La nonviolenza e' in cammino. 593



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 593 del 26 giugno 2003

Sommario di questo numero:
1. Daniele Lugli: sulla proposta di Lidia Menapace per le bandiere della
pace
2. Paolo Oddone: sulla proposta di Lidia Menapace per le bandiere della pace
3. Vittoria Oliva: sulla proposta di Lidia Menapace per le bandiere della
pace
4. Enrico Peyretti: sulla proposta di Lidia Menapace per le bandiere della
pace
5. Lidia Menapace: lavoro e diritti dopo il referendum
6. Giulio Vittorangeli: note di un viaggio in Nicaragua
7. Rossana Rossanda interroga Maria Luisa Boccia su femminismo e sinistra
8. Norma Bertullacelli: sui gradini del palazzo
9. Eduardo Galeano: campioni
10. Rletture: Sibilla Aleramo, Una donna
11. Riletture: Grazia Deledda, Cosima
12. Riletture: Matilde Serao, Saper vivere
13. La "Carta" del Movimento Nonviolento
14. Per saperne di piu'

1. PROPOSTE. DANIELE LUGLI: SULLA PROPOSTA DI LIDIA MENAPACE PER LE BANDIERE
DELLA PACE
[Ringraziamo Daniele Lugli (per contatti: daniele.lugli at libero.it) per
questo intervento. La proposta cui si fa riferimento e' apparsa sul
notiziario di ieri. Daniele Lugli e' il segretario nazionale del Movimento
Nonviolento, e persona di squisita gentilezza e saggezza grande]
Mi pare una buona idea. La propongo al coordinamento del Movimento
Nonviolento ed ai vari organismi in cui siamo presenti.

2. PROPOSTE. PAOLO ODDONE: SULLA PROPOSTA DI LIDIA MENAPACE PER LE BANDIERE
DELLA PACE
[Ringraziamo Paolo Oddone (per contatti: warnews at kontrokultura.org) per
questo intervento. Paolo Oddone e' coordinatore di "Warnews", che svolge un
prezioso lavoro di informazione e documentazione sui conflitti bellici in
corso (sito: www.warnews.it)]
Sulla proposta di Lidia Menapace mi permetto di fare una proposta.
Secondo me non si puo' chidere alla gente una cosa macchinosa come
ricordarsi gli inizi di stagione o una qualche altra periodicita', in breve
resterebbero pochi convinti e tanti indifferenti dimenticherebbero la
bandiera nel cassetto.
La cosa piu' semplice e immediata sarebbe, a mio avviso, stabilire, in
accordo con tutti i gruppi pacifisti del mondo, una settimana per la pace
all'anno, in occasione della ricorrenza di un evento simbolico ( ad esempio
andrebbe bene il ricordo di un "effetto collaterale" che ha ucciso molti
civili in una guerra contemporanea).
In questa occasione, oltre ad esporre tutti le bandiere, si potrebbero
organizzare incontri , convegni, dibattiti, mostre ecc.
E magari organizzare anche raccolte di fondi a favore dei movimenti
pacifisti che operano nelle zone di guerra.

3. PROPOSTE. VITTORIA OLIVA: SULLA PROPOSTA DI LIDIA MENAPACE PER LE
BANDIERE DELLA PACE
[Ringraziamo Vittoria Oliva (per contatti: huamboparanoico at tin.it) per
questo intervento. Vittoria Oliva e' impegnata nell'esperienza informativa
de "L'avamposto degli incompatibili"]
Le bandiere della pace non debbono essere tolte.
Si scoloriranno, si sbrindellerano, ebbene? Spendiamo tanti soldi per
innumerevoli sciocchezze in occidente, si possono ricomprare le bandiere
della pace, e' anche un sistema per autoifinanziarsi.
E' anche un sistema per sapere quanti siamo convinti veramente della
necessita' della pace, al di la' delle divergenze; se c'e' una guerra
duratura perche' non ci debbono essere sempre le bandiere della pace?

4. PROPOSTE. ENRICO PEYRETTI: SULLA PROPOSTA DI LIDIA MENAPACE PER LE
BANDIERE DELLA PACE
[Ringraziamo Enrico Peyretti (per contatti: peyretti at tiscalinet.it) per
questo intervento. Enrico Peyretti e' uno dei principali collaboratori di
questo foglio, ed uno dei maestri piu' nitidi della cultura e dell'impegno
di pace e di nonviolenza. Tra le sue opere: (a cura di), Al di la' del "non
uccidere", Cens, Liscate 1989; Dall'albero dei giorni, Servitium, Sotto il
Monte 1998; La politica e' pace, Cittadella, Assisi 1998; Per perdere la
guerra, Beppe Grande, Torino 1999. E' diffusa attraverso la rete telematica
(ed abbiamo recentemente ripresentato in questo notiziario) la sua
fondamentale ricerca bibliografica Difesa senza guerra. Bibliografia storica
delle lotte nonarmate  e nonviolente]
Capisco l'istanza che muove la proposta di Lidia Menapace e Giovanni Catti.
La trovo un pochino complicata:
1) ad ogni cambio di stagione bisognerebbe fare una campagna pro-memoria,
con esito incerto, perche' dimenticare e' facile;
2) una comparsa ogni tre mesi resta poco visibile, troppo diradata.
*
Per quel che puo' valere, faccio una proposta analoga e diversa: esporre la
bandiera ogni fine settimana, ogni sabato e domenica (piu' le altre feste,
se ti piace).
Vantaggi:
1) e' piu' facile da ricordare, puo' diventare buona abitudine;
2) la comparsa ha un ritmo piu' serrato, e' piu' visibile;
3) la successione abbastanza ravvicinata - sui sette giorni - di
esposizione-ritiro accentua la visibilita' del segno dato, tolto, rinnovato;
4) la frequenza settimanale della comparsa indica la costante attenzione e
vigilanza degli espositori della bandiera.
La quale, ricordiamolo a tutti, e' unica tra tutte le bandiere, nella storia
umana: tutte le altre indicano patrie, eserciti, squadre, simboli di parte,
appartenenze parziali e contrapposte, e sono spesso inferocite da simboli
bestiali, o da croci militarizzate (come Erasmo denunciava), o da stemmi
signorili; questa nostra e' la bandiera di tutti i colori, di tutte la
parti, di tutti i popoli, di tutte le idee che vogliono convivere con le
altre. Esclude soltanto chi esclude e si esclude. Abbiamo creato - meglio:
ravvivato e moltiplicato - un archetipo profondo, un simbolo piu' grande e
potente di quello che potevamo pensare all'inizio.
Si', c'e'  la bandiera dell'Onu, ma non e' cosi' diffusa e, in questo
momento, non e' cosi' significativa, anche se sarebbe giusto che lo
diventasse.
Che ve ne pare?
*
Post scriptum. Con orgoglio: la mia e' esposta da novembre o dicembre
(sicuramente prima di Natale), fissa tra cielo e terra da 7-8 mesi, e quali
mesi! Ora non la rimuovo. La togliero' e la rimettero' solo quando ci sara'
un sufficiente accordo sui tempi.

