diffondiamo] Rovereto, Italia, 28 settembre - 19 ottobre 2003 Con il supporto di: Provincia Autonoma di Trento, Regione Autonoma Trentino Alto-Adige, Comune di Rovereto, Fondazione Cassa di Risparmio di Trento e Rovereto * Presentazione Nel mondo d'oggi la forza militare e lo sfruttamento economico dei gruppi sociali piu' deboli continuano ad essere considerati strumenti legittimi per il mantenimento "della pace e dell'ordine" dentro e tra gli stati. La fine della guerra fredda e' coincisa con la rilegittimazione della guerra come continuazione "realistica" della politica a livello globale, subordinando la tutela dei diritti dell'uomo e dei popoli all'interesse economico e strategico di stati potenti e altamente militarizzati. In tal modo si viene realizzando un disegno politico radicalmente contrario alle necessita' reali di benessere materiale e non materiale, di sicurezza sociale, di rispetto della dignita' di tutti. La caduta del sistema totalitario del "socialismo reale" ha lasciato un vuoto che e' stato prontamente colmato dall'espandersi di un sistema capitalistico a sua volta sempre piu' totale, caratterizzato da politiche predatorie contro la natura e contro i popoli piu' deboli. Di conseguenza, i piu' poveri diventano sempre piu' poveri e il divario tra coloro che "hanno" e quelli che "non hanno" diventa sempre piu' ampio. L'escalation del terrorismo, culminata negli attacchi dell'11 settembre 2001 a New York e Washington, e le conseguenti "nuove" guerre in Afghanistan e in Iraq, sono anelli interdipendenti in una catena di crescente globalizzazione della violenza e violenza della globalizzazione. Interrompere questo circolo vizioso di violenza militare e violenza strutturale che si nutrono reciprocamente costituisce una sfida piu' formidabile che mai. Il susseguirsi di eventi drammatici, capaci di modificare profondamente il mondo e minacciare sempre piu' interessi basilari di generazioni presenti e future, richiede ulteriori sforzi volti a individuare plausibili chiavi di lettura di un divenire storico che procede con tempi sempre piu' serrati, in modo da poter fornire adeguate basi cognitive per efficaci politiche di pace e giustizia globale. Pace non equivale semplicemente ad assenza di guerra: cí'e' pace quando stati, gruppi, persone cooperano e quando i conflitti che insorgono tra loro sono gestiti in modi nonviolenti e costruttivi. La pace, cosi' intesa, non e' una realta' statica, bensi' un continuo processo dinamico in perenne evoluzione. Come ha tante volte detto il Mahatma Gandhi: "Non c'e' nessuna strada che porta alla pace; la pace e' la strada". La pace non puo' essere realizzata senza la giustizia. La prima e fondamentale esigenza della giustizia e' che sia data priorita' ai bisogni basilari dei piu' deboli - oggi circa un miliardo di affamati, di "dannati della terra". Su questi bisogni si fondano i diritti basilari - come i diritti alla liberta' dalla fame e dalla sete - diritti la cui fruizione e' presupposto della fruizione di ogni altro diritto. La realizzazione della pace come processo dinamico, indissolubilmente connesso a esigenze basilari di giustizia e implementazione di diritti umani fondamentali, non puo' essere raggiunta semplicemente attraverso politiche e interventi dall'alto. E' pure necessario sviluppare conoscenze, motivazioni e partecipazioni dal basso, attraverso processi di empowerment che integrino apprensione critica di conoscenze, esperienze di vita e lavoro, e azione in modo tale da favorire lo sviluppo integrale dell'individuo umano, rinforzando quel senso di responsabilita', solidarieta' e fiducia, senza il quale una societa' pacifica non puo' esistere. La dimensione educativa, che e' sempre anche autoeducativa, in quanto orienta all'azione ed indica percorsi operativi, e' parte essenziale dell'attivita' di difensore della pace e dei diritti umani e consente l'acquisizione di risorse di potere quali la capacita' di promuovere valori fondamentali, la creativita', la progettualita', la competenza, il networking. La gestione di queste risorse di potere e' affidata alle istituzioni dei popoli e si esprime nella partecipazione politica popolare al funzionamento delle istituzioni nazionali e internazionali e nella costante ricerca di modalita' nonviolente di conduzione e risoluzione dei conflitti. Il