La nonviolenza e' in cammino. 613



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 613 del 16 luglio 2003

Sommario di questo numero:
1. La scomparsa di Benny Carter e di Compay Segundo
2. Nurit Peled: noi, le vittime
3. Nadia Cervoni: per Leyla Zana
4. Sveva Haertter: gli obiettori di coscienza israeliani in tribunale
5. Elisabeth Jankowski: la lingua e la guerra
6. Tiziana Barrucci: il rapporto del Comitato europeo per la prevenzione
della tortura
7. Marina Salacrist: ancora sul dialogo tra Luisa Muraro e Rossana Rossanda
8. Severino Vardacampi: a proposito di scorie nucleari
9. Norma Bertullacelli: in silenzio per la pace a Genova
10. Riletture: Alfredo Bonazzi, Squalificati a vita
11. Riletture: Alberto Manacorda, Il manicomio giudiziario
12. Riletture: Maria Luisa Marsigli, La marchesa e i demoni
13. Riletture: Marina Valcarenghi, I manicomi criminali
14. La "Carta" del Movimento Nonviolento
15. Per saperne di piu'

1. LUTTI. LA SCOMPARSA DI BENNY CARTER E DI COMPAY SEGUNDO
[Sono scomparsi ieri due grandi musicisti, il nordamericano Benny Carter
(nato a New York nel 1907, pianista, clarinettista, direttore d'orchesta e
compositore, una leggenda del jazz), e il cubano Compay Segundo (Maximo
Francisco Repilado Munoz, nato nel 1907, uno dei maestri del son, divenuto
celebre internazionalmente sul finire degli anni novanta con "Buena vista
social club", il progetto musicale promosso da Ry Cooder e il film di Wim
Wenders che lo documenta)]
La scomparsa di Benny Carter e Compay Segundo ci percuote e addolora, come
quella di Luciano Berio, di Goffredo Petrassi.
Certo, nell'epoca della riproducibilita' tecnica dell'opera d'arte ci
restano i nostri vecchi vinili che quelle voci e quei suoni - magari
scricchiolanti - ci restituiscono ancora, e il film di Wenders, e
quant'altro ancora.
Ma erano quelle persone la fonte della gioia, ed ora le tenebre le hanno
inghiottite, come tutti ci inghiottiranno, e il saperlo non attenua ma rende
piu' profondo il nostro smarrimento, il nostro lutto.
Ma questo momento, quando e' finita la corsa di chi ha combattuto la buona
battaglia e non ha perso la fede nell'umano, e per quanto e' stato in suo
potere ha voluto e saputo recare un sorso luminoso di felicita' all'umanita'
dolente intera (e la musica o e' questo o e' nulla), e' anche il momento del
grato orgoglioso saluto, dell'ultimo omaggio ai vecchi nocchieri che ieri
hanno superato il filo dell'orizzonte, seguendo la virtu' e la conoscenza.

