[REPORT] Mauro Casaccia scrive da Baghdad



BAGHDAD - "L'Egitto scrive, il Libano stampa, l'Iraq legge" cosi' recita un proverbio iracheno che al mercato dei libri di Baghdad trova conferma, almeno per l'ultima parte.

Nella socialita' di Al Mutanabi, diversamente da quanto accade in altre zone della capitale, sembra non essere cambiato nulla dai tempi precedenti alla guerra; nulla, se non per la drastica diminuzione dei testi su Saddam, la comparsa delle trascrizioni dei testi di Khomeini, vendute in mezzo alle copie dell'Herald Tribune, e la moltiplicazione dei libri su Ali', nipote del Profeta, nell'iconografia incredibilmente somigliante a Khabir Bedi.

Niente sembra cambiato nell'affollamento, nel movimento, nelle chiacchiere, nei bambini che chiedono una sura, una fotografia, nella gente che sosta per chiederti la provenienza e il nome, per raccontarti, magari in soli trenta secondi, qualcosa di se' stessi. Cosi', per curiosita' e convivialita'. E' normale fermarsi per contrattare con un venditore, per assistere a una discussione, per fare due parole con chi non si conosce.

In questo modo si incontrano persone come Ali Abdullah, padrone di una ditta di macchinari per fare gelati che ambisce a commerciare con l'Italia, il quale con molta semplicita' spiega la grande contraddizione vissuta oggi dalla maggior parte degli iracheni <<Cosa e' cambiato adesso? Tutto, ora Saddam e' andato>>. Ma alla domanda di come sia la situazione odierna Ali risponde con un'altra totalita' <<Difficile, pericolosa, manca tutto, soprattutto cibo, lavoro e sicurezza>>.

Al Mutanabi e' luogo di contatto, di comunicazione, anche fra culture diverse, che dialogano attraverso le pagine dei libri o le parole dei passanti. Ma nella Baghdad post-guerra, o meglio nella Baghdad ancora in guerra, rischia di restare un'isola spersa in una citta' in cui regna un'atmosfera di ben altro tenore.

Con il pulmino guidato da Mohamed ci spostiamo ad Al Khadhimiyya, la grande moschea sciita, l'unico posto dove a febbraio avevo trovato un seme di ostilita' nella gente della capitale; un ragazzo mi si era avvicinato mentre parlavo con tre ragazze e loro madre nell'ampio e affollattissimo cortile interno, punto di incontro dove le famiglie nei giorni di festa vanno a mangiare e trascorrere le ore, dicendomi in un inglese stentato che li' era facile entrare, piu' difficile uscire.

Sono passati soltanto pochi mesi da allora, ma con un conflitto di mezzo, e la situazione e' ben diversa. Ora anche entrare e' difficile, cosa che abbiamo scoperto piu' tardi insieme al pericolo che la laicita' corre in Iraq.

Prima di arrivare ad Al Khadhimiyya transitiamo in strade che portano in modo drammaticamente evidenti i segni dei bombardamenti, come nel caso della centrale delle comunicazioni, o meglio di cio' che ne resta, un groviglio intricato di fili metallici incastrati nelle macerie.

La presenza americana e' limitata, o comunque poco visibile. Fino a questa mattina non avevo ancora avuto incontri ravvicinati con i marines, se si eccettua la spiacevole sensazione di avere un mitragliatore puntato addosso, provata camminando in piazza Paradiso, quella dello sketch mediatico con protagonisti la statua di Saddam e la bandiera a stelle e strisce; girandomi, con il tesserino che indica il previlegio di essere internazionali in bella vista, verso i militari appostati nei pressi dell'Hotel Palestine il riflesso del sole incandescente del primo pomeriggio di Baghdad mi ha rivelato di non essere seguito esclusivamente dal loro sguardo.

Percorriamo la rotonda di una piccola piazza e il pulmino sfila a fianco di una trincea che protegge un blindato USA; Giovanni e Franco stanno filmando e i soldati se ne accorgono. Il tempo di voltarmi e un marine gia' si e' lanciato fuori imbracciando il fucile e intimando l'alt.

Ci fermiamo nel traffico, mentre il blindato punta il cannone nella nostra direzione, due militari sopraggiungono e un altro va a deviare le auto; ci fanno accostare in retromarcia, impartendo gli ordini in modo estremamente aggressivo. Vogliono le due videocamere, non si possono filmare i militari.

In questo senso a febbraio era piu' o meno lo stesso, era vietato fotografare i soldati dell'esercito del Rais o possibili obiettivi strategici come i ponti. Ma allora si era in attesa della guerra, quella guerra che stando alle dichiarazioni di Bush e' finita ed e' stata vinta.

