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Missione Oggi - ottobre 2003 - Pace
- Subject: Missione Oggi - ottobre 2003 - Pace
- From: "Missione Oggi" <missioneoggi at saveriani.bs.it> (by way of Carlo Gubitosa <c.gubitosa at peacelink.it>)
- Date: Fri, 19 Sep 2003 11:27:47 +0100
OSARE LA PACE LA PACE DEL VANGELO È AZIONE: È L'ABBATTIMENTO DEL MURO GIOVANNI NICOLINI Don Nicolini è parroco e vicario episcopale per la carità della diocesi di Bologna. Riportiamo, con titoli e sottolineature nostre, il suo intervento al XIX Convegno nazionale dei diaconi italiani. Nella sua accezione ebraico-cristiana, la pace non è qualcosa in cui ci si viene a trovare, ma che "si fa": l'abbattimento del muro, l'abbattimento dell'inimicizia. L'icona della pace cristiana è "la parabola del Padre" in Luca: egli esce due volte di casa, per abbattere i due diversi muri di separazione, innalzati da ciascuno dei due figli. Nella concezione cristiana la pace non contempla la vittoria, il prevalere dell'uno sull'altro. Mai. La pace cristiana passa attraverso l'azione, ma anche attraverso il dolore: siamo discepoli di uno che "si spezza" per poter portare tutti noi all' unità. Superare il "passare accanto" e il giudizio, che non salva il fratello. Entrare nella prigionia del conflitto, nel dramma delle lacerazioni, nella fatica. Come Gesù ha "abbattuto il muro"? È importante tenerlo presente perché è questo il modello che il cristiano è chiamato a seguire. Richiamerò cose note, ma anche alcune idee forti riguardo la pace nella nostra tradizione ebraico-cristiana. Il cristiano deve frequentare delle cattive compagnie, non può stare chiuso nell'arca: è stato mandato dal Signore in tutte le situazioni complesse, più ferite, più sbagliate. Solo che, a forza di frequentare le cattive compagnie, qualcosa poi resta attaccato: certi influssi dei pensieri dominanti, nei quali il cristianesimo si è immerso, ci sono rimasti attaccati. Così è certamente per la pace: molto spesso, quando si parla di pace si fa riferimento a concezioni della pace che non sono propriamente quelle della tradizione ebraico-cristiana. Risalgono ad altre tradizioni di pensiero, non sono il proprio della rivelazione ebraico-cristiana. Che cos'è la pace per noi? Per il Signore è evidente che quello che lui pensa essere la pace non è omogeneo a quello che normalmente le culture mondane pensano: c'è un passaggio del Vangelo, dove il Signore è talmente preoccupato di dirci cos'è la pace, da essere pronto a cambiarle persino il nome, purché percepiamo il senso giusto. Normalmente, nel nostro modo di intenderci, la pace è una situazione in cui ci si trova. "Siamo in pace", è una situazione fortunata che viviamo, tra una burrasca e l'altra. Questa concezione è così affermata che piano piano la pace è diventata l'interruzione tra una guerra e l'altra. Se guardiamo nel Vangelo, mai troveremo che parli della pace come di una situazione, ma piuttosto di un'azione. La pace è qualcosa che si fa , e questo è talmente vero che, appena cessa l'azione della pace, si riprecipita nel conflitto, nell'ingiustizia, nella violenza. Beato è il facitore di pace: si può dire che la pace è l'azione nativamente assegnata al discepolo di Gesù. Siamo in questo mondo per fare la pace: per non accettare mai la situazione nella quale ci troviamo e per essere sempre operosi nel provocare la pace. O si entra in questa dinamica del fare la pace, o altrimenti si accettano le situazioni di ingiustizia, di violenza, di prevaricazione. COME GESÙ HA FATTO LA PACE Nella lingua italiana la parola pacifico non ci dà l'idea di una persona particolarmente attiva, ma pacioccona, che gode una specie d'esenzione dai problemi e se ne sta tranquilla, oppure che volutamente si tiene lontana dai problemi. Questo è impossibile per il cristiano, che è mandato non solo nelle cattive compagnie, ma in tutte le contraddizioni della storia, che il Signore vuole visitare: ecco perché la pace è in modo principalissimo l' azione propria del cristiano. E una grande azione. La pace è nel Nuovo Testamento uno dei nomi di Gesù. Il Cristo è chiamato pace, anzi, più affettuosamente, la nostra pace: "Ricordatevi che un tempo voi, pagani per nascita. eravate esclusi dalla cittadinanza d'Israele, estranei ai patti della promessa. Ora