La nonviolenza e' in cammino. 592



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 592 del 25 giugno 2003

Sommario di questo numero:
1. Lidia Menapace: una proposta per le bandiere della pace
2. La newsletter di "Migra"
3. Maria G. Di Rienzo: il senso politico del trauma e il lavoro per la
verita' e la riconciliazione
4. Matteo Bartocci intervista Mae-Wan Ho
5. Celeste Grossi: una relazione a Firenze
6. Anna Picciolini: una relazione a Firenze
7. Imma Barbarossa: una relazione a Firenze
8. Patricia Tough, Franca Gianoni: un confronto a Firenze
9. Luisa Morgantini: la "road map", una speranza per la pace
10. Riletture: Marcello Flores (a cura di), Verita' senza vendetta
11. Riletture: Desmond Tutu, Non c'e' futuro senza perdono
12. Riletture: Tzvetan Todorov, Memoria del male, tentazione del bene
13. La "Carta" del Movimento Nonviolento
14. Per saperne di piu'

1. EDITORIALE. LIDIA MENAPACE: UNA PROPOSTA PER LE BANDIERE DELLA PACE
[Ringraziamo Lidia Menapace (per contatti: llidiamenapace at virgilio.it) per
questo intervento. Lidia Menapace e' nata a Novara nel 1924, partecipa alla
Resistenza, e' poi impegnata nel movimento cattolico, pubblica
amministratrice, docente universitaria, fondatrice del "Manifesto"; e' tra
le voci piu' alte e significative della cultura delle donne, dei movimenti
della societa' civile, della nonviolenza in cammino. La maggior parte degli
scritti e degli interventi di Lidia Menapace e' dispersa in quotidiani e
riviste, atti di convegni, volumi di autori vari; tra i suoi libri cfr. (a
cura di), Per un movimento politico di liberazione della donna, Bertani,
Verona 1973; La Democrazia Cristiana, Mazzotta, Milano 1974; Economia
politica della differenza sessuale, Felina, Roma 1987; (a cura di, ed in
collaborazione con Chiara Ingrao), Ne' indifesa ne' in divisa, Sinistra
indipendente, Roma 1988; Il papa chiede perdono: le donne glielo
accorderanno?, Il dito e la luna, Milano 2000; Resiste', Il dito e la luna,
Milano 2001]
Il grande successo delle bandiere della pace e' un fatto, e mi attengo alle
disposizioni date da chi le propose e terro' dunque la bandiera esposta
anche se col sole dell'estate forse diventera' bianca: del resto a me la
bandiera bianca va pure benissimo.
Ma a parte tutto, mi vien voglia invece di dire qualcosa in merito, anche a
seguito di un discorso scambiato con Giovanni Catti in quanto membri ambedue
del comitato scientifico della Scuola di pace del Comune di Senigallia.
Dice Catti che bisognera' trovare un modo di gestire le bandiere, altrimenti
si sporcano, sbrindellano, ecc. Propone di dare indicazione di ritirarle,
lavarle e metterle via, e di stenderle sempre ad ogni inzio di stagione come
per chiedere una stagione di pace dopo l'altra: dunque adesso passato il 21
di giugno si ritirano e si rimettono fuori un giorno o una settimana il 21
di settembre, il 21 dicembre e poi il 21 di marzo.
A mia volta propongo che tassativamente si espongano sempre il 2 giugno per
protestare contro la deriva militarista della festa della Repubblica.
A me pare che se si lasciano sempre, a parte che via via stingono e si
sbrindellano, non si vedono piu', fanno parte del paesaggio: invece bisogna
rinnovare ritmi e riti per ancorarli nella  coscienza e nella memoria: che
ve ne pare?

2. INFORMAZIONE. LA NEWSLETTER DI "MIGRA"
[Da Daniele Barbieri della redazione di "Migra" (per contatti:
barbieri at migranews.net) riceviamo e diffondiamo la settima newsletter di
"Migra" del 19 giugno 2003]
Questa e' la settima newsletter di "Migra" (Agenzia informazione immigrati
associati).
"Migra" e' realizzata nel contesto del progetto comunitario Equal
"L'immagine degli immigrati in Italia". I corrispondenti dell'agenzia sono
immigrate e immigrati in una rete che si allarghera' a coprire le principali
citta' italiane.
Negli ultimi giorni su www.migranews.net in primo piano fra l'altro c'erano:
Dossier e articoli sull'asilo negato; "Non sara' espulso Safet, il kosovaro
che si diede fuoco a Bologna"; Storie in gabbia, una ricerca sui Cpt; Khalid
Chaouki invita a fare meno salamelecchi e a scoprire la condivisione;
Lampedusa: i numeri dicono che non e' invasione; Hamid Barole Abdu spiega
che essere immigrato e' anche stressante; L'orchestra multietnica di piazza
Vittorio vista e ascoltata da Anelise Sanchez; Irida Cami racconta
l'albanese volante; Okechukwu Anyadiegwu parla di paure e speranze fra i
migranti di via Anelli a Padova; Al seggio quello "strano" presidente si
chiama Milad; ... e molto altro.
*
Nelle diverse sezioni (culture, leggi, societa', speciali) potete trovare
articoli, interventi e commenti di Farid Adly, Faustin Akafack, Masturah
Alatas, Sabatino Annecchiarico, Okechukwu Anyaduegwu, Hamid Barole, Milad
Basir, Saliha Belloumi, Rhyma Boussouf, Marcelo Cafaldo, Irida Cami,
Alessandra Cecchi, Khalid Chaouki, Vitore Cokaj, Daniela Conti, Ousmane
Coulibaly, Rosa Crispim Da Costa, Alvaro Erique Duque, Ziad Elayyan, Udo
Clement Enwereuzor, Ubax Cristina Ali Farah, Nicoleta Mirela Filip, Arturo
Ghinelli, Taysir Hasan, Jawahir Mohamed Hassan, Mahmoud Kairouan, Liana
Corina Iosip, Adel Jabbar, Ylli Jasa, Maria De Lourdes Jesus, Monica
Lanfranco, Mia Lecomte, David Lifodi, Zouhir Louassini, Pape Diaw Mbaye,
Jean Mbundani, Karim Metref, Viorica Nechifor, Jamal Ouzine, Silvina Perez,
Franco Pittau, Rosa Juarez Ramirez, Annamaria Rivera, Anelise Sanchez,
Brunetto Salvarani, Alex Moustapha Sarr, Romana Sansa, Igiaba Scego, Vesna
Scepanovic, Nando Sigona, Jenny Tessaro, Jan Carlos Torres, Aluisi Tosolini,
Fulvio Vassallo, Paula Baudet Vivanco, Saleh Zaghloul.