5. EDITORIALE. LIDIA MENAPACE: LAVORO E DIRITTI DOPO IL REFERENDUM
[Ringraziamo Lidia Menapace (per contatti: llidiamenapace at virgilio.it) per
questo intervento. Lidia Menapace e' nata a Novara nel 1924, partecipa alla
Resistenza, e' poi impegnata nel movimento cattolico, pubblica
amministratrice, docente universitaria, fondatrice del "Manifesto"; e' tra
le voci piu' alte e significative della cultura delle donne, dei movimenti
della societa' civile, della nonviolenza in cammino. La maggior parte degli
scritti e degli interventi di Lidia Menapace e' dispersa in quotidiani e
riviste, atti di convegni, volumi di autori vari; tra i suoi libri cfr. (a
cura di), Per un movimento politico di liberazione della donna, Bertani,
Verona 1973; La Democrazia Cristiana, Mazzotta, Milano 1974; Economia
politica della differenza sessuale, Felina, Roma 1987; (a cura di, ed in
collaborazione con Chiara Ingrao), Ne' indifesa ne' in divisa, Sinistra
indipendente, Roma 1988; Il papa chiede perdono: le donne glielo
accorderanno?, Il dito e la luna, Milano 2000; Resiste', Il dito e la luna,
Milano 2001]
Non ho mai apprezzato la cosiddetta "strategia referendaria" e considero
l'alluvione dei referendum una sciagura e una pericolosa superficialita'. Ho
pero' appoggiato con grande convinzione da subito il referedum
sull'estensione dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori alle piccole
imprese.
La prima ragione e' che col sistema maggioritario la migliore delle leggi (e
le leggi nella loro articolazione sono certo in genere meglio del referendum
che e' rozzo e non articolato) resta bloccata dalla maggioranza e dunque il
referendum diventa lo strumento  principe per sbloccare la situazione di
stallo. Non e' la stessa cosa svuotare il parlamento in regime di
proporzionale nel quale gll equilibri sono piu' mobil e incerti e nel
maggioritario, che e' dato e non muta.
Tuttavia difendo sempre la posizione che la legge del referendum propone:
voto favorevole, voto contrario, astensione.
Ma astensione, nel caso dei referendum, non significa disinteresse, bensi'
che si considera la materia proposta non adatta al referendum. Se, per fare
un esempio banale, qualcuno volesse sottoporre a referendum la misura della
rete del tennis o del campo da calcio, la Corte potrebbe ammettere il
quesito dato che non e' contro legge, ma il corpo elettorale potrebbe far
capire ai proponenti che la materia non e' da referendum e quindi dare
suggerimento di non  votare. Dunque chi ha detto di non andare a votare
considera l'estensione dell'art. 18 un particolare di poco conto? E su
questo giudizio concordano governo, Ds, Margherita, Confindustria, Cisl e
Uil? mi pare preocupante e vedo nell'incontro avvenuto subito dopo l'esito
negativo del referendum, tra sindacati e confidustria, una ripresa di
"concertazione" che probabilmente era il segreto desiderio di chi ha dato
indicazione di astenersi. Era meglio dirlo, in democrazia i segreti fanno
male.
*
Ma noi che abbiamo sostenuto il referendum abbiamo fatto tutto bene?
Evidentemente no, anche se abbiamo raggiunto un quarto dell'elettorato e lo
abbiamo trovato favorevole al quesito.
Se si fosse raggiunto il quorum, l'estensione  era certa. Ma in che abbiamo
sbagliato?
Credo che d'ora in avanti nulla che sia proposto da un solo soggetto possa
aver successo nell'opinione di sinistra: bisogna sempre essere piu'
proponenti alla pari, non raccattare via via adesioni. E' un altro modo di
raccogliere forze, azioni e consenso, una pratica politica che non puo' piu'
avere la forma un po' militarista delle "alleanze". In cio' abbiamo
sicuramente sbagliato.
A mio parere anche nella rappresentazione delle aziende interessate, che non
sono piu'  a base quasi famigliare, ma spesso imprese ad altissimo livello
di tecnologia con personale di alto livello culturale e scolastico: e' un
mondo che spesso non conosciamo e il cui rapporto con il sindacato di
categoria e' difficile: si profila un passaggio come quello da operaio di
mestiere al fordismo e dal fordismo all'operaio massa e dall'operaio massa
al toyotismo e oggi a un rapporto piu' slegato e personale: ci manca una
analisi aggiornata, mi sembra, su come e' fatto il rapporto col lavoro.
E prima di tutto ci manca (o manca ai piu' in quanto sempre un po'
patriarchi) una analisi della presenza ruoli tempi e forme del lavoro delle
donne. Qui vediamo insieme il massimo di "arcaismo" (licenziamenti per
maternita' o matrimonio, per rifiuto di accettare per buone le molestie) e
il massimo di "avanzatezza" (alti livelli di scolarita' e competenza delle
donne, permanenza di ruoli domestici, fine dello stato sociale, fortissima
pressione per il "ritorno a casa delle donne" - fino ai sondaggi
commissionati per far dire ai bambini che vogiono la mamma ad occuparsi dl
loro tutto il giorno).
*
Siamo al confronto tra Il disegno di chi non vuole l'estensione dei diritti
e l'avvio di una stagione nella quale bisognera' declinarli non in forma
astratta e rigida, ma personalizzata e garantita come diritto uguale.
Insomma non e' finita, come non e' finita la guerra di Bush e cominciano le
imbarazzanti domande sulle sue bugie a proposito di armi irachene di
distruzione di massa.
Anche da noi conviene tenere aperte le domande sull'estensione del diritto
al lavoro, ancorarlo nel Trattato costituzionale europeo (dove non c'e',
sostituito da un risibile "diritto di lavorare") ecc.ecc.
Con gli undici milioni di voti raggranellati si puo' fare molta strada non
senza preoccuparsi di una opinione pubblica di destra che sta organizzandosi
(come rivela la manifestazione della destra a Parigi contro gli scioperi del
pubblico impiego, quasi una marcia dei 40.000).