2. TESTIMONIANZE. NURIT PELED: NOI, LE VITTIME
[Dal sito della Libreria delle donne di Milano (www.libreriadelledonne.it)
riprendiamo il testo dell'intervento di Nurit Peled al convegno svoltosi a
Teramo il 9 maggio 2003 sul tema "Futuro senza guerre, costruiamo insieme";
il testo e' apparso anche su "Azione nonviolenta" di luglio 2003. La
traduzione e' di Maria Inversi. Nurit Peled-Elhanan, docente universitaria
di Linguaggio ed educazione, e' insegnante, traduttrice, scrittrice e madre
israeliana. Attivista per la pace tra Palestina e Israele, nonostante
l'assassinio di una sua bambina in un attentato terroristico. Nel 2001 ha
ricevuto dal Parlamento europeo il Premio Sakharov per i diritti umani]
Questo pomeriggio vorrei essere qui coi miei bambini per piantare un albero
di pace nel bosco della madre e del bambino. Gli alberi da sempre sono stati
simbolo di pace, di vita, di prosperita'.
In Israele noi abbiamo una meravigliosa usanza: si pianta un albero per ogni
nuovo nato, e la foto di questo albero viene appesa sopra il suo letto come
simbolo di vita e di speranza. Ora, oggi, in Israele, questi stessi bambini,
che hanno alberi che portano i loro nomi e la cui foto decora le loro camere
d'infanzia, sradicano crudelmente gli alberi dei loro vicini.
Bambini ebrei e sionisti strappano, diventando soldati, gli ulivi - simbolo
della pace - e distruggono le vigne - simbolo della prosperita' - ai
palestinesi, privandoli cosi' di tutti i mezzi di vita, condannandoli a una
morte di umiliazione e di fame.
Questi soldati israeliani, ragazzi giovani, beneducati, figli di amici miei,
che si arruolano per servire il loro Paese, ricevono dai loro comandanti
l'ordine di strappare boschi interi, e ora l'albero tagliato e' diventato,
in questo Paese assassino e sanguinante, il simbolo della crudelta', della
disperazione, e del razzismo cieco che lo domina.
I figli dei palestinesi che hanno perduto uliveti e vigne, onore e vita,
case e speranza, diventano dei terroristi suicidi perche' non hanno piu'
niente da perdere.
In questo inferno non restiamo che noi, le vittime delle due parti che
cercano di arrestare questa follia.
Noi siamo i soli che cercano di salvare questi bambini dalla loro terribile
sorte di carnefici e vittime, che cercano di spiegare ai giovani israeliani
idealisti che servire il loro Paese non vuol dire obbedire come dei robot
agli ordini mortiferi, che cercano di convincere i bambini palestinesi che
il loro popolo ha bisogno di loro vivi e non morti.
Noi siamo i soli a gridare alle orecchie del mondo intero che per i nostri
bambini morti non c'e' differenza tra cio' che il mondo chiama terrorismo e
cio' che chiama guerra contro il terrorismo.
Per la mia piccola figlia che e' morta a Gerusalemme perche' era israeliana
e per i piccoli bambini che muoiono a Gaza e a Jenin e a Ramallah perche'
essi sono palestinesi, questa differenza non esiste piu'. Perche' l'uno e
l'altro, il terrore e il controterrore, significano la morte impietosa degli
innocenti.
Perche' in effetti non esistono delle uccisioni civilizzate di innocenti e
delle uccisioni barbare degli innocenti.
Non esiste che l'uccisione criminale degli innocenti.
*
Cio' che conta per i nostri bambini e' il fatto che noi, gli adulti, i
genitori, non riusciamo a proteggerli e a salvarli.
Che essendo preoccupati dei problemi di identita', di razza, di diritti
storici o mitologici, noi dimentichiamo l'essenziale, noi dimentichiamo che
la morte di un bambino, non importa quale, e' la morte del mondo intero, del
suo passato e del suo avvenire. E che dopo la morte di un bambino non c'e'
piu' la morte perche' non c'e' piu' la vita.
In questo mondo che si dice progressista, tollerante e umanista, ci sono
persone che si chiamano capi di Stato, che si servono di valori nobili quali
la liberta', la democrazia e la giustizia per commettere dei crimini contro
l'umanita'. Che parlano della prosperita' di tutto il mondo spogliando fino
alla morte i bambini degli altri.
E' tempo di ripensare questi valori, di ridefinire dei termini quali i
diritti dei bambini, i doveri degli adulti, ridefinire l'educazione.
Spiegare ai bambini che quegli argomenti politici e religiosi non servono
che al genocidio. E' tempo di crearsi nuove identita', inclusive piuttosto
che esclusive di identita' di cui il comune denominatore sara' la maternita'
e il pacifismo.
*
Non c'e' nessuna parola che sia cosi' carica di senso, ideologica ed
emozionale come la parola "noi".
E' tempo ora di ripensare questa parola, di ridefinire il nostro noi. Noi,
le vittime del terrorismo e della guerra contro il terrorismo, noi a cui la
morte dei nostri bambini ha dato una nuova voce, noi l'abbiamo gia' fatto.
Quando io dico noi voglio dire le madri e i padri che desiderano la pace a
qualsiasi prezzo.
Quantunque io sia nata ebrea e israeliana, quando io dico noi io non includo
in questa parola le madri ebree e israeliane che educano i loro figli sulla
terra rubata ai palestinesi, io non includo in questo noi i padri che
educano i loro figli a credere che ci siano dei bambini che non meritano di
vivere.
Io includo in questo mio noi, in questa nuova identita' che ho ricevuto
dalla morte, l'identita' della madre vittima, tutte le altre madri vittime
di qualsiasi altra nazionalita', palestinese, irachena, afgana o curda.
Io includo Najakh, la giovane madre palestinese che ha perduto il suo
bambino di dieci anni e che non ha che tenerezza per la mia bambina; io
penso a Khaled che, venti giorni dopo aver trovato suo figlio bucato dalle
pallottole, e' partito con me per gli Stati Uniti per parlare della pace, e
quando e' riuscito a telefonare a sua moglie le ha detto di smetterla di
piangere per il suo bambino ma di piangere per la mia.
Quando io dico noi penso al professor Gazawi, che come me ha vinto il premio
Sakharov, che dopo aver perduto suo figlio di 15 anni, ucciso dai soldati
israeliani, si e' precipitato per aiutare un amico ferito, ha fondato un
gruppo di dialogo di scrittori israeliani e palestinesi, e vi ha incluso la
famiglia Sartawi, famiglia che ha perduto il proprio padre perche' ha osato
essere amico del mio e ha osato sognare con lui la pace tra i due popoli.
Io includo anche tutti i miei amici israeliani che hanno fatto un voto sulle
giovani tombe dei loro bambini, di non perdere la loro ragione.
*
Io invito tutti i genitori del mondo a riunirsi in questa collettivita' le
cui fondamenta sono la paternita' e la maternita', ad alzare la loro voce
sino a quando essa non sommerga le altre voci che dominano il mondo: quelle
dei politici corrotti e megalomani, dei generali crudeli, dei businessmen
senza scrupoli che conducono il mondo intero alla sua perdita.
La maternita' e' piu' forte di qualsiasi nazionalita', qualsiasi mitologia,
qualsiasi interesse economico.
Io vorrei vedere le famiglie belghe incoraggiare i loro governanti a
giudicare e a punire i criminali in uniforme tanto quanto i criminali
civili, affinche' qualsiasi uccisore di bambini sappia che non esiste alcun
angolo in questo universo ove egli possa nascondersi dalla giustizia.
Che i genitori di tutti i bambini non sopportino piu' l'assassinio di
qualsiasi bambino in nome dell'ordine e della giustizia.
Noi non abbiamo bambini da sprecare in queste inutili guerre. Non abbiamo
bambini da sacrificare al dio della vanita', dell'arroganza, della
megalomania.
Per i capi di Stato i bambini sono delle entita' astratte: voi me ne
uccidete uno, io ve ne uccidero' trecento, e il conto e' regolato. Ma io che
ho perso la mia piccola Smadar, io so che la nozione della vendetta e'
ridicola.
Come diceva il grande poeta ebraico Bialik dopo i pogrom in Russia contro
gli ebrei, Satana non ha ancora creato la vendetta del sangue di un bambino.
Come scrive Marguerite Duras: "La morte di non-importa-chi e' la morte
intera. Non-importa-chi e' tutto il mondo. E questo non-importa-chi puo'
prendere la forma atroce di un bambino in corsa... Non ci sara' piu' nulla
da scrivere, nulla da leggere. Non ci sara' che l'intraducibile della vita
di questi morti cosi' giovani, giovani da urlare".
Voglio citare una frase di Anna Achmatova, che ha sofferto tanto della
crudelta' del regime oppressivo del suo Paese, e che ha perduto suo figlio.
E' cio' che avrei detto a mia figlia Smadar quando l'ho vista per l'ultima
volta, prima di tornare sui miei passi e abbandonarla a mani straniere: "E
perche' questo filo di sangue sul petalo della tua gota?".
Io che non ho saputo proteggere mia figlia contro le conseguenze degli atti
del suo stesso Paese, io vi invoco, voi madri che non avete ancora perduto i
vostri figli: proteggete i vostri bambini, non lasciateli diventare pedine
in questo terribile gioco di scacchi.