E poi ancora: l'agenda del mese, il calendario degli eventi, schede sulle
comunita' e i Paesi d'origine, immagini, statistiche, link utili.
*
Nei prossimi giorni: racconteremo di tessere sanitarie; Saleh Zaghloul
indaghera' sui "cedolini"; Jawahir Mohamed Hassan tornera'
sull'infibulazione; riparleremo del diritto all'asilo; Ziad Elayyan
ragionera' sui palestinesi fra esilio e migrazioni; Cristina Ubax Ali Farah
ci guidera' in un viaggio fra Somalia, Olanda e Italia; ospiteremo le
fotografie di Nancy Motta... e molto altro.
*
"Migra" risponde al numero 0639031235; ci siamo dal lunedi' al venerdi' (ore
10-18); la mail e': redazione at migranews.net
Ovviamente questo e' anche un invito a collaborare con noi, a mandarci
notizie, a metterci nei vostri indirizzari. Pensiamo, durante l'estate, di
rivedere tecnicamente il sito e dunque se avete critiche (o lodi) e
suggerimenti inviateci un messaggio.

3. RIFLESSIONE. MARIA G. DI RIENZO: IL SENSO POLITICO DEL TRAUMA E IL LAVORO
PER LA VERITA' E LA RICONCILIAZIONE
[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per
questo intervento. Maria G. Di Rienzo e' una delle principali collaboratrici
di questo foglio; prestigiosa intellettuale femminista, saggista,
giornalista, regista teatrale e commediografa, formatrice, ha svolto
rilevanti ricerche storiche sulle donne italiane per conto del Dipartimento
di Storia Economica dell'Universita' di Sidney (Australia); e' impegnata nel
movimento delle donne, nella Rete di Lilliput, in esperienze di solidarieta'
e in difesa dei diritti umani, per la pace e la nonviolenza]
I tradizionali concetti di diplomazia e costruzione di pace raramente
prendono in considerazione l'influenza psicologica che perdite dolorose ed
attacchi violenti hanno su individui, gruppi e nazioni. Gli effetti
psicologici della guerra, del genocidio, dell'atto terrorista possono
permanere nelle persone per anni ed anni, ed interessare intere generazioni
che non hanno subito direttamente la violenza ma ne soffrono le conseguenze.
Il mio punto di vista e' che il tempo non guarisce le ferite: solo la
guarigione, scusate il gioco di parole, guarisce le ferite.
Chi ha esperienza di negoziazione e mediazione nei conflitti, si trova
spesso a dover gestire il senso di perdita del gruppo vittimizzato: una
perdita non esclusivamente materiale, ovvero la perdita di fiducia e
speranza nel futuro, che si riflette nell'incredulita' verso la possibilita'
d'interazione e riconciliazione con i "nemici" (o i loro rappresentanti,
discendenti, ecc.).
Le vittime dirette di una perdita traumatica fanno esperienza di cambiamenti
profondi e persistenti a livello psicologico: diventano ipersensibili,
pronte ad allertarsi al minimo segno di pericolo, facilmente disturbate dai
rumori; sono pervase da un senso di stanchezza e di ineluttabilita'; il loro
ricordo della violenza subita puo' dissociarsi completamente dalla realta'
dei fatti, oppure possono ricordare l'episodio in ogni dettaglio ma senza
collegare ad esso alcuna emozione.
Queste persone credono di aver perso il controllo su qualsiasi minaccia la
vita possa presentare loro, e di essere vulnerabili in perpetuo a nuovi
attacchi. Hanno perduto la fiducia di base che sostiene gli esseri umani
durante il normale ciclo della vita. Si sentono abbandonate e sole, non piu'
parte dei sistemi sociali o religiosi a cui guardavano in precedenza per la
loro sicurezza.
*
Nell'analisi della perdita traumatica tre caratteristiche di base sono
evidenti:
1) il gruppo o nazione ha sofferto a causa di attacchi violenti ed ha subito
rilevanti perdite;
2) qualsiasi sia il punto di vista che si assume, di regole o valori,
l'attacco appare ingiustificato;
3) c'e' una paura persistente che l'aggressore ritorni e attacchi di nuovo.
La terza caratteristica e' sostenuta dai seguenti fatti:
a) l'aggressore, e/o i suoi discendenti, non hanno mai riconosciuto
l'ingiustizia dell'originale atto di aggressione;
b) inoltre, l'aggressore e/o i suoi discendenti non hanno mai espresso
rincrescimento o rimorso per la violenza agita;
c) e non hanno mai chiesto perdono alle vittime o ai loro discendenti.
Generalmente, possiamo dividere le vittime della violenza politica in due
categorie: coloro che sono stati i bersagli diretti della violenza o che
hanno sofferto per la violenza diretta a persone loro vicine, e coloro la
cui socializzazione e la cui formazione d'identita' hanno incluso
l'insegnamento della vittimizzazione come parte integrante del loro retaggio
(i cattolici nell'Irlanda del Nord, gli armeni in Anatolia, gli ebrei
europei durante la seconda guerra mondiale, gli arabi palestinesi dopo il
1948, e cosi' via).