6. TESTIMONIANZE. GIULIO VITTORANGELI: NOTE DI UN VIAGGIO IN NICARAGUA
[Giulio Vittorangeli (per contatti: giulio.vittorangeli at tin.it) e' uno dei
fondamentali collaboratori di questo foglio, una delle figure piu' belle
della solidarieta' internazionale, una delle persone migliori che ci e'
capitato di incontrare nella vita]
Gli incontri, svolti come coordinamento nazionale dell'Associazione
Italia-Nicaragua, rappresentano un punto di vista "privilegiato" da cui
osservare il Nicaragua.
Sono un confronto aperto con quanto di vivo resiste, lotta ed incarna il
conflitto sociale: organizzazioni sindacali, collettivi di donne, studenti,
ong, associazioni di lavoratori, alcadie, ecc. ecc. Come dire la parte viva
della societa' (intelligenza, capacita' critiche e antagoniste), erede del
migliore sandinismo, portatrice di messaggi di speranza pur tra le mille
difficolta'. Con una riflessione comune a tutti, sulle questioni
socio-economiche legate al processo della globalizzazione neoliberista che
prevede, per il continente americano, la creazione di un unico "mercato
libero", di cui potranno beneficiare soprattutto i produttori nordamericani.
Il riferimento costante e' al piano regionale centroamericano denominato
Plan Puebla Panama (Ppp), visto come strumento per rilanciare l'Accordo
continentale del libero commercio (Alca).
*
C'e' comunque un limite evidente nelle esperienze e nei movimenti che
abbiamo incontrato, legato al fatto che non riescono a trovare la forza e,
soprattutto, la compattezza necessaria.
Comprensibile, visto che la sconfitta delle opposizioni politiche
centroamericane (eredi dei movimenti di liberazione degli anni '80) ha
lasciato i Paesi centroamericani in una situazione di delusione,
particolarmente evidente in Nicaragua, dove la sfiducia e' generalizzata e
le possibilita' di mobilitazioni sono minime, in una societa' in cui le
battaglie quotidiane sono spesso legate alla sopravvivenza.
Forte e' la sensazione di un popolo stanchissimo e senza speranza, molto
timoroso e fatalista.
Resta la convinzione che a questo popolo e' stato fatto pagare pesantemente
l'aver osato alzare la testa con la rivoluzione sandinista. Certo il Fronte
Sandinista (Fsln, come partito) ha messo del suo, e non e' poco, a partire
dalla sconfitta elettorale del febbraio 1990. Inevitabilmente, viene il
momento storico nel quale il mondo di chi sta attorno pone domande decisive
e la risposta o e' giusta o e' sbagliata, nel senso che fara' crescere o
spegnere la speranza di cambiamento. La risposta dell'Fsln e' stata in
questo senso sbagliata, per questo l'alternativa della sinistra sandinista
sembra poco praticabile, schiacciata fra l'eccessivo protagonismo del leader
Daniel Ortega e l'atteggiamento affaristico e speculativo di molti
dirigenti.
*
L'altro aspetto che colpisce, fortemente, ed in senso negativo, e' la
perdita di memoria della esperienza sandinista, e l'estrema velocita', la
rapidita', di come questo e' avvenuto: appena 13 anni fa in Nicaragua si
chiudeva l'esperienza della rivoluzione sandinista, che tante speranze aveva
suscitato nel mondo intero.
Nel nome della "pacificazione" si e' fortemente "dimenticato", come se gli
avvenimenti appartenessero ad un'altra epoca o ad altre genti.
La sensazione e' quella di trovarsi davanti ad una societa' smemorata,
pochissimo interessata al suo recente passato rivoluzionario.
Questo problema dell'evanescenza della "memoria storica" ha, peraltro, dei
punti in comune (pur con le dovute grandi differenze) con quanto succede da
noi. Pensiamo alle giovani generazioni, anche nelle loro componenti piu'
politicizzate sotto il segno no-global (un movimento che non a caso ha molto
piu' a che fare con coordinate spaziali che non temporali), e non e' una
sensazione rassicurante (ne' qui in Italia, ne' la' in Nicaragua), perche'
segnala la rottura di un tessuto simbolico di esperienze storiche e
significati ad esse connessi che nessuna "istituzione" sembra in grado di
ricucire.
*
Il Nicaragua di oggi e' un paese a due velocita', dove contemporaneamente
convivono il primo e il terzo mondo.
Da una parte la ricchezza di una minoranza di ricchi e ricchissimi.
L'oligarchia tradizionale, quella padrona delle terre, e quella entrata in
Nicaragua dopo la prima sconfitta elettorale del Fronte Sandinista nel 1990.
Dall'altra la poverta' e la miseria di una maggioranza di poveri e
poverissimi.
Cosi' la composizione sociale sta assumendo la figura di una clessidra, dove
i poveri diventano sempre piu' poveri e dove i ricchi s'arricchiscono ancora
di piu'. Alla fine, il contrasto stridente tra queste due realta' provoca
uno spaesamento che si fa ancora piu' forte pensando alla rapidita' con cui
la divisione si e' creata. In poco piu' di dieci anni, l'esperienza
rivoluzionaria sandinista e' stata letteralmente fagocitata da un modello di
sviluppo diametralmente opposto, e il Nicaragua e' diventato il secondo
paese piu' povero dell'America Latina, dopo Haiti.
Il volto della poverta' e dell'abuso e' rappresentato dalla condizione delle
donne, e ha la faccia dei bambini, ancora piu' indifesi. Infatti, se il
contesto del Paese e' fragile, la situazione delle donne e' ancora piu'
fragile, a causa della pratica e di una cultura di discriminazione e
sfruttamento maschilista. La rivoluzione del 1979 aveva mutato molti aspetti
della condizione femminile, ma il ritorno di un'economia neoliberista di
sfruttamento rende arduo il lavoro delle tante organizzazioni di donne che
cercano di mantenere le conquiste degli anni '80, integrandole con le
rivendicazione di Pechino.