3. DIRITTI UMANI. NADIA CERVONI: PER LEYLA ZANA
[Da Nadia Cervoni (per contatti: giraffan at tiscalinet.it, sito:
www.donneinnero.org) riceviamo e diffondiamo. Nadia Cervoni e' impegnata
nelle Donne in nero ed in numerose iniziative di pace, solidarieta',
nonviolenza. Leyla Zana,  intellettuale kurda, tra le figure piu'
significative dell'impegno per i diritti umani, eletta al Parlamento della
Turchia, ha subito durissime persecuzioni e la privazione della liberta' per
il suo impegno per i diritti del suo popolo, la democrazia e la dignita'
umana; e' in corso una campagna internazionale per la sua liberazione]
Il 18 luglio 2003 si svolgera' ad Ankara la quinta udienza del processo a
Leyla Zana, condannata dal Tribunale di Ankara nel 1994 insieme a Hatip
Dicle, Orhan Dogan e Selim Sadak, tutti e quattro ex deputati curdi del
disciolto partito Dep, a 15 anni di prigione con un processo giudicato
iniquo dalla Corte suprema europea per i diritti umani che ha quindi imposto
alla Turchia di ripetere il processo.
Sara' presente all'udienza del 18 luglio una delegazione italiana composta
dalle parlamentari Elettra Deiana (Prc) e Silvana Pisa (Ds) e da Nadia
Cervoni delle Donne in nero. La delegazione si unira' alle altre delegazioni
internazionali e in particolare alla delegazione dei parlamentari europei
tra cui Luisa Morgantini, Luigi Vinci, presente a tutte le udienze, e
Silvana Barbieri dell'associazione "Punto rosso", gia' protagonista di
numerose campagne a sostegno della liberta' per Leyla Zana.
Le Donne in nero insieme alla Wilpf e "Un ponte per" sono promotrici
dell'appello per la  campagna on line "liberta' per Leyla Zana", e-mail:
libertaperleylazana at donneinnero.org sostenuta anche dall'associazione "Punto
rosso".
*
Attraverso la  forte e rilevante adesione nazionale alla campagna da parte
di associazioni, istituzioni, rappresentanze politiche e singoli e' stato
possibile  realizzare alcune significative iniziative, alcune delle quali
nella citta' di Roma, di cui Leyla Zana e' cittadina onoraria gia' dal 1994;
tra esse:
- un comunicato stampa delle parlamentari del centro sinistra, prime
firmatarie Elettra Deiana e Silvana Pisa, inviato anche all'ambasciata turca
in Italia, a sostegno della liberta' per Leyla Zana  e degli altri tre
coimputati;
- un quesito in Parlamento rivolto al governo su iniziativa di Elettra
Deiana, in merito  all'impegno del governo italiano per il rispetto durante
il processo di criteri di trasparenza e di equita', cosi' come imposto dalla
Corte suprema europea;
- la stampa e affissione del  manifesto cittadino "Liberta' per Leyla Zana,
protagonista di pace", su iniziativa del Comune di Roma, assessorato alle
pari opportunita'; il manifesto sara' anche sul sito del Comune di Roma per
le giornate del 16-18 luglio 2003;
- la delibera del Consiglio Comunale di Roma approvata all'unanimita' il 10
luglio 2003 a sostegno della liberta' di Leyla Zana, su iniziativa delle
consigliere comunali componenti la Commissione delle elette;
- i sit-in davanti all'ambasciata turca a Roma ad ogni vigilia delle udienze
del processo, organizzati dalle Donne in nero, Wilpf, "Un ponte per".
*
Il prossimo sit-in e' indetto per il 17 luglio 2003, dalle ore 15,30 alle
17; davanti all'ambasciata turca, via Palestro 28, Roma. Siamo state
informate del disappunto manifestato da rappresentanti dell'ambasciata turca
alle autorita' italiane per le nostre manifestazioni a cui partecipa anche
la comunita' curda di Roma. E' importante quindi la partecipazione e la
riuscita del sit-in del 17 luglio che sicuramente verra' riportato anche al
governo turco.
Per informazioni e contatti: Donne in nero di Roma, sito:
www.donneinnero@org; Gruppo solidarieta' con le donne curde e turche,
e-mail: jin-kadin at donneinnero.org