*
Una terza parte, che nel conflitto sia neutrale politicamente ma non
moralmente, puo' giocare un ruolo positivo nel dare inizio ad un processo di
guarigione: politicamente neutrale significa che tale parte non ha interesse
politico nel risultato del processo; moralmente non neutrale significa che
tale parte mostra senso di giustizia e valori etici, ed e' in grado di
essere empatica con chi ha sofferto.
E' in grado anche di creare un'atmosfera di sicurezza e rispetto per tutti
gli attori del conflitto in un processo di dialogo. Essenziale e' che le
vittime si sentano al sicuro, di modo da potersi confrontare con la propria
perdita senza timore, o senza che la situazione esca dal loro controllo
emotivo.
*
Una descrizione dettagliata e personale dell'evento traumatico, da parte di
chi lo ha sperimentato, e' il primo passo sulla strada della guarigione. Si
puo' dare inizio a questo invitando le parti a ripercorrere la storia della
loro relazione. La richiesta va fatta ad entrambe: "Raccontaci chi sei".
Per chi ha sperimentato direttamente la violenza, e che ha rimosso o
dissociato il proprio ricordo dell'evento, l'esposizione dettagliata dei
fatti puo' rimettere l'esperienza in un contesto reale, dando alla persona
la forza di riacquistare un senso di comprensione e di graduale maggior
controllo su cio' che accade.
E' importante che chi racconta riesca ad esprimere le proprie emozioni, i
propri sentimenti. Se la ricostruzione degli eventi si presenta in maniera
spersonalizzata, meccanica, meramente "legale", il processo di guarigione
sara' piu' arduo. Cio' che e' importante e' il riconoscimento della
prospettiva psicologica di coloro che hanno sofferto la violenza, e
riconoscimento significa che l'offensore, o i suoi discendenti, ammetteranno
esplicitamente che l'aggressione era ingiusta, e che le perdite delle
vittime sono state terribili violazioni dei diritti umani. L'atto del
riconoscimento deve avvenire nel modo piu' completo possibile. L'omissione
di episodi dolorosi, il voler sorvolare su qualche fatto giudicato "minore",
puo' sollevare nelle vittime il sospetto che gli altri stiano mentendo e
cio' bloccherebbe di nuovo l'interazione fra le parti.
Quando il riconoscimento e' franco e completo, il gruppo che ha subito
violenza puo' ricominciare a credere nella possibilita' di aver fiducia non
solo nella negoziazione corrente con gli ex aggressori, ma nelle relazioni
future con essi. La sincera richiesta di perdono da parte di questi ultimi
ha un profondo effetto di guarigione su chi e' stato ferito. Puo' non essere
accettata subito: cio' non significa che il processo non abbia funzionato,
ma solo che gli offesi hanno bisogno di tempo per assorbire emotivamente
l'impatto dell'azione che viene loro richiesta. C'e' anche la possibilita'
che abbiano bisogno di tempo per liberarsi dall'identita' di "vittime
predestinate", che per molti provvede una spiegazione perversa della
crudelta' che li circonda. Un nuovo significato della loro esistenza non
puo' manifestarsi di colpo, ma deve essere gradualmente sperimentato e
trovato emotivamente accettabile.
Ad ogni modo, se il dialogo ha prodotto quel franco riconoscimento di cui
parlavo, la strada della guarigione e' stata imboccata, ed i riflessi
positivi nella relazione fra i due gruppi non tarderanno a manifestarsi
concretamente.

4. RIFLESSIONE. MATTEO BARTOCCI INTERVISTA MAE-WAN HO
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 19 giugno 2003. Matteo Bartocci scrive di
argomenti scientifici su varie testate cartacee ed on-line, tra cui
segnaliamo particolarmente "Galileo" (sito: www.galileo.it). Mae-Wan Ho e'
un'illustre scienziata, consulente scientifica del Third World Network]
Mae Wan Ho e' una scienziata combattiva e radicale che da anni segnala i
rischi dell'agricoltura geneticamente modificata. In questi giorni si trova
a Roma per il convegno "Ogm, brevetti e fame nel mondo". La minuta
scienziata di origine malese - nota ai lettori italiani per il suo
Ingegneria genetica. Scienza e business delle biotecnologie, DeriveApprodi,
2001 - sorride spesso nel corso dell'intervista ma il tono lieve non smorza
la durezza dei suoi giudizi. Le promesse dei sostenitori degli Ogm si sono
rivelate una chimera. Quello di cui c'e' bisogno e' invece un cambiamento di
paradigma nella genetica molecolare, una nuova biologia olistica ed
ecologica, una scienza che non consideri piu' i geni come oggetti isolati ma
li veda come parti di una relazione piu' ampia in cui essi stessi sono
sottoposti alle influenze e al cambiamento indotti dall'ambiente. Il modello
riduzionista, dice Ho con un sorriso, e' finito.
- M. B.: Dottoressa Ho, insieme ad altri ricercatori ha appena pubblicato un
documento chiamato "The case for a GM-Free Sustainable World". Di che si
tratta?
- M.-W. H.: Insieme ad alcuni scienziati di vari paesi, molto critici sul
biotech, abbiamo prodotto un rapporto dettagliato, oltre 130 pagine, che
raccoglie tutte le prove che mettono in dubbio la sicurezza degli Ogm
(organismi geneticamente modificati).
- M. B.: Ce le puo' riassumere in breve?
- M.-W. H.: Gli organismi transgenici non hanno mantenuto nessuna delle
promesse fatte dai loro promotori o creatori. Le difficolta' che abbiamo di
fronte oggi erano state ampiamente previste da chi dubitava e criticava:
resistenza delle piante e dei parassiti agli erbicidi e ai pesticidi,
contaminazione delle piante normali a causa del polline, e cosi' via. Ma le
prove di questo disastro sono state soppresse, per motivi commerciali,
economici o politici.
- M. B.: Cosa dite dal punto di vista scientifico nel vostro documento?