7. RIFLESSIONE. ROSSANA ROSSANDA INTERROGA MARIA LUISA BOCCIA SU FEMMINISMO
E SINISTRA
[Dal sito de "La rivista del manifesto" (www.larivistadelmanifesto.it)
riprendiamo questa intervista di Rossana Rossanda a Maria Luisa Boccia
apparsa nella citata rivista nel fascicolo n. 3 del febbraio 2000.
Rossana Rossanda e' nata a Pola nel 1924, allieva del filosofo Antonio
Banfi, antifascista, dirigente del Pci (fino alla radiazione nel 1969 per
aver dato vita alla rivista "Il Manifesto" su posizioni di sinistra), in
rapporto con le figure piu' vive della cultura contemporanea, fondatrice del
"Manifesto" (rivista prima, poi quotidiano) su cui tuttora scrive. Impegnata
da sempre nei movimenti, interviene costantemente sugli eventi di piu'
drammatica attualita' e sui temi politici, culturali, morali piu' urgenti.
Opere di Rossana Rossanda: Le altre, Bompiani, Milano 1979; Un viaggio
inutile, o della politica come educazione sentimentale, Bompiani, Milano
1981; Anche per me. Donna, persona, memoria, dal 1973 al 1986, Feltrinelli,
Milano 1987; con Pietro Ingrao et alii, Appuntamenti di fine secolo,
Manifestolibri, Roma 1995; con Filippo Gentiloni, La vita breve. Morte,
resurrezione, immortalita', Pratiche, Parma 1996; Note a margine, Bollati
Boringhieri, Torino 1996. Ma la maggior parte del lavoro intellettuale,
della testimonianza storica e morale, e della riflessione e proposta
culturale e politica di Rossana Rossanda e' tuttora dispersa in articoli,
saggi e interventi pubblicati in giornali e riviste.
Maria Luisa Boccia e' docente di storia della filosofia politica
all'Universita' di Siena, e vicepresidente del Centro studi per la riforma
dello Stato; tra le opere di Maria Luisa Boccia: L'io in rivolta. Vissuto e
pensiero di Carla Lonzi, 1990; (a cura di), La legge e il corpo, 1997; (con
Grazia Zuffa), L'eclissi della madre, 1998; La differenza politica, 2002]
- Rossana Rossanda: Tentiamo un punto dei rapporti tra femminismo e
sinistra. La sinistra ha detto a lungo che il femminisimo era uno dei suoi
"nuovi soggetti". Questo non ha giovato alla chiarezza. Se ho ben capito, il
femminismo ha messo in causa non il "che cosa" della politica ma il "come"
della politica. E non e' sempre di sinistra lo sbocco cui arriva.
- Maria Luisa Boccia: Una premessa. Occorre distinguere fra un pensiero
comune del femminismo, che ha ormai una sedimentazione e consistenza, e le
sue diverse anime divenute riconoscibili nel tempo. Nel movimento nascente
l'esigenza primaria di rendere chiaro il conflitto ci ha indotto a mettere
l'accento su quel che c'era in comune piuttosto che su quel che ci distingue
e magari ci divide. Voglio dire che parlo da una certa posizione, non
biografica, ma teorica e politica.
- R. R.: Di una femminista formatasi nella sinistra?
- M. L. B.: Si'. Il rapporto con la sinistra e' stato decisivo per la
generazione centrale del femminismo, che e' stata la mia, formatasi nella
vicenda del '68. Non penso che sia un dato biografico o sociologico, attiene
a qualcosa di piu' profondo, iscritto nella storia dell'emancipazione.
Questa ha ormai due secoli, nei quali emancipazione femminile ed
emancipazione sociale si sono strettamente intrecciate. Nascono insieme,
cominciano con la Rivoluzione francese, traversano assieme tutto
l'Ottocento, Marx e il movimento operaio. Insomma si incrociano nel bene e
nel male.
- R. R.: Perche' nel bene e nel male?
- M. L. B.: Nel bene perche' producono grandi trasformazioni nella
condizione delle donne e anche nella loro soggettivita'. Nel male perche' il
problema delle donne viene letto come una delle questioni sociali fra le
altre. Il movimento operaio pensa che sia l'ordinamento sociale a produrre
la condizione femminile. E' vero il contrario: ogni ordinamento sociale si
configura a partire dal rapporto tra uomo e donna, per millenni e' concepito
come rapporto tra superiore e inferiore. Ed ha al centro la sessualita' e la
procreazione, non i ruoli sociali.
- R. R.: Intendi dire che la divisione dei ruoli e' essa stessa una
proiezione del rapporto originario fra uomo e donna?
- M. L. B.: Voglio dire che il rapporto fra i sessi, la differenza sessuale,
impronta sia i codici sociali sia la materialita' della vita. La mia
generazione ha incontrato la "questione femminile" nel Pci come un capitolo,
piu' o meno importante, della questione sociale. Ma non e' cosi'. Non si
spiega il rapporto fra i sessi aggiungendolo nel meccanismo di questa o
quella formazione sociale. La relazione fra i sessi non e' una delle
relazioni sociali, le donne non sono un soggetto sociale, unificato dagli
interessi o dal ruolo. Su questo il femminismo degli anni Settanta opera una
cesura radicale.
- R. R.: E la sinistra non l'ha accettata?
- M. L. B.: La sinistra ne e' inevitabilmente messa in questione. Noi
femministe abbiamo posto un'esigenza di revisione in senso forte del modo
con il quale la politica formulava la questione delle donne. Piu'
esattamente, la teoria democratica della politica, perche' la sinistra
prende corpo in essa, ne articola premesse e sviluppi, ne usa vocabolario e
concetti. Il nostro discorso non e' un capitolo in piu' del testo
democratico. Ne scompagina il lessico.
- R. R.: Ricordo la discussione nei gruppi su che cosa viene prima, il
rapporto fra i sessi o il rapporto di produzione.
- M. L. B.: Appunto. Anche nel Pci e perfino fra le donne era diffusa una
critica a noi femministe: eravamo soggettiviste, privilegiando la
sessualita', privilegiavamo questioni private cui sono sensibili le elites.
E qualche forzatura o rischi di questo tipo ci sono stati. Ma il vero
interrogativo che si doveva affrontare era: il discorso che sta emergendo
fra le donne parla solo di esse o dell'intera societa'? E' fondato? Perche'
emerge ora? La nostra risposta e' che il modo col quale si e' costruito il
confine fra privato e pubblico e' decisivo per analizzare una societa', e
quindi per governarla. Se non si riconsidera che cosa riguarda il governo
pubblico, alla luce del mutare delle relazioni personali, per esempio dei
rapporti familiari, non c'e' ordine. Come ha scritto Carol Pateman, le
teorie politiche della modernita', dal seicento ad oggi, ci raccontano una
parte della storia, quella del contratto sociale, e tacciono su quella del
contratto sessuale. Questo silenzio e' all'origine della distinzione fra
privato e pubblico, che "ordina" le societa' moderne. Questo "ordine" il
femminismo lo ha messo in causa.
- R. R.: A lungo e' stato considerato privato anche il rapporto fra capitale
e lavoro. Marx lo immette nel politico e rideclina la politica in questa
ottica. Voi non avete detto che "il privato e' politico"?
- M. L. B.: Noi abbiamo detto che "il personale e' politico". E' importante
la differenza. La nostra formulazione mette in questione sia il privato sia
il politico, per come si sono costituiti. E lo fa a partire dalle pratiche
soggettive, dalle modificazioni di se' e delle relazioni. Quando affermiamo
"la sessualita' e' politica", intendiamo che quel che accade fra un lui e
una lei, come singoli nella loro casa, dove l'occhio pubblico non dovrebbe
entrare, e' politica. E facciamo politica su questo. Certo, c'e' stato anche
un travisamento quando si e' voluto trasferire il nostro assunto - la
sessualita' e' politica - nelle sedi istituzionali e nei codici, per esempio
affidando al giudice di decidere che cosa sia lecito, e "politicamente
corretto" o no, in quel che accade fra un uomo e una donna; penso alla legge
sulla violenza sessuale, le molestie sessuali. Non funziona il puro e
semplice trasferimento di queste problematiche al piano istituzionale, a