4. TESTIMONIANZE: SVEVA HAERTTER: GLI OBIETTORI DI COSCIENZA ISRAELIANI IN
TRIBUNALE
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 13 luglio 2003. Sveva Haertter fa parte
della rete "Ebrei contro l'occupazione"]
Domani riprendera' davanti alla corte marziale di Jaffa il processo a cinque
giovani israeliani che rifiutano la leva, portati in tribunale per il
rifiuto di partecipare all'occupazione.
Ecco, a mo' di testimonianza e prese dalle relazioni di "Gush Shalom", come
si sono svolte le ultime udienze dei due processi, quello a Yoni Ben-Artzi
ed il cosiddetto "processo dei cinque".
*
Nell'udienza del giudizio contro Yoni Ben-Artzi, la prima testimonianza e'
stata quella di Ruti, sua sorella maggiore, che ha raccontato le fasi del
percorso pacifista di Yoni.
Durante il controinterrogatorio il Pm ha, come sempre, tentato di mettere in
evidenza presunte contraddizioni tra varie interviste e testimonianze dei
familiari ("Non e' forse vero che tuo padre tre anni fa in un intervista ha
detto cose diverse? E come mai tuo nonno pensa che la tua forse e' solo
paura?"), approfittando del fatto che l'eterogenea famiglia Ben-Artzi (lo
zio di Yoni e' l'ex premier e attuale ministro dell'economia Benjamin
Netanyahu, di estrema destra) e' spesso sotto i riflettori.
*
Alla prima udienza del "processo dei cinque" l'avvocato Dov Henin ha
esordito esponendo le lineee di fondo di una difesa centrata su un punto
costituzionale di fondo: "La coscienza e' la parte piu' importante della
dignita' umana, la parte della personalita' che ne definisce i valori
essenziali, se questa parte viene spezzata, la persona stessa si spezza". La
liberta' di coscienza in realta' e' gia' parte della legislazione israeliana
da una decina di anni, anche se le autorita' militari finora non sembrano
essersene accorte.
Il primo dei cinque imputati a parlare e' stato Haggai Matar.
Per due ore ripercorre le varie tappe della propria militanza, le iniziative
di "Gush Shalom" e di "Ta'ayush", storie di repressione e di amicizie con
ragazzi palestinesi (uno in carcere da 6 anni senza processo) e conclude
affermando che "dopo queste esperienze non ho alcun dubbio: non voglio e non
posso essere parte dell'esercito israeliano che non ha piu' alcun diritto di
autodefinirsi un esercito di difesa".
*
Non meno commovente l'intervento di Matan Kaminer. "Per me il valore piu'
importante e' la liberta' degli esseri umani, i diritti umani. Io credo che
tutti gli esseri umani abbiano diritti inalienabili come il diritto alla
vita, all'eguaglianza, al benessere, allo studio, alla liberta' di
associazione, alla democrazia. Tutti questi diritti sono violati
dall'occupazione - principalmente per i palestinesi, ma anche per gli
israeliani. Il diritto dei palestinesi alla vita e' violato dalla politica
degli assassinii mirati e dalle attivita' militari in aree densamente
popolate che causano morte e ferimento di civili. Il diritto all'eguaglianza
e' violato dalla politica degli insediamenti che toglie terra, risorse e la
dignita' ai palestinesi e comporta un'iniqua distribuzione delle risorse
nazionali tra gli stessi israeliani. Il diritto dei palestinesi al benessere
ed allo studio e' violato dalle continue chiusure, dal coprifuoco. La piu'
importante, anche se non necessariamente la piu' dolorosa delle violazioni
riguarda il diritto a vivere in un sistema democratico. Lo stesso dominio di
un popolo su un altro popolo e' una flagrante violazione di questo diritto
(...) Il disprezzo per la democrazia si sta gradualmente espandendo in
Israele dove ormai si accetta come un fatto normale la presenza di partiti
razzisti di estrema destra nei governi. La privazione dei palestinesi del
diritto alla democrazia e' la radice di tutti i crimini che accompagnano
l'occupazione - sia i crimini degli occupanti che ho in parte descritto, sia
i crimini degli occupati, spinti a forme di lotta inumane ed immorali.
Nessuno di questi crimini e' giustificabile e tutti derivano direttamente
dall'occupazione e possono cessare solo con la fine dell'occupazione stessa.
Da tutto questo consegue logicamente che il servizio nell'esercito, che e'
strumento principale dell'occupazione, e' totalmente contrario alla mia
coscienza. L'occupazione e' un crimine terribile, un crimine immorale e
maligno contro un'altra societa' che si estende verso la nostra, un crimine
che la strangola ed avvelena. Per questo e' evidente che non posso far parte
dell'esercito e chiedo che venga riconosciuta la mia coscienza e che mi
venga data l'opportunita' di svolgere un servizio civile a beneficio della
societa' israeliana della quale faccio e mi sento parte".
*
Poi Shimri Tzameret, la cui testimonianza ha chiuso l'udienza. "So da anni
che non faro' parte dell'esercito, con la stessa certezza con la quale posso
affermare che non prendero' mai a calci un barbone sul marciapiede, che non
violentero' mai una donna, e che quando avro' un figlio non lo abbandonero'.
Non ritengo necessario esporre le conseguenze dell'occupazione per i
palestinesi: quelle su noi stessi sono una ragione sufficiente. Inizio dagli
attentati suicidi. In un modo o nell'altro in molti siamo colpiti
direttamente. Poco piu' di un anno fa, proprio nel giorno in cui decisi di
dire ai miei compagni di scuola che avrei rifiutato la leva, ci fu un
attentato suicida nel quale mori' la madre e una sorella di una delle mie
compagne di scuola. Capii che la vita di una ragazza che conoscevo, non
sarebbe mai piu' stata la stessa. Molti dei miei compagni di scuola erano in
collera e chiedevano come potevo rifiutare di fare il soldato in un simile
momento. 'Rifiuto precisamente per questo motivo', risposi. Tenere
l'esercito nei territori non e' un modo per fermare gli attacchi
terroristici. Proprio perche' ho affermato che intendo fare il possibile per
impedire queste cose, penso che come individuo la cosa piu' importante da
fare sia di rifiutare di servire nell'esercito. Nessuno sa quando avra'
termine questa situazione. Negli ultimi secoli la ribellione delle
popolazioni occupate ha sempre portato alla loro liberazione. E' solo una
questione di tempo, di quante altre saranno le vittime. Cerco di contribuire
a ridurre entrambe le cose. Poi c'e' quello che l'occupazione sta facendo
alla nostra societa'. Ho conosciuto Rami in carcere e l'ho ascoltato per
ore. Incredibile a quante cose terribili ha dovuto assistere in soli tre
mesi di servizio nei territori occupati. Mi ha detto di un ragazzo che aveva
lanciato una pietra contro la jeep di un colonnello senza colpirla. Il
colonnello lo ha inseguito lo stesso per poi picchiarlo brutalmente con il
calcio del fucile. Ha visto un agente dello Shabak orinare addosso ad un
bambino dopo averlo legato. Mi ha raccontato di soldati che scassinavano un
negozio portando via tutto cio' che riuscivano a trasportare. Mi ha detto di
come non riusciva piu' a sopportare tutto questo, di come ha passato molte
notti chiuso nel bagno con la pistola puntata alla tempia, il dito sul
grilletto. Alla fine e' scappato ed e' cosi' che e' finito in prigione. Le
persone insensibili, quelle che si abituano a queste regole da far west, poi
le trasportano nella stessa societa' israeliana. Stiamo corrompendo noi
stessi. Non sono disposto ad essere parte di questo strumento di
corruzione".
Domani tocchera' alle testimonianze di Noam Bahat e di Adam Maor.