- M.-W. H.: Le preoccupazioni della scienza sugli Ogm sono molte. Per
esempio si usano vettori virali e batterici modificati, in qualche caso
anche pericolosi. Il cibo creato in laboratorio, inoltre, non fa parte della
nostra catena alimentare e non conosciamo i suoi effetti sul lungo periodo.
- M. B.: Lei si definisce una "scienziata radicale". Qual e' la situazione a
livello accademico per i ricercatori che la pensano come lei?
- M.-W. H.: In Gran Bretagna, ma anche in altri paesi, ci sono molti
scienziati che hanno perso il lavoro o i fondi per le loro ricerche
semplicemente perche' cercavano di rendere noti i risultati delle loro
scoperte sugli Ogm. Scoperte che mettono in luce, in base a test
scientifici, la pericolosita' e la mancanza di sicurezza di questi organismi
creati in laboratorio. Il caso piu' celebre e' quello di Arpad Pusztai, un
ricercatore del Rowett Institute in Scozia. Ma una cosa simile e' successa
anche a me quando mi occupavo del trasferimento genico orizzontale, cioe'
tra specie diverse. Quando lavoravo all'Open University fui incoraggiata a
ritirarmi prima della fine del mio contratto. Oggi infatti mi occupo poco di
ricerca di base.
- M. B.: Il governo americano sta per lanciare al Wto un'offensiva contro
l'Unione Europea a causa della moratoria sugli Ogm in vigore nel nostro
continente...
- M.-W. H.: A livello internazionale gli Ogm sono regolati dal protocollo
sulla biosicurezza di Cartagena firmato nel 2000 da 139 nazioni. Il trattato
e' stato ratificato da 50 stati ed e' quindi entrato in vigore, permettendo
ad ogni paese o regione, come l'Europa, di decidere cosa possa entrare e
cosa no in base a leggi appropriate e autonome. E' vero pero' che il
protocollo e' costantemente minacciato e rischia di essere inefficace.
L'aspetto piu' importante, a mio avviso, e' cosa pensano i cittadini: i
consumatori europei non vogliono prodotti Ogm e questo sentimento va tenuto
in considerazione e accompagnato da conoscenze scientifiche valide.
- M. B.: Qual e' la situazione in Gran Bretagna?
- M.-W. H.: Anche i cittadini inglesi sono nettamente contrari agli Ogm.
Penso alle molte battaglie locali nei piccoli paesi scelti come terreno di
prova per la coltivazione di piante transgeniche. Molti cittadini sono
intervenuti per distruggere questi raccolti, perche' la preoccupazione sulla
sicurezza e sui tentativi di instaurare un monopolio sul cibo sono molto
diffusi. Sicurezza, salute e tutela dell'ambiente sono preoccupazioni molto
sentite in Inghilterra.
- M. B.: Proprio per contrastare queste resistenze, il governo britannico ha
lanciato in questi giorni un dibattito nazionale aperto a tutti i cittadini
sulle questioni sollevate dagli Ogm, chiamato "GM Nation?". Di che cosa si
tratta?
- M.-W. H.: Finalmente il governo ha deciso di dare il via a una
consultazione nazionale. E ha impostato il dibattito su tre filoni
principali: cosa deve fare il Regno Unito nei confronti del transgenico; gli
aspetti economici del biotech; le valutazioni scientifiche sugli Ogm. Il
che, detto per inciso, si riduce a una serie di incontri poco pubblicizzati
e a un sito web. Infatti ci sono state molte polemiche in Gran Bretagna,
perche' il governo ha destinato ai dibattiti fondi insufficienti e non ha
fatto alcuna promozione degli eventi tenuti nelle varie citta'. Ma chi e'
andato, molte centinaia di persone, e' riuscito comunque a esprimere la
propria contrarieta'.
- M. B.: Nonostante questi limiti e' pero' la prima volta che un governo
consulta i cittadini su questioni cosi' complesse ma che li riguardano
direttamente. Un'iniziativa tutto sommato interessante e forse da
approfondire anche in altri paesi. Come si svolgeva il dibattito in
concreto?
- M.-W. H.: Le riunioni si svolgevano in alcune grandi sale allestite con
tavoli e sedie. Non ci sono stati interventi diretti di esperti, attivisti o
politici. All'inizio della riunione veniva proiettato un video abbastanza
obiettivo preparato dal governo. E su questa semplice base, del tutto
insufficiente a soddisfare le molteplici curiosita' su questioni cosi'
complesse, i cittadini iniziavano a discutere tra di loro. Non c'e' stata
abbastanza informazione, specialmente scientifica. Ne' si potevano porre
domande, perche' non c'era nessuno a cui rivolgerle.
- M. B.: Se "Gm Nation?" non e' un modello appropriato, cosa si dovrebbe
fare allora per coinvolgere il pubblico nelle questioni scientifiche e
ambientali che lo riguardano?
- M.-W. H.: A mio avviso e' piu' utile creare una serie di eventi pubblici
in cui tutte le questioni siano presentate in modo chiaro. Riunioni in cui
il pubblico possa fare domande e ottenere risposte sincere e attendibili. Un
video non basta per farsi un'opinione... Il pubblico ha bisogno di avere
un'informazione completa e non deve essere tenuto all'oscuro. Nessuno puo'
dire: "Non ti preoccupare, io sono un esperto", oppure "Tu non puoi capire
perche' non hai studiato biologia". Chiunque puo' farsi un'idea sulla base
di prove attendibili e scientificamente valide.
- M. B.: Lei ha pubblicato recentemente un libro intitolato Living with the
Fluid Genome, non ancora tradotto nel nostro paese. Il concetto di genoma
"fluido" si sta diffondendo nel dibattito sulla biologia, penso ad esempio
al lavoro di Evelyn Fox Keller, ma anche ad alcuni risultati del Progetto
Genoma Umano. Ci puo' spiegare meglio di che si tratta?