cominciare dai codici linguistici, da quelli del diritto. Non dico che essi
non hanno piu' alcun senso, dico che vanno problematizzati. Quando una parte
del femminismo ha cercato questo passaggio sul terreno istituzionale, ha
"tradito" una delle nostre piu' importanti acquisizioni: l'alfabeto stesso
dei codici societari e' sessuato al maschile.
- R. R.: Non e stata una presa di coscienza tranquillizzante.
- M. L. B.: Soprattutto e' avvenuta nel vivo d'una vicenda che ci
modificava, non in una accademia. Parlo di me. Sono cresciuta da emancipata,
dando per scontati i vantaggi dell'emancipazione, senza interrogarmi sul mio
esser donna e sui miei rapporti con le donne. Quando ne ho preso coscienza
ho dovuto riattraversare tutta la mia formazione, il mio essere marxista e
comunista, e capire perche' avessi tagliato, considerandole irrilevanti,
questioni decisive, a cominciare dal fatto che prima di essere comunista e
intellettuale ero una donna.
- R. R.: E che cosa cambia quando si capisce che si e' prima di tutto una
donna?
- M. L. B.: Ti rispondo con le parole di Virginia Woolf ne "Le tre ghinee".
Dovunque ci troviamo, a scuola o in tribunale, alle corse o in casa, in un
partito o in uno stato, dobbiamo pensare che cosa e' la civilta' in cui
viviamo, e perche' prendervi parte. Quale spazio vi ha una donna, a quali
aspettative e' assegnata? Questa presa di distanza e' l'estraneita'.
L'estraneita' non e' indifferenza, non e' astensione, non e' ritiro
aventiniano nei luoghi "protetti" del separatismo, come spesso la si e'
voluta intendere. Non significa pensare e pensarsi in un altro mondo, il
mondo e' questo, e' uno, e le donne sono in esso dovunque. Questa e' stata
la grande trasformazione rispetto ai secoli andati, e non l'ha prodotta
soltanto il femminismo, viene dalle guerre mondiali, dalla presenza
crescente nel lavoro e nelle attivita' extradomestiche, che mutano il
rapporto intimo, non solo esteriore, di una donna con la femminilita'. Ed e'
in questo scenario che sorge l'interrogativo sulla differenza dei sessi.
Perche' delle due l'una: o dell'esser donna non sappiamo che farcene (ma a
questo molto resiste, il corpo resiste) oppure dobbiamo significare
diversamente noi stesse e il mondo, e come parteciparvi. Dobbiamo - dice la
Woolf - ripensarlo, rinominarlo, farlo nostro. Questa e' stata la
rivoluzione della differenza. Non ha i canoni delle rivoluzioni politiche
perche' il suo obiettivo non e' il potere. E infatti e' partita dai paesi, e
dalle fasce sociali, dove le donne non pativano piu' una discriminazione
evidente, erano gia' in una condizione di parita'.
- R. R.: Pensi che un uomo si senta maggiormente in continuita' con la sfera
pubblica?
- M. L. B.: Penso di si', anche se detto cosi' e' troppo semplice. E poi un
mutamento radicale in un sesso non puo' non riflettersi anche nell'altro
sesso. E infatti la crisi del maschile e' tema di discorso e
rappresentazione anche da parte degli uomini. Ma si declina prevalentemente
nelle relazioni private, nella coscienza di se', non nella sfera pubblica,
mentre io credo che fra crisi della politica e crisi del patriarcato ci sia
piu' di un collegamento.
- R. R.: Ma che significa che le donne debbono ripensare se stesse? Non si
rischia di riproporre la femminilita' tradizionale come valore? Oppure non
c'e' una tentazione di essenzialismo?
- M. L. B.: Non credo che vi sia un'identita' femminile originaria,
misconosciuta, su cui poggiare la differenza. Intendiamoci: il femminismo ha
riattraversato la vicenda delle donne, mettendo in luce il loro apporto
fondamentale; ad esempio ha dimostrato come il lavoro di riproduzione
sociale, non calcolato ne' retribuito, sia condizione della produzione. Ma
e' vero che in questa lettura hanno preso forma alcune tendenze
essenzialiste, ad esempio quella che chiamo "femminilizzazione del
riformismo", che ha segnato fortemente il rapporto fra femminismo e Pci, in
particolare nella Carta delle donne, elaborata alla fine degli anni '80, per
iniziativa di Livia Turco. Il Pci, facendo propria la teoria della
differenza, e' stato chiamato a riformulare la sua politica, e infatti si e'
parlato allora di un partito "di donne e di uomini". Per un verso e' stato
un riconoscimento importante della soggettivita' femminile, delle relazioni
fra donne, dell'autonomia della loro elaborazione, insomma del patrimonio
politico prodotto dal femminismo nella differenza. Per altro verso, questa
innovazione si traduce nel declinare in politica compiti tradizionalmente
"femminili", dei quali le donne sono chiamate a farsi carico nel governo
pubblico: il lavoro di cura, l'assistenza ai deboli, dall'infanzia agli
anziani. Cosi', con rare eccezioni, sono stati attribuiti i ministeri nei
governi di centrosinistra. Fin dall'elaborazione della Carta questa
riduzione della differenza ai contenuti tradizionali della femminilita' ha
visto alcune di noi in aperto conflitto.
- R. R.: Tu dirigevi la rivista "Reti". Perche' l'hai chiusa prima che il
partito ne decretasse la fine?
- M. L. B.: Era una fine. Era ormai conclusa una fase di scambio fecondo,
anche se non privo di ambiguita'. Nel passaggio dal Pci al Pds il
fraintendimento e' ancora piu' forte, con due conseguenze: una, che si
arresta nelle sedi politiche l'elaborazione femminile prodotta da quel
diverso sguardo sul mondo che e' l'estraneita'; l'altra, che il protagonismo
femminile e' sempre piu' orientato alla competizione per il potere anche tra
donne.
- R. R.: E' questo "sguardo diverso" che vi induce a denuciare nel documento
"La porta di vetro", firmato da te, Gloria Buffo e Ida Dominijanni, la crisi
della politica?
- M. L. B.: Questa crisi e' manifesta da tempo. Negli anni '70 la politica
ha vissuto delle convulsioni, ma e' stata ancora ricca, mentre negli anni
'80 ha ristagnato in una separazione crescente dalla societa' che subiva
modificazioni importanti anche se di segno diverso. Negli anni '90 questa
divaricazione e' diventata rovinosa. Ma e' stato diverso per la politica
delle donne: negli anni '80, il femminismo ha continuato a crescere, ha
prodotto teoria, libri, riviste, convegni, centri, con un rapporto non
subalterno alle istituzioni, ha coinvolto donne piu' giovani. E' negli anni
'90 che la crisi investe anche noi, che avevamo visto e nominato prima e
meglio di altri la crisi dei partiti, del rapporto societa'/stato. Penso a
un Convegno del Crs nel 1993 ("Voce e silenzio. Le donne nella crisi
politica degli anni '90"), dove mettevamo a fuoco i principali punti di
sofferenza della politica: essa era sempre meno capace di rappresentare la
societa' e le sue modificazioni, e con questo andava in tilt il sistema di
delega e scambio fra sfera istituzionale e soggetti ed esperienze sociali.
Il meccanismo della rappresentanza si e' rivelato asfittico, riducente e
omologante. Non e' che non rappresenti le donne, perche' saprebbe
rappresentarle soltanto come gruppo di interesse, e le donne non sono un
gruppo di interesse, sono in tutte le classi. E' che non sa piu'
rappresentare neanche i gruppi sociali, perche' dovunque si fanno piu'
complessi, esprimono bisogni che alla lettera non vengono compresi dai
meccanismi politici attuali. Mi limito a citare la questione della
singolarita' della persona o individuo, da sempre sottovalutata nella
sinistra e sempre piu' al centro di controversie decisive. Se a bisogni come
questi o altri la sinistra non da' risposta, altri daranno soluzioni magari
regressive. Penso all'enfasi sulla personalizzazione, dal maggioritario al
partito del leader, al presidenzialismo, al governo del premier. E' tutto un
