[REPORT] - Baghdad: il rifugio Al Ameria Shelter



BAGHDAD - Era il 14 febbraio 1991. Erano le quattro e trenta del mattino. A quattro minuti l'una dall'altra due bombe, una dirompente ed una incendiaria, hanno colpito il rifugio Al Ameria Shelter, dilaniando e carbonizzando i corpi di quattrocentootto iracheni, soprattutto donne e bambini.

A febbraio di quest'anno, quando per la prima volta ero venuto in questo luogo, l'avevo trovato popolato di scolaresche in gita, impegnate a intonare canti inneggianti al regime, parenti commossi in pellegrinaggio ad un cimitero trasformato in sacrario, visitatori di un monumento che il regime aveva dedicato alla crudelta' americana.

Tanta propaganda all'esterno, con gli striscioni in inglese che, tuttavia, ponevano alcune domande cui nessuno ha mai dato una risposta. <<Why UNMOVIC and the International Atomic Energy Agency haven't inspected Al Aamiriyya Shelter yet?>>, <<Who are the terrorists? Martys of Al Aamiriyya? Or the murderes in Washington?>>. Striscioni che attualmente sono scomparsi, lasciando il posto a quattro piccoli drappi con scritte in arabo.

Una miriade di piccole tombe bianche, disposte ad arco sotto una parete dipinta come la bandiera irachena, ricordavano le vittime della strage, cosi' come oggi; nel mezzo del cortile un enorme orologio con lancette di rame, indifferente al tempo, indicava e indica l'ora in cui essa e' avvenuta.

Allora la responsabile di quella sorta di museo del terrore ci aveva guidato nella visita, fornendo alcune informazioni su quanto accaduto. La prima bomba aveva sfondato il tetto causando una grande esplosione e schiacciando sul soffitto quanti dormivano al terzo piano dei letti a castello, di cui sono rimasti soltanto i segni delle unghie che hanno grattato il soffitto in cerca di scampo. La seconda bomba, incendiaria e ad alta precisione, non ha sfruttato l'enorme cratere prodotto dalla prima, bensi' l'impianto di areazione, carbonizzando i corpi di coloro che si trovavano nel rifugio, o sciogliendoli, nei quattrocento gradi di quell'inferno, nelle chiazze scure visibili sul pavimento. Chi si trovava al piano inferiore e' morto per la pressione dell'esplosione; i corpi non si sono carbonizzati, come mostrano le fotografie, mentre rigagnoli di sangue fuoriuscivano dalla bocca e dalle orecchie.

La guida metteva in evidenza il fatto che le due bombe fossero inutili l'una all'altra, passando per vie diverse, e quindi denunciava la gratuita' del massacro. E non rispondeva al quesito riguardante il numero di rifugi cosi' tecnologicamente avanzati costruiti alla periferia di Baghdad, in massima parte per donne e bambini, da un regime che mai si e' distinto per la sua umanita' e per l'amore verso il suo stesso popolo.

D'altro canto gli Stati Uniti, che evidentemente avevano avuto i piani di costruzione in gentile concessione dalla ditta finlandese Manufacturer TemetOy, hanno sempre bloccato ogni indagine sull'accaduto, trincerandosi dietro la giustificazione che il rifugio contenesse in realta', in un piano nascosto, un sito militare dotato di armi. Un pretesto anche oggi ampiamente sfruttato. Ma allora, secondo questa logica, la missione era fallita, ai piani interrati tutto era intatto, i servizi e il piccolo centro medico. Soltanto c'erano stati quattrocentootto danni collaterali.

Le loro fotografie erano disposte in un angolo del cortile interno, attaccate a sottili sostegni di legno fatti ondeggiare dal vento. Le scene di disperazione e i primi soccorsi, i corpi straziati, le ferite dei sopravvissuti, quattordici persone che si trovavano tra le due porte d'acciaio, i cadaveri celati da veli o lenzuola. E ancora le teste dei bambini rimasti sepolti che spuntavano dalla terra, le amputazioni, la pelle accartocciata dalle ustioni, gli irriconoscibili pezzi di carne bruciata dei morti.