- M.-W. H.: Il mio libro e' un'introduzione al cambiamento di paradigma in
atto nella biologia molecolare. Alla base delle biotecnologie e delle
tecniche sul Dna ricombinante c'e' infatti un approccio riduzionista,
espresso a chiare lettere da Francis Crick in quello che lui ha chiamato il
"dogma centrale della biologia molecolare": l'informazione genetica si muove
in modo unidirezionale: dal Dna va all'Rna, poi alle proteine e infine
arriva all'organismo. Questo modello e' falso e inadeguato alla realta' del
vivente. Le proteine non sono burattini manovrati dai geni. Il "genoma
fluido" significa che ci sono molteplici sentieri che conducono dai geni
alle proteine e, soprattutto, che il movimento non e' lineare, ci sono
feedback e relazioni che vanno a ritroso dall'ambiente alle proteine al Dna.
Si fa quindi strada, anche nella scienza piu' ortodossa, il concetto di
"reti di regolazione e di espressione genica". Un'idea molto diversa dal
dogma di cui le ho parlato. Il Dna e' una molecola molto dinamica e i geni,
a differenza dei diamanti, non sono per sempre. Il corredo genetico e'
sensibile all'ambiente che lo circonda. Ecco perche' pesticidi, erbicidi e
vaccini possono condurre a un rimescolamento genetico, un fenomeno di cui
cominciamo solo ora a capire i pericoli.
- M. B.: Dopo concetti come "sicurezza", "tracciabilita'" e "etichettatura"
si sta affrontando ora quello di "prossimita'". Gli scienziati come lei sono
contrari alla coesistenza tra prodotti geneticamente modificati e non.
Perche'?
- M.-W. H.: Perche' non esiste separazione tra organismi e ambiente. Se
distruggiamo quello che ci circonda distruggiamo noi stessi. Le prove
scientifiche dicono infatti che i geni delle piante modificate contaminano
le altre tramite il polline. Non c'e' modo di bloccare il vento. In Canada,
per esempio, 32 varieta' di semi su 33 sono contaminati con Ogm, anche se
non dovrebbero. Le ricerche sugli Ogm agricoli non dovrebbero essere ammesse
in campo aperto, ma confinate nei laboratori.
- M. B.: Molti dicono che gli Ogm potranno contribuire a risolvere il
probema della fame nel mondo e accusano gli ambientalisti di una sorta di
barbaro cinismo. Lei che ne pensa?
- M.-W. H.: Sono consulente scientifica del Third World Network e quindi
sono coinvolta direttamente in queste questioni. Vorrei raccontare il caso
dello Zambia. L'anno scorso questo paese africano e' stato colpito da una
pesante carestia, ma rifiuto' i semi transgenici inviati dagli Stati Uniti,
una decisione che fu accolta come uno scandalo. Prima della decisione,
pero', il presidente dello Zambia invito' nel paese molti scienziati
internazionali e alla fine del dibattito si voto' democraticamente a favore
del rifiuto degli aiuti "umanitari" americani. Il problema era che se li
avessero accettati avrebbero perso lo status di paese "Ogm-free" e quindi le
loro esportazioni agricole ne avrebbero risentito. In seguito, in un forum
panafricano, fu firmata la "dichiarazione di Lusaka" che afferma che gli Ogm
non sono la soluzione alla fame nel continente. L'Africa e' in grado di
nutrirsi. Pero' mancano l'acqua, le strade, le infrastrutture, le
attrezzature agricole. Il problema della fame e' un problema di
distribuzione, non di produzione. Nel mondo c'e' un surplus di cibo e gli
Ogm non possono risolvere i problemi logistici e di distribuzione degli
alimenti, dell'acqua e della produzione agricola.
- M. B.: Lei e' contraria anche all'uso delle biotecnologie in medicina?
- M.-W. H.: Sebbene abbia registrato una manciata di successi, il biotech in
campo sanitario sta incontrando molte difficolta'. I problemi principali
sono, per esempio, i vari e complessi meccanismi di rigetto messi in atto
dal nostro corpo di fronte a oggetti estranei, come le cellule modificate.
In qualche caso, poi, le cure hanno anche dato luogo a forme tumorali, cioe'
a delle vere e proprie disfunzioni cellulari. Inoltre le patologie basate
sul malfunzionamento di un singolo gene - le migliori candidate a una
terapia genica funzionante -, purtroppo sono solo una minoranza. Infine
l'esposizione al Dna transgenico potrebbe essere una cosa pericolosa in se'.
La medicina "riduzionista" non funziona. Per avere un organismo in salute ed
efficiente dobbiamo trovare un equilibrio sano con l'ambiente che ci
circonda.

5. RIFLESSIONE. CELESTE GROSSI: UNA RELAZIONE A FIRENZE
[Dal sito de "Il paese delle donne" (www.womenews.net) riportiamo la
relazione introduttiva di Celeste Grossi, delle Donne in Nero, al gruppo
"Pace e guerra: parole e pratiche di donne" dell'incontro di donne svoltosi
a Firenze il 17-18 maggio 2003]
"Donne in nero

In difesa del benessere
dell'incerta posterita'
era gia' tutto deciso
arbitrariamente.
L'angoscia si accaniva.
La fraternita' offesa atrocemente.
Per non disperare
per non nasconderci
per recidere l'indifferenza:
nel tetro inverno nel centro della citta'
in piedi ferme non rassegnate non sperdute.
Il nostro furioso silenzio si faceva sentire
contro la morte contro il massacro.
Ne abbiamo visti tanti passare
adirati
curiosi
disorientati
trascinando i figli per mano fingevano
di non vedere la nostra testimonianza.
Facevamo paura
noi.
Aspettando che ridiventassero uomini
speravamo la risposta
una voglia di pace
perche' non fosse piu' necessario
noi donne consapevoli
gridare il lutto
con il silenzio"

(Gladys Basagoitia Dazza: nata in Peru', Donna in Nero a Perugia)
*
Ho pensato di iniziare con la lettura della poesia di Gladys perche'
contiene alcuni degli elementi simbolici del nostro pensare e del nostro
fare: il nero e il silenzio.