tentativo di sostituire i meccanismi di rappresentanza con quelli di
identificazione.
- R. R.: Il sistema politico non accetta la vostra critica?
- M. L. B.: Si chiude a riccio. Ma con questo approfondisce la sua crisi.
Che vi sia un deficit di rappresentanza e' ormai un'evidenza. Vale per i
partiti come per lo stato. Ma invece di chiedersi perche' il tradizionale
edificio della democrazia mostra crepe da tutte le parti, la sinistra si
affanna a difenderlo. Si e' scordata quel che il Pci sapeva della
democrazia, come praticarla e criticarla.
- R. R.: Si puo' obiettare che questa non rappresentativita' ha anche radici
diverse, non sta tutta nell'oscuramento del contratto sessuale.
- M. L. B.: Come sempre gli intrecci sono molti. Ma non sono affatto
disposta a considerare il silenzio sul rapporto fra i sessi una causa fra le
altre. E' il silenzio originario, averlo eluso e' il primo peccato di
distanza dalla realta', che attraversa le civilta' e conforma i codici.
L'attuale sterilita' della politica viene da qui. Il rapporto piu'
profondamente modificato e' quello fra uomo e donna, investe tutta la
societa, la cambia.
- R. R.: Una parte del femminismo cavalca pero' le soluzioni che il ceto
politico si da', e anche la parte che non le apprezza tende a valorizzare il
mercato rispetto alla politica. Molte femministe si dichiarano finalmente
libere dalla catalogazione "a sinistra" e c'e' chi scopre che il capitale
d'impresa puo' dare uno sbocco alla "liberta' femminile".
- M. L. B.: Una parte delle donne, e non solo nel Pds, ha visto nella crisi
delle forme politiche un'occasione per mettere a frutto in riforme concrete
il nostro patrimonio critico. Ma qui di nuovo s'e' operata una cesura: tutte
le iniziative volte a rendere le istituzioni piu praticabili per le donne
sono risultate, alla fine, un modo di inserirsi nel gioco del potere,
adeguandosi alle sue regole. Ci sarebbe un bilancio da fare, nessuna puo'
farlo da sola. Certo in questo tornante l'intera geografia del femminismo
italiano e' cambiata.
- R. R.: Non sottovaluti l'89?
- M. L. B.: No, e' stata una grande cesura. Ho scritto su "Reti" che non si
poteva considerare la fine del Pci e del comunismo - assimilati alle idee e
storie dei "socialismi reali" - un contributo alla liberta' femminile.
Eppure e' quanto hanno dichiarato molte donne per motivare il loro consenso
con Occhetto. Per me il nodo era e resta un altro: perche' i partiti
comunisti non hanno assunto fino in fondo Marx come un grande pensatore
della liberta'? Perche' hanno sottolineato l'eguaglianza, fino a ritenere
che ai suoi fini la liberta' si dovesse sacrificare?
- R. R.: E' che Marx e' un pensatore delle condizioni materiali della
liberta', e la liberta' di possedere gli strumenti di produzione istituisce
un rapporto diseguale fra datore di lavoro e lavoratore. Quest'ultimo nel
rapporto di produzione non e' libero. Non metterei dunque un prima e un dopo
fra uguaglianza e liberta'. Ma per tornare alla crisi della politica, mi
pare che nella vostra analisi si riduca il peso che il politico continua ad
avere. Se e' in crisi la rappresentanza, non lo e' il potere. Il politico
non cessa di decidere, e dalla societa' non gli viene altra risposta se non
il disinteresse mentre decide, e poi un crescere dell'indifferenza al
momento di votare. Pensa alla guerra nel Kosovo.
- M. L. B.: Io distinguo tra politica e potere, anche se questo appare a
molti, e forse anche a molte, una astruseria o un'ingenuita'. Ma la politica
e' grande quando non e' solo o anzitutto lotta per il potere. Penso alla
distinzione di Mario Tronti tra grande e piccolo Novecento. La politica e'
stata la lingua unificante nella prima parte di questo secolo: ha permesso
di riconoscere differenze e civilizzare il conflitto, anche nelle forme
terribili della guerra. E' questa dimensione civile, simbolica della
politica che ha dato misure e senso al potere e alla lotta per il potere.
Oggi il potere politico viene esercitato da un ceto arrogante perche'
autoreferenziale, incapace di darsi misura. Ti chiedo: le decisioni che esso
prende, anche quelle grandi come la guerra, testimoniano di una sua
egemonia, per dirla con una parola forte della tradizione di sinistra? A
questo potere e' riconosciuta autorita'? Detto altrimenti, quanto oggi la
decisione della sfera politica incide nel governo della societa' o quanto
esso procede da altre fonti, per altre vie e con altri codici? Rispetto ai
saperi politico-tecnologici, le decisioni del Politico sono spesso in
posizione seconda: vengono dopo, ne sono in buona misura determinate. Per
esempio, e' quanto accade nella procreazione. Per la guerra andrebbe fatta
una riflessione analoga. Io non credo che decidere una guerra sia segno di
forza, di ritorno alla grande politica. Il potere politico e' oggi piu'
pericoloso perche' e' debole.
- R. R.: Si potrebbe discutere. C'e' nel discorso del femminismo che tu
rappresenti una coerenza, ma nello stesso tempo una grande distanza fra il
radicalismo dei principi e la capacita' e perfino la voglia di intervento.
Il politico consegna all'economia il governo della societa', o appunto la
guerra alla Jugoslavia. E il femminismo non interviene. O almeno non in modo
da stabilire condizioni. Non sottovaluto la pressione: non c'e' stata una
opinione di massa contro la guerra, e tanto meno contro la devoluzione dei
meccanismi regolativi della societa' al mercato. Mi limito a dire che le
donne o tacciono o condividono. Eppure non si tratta di scelte astratte,
incidono sulla vita materiale, corporea di gran parte della gente e del
mondo. O questo vi e' indifferente?
- M. L. B.: Non lo penso affatto. Obietto: dove mi debbo collocare per
comprendere, scegliere e anche incidere, se e come posso? Non mi convince
che mi debbo collocare il piu' vicino possibile al Politico; per intenderci,
sporcarsi le mani, partecipare nelle sue sedi e farsi coinvolgere nel suo
gioco. Prendere distanza non vuol dire indifferenza ne' condanna
all'impotenza; permette anzi di riscoprire una verita': la politica non si
riduce al Politico. Ed e' la politica che abbiamo bisogno di reinventare.
Nei partiti attuali, nessuno escluso, essa non si respira piu'. Non credo
che "difenderli" consenta di reintrodurla. E' patetico e insieme disperante
il gran parlare di perdita di identita' o di anima che si fa a sinistra. Ma
non vi e' partito che sappia come ricominciare ad essere societa', non
soltanto ad evocarla. La politica non dovrebbe ricominciare dalle pratiche
di modificazione, di conflitto nei luoghi delle esperienze effettive?
Altrimenti come "contare"? Hai parlato di debolezza dell'opinone contraria
alla guerra. Ma questo non e' dovuto all'assenza di un fare politico
concreto nei luoghi delle relazioni ed esperienze sociali concrete? Come
puo' prender corpo una opposizione forte e visibile di fronte a una
decisione di questa importanza, se la politica non e' piu' intessuta alla
vita ma si e' ridotta oltre "la porta di vetro"? Come abbiamo scritto in
quel testo, oggi partecipare vuol dire perlopiu' schierarsi, pro o contro,
per questo o per quello. A volte e' doveroso farlo e sulla guerra molti/e di
noi l'hanno fatto, hanno preso una posizione. Ma questo non da' forza di
modificare e spostare altri ed altre; in ultima istanza non parla neppure al
Politico. Piu' che schierarsi e' necessario produrre atti e parole che
reintroducano la politica nel vivo degli scambi sociali. So che e'
difficile, e assieme sembra troppo poco. Ma e' soltanto questo nesso che
puo' condizionare i poteri, incidere sul Politico.