invece, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate i lontani siete diventati i vicini, grazie al sangue di Cristo. Egli infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l'inimicizia, annullando, per mezzo della sua carne, la legge fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace" (Ef 2,11-15). Il Signore è venuto in mezzo a noi a fare la pace. Paolo ci ricorda che eravamo senza il grande patrimonio delle alleanze dei nostri padri. Ma è venuto il Cristo, che è "la nostra pace". E come ha fatto la pace? Ha abbattuto "il muro di separazione". Qui la pace è il nome di Gesù, ma è anche l'azione forte con la quale egli ha abbattuto il muro di separazione e ha fatto dei due, gli ebrei e i gentili, un popolo solo. Ci ha regalato la pace abbattendo il muro. LA LOTTA CONTRO L'INIMICIZIA La pace si presenta non semplicemente come azione, ma come un'azione di una certa violenza, perché c'è un nemico in mezzo a noi. A questo nemico viene dato un nome, l'inimicizia. Dunque, la grande lotta del Cristo e la grande lotta che il Cristo assegna a ciascuno di noi è la lotta contro l' inimicizia. C'è sempre un muro: un muro vecchio, che esiste da secoli, o un muro nuovo, che sorge nei confronti di un fratello per una incomprensione. Bisogna abbattere il muro: questo è il grande compito che ci è assegnato. A Gerusalemme, le scorse settimane, ho provato l'impressione che "i due popoli" non siano in grado ormai di trovare energie, idee, volontà. C'è una specie di rassegnazione all'odio, d'inevitabilità della separazione. Mi è capitato di ricordare la fatica di fronte allo scandalo delle confessioni cristiane divise, quando trent'anni fa soggiornai la prima volta in Terrasanta. Ricordo che all'interno del Sepolcro, a volte sentivo la necessità di uscire per un momento, perché mi era insopportabile che ci fossero da una parte la chiesa armena, dall'altra quella copta, e qui i frati francescani, ognuno a celebrare il fragore della propria liturgia. Tutto mi risuonava dentro come dramma di una divisione. Il dramma attuale della Terrasanta non è diverso da allora, ma moltiplicato fino alla disperazione. Mi è successo un fatto strano: quelle chiese, ho cominciato ad ascoltarle. Tanto che ho passato le mie giornate - adesso non è più possibile fare pellegrinaggi - andando continuamente alle liturgie di tutte le confessioni: dei copti, dei copti africani, dei siriaci, degli abissini, degli armeni, dei greci. Sono andato, una domenica sera, giorno feriale in Israele, in una piccola parrocchia cattolica-latina di Gerusalemme, composta di cristiani ebrei. Ma la chiesa cattolica-latina di Gerusalemme è una chiesa tutta palestinese; il vescovo, per la prima volta nella storia, è un palestinese. E questi ebrei , in una liturgia tutta in ebraico, pregano per il loro vescovo, il palestinese Michel. Sono rimasto colpito da questo fatto. Queste piccole antiche chiese, nella città straziata, cantano il mistero di Cristo. Ho avuto l'impressione, capisco per molti aspetti assurda, di una grande speranza. D'altra parte se non c'è "questa" speranza, non vedo speranza. Ecco l'abbattimento del muro, l'abbattimento dell'inimicizia. Il grande compito di ogni cristiano, a partire dalla sua casa. Il compito di tutte le generazioni: abbattere il muro. Questo è la pace. Non è una situazione statica; non è neppure solo una specie di imparzialità, uno stare "nonviolenti" in mezzo a una situazione violenta. Per il cristiano, non è possibile che mentre accanto a lui si consuma la violenza, possa accettare di starsene fuori. Diceva Tolstoj che è abominevole "separarsi per purificarsi". Lo diceva dei monaci, che a lui erano antipatici: aveva il sospetto che si separassero per purificarsi, mentre invece sentiva dentro di sè fortissima la vibrazione di una storia nuova, dove ciascuno era impegnato a immergersi nelle contraddizioni e nelle ferite, per abbattere il muro e costruire la pace. NON C'È PACE PERCHÉ UNO "HA VINTO" Sono questi percorsi di pace che abbiamo bisogno di fare nelle nostre città, nelle nostre comunità cristiane, dove molte volte diventano enormi le ragioni così banali di divisione. Un prete di parrocchia, come sono io, passa gran parte del suo tempo davanti a quello che oggi è il dramma della difficoltà e frantumazione