Giovanni spiega che non era intenzione, che non li avevamo visti, che non pensavamo fossero li', e propone di eliminare soltanto le parti con loro ripresi, mostrandogliele, per non perdere il resto. Il soldato modera la sua durezza e accetta, mentre gli altri tre restano silenziosamente alle sue spalle,guardandosi intorno con i mitra appoggiati sull'avanbraccio. Anche loro sono tesi; credo non gli piaccia stare per strada, fuori dalla trincea.

La cosa si resolve, Giovanni mostra le immagini incriminate e il marine spiega che facendo richiesta possono farci filmare il loro Comando, sotto apposito controllo. Dal giornalista embedded all'osservatore umanitario embedded, non e' proprio il caso.

Meglio girare per la citta', riprendere tutto e tutti, liberamente, parlare con chiunue, per provare davvero a capire cosa stia accadendo qui, cosa significhino l'attuale occupazione e l'insicurezza regnante, perche' l'ufficialmente chiusa guerra per la liberta' dell'Iraq non sia tale.

Quale liberta' a Baghdad? Non certo quella di espressione, visto come vengono chiusi i giornali non graditi agli occupanti. Ma neanche altre, non c'e' diritto all'acqua per tutta la popolazione, o al cibo. Alla frontiera giordana mi aveva avvertito Hatim Jawad, professore di inglese in Libia, iracheno che tornava a Baghdad per visitare la famiglia, per la prima volta dopo I bombardamenti <<Te ne accorgerai. Dove sta la liberta'? Dove sta la sicurezza?>>.

I marines, ragazzi giovani e in parte spaventati, ci lasciano proseguire. Parcheggiato il pulmino ci avviciniamo a piedi ad Al Khadhimiyya, attraverso un mercato della frutta molto animato. Saluti accoglienti e qualche raccomandazione per le ragazze da parte di due uomini e una donna nel tradizionale abito nero: vicino all'imponente ingresso della moschea si trovano I veli per coprirsi ed entrare nel luogo sacro.

Tuttavia, a una ventina di metri dal portone il clima e' ben diverso, mentre Marisa si copre con la stoffa nera molti giovani si raccolgono intorno a noi, dicono che non va bene, di non andare oltre, che non e' consentito ai non mussulmani. Un ragazzo in particolare si fa portavoce di tutti gli altri e, spalancando i limpidi occhi chiari, in modo verbalmente molto aggressivo ci ferma; la piccola folla si muove lentamente sospingendoci lontano dalla moschea.

Anche le fotografie e le riprese danno fastidio. Eppure il mercato della frutta, dove ogni venditore insisteva sorridendo per avere una sura del proprio banco, solo cinque minuti fa, e' li', a trenta metri. Arrivano in molti, ragazzi e anziani, alcuni ostili, altri, i piu', a parlare d'altro, anche nella confusione del momento. Chi dice Del Piero, chi Juventus, chi agita la mano nell'aria facendo segno di allontanarsi, subito.

Vado verso il ragazzo con gli occhi chiari, che ha il viso da adolescente contratto in una smorfia di durezza, gli tendo la mano e lo rassicuro, andiamo via. <<Scusate ma e' cosi'>>, me lo dice senza placare la rigidita' del suo sguardo, e mi stringe brevemente la mano. Solo aggressivita' verbale, per fortuna, ma un'atmosfera molto pesante, di tensione pronta ad esplodere. E soprattutto incomunicabilita', voglia di erigere e mantenere un muro di separazione. Come con i marines. Noi e loro, Bene e Male nel vocabolario di Bush, nel vocabolario della guerra infinita.

Ci allontaniamo, chiudo la fila con Yussuf, lo studente di musica che ci fa da interprete, il quale mi consiglia di affrettare il passo, mentre mi attardo a stringere le mani cosi' come avevo fatto con il ragazzo dagli occhi chiari. Qualcuno mi rimprovera perche' Allah non vuole che porti i capelli cosi' lunghi, facendo il segno delle forbici con indice e medio; qualcun altro, paradossi davanti alla moschea sciita di Al Khadhimiyya, mi domanda se davvero le ragazze italiane siano cosi' sexy.

Torniamo al pulmino che e' ingolfato e non parte. Spingiamo nel traffico caotico ma lento di Baghdad, aiutati da tre giovani venditori che espongono la loro merce variegata a bordo strada. E andando via transitiamo davanti ad altri due blindati statunitensi; un marine armato all'inverosimile rivolge un sorriso forzato a un bambino che gli gira intorno incuriosito, poi recupera immediatamente la sua espressione contrita. Simile a quella del ragazzo con gli occhi chiari. Due censure, due aggressivita', due pericolose incomunicabilita'.

MAURO CASACCIA