Quando manifestiamo siamo vestite di nero, il colore del lutto di fronte
agli orrori della guerra, e stiamo in silenzio. Il nostro silenzio non e'
rassegnazione e impotenza (i nostri occhi interrogano le donne e gli uomini
che passano, ma anche i potenti della terra ai quali vogliamo segnalare la
nostra totale estraneita' alle loro scelte e il nostro rifiuto di qualsiasi
complicita'.
La nostra pratica e' nonviolenta ma radicale. Ci siamo con il corpo, con il
cuore, con la mente. Le manine (a forma di fiore di loto, simbolo di pace,
rappresentano un "ponte" tra donne che rifiutano di sentirsi nemiche) recano
scritte rivolte ai propri governi, parole non urlate, semplici ma frutto di
una elaborazione collettiva e di un processo di condivisione.
La prima manina e' comparsa a Gerusalemme Ovest a Paris Square, oggi per
tutte noi Hagar Square, in ricordo di Hagar Roublev la femminista pacifista
israeliana cofondatrice delle Donne in Nero, sopra c'era scritto Stop the
occupation.
L'idea delle Donne in Nero israeliane era quella di lanciare una forma di
protesta permanente, pubblica, nonviolenta, cosi' fortemente simbolica da
poter essere attuata anche in poche. Una pratica, ormai diffusa nel mondo
(la Rete internazionale delle Donne in Nero contro la guerra e il
militarismo e' presente in tutti i continenti), basata sulla continuita' (a
Gerusalemme le Donne in Nero manifestano senza interruzioni ogni venerdi'
dal 1988).
Essere per le strade per urlare in silenzio "Fuori la guerra dalla storia"
assume una valenza straordinaria oggi che la guerra, che sta nel dna del
neoliberismo, e' "preventiva" e permanente; non e' piu' uno strumento della
politica ma e' la politica stessa di chi, con le armi, difende il mondo
iniquo in cui viviamo; oggi che la guerra e' considerata una transizione
accettabile verso la pace, perfino da donne, uomini e partiti che si
definiscono di sinistra.
Essere per le strade per urlare in silenzio "Fuori la guerra dalla storia"
sa di utopia eppure noi Donne in Nero agiamo perche' l'utopia diventi
concreta: per fare la pace prepariamo la pace, con modalita' di pace. Una
pace giusta, perche' non c'e' pace senza giustizia e non c'e' giustizia se
non si sradica la poverta'.
Reali sono le nostre iniziative di opposizione alla guerra e alla
partecipazione dell'esercito italiano alla guerra. Reale la nostra azione di
denuncia della militarizzazione dei cuori e delle menti e della spericolata
macchina del consenso mediatico che la sostiene. Reale il nostro pensare,
fare, parlare. Reale il nostro attraversare confini, anche quando sono
difesi con le armi, e conflitti per "abitare" i "luoghi difficili" con i
nostri occhi testimoni e i nostri corpi solidali. Reali i nostri incontri
con le donne dei "luoghi difficili" per tessere relazioni e praticare la
"diplomazia dal basso" e una politica internazionale altra, dalla parte dei
popoli inermi e non degli stati in armi.
Reale il nostro agire per l'affermazione dei diritti collettivi e
individuali (perche' i diritti o sono di tutti, di tutte, o non sono), dei
diritti di uomini e di donne, piu' spesso delle donne perche' nel mondo
patriarcale in cui viviamo sono piu' spesso violati.
Reale il nostro costruire ponti di pace e tessere reti di solidarieta',
trame invisibili che segnano il tracciato della relazione e del
riconoscimento delle differenze.
Reale il nostro dare voce a chi voce non ha per rompere il muro del silenzio
indifferente e perche' nessuna, nessuno, possa dire "non sapevo".
Reali i nostri progetti per disarmare il mondo e le menti.
Reale il nostro sostenere le "signore della pace", invece che i "signori
della guerra", per accompagnarle nel loro percorso di liberta'-liberazione.
E reali sono soprattutto i nostri corpi quando ci interponiamo tra eserciti
armati e civili inermi.

6. RIFLESSIONE. ANNA PICCIOLINI: UNA RELAZIONE A FIRENZE
[Dal sito de "Il paese delle donne" (www.womenews.net) riportiamo la
relazione introduttiva di Anna Picciolini, dell'Associazione Rosa Luxemburg,
al gruppo "Pace e guerra: parole e pratiche di donne" dell'incontro di donne
svoltosi a Firenze il 17-18 maggio 2003]
L'Associazione nasce nel contesto della Convenzione permanente di donne
contro le guerre, con l'obiettivo di lavorare per costruire una cultura e
una pratica politica che escluda la guerra come strumento di soluzione dei
conflitti.
Il nome di Rosa Luxemburg e' stato proposto di Lidia Menapace: per alcune di
noi all'inizio questo era poco piu' di un nome nella bibliografia essenziale
del marxismo.
Abbiamo invece scoperto a poco a poco una profonda consonanza. Nel seminario
che si tenne a Firenze nel dicembre 2001, a tre mesi dalla Torri gemelle e
alla vigilia della guerra in Afghanistan, la figura di Rosa e' uscita sempre
meglio delineata, nella sua interezza di donna, capace di tenere insieme
passione politica, lucidita' di analisi teorica e sentimento forte di
partecipazione alla vita, nella sua dimensione quotidiana e non solo nella
tensione rivoluzionaria verso un mondo migliore.
Donna, e contro la guerra: sarebbe una forzatura chiamarla femminista, ma fu
donna libera con una pratica di liberta' e un pensiero antidogmatico; forse
anche la definizione di pacifista sarebbe inadeguata, ma fu antimilitarista,
denunciando il legame inestricabile fra militarismo e capitalismo.
E quindi il seminario di Firenze allargava lo sguardo sulla guerra oggi:
quali i rapporti fra l'industria militare in cerca dei massimi profitti e
l'economia della globalizzazione? E quale soggetto politico puo' opporsi a
questo nuovo imperialismo?