5. RIFLESSIONE. ELISABETH JANKOWSKI: LA LINGUA E LA GUERRA
[Dal sito della Libreria delle donne di Milano (www.libreriadelledonne.it)
riprendiamo questo articolo apaprso sul quotidiano "L'Unita'" il 24 maggio
2003. Elisabeth Jankowski e' lettrice di lingua tedesca all'Universita' di
Verona]
In questi giorni, comincio ogni lezione con una mia considerazione sulla
guerra in Iraq. Gli studenti, quasi tutte ragazze, mi ascoltano facendo
segno di si' con la testa.
Noi che studiamo e amiamo le lingue straniere siamo "naturalmente" contro la
guerra. La nostra pratica quotidiana di avvicinarci a un'altra lingua e
cultura con la parola ci impedisce di esser complici di violenza verso
stranieri. Noi bussiamo alla porta di un paese lontano solo con la parola in
mano. Aspettiamo il gesto, il benvenuto, ben sapendo di dover imparare da
chi aprira' la porta. Stiamo in un ascolto per mescolare il loro e il nostro
sentire. Ci sediamo a tavola e accettiamo volentieri il cibo offerto
generosamente dalle loro mani.
Bussiamo alla porta con la bocca affamata, curiosa di succhiare. Cibo e
parole si mescolano, un abbraccio, un bacio. Il significato del discorso
arriva piu' tardi, viene prima il rapporto con l'altro. Come avviene per i
bambini piccoli, anche la nostra prima comprensione e' tutta orale: la bocca
trae piacere dal mangiare, dal parlare.
*
La guerra, al contrario, e' un disordine alimentare e acustico. C'e' chi
muore di sete e di fame, chi aspetta approvvigionamenti da lontano. Tutti
hanno fame. Il suono diventa rumore. Gli aeri e i missili schiacciano ogni
parlare.
La bocca non bacia ma grida parole che non sono capite: spaventano,
inorridiscono, fanno male.
Il soldato non sente, con il casco puo' solo parlare come un sordo. Non
sente la propria voce, puo' solo gridare.
Vedere in televisione questi soldati invasori e sentire come usano la loro
comune lingua inglese contro un popolo che non la capisce, ci da' gia' la
misura di quella violenza che sta diventando quotidiana. La lingua non serve
piu' per entrare in relazione con la persona che si ha di fronte ma, al
contrario, esprime il rifiuto dell'altro. Quando i soldati con i pantaloni
alla moda che si vendono anche nelle nostre boutique, gridano parole
d'ordine e frasi di comando hanno solamente lo scopo di spaventare. Durante
il loro addestramento gli e' stato spiegato che il corpo sonoro delle parole
aggredisce il nemico e crea una cintura di protezione attorno ai soldati
alleati. La lingua in questo modo fa un salto indietro, ai tempi bui della
preistoria quando non c'era ancora l'insegnamento della madrelingua, un
tempo in cui la lingua non serviva ancora per parlare, ma solamente per
spaventare il nemico. Risuonano in quella lingua usata dai soldati
preistoriche risonanze di caccia e di battaglia.
*
Non tanto tempo indietro i nazifascisti avevano fatto lo stesso uso della
lingua. Abbiamo avuto modo di sentire le grida dei kapo' nei tanti Lager
nazisti: immagini e suoni che ci arrivano ancora oggi attraverso i film e i
documenti sulla guerra, la Resistenza e la Shoah.
Per me, lettrice di lingua tedesca all'universita', non e' mai stato facile
il rapporto con questa pesante eredita' storica. Insegnare la mia dolce e
amata lingua materna significava lottare contro l'odio e il rifiuto degli
studenti, almeno quelli che sentivano ancora le grida degli umiliati. Anche
se in cuor mio davo ragione a loro, una infinita rabbia mi coglieva ogni
volta. Rabbia contro un regime ormai seppellito da piu' di cinquant'anni, ma
che aveva offeso anche la mia lingua.
Quelle bombe della seconda guerra mondiale si sono conficcate non solo nei
corpi della gente, nei meravigliosi edifici delle bellissime citta' tedesche
ma anche nel corpus delle parole, nel tessuto vivo della mia lingua materna
e hanno fatto danni eterni cancellando per sempre alcune parole. Quando sono
arrivata in Italia piu' di venti anni fa compravo di fronte alla mia casa
l'olio e il vino in una "bottega del popolo". Lo sapevo che quella parola
"Volk" in tedesco non poteva piu' essere usata. Le bombe l'avevano distrutta
per sempre.
Ultimamente da quando i nostri studenti non hanno piu' memoria viva della
seconda guerra mondiale e i racconti dei bisnonni si affievoliscono,
l'accettazione della lingua tedesca e' aumentata e il massiccio voto tedesco
contro l'intervento militare in Iraq e' da considerasi ancora un debito che
la Germania sta pagando alla storia, anche grazie all'educazione postbellica
intrisa di democrazia e di pacifismo. Una lingua usata come strumento - il
corpo sonoro delle parole - in una guerra ingiusta rimarra' danneggiata a
lungo dalla violenza che e' stata usata attraverso di essa.
*
Peccato per l'inglese che ai nostri giovani piaceva tanto e che i Beatles
avevano radicato nel cuore della gente. E a pensare che la cultura americana
aveva in mano carte cosi' buone per conquistare il mondo pacificamente,
attraverso i suoi pensatori e le sue pensatrici, e anche con gli hamburger e
i jeans.
Inoltre, molte tra noi donne, nonostante una grande differenza fra la
filosofia gender americana e quella europea della differenza sessuale,
abbiamo da sempre ascoltato attentamente la voce delle tanti pensatrici
americane. Lo hanno fatto anche molte donne del Medio Oriente. Scrittrici
ormai famose come Fatema Mernissi si sono formate come intellettuali anche
negli Stati Uniti e hanno potuto trovare un primo riconoscimento proprio a
partire dal loro lavoro svolto in universita' americane.
A Verona, all'interno del gruppo Ishtar, associazione di donne straniere ed
italiane, si e' costituito un gruppo che impara la lingua araba da
un'insegnante di Casablanca per significare che la relazione con l'altra e
con l'altro e' possibile solo attraverso la relazione che si agisce nella
lingua. Per questo ci fanno particolarmente orrore i versi sub-umani,
antecedenti cioe' alla nascita della lingua madre, come le urla selvagge
usate dai soldati alleati in Iraq.