8. INIZIATIVE. NORMA BERTULLACELLI: SUI GRADINI DEL PALAZZO
[Ringraziamo Norma Bertullacelli per questo intervento. Norma Bertullacelli
(per contatti: norma.b at libero.it), insegnante, amica della nonviolenza,
collaboratrice di questo foglio, e' impegnata nella "Rete controg8 per la
globalizzazione dei diritti" di Genova]
La guerra in Iraq continua (morti sei soldati inglesi due giorni fa; quanti
iracheni non e' dato sapere). E continua a dimostrarsi inutile, perche' non
ha affatto risolto il problema del terrorismo internazionale; illegale,
perche' in contrasto con il diritto internazionale e con le leggi nazionali
degli stessi stati partecipanti; criminale, perche' continua a provocare
vittime innocenti.
E continuano le trenta guerre sparse per il pianeta, quelle che "non fanno
notizia".
E si continua a morire di fame, di malattie curabili, di immigrazione.
Consapevoli della sproporzione di mezzi, anche i pacifisti genovesi
continuano a ritrovarsi ogni mercoledi' dalle ore 18 alle 19 sui gradini del
palazzo ducale di Genova. E' un'iniziativa che si ripetera' anche oggi, per
la settantatreesima settimana.

9. RIFLESSIONE. EDUARDO GALEANO: CAMPIONI
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 14 giugno 2003. Eduardo Galeano e' nato
nel 1940 a Montevideo (Uruguay). Giornalista e scrittore, nel 1973 in
seguito al colpo di stato militare e' stato imprigionato e poi espulso dal
suo paese. Ha vissuto lungamente in esilio fino alla caduta della dittatura.
Dotato di una scrittura nitida, pungente, vivacissima, e' un intellettuale
fortemente impegnato nella lotta per i diritti umani e dei popoli. Tra le
sue opere, fondamentali sono: Le vene aperte dell'America Latina,
recentemente ripubblicato da Sperling & Kupfer, Milano; Memoria del fuoco,
Sansoni, Firenze; il recente A testa in giu', Sperling & Kupfer, Milano. Tra
gli altri suoi libri editi in italiano: Guatemala, una rivoluzione in lingua
maya, Laterza, Bari; Voci da un mondo in rivolta, Dedalo, Bari; La conquista
che non scopri' l'America, Manifestolibri, Roma; Las palabras andantes,
Mondadori, Milano]
Durante quarantacinque anni, l'iracheno Ahmed Chalabi ha mangiato il duro
pane dell'esilio. Per alleviare le proprie penurie ha fondato una banca, la
Petra Bank, in Giordania. Quando la banca e' fallita Chalabi ha cambiato
paese. Per strada e' evaporata una scia di cinquecento milioni di dollari e
migliaia di azionisti svaligiati. Nel 1992 i tribunali giordani l'hanno
condannato in contumacia a vent'anni di carcere e ai lavori forzati. In
quello stesso anno e' nato a Londra il Congresso nazionale iracheno, e
Chalabi e' stato consacrato leader dell'opposizione democratica contro la
corrotta tirannia di Saddam Hussein. I risentiti, che non mancano mai, hanno
cospirato contro di lui negli anni seguenti, e lo hanno accusato di essersi
ritrovato in tasca alcuni dei contributi della Cia. In uno dei suoi atti di
distrazione, secondo le denunce, Chalabi ha intascato quattro milioni di
dollari.
Nulla di tutto cio' ha impedito a Chalabi di diventare il consigliere
prediletto delle forze che hanno recentemente invaso il suo paese. La sua
collaborazione ha reso possibile agli invasori di mentire con ammirevole
sincerita' prima, durante e dopo la macelleria che hanno messo in pratica. E
il presidente Bush ha potuto confermare di aver scelto bene. Questo alleato
pratica gli stessi costumi dei suoi amici nell'impresa Enron.
Dal 1958 Chalabi non calpestava il suolo iracheno. Alla fine e' tornato. E'
il cucciolo preferito delle truppe d'occupazione.
*
In Afghanistan il cucciolo prediletto delle truppe d'occupazione e' Hamid
Karzai, che finge d'essere il presidente. Prima dell'Iraq, l'Afghanistan e'
stato il pezzo di mappamondo scelto per i bombardamenti contro la Geografia
del Male nel nuovo millennio. Grazie alla fulminante vittoria degli
invasori, ora c'e' la liberta'. Per i narcotrafficanti.
Secondo diversi organismi specializzati dell'Unione europea e delle Nazioni
Unite, questo paese e' diventato il principale fornitore mondiale di oppio,
eroina e morfina. Secondo le stime di questi organismi, nel primo anno della
liberazione la produzione di droghe e' aumentata di oltre diciotto volte: da
185 tonnellate e' passata a 3.400, equivalenti a circa milleduecento milioni
di dollari, e nei mesi seguenti ha continuato a crescere. Persino Tony Blair
ha riconosciuto, nel gennaio di quest'anno, che dall'Afghanistan proviene il
95 per cento dell'eroina che si consuma in Gran Bretagna.
Il governo di Karzai, che controlla solo la citta' di Kabul, lascia fare.
Dei suoi sedici ministri, dieci hanno passaporto americano. Lui stesso, gia'
funzionario dell'impresa petrolifera americana Unocal, vive circondato di
soldati del Pentagono che gli dettano ordini e vigilano sui suoi passi e sui
suoi sogni. Gli invasori dovevano fermarsi due mesi, aveva annunciato
Karzai, ma sono ancora li'. Per l'appunto: gli incorruttibili guerrieri
della lotta alla droga nel mondo si sono insediati in Afghanistan per
garantire coltivazioni libere, frontiere libere, traffico libero. Della
ricostruzione di questo paese distrutto gia' non si parla piu'. Ahmed
Karzai, fratello del presidente virtuale e alto esponente del governo, si e'
da poco lamentato: "Che cosa ci hanno dato? Niente. Il popolo e' stanco, e
io non so piu' che dirgli".
*
Il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale non sparano missili.
Con altre armi bombardano i paesi, li conquistano e occupano le loro rovine.
Dopo aver sventrato l'Argentina, le due potenze hanno inviato all'inizio di
quest'anno una missione speciale per rovistare tra i suoi conti. Uno dei
membri di questa polizia finanziaria, Jorge Baca Campodonico, avrebbe dovuto
occuparsi dell'evasione fiscale. Era un esperto del ramo. Sa molto sulle
frodi perche' e' abituato a commetterne. Nel suo paese, il Peru', e'
ricercato per vari procedimenti penali. Appena atterrato a Buenos Aires, la
polizia l'ha catturato. Il Fondo monetario internazionale ha pagato la
cauzione e ha investito una fortuna in avvocati per impedire l'estradizione
del suo funzionario.
*
La Fifa, piu' o meno l'equivalente calcistico del Fmi, veglia sulla
trasparenza del piu' lucroso degli sport. Ricardo Teixeira adempie a questa
nobile missione in Brasile. Cosi' decise suo suocero, Joao Havelange, quando
della Fifa era il re. Il Brasile, paese magico, produce giocatori
prodigiosi, dirigenti milionari e club rovinati. Alla fine del 2001, dopo
tre anni e duemilaquattrocento pagine di investigazioni da parte di due
commissioni, il senato ha deciso di chiedere il processo a carico di
Teixeira e di altri sedici dirigenti. Di conseguenza Joseph Blatter, che da
Havelange ha ereditato il trono della Fifa, ha minacciato di ritirare il
Brasile dai Mondiali del 2002 "se si continuera' a frugare in questi
argomenti".
Contro Teixeira c'erano prove in abbondanza: malversazioni, deviazione di
prestiti, riciclaggio di denaro, evasione fiscale, falsificazione di
documenti e un'altra ventina di delitti che avevano ingrassato il suo
patrimonio personale e messo in ginocchio il calcio piu' vincente del mondo.
Avrebbe dovuto trascorrere parecchie vite dietro le sbarre, non ci ha
passato neanche un giorno. Teixeira continua a essere il signore della
pelota del proprio paese. In piu', adesso occupa un incarico molto
importante nella cupola della Fifa: e' il responsabile della giustizia e del
gioco pulito nel calcio mondiale.
*
Non e' di calcio la Coppa del mondo che si disputa ogni anno nella citta'
francese di Moncrabeau. Vi competono i migliori bugiardi del genere umano.
Gli aspiranti alla corona giurano di dire la falsita', tutta la falsita',
nient'altro che la falsita'. Questo articolo, che pure sottolinea i meriti
di qualche possibile candidato, non menziona Silvio Berlusconi e Carlos
Menem. Sono fuori concorso. Sono imbattibili. Giammai hanno corso il rischio
di dire la verita', tutta la verita' o magari anche soltanto un minuscolo
pezzettino della verita'.
Per non uscire dai margini della legge, situazione un poco sgradevole, Menem
l'ha comprata: l'ha comprata con i soldi che gli sono rimasti dalla vendita
del suo paese. Berlusconi se ne e' fatta una per se': ha gettato
nell'immondizia la legge vecchia e l'ha cambiata con una legge nuova, cucita
su misura nella sartoria Italia.
Berlusconi continua a governare. Menem e' stato licenziato dal popolo
argentino. Ma presto o tardi riapparira', al servizio dell'umanita',
dirigendo qualche organismo internazionale contro la corruzione, il
narcotraffico e la vendita di armi. Ne sa parecchio.