dei vincoli familiari. Quanto dolore, quanto travaglio! Quanta sproporzione tra le fragilità delle cause che li provocano e il disastro che ne nasce. Terribili muri di separazione! La gloria del cristiano è questa grande battaglia per la pace. Qui però volevo introdurre un problema. Normalmente, nelle cose del mondo, la pace segue la guerra: c'è un vincitore, e allora c'è la pace. Non è questa, la pace cristiana. Il mistero cristiano non contempla la vittoria. Certo contempla la vittoria della croce, ma non contempla mai il prevalere dell'uno sull'altro. Mai. Mentre ero a Gerusalemme, mi è capitato di ripercorrere nella preghiera la parabola del figlio prodigo, o della misericordia del Padre, al capitolo 15 di Luca. Mai come allora ho avvertito che tutto il senso della parabola è che, in quella casa, il Padre vuole che entrino tutti e due. Non è che uno può stare dentro e l'altro fuori, devono entrare tutti e due. Ciascuno ha le sue ragioni e i suoi torti: ma la volontà del Padre è che, a tutti i costi, entrino tutti e due nella casa. Non c'è la pace perché uno "ha vinto", perché c'è un'affermazione definitiva e finale di uno sull'altro. C'è una convergenza, una conversione: allora c'è la pace. Il Padre della parabola esce prima per andare a prendere il figlio ancora lontano, ma poi esce di nuovo perché c'è l'altro figlio, il maggiore, che non vuole entrare in casa. La parabola spende parole altissime per lui, dice che il Padre "uscì a pregarlo". L'abbattimento del muro non avviene perché ci si mette d'accordo; non avviene perché uno ha ragione e l'altro ha torto; avviene perché ci si converte. L'ECUMENISMO SECONDO PAPA GIOVANNI Ero ancora giovane quando rimasi abbagliato dalla proposta che papa Giovanni fece, nuovissima, per la comunione tra le chiese cristiane. Fu per me un capovolgimento, perché mi avevano abituato a pensare che le cose stavano sostanzialmente così: noi eravamo quelli giusti e avevamo ragione; gli altri, chi prima e chi dopo, se n'erano andati. L'ecumenismo era "ritornate a casa": ritornate perché abbiamo ragione noi, siamo qui, vi aspettiamo. E mi ricordo la bellezza, che avvertii come una carezza nel cuore, quando capii che la proposta del vescovo di Roma era, invece, di incamminarci tutti, di riascoltare insieme l'Evangelo, di convertirci tutti al nostro Signore. E siccome poteva nascere l'obiezione: "con questi muri che abbiamo tirato su, ne abbiamo persi di secoli", il papa incalzava: no, non si è perso tempo, perché in questi secoli Dio ha fatto un regalo bello a te e a te, e un altro lo ha fatto anche a me. Allora l'ecumenismo non è soltanto ascoltare insieme l'Evangelo convergendo verso Cristo, ma anche apprezzare i doni che intanto il buon Dio ha fatto a te, a me e all'altro. Dove non c'è qualcuno che deve vincere e prevalere: la comunione è il godimento del dono che Dio ha deposto nel cuore e nella storia di ciascuno. Non ci dev'essere un vincitore, dunque, ma conversione e convergenza. Il criterio della verità cristiana non è l'esclusività, che porta alla scomunica, ma è un grembo che comprende e accoglie: perché nessuno è l'unico possessore della verità e perché nessuno è privo di un piccolo lume, che Dio ha acceso dentro di lui e nella sua storia. LA CREAZIONE NUOVA La pace cristiana è così particolare che Gesù è disposto a negare persino che si chiami pace: "Sono venuto a portare il fuoco sulla terra, e come vorrei che fosse già acceso! C'è un battesimo che devo ricevere, e come sono angosciato, finché non sia compiuto! Pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra? No, vi dico, ma la divisione. D'ora innanzi in una casa di cinque persone si divideranno tre contro due e due contro tre" (Lc 12,49-53). Il fuoco che è venuto a gettare sulla terra è il fuoco dello Spirito, il fuoco della creazione nuova, il fuoco della caduta di tutte le nostre vecchie ragioni. Una nuova creazione che inizia l'ottavo giorno, il primo giorno dopo il sabato, da Gerusalemme fino agli estremi confini della terra: si compie nel mistero della Pasqua di Cristo e di ciascuno di noi. Questa è l'energia nuova che è venuto a darci. Parlo con i ragazzi e ci chiediamo: perché abbiamo la vita? Uno dice: penso di averla per fare l' ingegnere. Un altro, più sbarazzino, cita una ragazza carina che