Oggi ritorno ad Al Ameria, che porta i segni della guerra e dell'incuria, e quell'area d'angolo non ospita piu' le immagini della tragedia; ora e' semplicemente un parcheggio per le auto, esattamente di fronte ai locali occupati dall'Iraqi Islamic Party, attualmente responsabile della custodia del sito.

E' nella sede del partito che e' stata spostata la mostra fotografica. In due ampie sale sono disposte le fotografie dei volti delle vittime, nonche' molti dei loro oggetti: abiti femminili, anche da sposa, veli, camicie, orecchini e collane, audiocassette, un telefono, giocattoli. Mentre, rispetto a febbraio, sono pochissime le immagini della devastazione, dei corpi delle vittime.

Alcune di esse le ritrovo all'interno, in stato di totale abbandono, nelle circoscritta zona che la luce esterna, filtrando attraverso il cratere generato dalla bomba, libera dal buio. Il degrado e' evidente nei pacchetti di sigarette e negli altri rifiuti lasciati tra i ferri arricciati dell'intelaiatura della struttura, nei fiori appassiti sparsi sul pavimento, nei pannelli spezzati e caduti dai loro sostegni.

Al Amiria era si' un tempio della propaganda baathista, ma anche un luogo della memoria storica. L'ombra che avvolge il rifugio e' un'ombra che avvolge la memoria. Anche se molte persone vengono ancora qui in visita, secondo il guardiano anche americani che <<vengono a vedere cosa hanno fatto>>, l'oscurita' e la trascuratezza lo trasformano a poco a poco in un luogo della dimenticanza.

Rimango qualche momento da solo nei locali scuri, attraverso il foro sul soffitto e i portoni d'ingresso aperti soffia una brezza calda, mentre inizia il canto del muezzin. Mi guardo intorno, c'e' poco di visibile; la polvere e la sabbia ricoprono il pavimento, tuttavia le chiazze brune del sangue rappreso sono ancora distinguibili. Provo ad immaginare cosa significasse essere qui, ma non ne sono capace. Provo a pensare cosa sia davvero accaduto davvero, e in questo mi aiuta, almeno in parte, Mohamed, l'autista del nostro pulmino.

All'epoca era colonnello dell'esercito del Rais, ha combattuto in Iran e in Kuwait. Quel 14 febbraio era qui, ad Al Ameria. Ora sa di poter parlare liberamente, quanto meno con noi, senza rischiare la sua vita e quella della propria famiglia. Dice che il rifugio non era soltanto civile, c'erano anche dei militari, che Saddam Hussein proprio quel giorno e' andato a salutare.

Mohamed si ricorda bene quel momento, poco dopo che Saddam se ne era andato una sua guardia del corpo e' tornata indietro ed ha comunicato ai militari presenti di uscire fuori; non avevano capito il significato di quell'ordine, ma naturalmente avevano obbedito, dicutere non era possibile, men che meno nell'esercito del regime. Mohamed aveva appena inserito la chiave nella toppa della sua auto quando il primo missile ha colpito il rifugio. Ha visto solo detriti e polvere intorno. Qualcuno e' riuscito a fuggire prima dell'arrivo del secondo missile, come quella madre, racconta Yussuf, che ha abbrancato la propria bambina ed e' uscita, per poi accorgersi che quella che stringeva era la figlia di qualcun altro. Poi soltanto il caos.

Le forze statunitensi erano a conoscenza del fatto che Saddam si sarebbe recato in visita in quel luogo, non cercavano di colpire un sito militare, sapevano che la' si trovavano dei civili. Saddam sapeva che gli americani avrebbero bombardato il rifugio, si e' allontanato ed ha fatto andare via i militari, senza avvisare i civili nascosti all'interno.

Al Ameria Shelter, oggi, e' un monumento al cinismo dei potenti.

MAURO CASACCIA