6. DOCUMENTAZIONE. TIZIANA BARRUCCI: IL RAPPORTO DEL COMITATO EUROPEO PER LA
PREVENZIONE DELLA TORTURA
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 12 luglio 2003. Tiziana Barrucci e' una
giornalista che scrive sovente sui temi dei diritti umani, dell'ambiente,
delle emergenze globali]
Celle sotterranee, detenuti che camminano a testa bassa lungo le pareti del
penitenziario, "schiaffi pedagogici" per i minori, commissariati come luoghi
di maltrattamento.
A proposito di condizioni di detenzione l'Italia rischia una grave condanna
da parte dell'Unione europea. L'avvertimento arriva dal "Comitato europeo
per la prevenzione della tortura" che ieri ha presentato a Roma il suo
rapporto su "Il collasso delle carceri italiane. Sotto la lente degli
ispettori europei" (edizione Sapere, curata dall'associazione Antigone).
Un volume che raccoglie le raccomandazioni rivolte al governo italiano dal
"Comitato europeo per la prevenzione della tortura" basate su ispezioni
compiute da una commissione di medici, giuristi e psichiatri in
penitenziari, questure, comandi dei carabinieri, ospedali psichiatrici e
centri di permanenza temporanea per immigrati sparsi sul territorio
nazionale. Tutte visite "a sorpresa", poiche' il comitato e' dotato di
poteri di accesso in qualsiasi momento o luogo di detenzione e a qualsiasi
fascicolo giudiziario. Unico limite, l'impossibilita' di imporre allo stato
in questione la pubblicazione dei risultati dell'indagine, cosa che spesso
costringe a terribili ritardi.
Come nel "caso Italia", dove le autorita' hanno dato l'autorizzazione a
rendere pubbliche le visite solo qualche mese fa, nonostante esse si siano
svolte tra il gennaio e il febbraio 2000. Un ritardo - secondo Patrizio
Gonnella, coordinatore nazionale di Antigone - che rientra nella tradizione
del nostro governo, e che priva il rapporto della forza dell'attualita',
senza riuscire pero' a cancellare le violazioni a lungo termine".
Tra le situazione analizzate, il comitato europeo punta il dito sulla fase
di arresto e fermo: "Un momento delicato a rischio di violazioni dei
diritti - fa notare Gonnella - durante il quale spesso non sono garantite
visite mediche, difesa o i tre pasti quotidiani".
Se i centri di permanenza temporanea per immigrati sono di fatto terra di
nessuno, dove le condizioni di vita restano legate alle discrezione di chi
li gestisce, il problema piu' grave per il comitato rimane quello del
sovraffollamento degli istituti penitenziari in generale: su 42mila posti
disponibili, nel 2000 i detenuti erano oltre 53mila e oggi sono 56.700. Una
situazione insostenibile, che il governo formalmente risolve con un gioco
abbastanza scoperto, innalzando periodicamente la cosiddetta "soglia di
tollerabilita'" (dai 48mila posti si passa agli attuali 60mila): un
parametro a piena discrezionalita' di chi lo diffonde, per nulla
riconosciuto dallo stesso comitato. Mentre quest'ultimo suggerisce una
ridefinizione delle stesse sanzioni penali.
Passando ai casi specifici, una delle situazione di possibile "trattamento
inumano e degradante" e' quella riscontrata dal comitato nel carcere di
Secondigliano (Napoli), "dove - spiega Mauro Palma, rappresentante italiano
del "Comitato europeo per la prevenzione della tortura" - i detenuti sono
abituati a camminare a testa bassa, radenti il muro, in presenza delle
guardie carcerarie"; mentre nelle carceri minorili "le regole somigliano
troppo a quelle applicate agli adulti". Senza contare che secondo il
comitato la prassi consolidata dell'isolamento per motivi disciplinari e'
oltremodo pericolosa se applicata ad un minore.
Tirando le somme cio' che maggiormente preoccupa il comitato europeo e' la
strada intrapresa dal governo italiano. Infatti, seppure segregate fino ad
oggi, le sollecitazioni del "Comitato europeo per la prevenzione della
tortura" furono gia' rese note alla coalizione di centro-sinistra. La quale,
in chiusura di legislatura, rispose con alcuni progetti decaduti con il
cambio di potere. Per questo oggi "non si parla piu' - ricorda Palma - di
sanita' carceraria in mano al sistema nazionale o di nuovi regolamenti
penitenziari, ma solo di smantellamento del codice che riguarda i minori,
una delle poche cose in cui l'Italia ha da insegnare".

7. RIFLESSIONE. MARINA SALACRIST: ANCORA SUL DIALOGO TRA LUISA MURARO E
ROSSANA ROSSANDA
[Dal sito della Libreria delle donne di Milano (www.libreriadelledonne.it)
riprendiamo questo intervento del giugno 2003. Marina Salacrist vive a
Sondrio, ha collaborato alla rivista di geofilosofia "Tellus", partecipa al
movimento e alla riflessione delle donne. Gli articoli di Luisa Muraro e di
Rossana Rossanda cui si fa riferimento abbiamo gia' pubblicato nel n. 584
del notiziario; nel n. 586 abbiamo pubblicato sullo stesso argomento anche
un intervento di Ileana Montini]
Vorrei raccontare che cosa e' successo a Sondrio a me e alle mie amiche per
le quali il coinvolgimento nella campagna elettorale delle aministrative di
un mese fa non era assolutamente in conto.
La candidata sindaca del centro-destra , che poi ha vinto le elezioni per
uno scarto ridottissimo di voti, e' uscita dal cappello all'ultimo momento
nella persona di una funzionaria della Provincia, che ha costruito la sua
esperienza politica dentro l'ondata di apertura alle donne dell'ex Pci alla
fine degli anni '80, stimata dirigente del locale coordinamento donne Cgil.
Con lei ci fu qualche incontro di scambio e di condivisione: coinvolgemmo
lei e altre a lei vicine in momenti pubblici significativi (ad esempio
durante la prima guerra del golfo), anche se nelle successive scelte
politiche sia in lei che in altre non emerse, per quel che vedemmo noi,
nessun senso di differenza rispetto agli uomini della sinistra e nessuna
intenzione di continuare il confronto tra di noi.
Grande e' stato lo sconcerto per quello che per molte sue amiche e
conoscenti e' stato vissuto - in privato - come un tradimento. Per i suoi ex
compagni di sindacato e di partito la sorpresa e' rimasta muta e senza
risposte alla domanda: "come ha potuto?".
Forse perche' tra le spiegazioni, oltre al fatto che si tratta di una donna
ambiziosa e nient'affatto refrattaria al potere, vi e' anche quella che la
nostra nuova sindaca e' una ex delusa della sinistra e dei suoi
amministratori con i quali aveva lavorato a fondo tempo fa. Ma questo non si
puo' dire in campagna elettorale, e nessuno, ne' lei ne' loro, l'hanno
detto.
La nostra attuale sindaca si e' dunque legata al potente piccolo carro del
suo capo presidente della Provincia, uomo dal passato di democristiano doc,
refrattario alla trasparenza e alla liberta' femminile: nel solco dei
"popolari retici" ha centrato la campagna elettorale sulla " difesa della
famiglia" (cosa vorra' poi dire?).
In questo clima ad un certo punto abbiamo avvertito il bisogno di rivolgerci
pubblicamente a lei, perche' sapesse che almeno ai nostri occhi non poteva
giocare la chance di candidarsi a rappresentare, o a fare gli interessi
delle donne. Abbiamo indirizzato una letterina aperta alla nostra "popolare
retica" firmata "donne e-retiche" dove le si ricordava del passato
l'attenzione alla nostra differenza, che ci aveva portato insieme a momenti
alti di impegno pubblico; che la sua scelta, in una politica sempre piu'
lontana dal rinnovamento, in compagnia di chi spinge verso la disgregazione
delle relazioni umane, il particolarismo, lo schema denaro-consumo- mercato
e' nel presente tutt'altro che manifestazione di differenza femminile.
Alcune parole che si sono distinte anche nel linguaggio dai modi
sloganistici e vuoti della campagna elettorale, e che sono piaciute a tante
e tanti, anche agli uomini della sinistra, e chissa' se hanno colto che
c'era molto da riflettere anche per loro.
Noi le abbiamo scritte perche' obbedivamo ad una specie di impegno, anche
nei confronti di lei (non potevamo far finta di nulla) e quindi seguendo una
priorita' da politica delle relazioni - anche con quella che eravamo
costrette a considerare un'avversaria politica. Le nostre parole hanno
raccolto e interpretato il sentire di molte e molti, che fino ad allora
avevano covato solo muto risentimento, in una misura del tutto sorprendente
anche per noi.
Abbiamo ricevuto moltissimi ringraziamenti dalle donne per aver fatto
riemergere momenti significativi della vita delle donne di questa citta' e
riallacciato relazioni interrotte, che e' la cosa che ci ha fatto piu'
piacere.
*
Mi accingevo a raccontarvi questa piccola storia locale, colpita dalle
conseguenze di una piccola azione maturata non nel volontarismo, ma
piuttosto nell'estraneita' alle forme della politica corrente, e che a detta
di alcuni a Sondrio e' risultata piu' efficace di tutte le altre parole
della campagna elettorale, quando leggo Rossana Rossanda su Luisa Muraro e
mi domando: ma cosa ha scritto Luisa? Avra' scritto quel che la sinistra non
vuol capire.
Poi leggo Luisa e capisco quel che Luisa vuol dire e che esattamente la
sinistra non vuole capire e che non ha capito neanche nella mia cittadina.
Nella mia ricca piccola citta' non ci sono contraddizioni esplosive, e sia
per la destra che per la sinistra la campagna elettorale si e' ridotta
pressoche' al piano traffico, se quel tal senso unico sia di destra o di
sinistra, alle fontane e alle piste ciclabili realizzate o da realizzare. Ma
i desideri delle persone e delle donne, che piu' degli uomini in citta'
scelgono di andare a piedi o in bicicletta, non sono quelli: sono di una
vita piu' condivisa, di una maggiore apertura culturale nella nostra valle
chiusa, di solidarieta', di attenzione a chi ha bisogno, di accoglienza agli
immigrati.
E questo si' che farebbe una bella differenza.
Ma la sinistra non e' stata capace che di difendere quello che aveva
realizzato nelle ultime due amministrazioni e ha perfino bacchettato il suo
candidato sindaco, persona fuori dai giri di partito e pertanto autentico
nelle sua voglia di ascoltare la gente. Anche per questo il candidato del
centro-sinistra ha perso: i suoi compagni di viaggio erano su un altro
ordine di discorso e non erano disposti ad aprirsi ad altro.
Non so se la nostra sindaca lo sappia gia', ma ovunque la politica fa
salamelecchi alla bravura e all'efficienza delle donne purche' aderiscano in
toto ai suoi metodi e alle sue mediazioni. Ma non accetta che si esca da
esse, sia a destra che a sinistra: di fatto si parlano due lingue diverse.
E ha ragione Luisa Muraro a ricordare che, mediazione dopo mediazione,
l'essere di sinistra va a farsi benedire, e allora diventa solo un richiamo
di principio, che non serve a niente, se non a tener vivo il desiderio delle
utopie: ma quel desiderio c'e' poi ancora nella testa dei suoi uomini
politici?
Da loro non abbiamo sentito, ultimamente, parole che costruissero
sull'esperienza di questi mesi dei cortei e dalle bandiere della pace di
milioni di persone; li abbiamo visti tornare rapidamente pavoni per via di
qualche buon risultato delle amministrative.
Si sente che tutto quel che di autentico era stato espresso e' stato
rapidamente digerito ed accantonato per ritornare alle infinite mediazioni
di correnti e di alleanze.
Che fare delle parole di verita' che le donne hanno saputo e talvolta sanno
dire, dei pensieri pensati da milioni di persone nella primavera scorsa?
Questo si' mi piacerebbe chiedere a Rossana Rossanda: me lo chiedo tutti
giorni e non ho risposte in tasca.