Al Social Forum Europeo dello scorso novembre, abbiamo partecipato
proseguendo la riflessione su alcune parole chiave: ordine/disordine;
estraneita'/infedelta', resistenza, complicita'/responsabilita'.
Adesso, nel percorso che da Firenze 2002 va a Parigi 2003, stiamo
preparando, per il prossimo mese di ottobre un seminario sul conflitto, su
come il conflitto si presenta in diversi contesti e come si possono trovare
modalita' non distruttive per gestirlo: conflitto di genere e interno al
genere; conflitto fra stati e fra etnie; conflitto di classe; conflitto fra
la specie umana e la natura.

7. RIFLESSIONE. IMMA BARBAROSSA: UNA RELAZIONE A FIRENZE
[Dal sito de "Il paese delle donne" (www.womenews.net) riportiamo la
relazione introduttiva  di Imma Barbarossa, della Convenzione permanente di
donne contro le guerre, al gruppo "Pace e guerra: parole e pratiche di
donne" dell'incontro di donne svoltosi a Firenze il 17-18 maggio 2003]
L'elemento innovativo di questi ultimi 15 anni e' senza dubbio la guerra nel
cuore dell'Europa, la guerra di una parte dell'Europa all'altra, la
partecipazione degli eserciti europei nelle guerre americane al Sud del
mondo.
Prima dell'89 il confine tra un'Europa e l'altra attraversava il cuore di
Berlino e attraverso l'Istria arrivava nell'Adriatico. Quella dell'est era
un'altra Europa, quella povera e "antidemocratica" che - caduto il regime
socialista - diventa "l'Europa delle etnie e dei barbari". Crollano i
regimi, tornano le appartenenze "comunitarie" che o si dispongono ad
accogliere il mercato "democratico" occidentale o fanno caos e disordine.
A un certo punto l'Europa "buona e democratica", l'Europa "dei diritti
umani", decide di fare ordine nel caos delle macerie. Nasce la guerra
umanitaria, una guerra illegale e fuori del diritto internazionale, una
guerra paradossalmente per i diritti.
Nel cuore della guerra del Kosovo siamo nate come Convenzione permanente di
donne contro le guerre. E le parole hanno un senso: convenzione di donne,
perche' alcune donne, singole o associate, con-vengono su alcuni punti
politici e programmatici, permanente perche' le guerre sono permanenti e
infinite, denotano la fase che stiamo attraversando.
La nostra riflessione, in particolare la mia, verte sulla critica delle
appartenenze, delle patrie, degli eroismi, dei nazionalismi e dei
militarismi.
In secondo luogo occorre scavare nell'ordine patriarcale per comprenderne
fino in fondo la modernita', al fine di decostruirlo anche negli aspetti
simbolici. Il patriarcato oggi si annida nella globalizzazione, si presenta
con la faccia feroce degli integralismi e dei fondamentalismi (ad est e ad
ovest), o si presenta con la faccia esportatrice della democrazia dei
diritti umani e del mercato.
Penso che le donne possano e debbano avviare una pratica della nonviolenza
attiva, che certo non tende ad equiparare aggressori e aggrediti, ma che
ritiene che occorra disarmare la ferocia dei rapporti tra gli stati
attraverso il disarmo dei militarismi mentali. La pratica della nonviolenza
non puo' che coniugarsi con l'affermazione della giustizia. Tuttavia se
proponiamo una Europa "in pace", non possiamo pensare all'Europa come ad una
cittadella autosufficiente, ma ad una Europa soggetto attivo di pace e
tramite tra il Nord e il Sud del mondo. A questo proposito l'Italia come
altri paesi che si affacciano sul Mediterraneo, per la sua collocazione
"mediana", per la sua storia e per la sua cultura "meticcia" (si pensi alla
Sicilia araba e greca, alla Calabria e alla Puglia greche, albanesi,
bizantine) ha l'obbligo di farsi sostenitrice dell'abbattimento delle
barriere e del superamento delle frontiere.

8. DOCUMENTAZIONE. PATRICIA TOUGH, FRANCA GIANONI: UN CONFRONTO A FIRENZE
[Dal sito de "Il paese delle donne" (www.womenews.net) riportiamo il
resoconto del gruppo di lavoro "Pace e guerra: parole e pratiche di donne"
dell'incontro di donne svoltosi a Firenze il 17-18 maggio 2003; altri
materiali sull'incontro sono apparsi nel n. 590 di questo notiziario.
Patrizia Tough fa parte delle Donne in  nero di Bologna; Franca Gianoni fa
parte del gruppo Basta guerra del Forum sociale fiorentino]
La discussione che si e' avviata all'interno del gruppo e' stata molto
vivace ed ha espresso posizioni diversificate, molti comunque gli interventi
che hanno posto in discussione il nesso fra femminismo e pacifismo.
Le parole chiave del gruppo sono state: patriarcato, guerra/conflitto,
militarismo, militarizzazione della societa' e delle menti, insignificanza.
Temi di discussione:
- Femminismo e pacifismo (nesso): alcune hanno sottolineato il nesso fra
femminismo e pacifismo, inteso quest'ultimo come movimento che tende alla
creazione di un mondo senza guerra senza negare i conflitti; alcune hanno
sottolineato come proprio a partire dal femminismo si arriva alla scelta del
pacifismo; Carla Lonzi (antimilitarista) parla del conflitto fondamentale
uomo/donna come di quel conflitto che non finisce con l'eliminazione
dell'antagonosta quindi proprio a partire da qui no alla logica
amico/nemico, si' alla gestione positiva dei momenti e delle situazioni di
scontro o di conflitto.
- Patriarcato e guerra (nesso): ci si e' chieste se questo e' un contributo
originale rispetto alle analisi del movimento piu' improntate alla questioni
economiche, militari e geopolitiche, e se questo puo' costituire il nostro
contributo; molte ne hanno convenuto, qualcuna ha eccepito che la guerra la
subiamo tutti e tutte e quindi il movimento delle donne puo' essere d'aiuto
alla lotta contro la guerra in modo migliore stando in modo piu' organico
all'interno del movimento.