10. RILETTURE. SIBILLA ALERAMO: UNA DONNA
Sibilla Aleramo, Una donna, Torino 1906, Feltrinelli, Milano 1950, 1994, pp.
XVI + 224, lire 10.000. Il primo romanzo di Sibilla Aleramo fu piu' che una
ricerca, un programma e una testimonianza morale e civile, un'apertura
attraverso cui un lucido punto di vista e un sentire denso e nitido di donna
irrompeva nel corpo e nella storia della cultura ben piu' che nella
letteratura italiana.

11. RILETTURE. GRAZIA DELEDDA: COSIMA
Grazia Deledda, Cosima, nella "Nuova antologia", 1936, poi in volume presso
Treves, Milano 1937, ora anche in Eadem, I grandi romanzi, Newton Compton,
Roma 1993, pp. 955-1022 (questo volume contiene anche Il vecchio della
montagna, Elias Portolu, Cenere, L'edera, Colombi e sparvieri, Canne al
vento, Marianna Sirca, La madre, Annalena Bilsini, con una prefazione del
recentemente scomparso Giacinto Spagnoletti, per complessive pp. 1.024, lire
9.900). E' l'ultimo romanzo della Deledda, apparso postumo, una appena
lievemente velata autobiografia.

12. RILETTURE. MATILDE SERAO: SAPER VIVERE
Matilde Serao, Saper vivere. Norme di buona creanza, Tocco, Napoli - Landi,
Firenze 1900, Passigli, Firenze 1989, pp. VIII + 248, lire 16.000. Come
sapeva bene Norbert Elias, se si leggessero i vecchi manuali di buone
maniere, quante cose si capirebbero (ed anche, ci sia consentito dire,
quante sciocchezze si eviterebbe di dire e di fare; e magari la si
pianterebbe di spacciare per nonviolenza quella che e' solo buona
educazione).

13. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

14. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti, la e-mail e': azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: lucben at libero.it;
angelaebeppe at libero.it; mir at peacelink.it, sudest at iol.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it. Per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Per non ricevere piu' questo notiziario e' sufficiente inviare un messaggio
con richiesta di rimozione a: nbawac at tin.it

Numero 593 del 26 giugno 2003