mondo dei movimenti sociali per la promozione della pace, della giustizia, dei diritti, a tutti i livelli - "dal quartiere all'Onu" - esprime da tempo una crescente e positiva domanda di formazione in tal senso, alla quale l' Universita' Internazionale delle Istituzioni dei Popoli per la Pace (Iupip-Unip) cerca di rispondere, investendo risorse umane e finanziarie. * Notizie tecniche Il corso dell'Unip si svolge a Rovereto nel seicentesco Palazzo Adami, situato nel centro storico della citta'. Rovereto (inserita nel Coordinamento nazionale degli enti locali per la pace), che conta circa 35.000 abitanti, si trova nella valle dell'Adige, 20 chilometri a Sud di Trento e non lontano dal lago di Garda. Direttore del corso e' Giuliano Pontara, direttore del Comitato scientifico dell'Unip, docente del dipartimento di filosofia dell'Universita' di Stoccolma. La coordinatrice della segreteria dell'Unip e' Franca Bazzanela; coordinatori dei corsi internazionali sono Stefano Barozzi e Giovana Dell'Amore; coordinatrici dei corsi locali e nazionali sono Silva Destro e Paola Zanon. Per informazioni e contatti: Iupip-Unip, Palazzo Adami, piazza San Marco 7, 38068 Rovereto (Tn), Italia, tel. +39/0464424288, fax +39/0464424299, e-mail: iupip at unimondo.org * Programma Two sessions are scheduled every day, in the morning from 09:00 to 12:30 and in the afternoon from 15:00 to 18:30, including half-hour breaks in the middle. The programme includes lectures, workshops, group work, brainstorms and exchange of experiences. * Prima settimana: 28 settembre - 5 ottobre: Conflict transformation and the "new" war Lecturers/facilitators: Simona Sharoni, Laurence McKeown, Georges Kutukdjian, Jan Oberg. - Sunday 28 September: Arrivals. - Monday 29: Morning: Welcome and Guided tour of Rovereto; Afternoon: Personal introductions and group building (Sharoni, McKeown). - Tuesday 30: Conflict transformation: concept, mechanisms, experiences (Sharoni, McKeown). - Wednesday 1 October: Conflict transformation: concept, mechanisms, experiences - continued - (Sharoni, McKeown). - Thursday 2: Exchange of information on participants' organisations and work experiences (Sharoni, McKeown ). - Friday 3: The "new" war: psychological aspects (Kutukdjian, Oberg). - Saturday 4: Morning: The "new" war: psychological aspects - continued - (Kutukdjian, Oberg). - Sunday 5: Free. * Seconda settimana: 6-12 ottobre: Globalisation and the "new" war Lecturers/facilitators: Alejandro Bendana, Michel Chossudovsky, Jens Woelk. - Monday 6: Globalisation as an obstacle to peace-building (Bendana). - Tuesday 7: Globalisation as an obstacle to peace-building - continued - (Bendana). - Wednesday 8: Morning: Meetings with students from local schools; Afternoon: Free. - Thursday 9: The "new" war: economic and geo-political roots (Chossudovsky); Evening: Public meeting. - Friday 10: The "new" war: economic and geo-political roots - continued - (Chossudovsky). - Saturday 11: The non-violent resolution of the ethnic conflict in Trentino-Alto Adige (Woelk). - Sunday 12: Excursion. * Terza settimana: 13-18 ottobre: The identification of non-violent alternatives Lecturers/facilitators: Juergen Johansen, Chaiwat Satha-Anand. - Monday 13: The Philosophy of Non-violence: ethics and politics (Johansen). - Tuesday 14: Non-violent social movements today (Johansen). - Wednesday 15: Morning: Meetings with students from local schools; Afternoon: Free. - Thursday 16: Resisting globalised violence with non-violent social movements (Satha- Anand). - Friday 17: Non-violent futures (Satha-Anand). - Saturday 18: Morning: Debriefing; course evaluation; Afternoon: Public ceremony at the Peace Bell; Evening: Goodbye party. - Sunday 19: Departures. 9. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 10. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti, la e-mail e': azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: lucben at libero.it; angelaebeppe at libero.it; mir at peacelink.it, sudest at iol.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it. Per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Per non ricevere piu' questo notiziario e' sufficiente inviare un messaggio con richiesta di rimozione a: nbawac at tin.it Numero 687 del 28 settembre 2003
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