8. RIFLESSIONE. SEVERINO VARDACAMPI: A PROPOSITO DI SCORIE NUCLEARI
Condividiamo e sosteniamo le mobilitazioni di quanti si oppongono alla
decisione governativa di realizzare depositi di scorie nucleari senza il
consenso delle popolazioni dei territori a tal fine autoritariamente
individuati e aggrediti.
Crediamo infatti che la gestione delle scorie sia una grande, grandissima
questione politica, su cui ci deve essere una riflessione pubblica la piu'
ampia ed esplicita possibile, una riflessione informata e responsabile,
senza trucchi, senza demagogie, senza colpi di mano, senza criminali idiozie
che possono avere conseguenze irreparabili.
Poiche' e' ovvio per noi che e' inammissibile sia che le scorie nucleari -
cosi' come tutti i rifiuti altamente e prolungatamente tossici - vengano
disperse in modo occulto (e magari per il tramite dei poteri criminali); sia
che esse vengano razzisticamente e colonialisticamente stoccate nei paesi
poveri del sud del mondo che strozzati dal bisogno venissero costretti a
divenire le pattumiere del mondo (col rischio di esiti configurabili come
veri e propri genocidi); sia che un ristretto gruppo di potere decida senza
e contro la consapevolezza e la volonta' dei cittadini questo o quel sito in
una delle nostre regioni (e non a caso nelle ignobili intenzioni governative
sembra esservi il progetto di una nuova aggressione alla Sardegna gia'
martoriata da una politica che per chiamare le cose col loro nome dovremmo
chiamare di oppressione coloniale, comprensiva di insediamenti militari
atomici di una potenza straniera - la piu' aggressiva e feroce di tutte le
potenze).
Il nucleare, civile e militare, e' una follia. Ed occorrerebbe riprendere la
mobilitazione per fermarne la proliferazione ovunque.
Ma certo occorre porsi anche, qui e adesso, il problema di come gestire, e
dove collocare, le scorie ormai esistenti. E su questo occorre che si apra
un dibattito pubblico, senza colpi di mano, senza inganni, senza illusioni.
*
Io che scrivo queste righe sono di quelli che negli anni settanta ed ottanta
si batterono contro la prevista costruzione di nuove centrali nucleari in
Italia e per lo smantellamento di quelle esistenti; molte preziose amicizie
le ho strette dinanzi ai cancelli della centrale di Montalto di Castro (e
ancor prima che i lavori del cantiere iniziassero, nella campagna di pian
dei Cangani nel '77).
Le esperienze teoriche e pratiche compiute da un vasto movimento nel
decennio che va dal Piano energetico nazionale che prevedeva decine di nuove
centrali alla catastrofe di Cernobyl e alla vittoria referendaria, quelle
esperienze meriterebbero di essere ripercorse, ripensate, rielaborate,
trasmesse, poiche' contengono - e non solo in nuce - indicazioni feconde per
l'agire oggi necessario.
E tra esse mi piace collocare il sorgere spontaneo e diffuso - finalmente a
livello di consapevolezza e mobilitazione di massa, di partecipazione
collettiva, di "democrazia partecipata" come si usa dire oggi con formula
che trovo a dir poco tautologica - di una critica ad ogni autoritarismo e
specialismo, di una critica pratica agli assetti, i procedimenti e gli esiti
del sapere e del potere in aree - le scienze, la ricerca, le tecnologie, gli
intellettuali "come addetti al controllo e all'oppressione" -
precedentemente restate pressoche' immuni dalla grande ventata di aria
pulita venuta dai movimenti che semplificando si ama definire del
sessantotto studentesco e del sessantanove operaio (ma occorrerebbe dire
delle esperienze e delle riflessioni nate intorno al lavoro dei gruppi che
anche qui semplificando diremo di Franco Basaglia a Gorizia, di Giulio A.
Maccacaro, del consiglio di fabbrica della Montedison di Castellanza, di
Marcello Cini, di Dario Paccino, eccetera).
In questi ultimi dieci-quindici anni ho sovente avvertito acutamente come la
coscienza ecologista (semplifico, lo so) mentre si andava estendendo a
raggiungere gran parte delle classi e dei ceti come sensibilita'
superficiale, si andava progressivamente impoverendo e banalizzando - e
mercificando persino -, fino ad arrivare al punto che da qualche anno
vengono spacciate per grandi novita' proposte di analisi e di intervento
scandalosamente minimali e subalterne sulle questioni fondamentali
dell'acqua, dell'aria, della terra, della salute, del sapere, dell'energia,
dei consumi, della produzione e della riproduzione. Mentre sono cresciuti in
progressione geometrica non solo l'inquinamento e la rapina delle risorse,
lo scadimento della vita e dell'ambiente, ma anche l'ideologia dello spreco
che fa si' che per trovare un militante del "movimento" che abbia rifiutato
di avere l'automobile e il telefonino devi mettere un'inserzione sul
corriere dei lunatici (ed infatti come bizzarra persona sei considerato da
chi viene a sapere che non hai mai preso la patente di guida e un telefonino
non sapresti neppure come accenderlo).
Cosicche' questa vicenda del tentativo del governo in carica di allocare con
la forza e col segreto i veleni radioattivi in casa di persone ignare o
indisponibili, e la necessita' di costruire un movimento di discussione e di
lotta, di consapevolezza e di solidarieta' su questo, e' anche un'occasione
per porci di nuovo quesiti di fondo, e costruire un movimento che sappia si'
agire localmente, ma pensando globalmente, e che preferisca non eludere ma
si faccia carico delle comuni responsabilita'. E ad esempio: vogliamo
discuterne pubblicamente, collettivamente, di cosa farne delle scorie
nucleari esistenti? Vogliamo cercare soluzioni di solidarieta' e di
giustizia per riparare noi agli errori gia' da altri commessi? Vogliamo
impedire nuovi abusi e nuove disennatezze? La politica dello struzzo
servira' forse a carpire voti, ma non aiuta ne' l'umanita' vivente oggi, ne'
le generazioni future.