gli piace. E mettendo pensiero su pensiero, alla fine, arriviamo alla grande conclusione: abbiamo la vita per dare la vita. "C'è un battesimo che devo ricevere": Cristo si riferisce alla consumazione d'amore di tutta la sua vita nel mistero della Pasqua. C'è la terza affermazione: "Pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra? No, vi dico, ma la divisione". La spiegazione è che il giudizio tagliente dell'Evangelo ci impedisce ogni omertà, ci impedisce ogni cattivo accordo. E se l'Evangelo risuona fortemente in mezzo a noi, immediatamente opererà anche un travaglio, una fatica. Se lasci aperto il Libro, devi accettare di metterti in discussione, devi accettare di raccogliere i paletti della tua tenda e di rimetterti in viaggio in una peregrinazione perenne, perché la verità dell'Evangelo non è mai conquistata, non te la puoi mettere in tasca. Ogni giorno devi accettare la crisi che l'Evangelo stabilisce, dentro il tuo cuore e nella tua storia: sia che si tratti di te come persona, del tuo spazio familiare o del tuo spazio fraterno. L' Evangelo, conducendoci continuamente, ci strappa da tutte le nostre certezze e da tutte le nostre definizioni, perché è l'ulteriorità perenne del fuoco di Dio. SIAMO FIGLI DI UN DIO INQUIETO CHE CI VIENE A CERCARE Questa divisione, però, è anche molto di più. Si dice che quando si è compiuto il miracolo della Pentecoste, il fuoco di Dio è sceso e poi si è diviso. Il testo usa la stessa parola del brano citato sopra, quando Gesù parla di "divisione". Ma alla fine di quello stesso capitolo 2, descrivendo la prima comunità di Gerusalemme, si dice che tutto fra di loro era in comune e ognuno depositava ai piedi degli apostoli quanto aveva, che "veniva diviso" secondo i bisogni di ciascuno. Allora questa divisione non è solamente negativa, è anche lo strazio di Dio, è il Padre della parabola che esce due volte dalla casa: è il mistero dell' amore di Dio, che accetta anche il dolore della divisione "per riunire". Perché molte volte bisogna "farsi greci con i greci e giudei con i giudei", andarsi a sedere accanto a ogni situazione, ad ogni dolore. La carità "ci spezza". Ognuno di noi, se ha due figli, se ha tre figli, è spezzato in due, in tre. E si spezza in due e in tre "per riportare tutto verso la comunione" . La verità cristiana non è monolitica, ferma, ad aspettare che gli altri arrivino. Noi siamo figli di un Dio inquieto che ci viene a cercare, che lascia le novantanove pecore nel deserto per andare a cercare quella smarrita. Noi siamo di un Signore "spezzato" per poter portare tutti noi all'unità. Una strana pace, dunque. Una pace che passa attraverso l'azione, ma anche attraverso il dolore. Una pace che ha nel mistero della croce la sua significazione più forte. TRE PROPOSTE Vorrei terminare con tre piccole proposte, legate alla mia esperienza. Parto da un testo di Giovanni: "La sera di quello stesso giorno, il primo dopo il sabato, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei giudei, venne Gesù, si fermò in mezzo a loro e disse: pace a voi. Detto questo, mostrò loro le mani e il costato. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: pace a voi. Come il Padre ha mandato me, anch'io mando voi. Dopo aver detto questo, alitò su di loro e disse: Ricevete lo Spirito Santo." (Gv 20,19-23). Entrare dentro La prima proposta: la volontà e la forza di entrare nella prigionia del conflitto, del male, della fatica, del dolore. Una delle caratteristiche del male, quando diventa dramma del cuore e del corpo, del popolo e della cultura, è di diventare una prigione. Come entrare? È utile fare memoria di un passaggio del cap. 16 degli Atti. Parla di una prigione, di notte, con due strani prigionieri, Paolo e Sila. Nel mezzo della notte, i due si mettono a cantare la lode del Signore: il canto si dilata nella prigione, le catene cadono. Entrare nella prigione del conflitto. Entrare nel chiuso del dramma, della paura, della solitudine di quel malato disperato, all'ospedale, o vicino a casa tua; entrare nella disperazione del conflitto mediorientale. Entrare dentro. Superiamo il passare accanto, soprattutto superiamo quella forma abominevole di malattia del cuore umano, che è il giudizio del fratello, entriamo nella lacerazione. Mostrare la concretezza del "voler