9. INCONTRI. NORMA BERTULLACELLI: IN SILENZIO PER LA PACE A GENOVA
[Ringraziamo Norma Bertullacelli per questo intervento. Norma Bertullacelli
(per contatti: norma.b at libero.it), insegnante, amica della nonviolenza,
collaboratrice di questo foglio, e' impegnata nella "Rete controg8 per la
globalizzazione dei diritti" di Genova]
Con l'"ora in silenzio per la pace" di oggi, 16 luglio 2003 (ore 18-19),
dopo ottantatre settimane, l'iniziativa viene sospesa in coincidenza con le
manifestazioni e i dibattiti per non dimenticare Genova 2001.
Sostando in silenzio sui gradini del palazzo ducale di Genova, i
partecipanti hanno denunciato l'inutilita', l'illegalita' e la criminalita'
delle guerre piu' note, Afghanistan ed Iraq; hanno ricordato l'esistenza
delle gabbie di Guantanamo e del popolo palestinese; hanno denunciato il
pesante coinvolgimento italiano nei conflitti.
Hanno ricordato anche ai passanti l'esistenza di decine di guerre
"dimenticate" dai media e dall'opinione pubblica ed hanno raccolto notizie
su questi conflitti in un opuscolo che verra' distribuito oggi e durante le
varie iniziative di questi giorni.
L'opuscolo puo' anche essere consultato all'indirizzo:
http://it.groups.yahoo.com/group/forumsociale-ponge/files/guerre_dimenticate
.pdf o richiesto direttamente all'autrice di questo articolo.

10. RILETTURE. ALFREDO BONAZZI: SQUALIFICATI A VITA
Alfredo Bonazzi, Squalificati a vita, Gribaudi, Torino 1975, terza edizione
ampliata, pp. 208 + inserto fotografico. Una inchiesta e una raccolta di
testimonianze sui manicomi criminali italiani (nel linguaggio legislativo e
burocratico: opg, ospedali psichiatrici giudiziari), una forte denuncia
scritta dal poeta emerso dal mondo carcerario (una breve autobiografia di
Alfredo Bonazzi e' nel fascicolo 55 della Biblioteca di lavoro diretta da
Mario Lodi: "Storia di un poeta: dal carcere alla poesia").

11. RILETTURE. ALBERTO MANACORDA: IL MANICOMIO GIUDIZIARIO
Alberto Manacorda, Il manicomio giudiziario, De Donato, Bari 1982, pp. 222.
A nostra conoscenza e' ancora la migliore monografia su questa istituzione
totale tuttora sciaguratamente presente nell'ordinamento penitenziario
italiano.

12. RILETTURE. MARIA LUISA MARSIGLI: LA MARCHESA E I DEMONI
Maria Luisa Marsigli, La marchesa e i demoni, Feltrinelli, Milano 1973, pp.
XXIV + 208. Il diario di una detenzione manicomiale, con prefazione di
Franco Basaglia.

13. RILETTURE. MARINA VALCARENGHI: I MANICOMI CRIMINALI
Marina Valcarenghi, I manicomi criminali, Mazzotta, Milano 1975, pp. 228. Un
ancor utile lavoro di denuncia e documentazione.

14. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

15. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti, la e-mail e': azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: lucben at libero.it;
angelaebeppe at libero.it; mir at peacelink.it, sudest at iol.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it. Per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Per non ricevere piu' questo notiziario e' sufficiente inviare un messaggio
con richiesta di rimozione a: nbawac at tin.it

Numero 613 del 16 luglio 2003