bene" La seconda proposta: "Pace a voi. Detto questo, mostrò loro le mani e il costato". Il testo prosegue con l'affermazione di un immediato riconoscimento da parte dei discepoli. Nella versione di Luca, non è così: credono sia un fantasma, allora Gesù chiede qualcosa da mangiare, per far vedere che non è un fantasma. Giovanni, invece, è certissimo: Gesù entra, dice "pace" e mostra le ferite della croce: è allora che lo riconoscono. La pace, nella sua accezione più immediata e più profonda, è mostrare che è concreto il bene che si vuole alle persone. Vado all'ospedale, mi avvicino ad un amico, molto avanti nel suo cammino verso il calvario, e appoggio istintivamente una mano sul suo letto: dopo un po' m'accorgo che la sua mano si muove e prende la mia mano; provo a ritirarla, ma sento che la stringe. Allora capisco che devo stare lì. Una presenza amica, per cui non si sente solo. Nell'anonimato di un dramma che ci schiaffeggia, improvvisamente scorgiamo un volto amico: ci sei. "Pace a voi. Detto questo mostrò loro le mani ed il costato". Non si dà pace senza un'epifania dell'amore, senza mostrare il bene che si vuole. C'è un'identificazione inopportuna tra la carità e le opere. In questi anni del mio ministero ho scoperto che di queste "opere" si riesce a farne pochissime. Ma si può un'altra cosa. Si può "voler bene" attraverso piccoli segni e grandi segni. La pace è questo "volerci bene" di Dio. Quando Elisabetta ha aperto la porta di casa e Maria l'ha salutata, in quel momento tutto il voler bene di Dio, attraverso il saluto di Maria, ha raggiunto il grembo di Elisabetta e il bambino ha esultato di gioia. È la visita di Dio: è la via stessa di Dio, l'amore che viene così condiviso. Il "voler bene" si manifesta nel mostrare le mani e il costato. Una diaconia della pace, tanto profonda quanto semplice. Si può voler bene a tutti. Si possono formulare per tutti dei pensieri positivi, anche per chi sbaglia, anche per chi fosse fonte di odio e di misfatti. L'inimicizia è abbattuta. Seguire "il come" di Gesù La terza proposta: "Come il Padre ha mandato me, anch'io mando voi". È un' anticipazione della Pentecoste: per Giovanni, la sera stessa di Pasqua avviene il dono dello Spirito e l'invio. Voglio proporvi una lettura alternativa rispetto ad una più consueta, ma secondo me troppo "tribunalizia", sul mandato apostolico. "Come il Padre ha mandato me, anch' io mando voi". Come l'ha mandato? La potenza di pacificazione e di conversione di Gesù è un'autorità scambiabile con i poteri umani? È solo una specie di giudizio? Il giudizio non salva. Ecco come l'ha mandato il Padre: totalmente mite, totalmente obbediente fino alla croce, trafitto. A noi prigionieri della paura e della morte, egli mostra i segni della croce. La salvezza del mondo è quella di Cristo crocifisso e risorto. È lui che manda noi come il Padre ha mandato lui. Il mandato di Gesù non è semplicemente una consegna di potere ad alcuni. Ha una sostanza più profonda: il Cristo che visita, che salva, che fa la pace è il nostro fratello Gesù, che si è fatto l'ultimo e colui che serve, colui che, obbediente al Padre, è andato fino alla croce. Questo è il modello che il Cristo consegna alla nostra vita, al nostro compito quotidiano di fare la pace. È chiaro che non è possibile fare questa pace se non si entra di fatto nel mistero stesso del Signore. GIOVANNI NICOLINI LA PARABOLA DELLA ZIZZANIA Conosciamo la parabola della zizzania. È importante perché in essa il Signore fa un'ammissione formidabile, cioè che fa parte del regno di Dio il mistero del male: il regno dei cieli è simile a un campo, e in questo campo c'è la zizzania. Una realtà angelista, una comunità cristiana che pretendesse di essere una comunità di giusti e di puri, non è il regno di cui ci parla la parabola. Ognuno porta dentro di sé la zizzania. Mi ricordo di quando, ragazzo, chiesi: "Mamma, come mai ho la zizzania dentro di me?". Le dicevo: mi sembra che tu sia buona, che il papà sia bravo, e che a me siano arrivati solo segni positivi, perché dentro di me c' è la zizzania? Mia mamma se la cavò dicendo che nessuno è esente da questo problema. Forse una risposta fino in fondo non c'è. Ma è importante che noi oggi sappiamo questo. G.N.
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