Sull'analisi di questo nesso ma anche sull'analisi della globalizzazione non
c'e' comunque dubbio che Pechino e' stato il primo e piu' alto momemto in
cui si e' iniziato a parlare in termini di globalizzazione e di politiche
comuni in un mondo globalizzato e che questo oltre al linguaggio e alle
pratiche e' un debito che il movimento ha verso le donne molto spesso poco
riconosciuto.
- Insignificanza: qualcuna ne ha parlato rispetto al movimento delle donne
sugli esiti di questa guerra e in seguito a questa guerra, sensazione
spressa anche da altre come delusione rispetto alle pratiche (interposizione
in Iraq).
Si e' detto anche che spesso le donne occidentali appaiono rispetto alle
donne del Sud del mondo un po' autoreferenziali e portatrici anch'esse di un
pensiero occidentale non sempre condiviso dalle altre, oppure americanizzate
(guardiamo solo ai soldi, guardiamo solo al nostro ombelico, distruggiamo il
senso della comunita', insomma manchiamo di trascendenza).
Su questo puinto c'e' dibattito, certamente c'e' bisogno di nuove parole,
inventare nuove modalita' di andare oltre le insufficienze, ma trascendenza
e' anche sapere che il mondo non finisce con noi e dobbiamo costruire una
cultura altra fondandoci sulla memoria di cio' che e' stato realmente. E'
positivo che nei movimenti affiori questa memoria anche per quanto riguarda
l'assunzione delle pratiche delle donne (orizzontalita', rispetto delle
differenze, ascolto, almeno nei desideri).
Qualcuna ha sottolineato anche che non ritiene insignificante l'apporto
delle donne al dibattito contro la guerra perche' e' un pensiero che
trascende le guerre contingenti anche se in un contesto in cui la guerra si
avvia a diventare permenente, e si impegna per un mondo senza guerra e senza
violenza.
Verso la fine dei lavori e' venuto fuori un discorso sulle pratiche di
nicchia che sarebbero quelle dei gruppi di donne che si distinguono per le
varie pratiche e posizioni, naturalmente altre hanno sostenuto che non c'e'
voglia di stare in niocchia ma di distinguersi per il portato dell'analisi
che non puo' prescindere dal conflitto uomo/donna nel personale e nel
politico.
*
Si e' convenuto sul fatto che non si poteva costruire una "riflessione
condivisa" per Parigi e che sentivamo la necessita' di ritrovarci per un
altro incontro in settembre/ottobre mentre nel frattempo ci saranno altri
incontri nazionali o internazionali di donne.
La Convenzione il 21 giugno a Roma alla Casa internazionale delle donne.
Alla fine di agosto le Donne in nero nel convegno internazionale a Massa
Marittima.
In ottobre l'incontro dell'Associazione "Rosa Luxemburg" di cui si dice
nella relazione di Anna Picciolini. L'incontro sara' su questi punti: 1)
Approfondire il nesso "femminismo e pacifismo"; 2) Un ragionamento sulle
pratiche e i metodi nonviolenti di agire i conflitti: a. pratiche di
interposizione, difesa civile, presenza internazionale come testimonianza e
documentazione di quanto accade, diplomazia dal basso, diplomazia femminile,
ecc.; b. conoscenza precisa dei termini del dibattito internazionale (Onu,
Unione Europea, Osce, ecc.) senza dimenticare una riflessione femminista sul
diritto sessuato presente da decenni (es. diritto d'asilo sessuato); c.
saper progettare anche rispetto a riforme e a varchi offerti dalle stesse
istituzioni internazionali ( es. risoluzione 1325 del 30 ottobre 2000 che
affida alle donne risoluzione dei conflitti, Costituzione europea); 2)
approfondire il nesso fra patriarcato e guerra decostruendolo.

9. DOCUMENTAZIONE. LUISA MORGANTINI: LA "ROAD MAP", UNA SPERANZA PER LA PACE
[Riportiamo l'intervento di Luisa Morgantini nella seduta plenaria del
parlamento europeo del 18 giugno 2003. Luisa Morgantini (per contatti:
lmorgantini at europarl.eu.int), parlamentare europea, e' una delle figure piu'
vive dell'impegno per la pace e i diritti]
Non c'e' dubbio che la "road map" sia una speranza alla quale tenersi
stretti, senza perdere la lucidita' del giudizio politico sui fatti che
accadono quotidianamente in Palestina e Israele. Non e' la giustizia, non e'
il diritto.
Non c'e' dubbio che l'Unione Europea nel suo insieme e il lavoro tenace e
appassionato  svolto dall'inviato speciale Miguel Angel Moratinos hanno
avuto un ruolo importante nella definizione del piano e nell'accompagnare
l'autorita' palestinese ad intraprendere il processo per le riforme definite
nella road map.
E' indispensabile pero' che sia tutto il "quartetto" ad essere partecipe e
garante dei negoziati. Lasciare solo agli Usa la gestione e' un rischio
troppo grosso e comunque sbagliato. Nello stesso tempo e' indispensabile
accompagnare tutte le fasi dei negoziati, senza ricommettere gli errori
dell'accordo di Oslo, quando dopo le grandi strette di mano si sono lasciate
le due parti sole e con rapporti di potere cosi diversi. Ha prevalso non la
pace ma la violenza e la sopraffazione e la continua occupazione militare.
Tutti sono consapevoli (purtroppo con la compiacente subalternita' di alcuni
governanti europei) del dominio dell'amministrazione Usa cosi come della
tendenza del governo israeliano a sottovalutare interlocutori come l'Europa,
la Russia o l'Onu, considerati a torto sbilanciati nei confronti dei
palestinesi.
A torto perche' non di sbilanciamento si tratta ma di non aver abidcato
ancora completamente al diritto  e alla giustizia. Ma a dir poco,
l'amministrazione israeliana come quella Usa, non considerano il diritto
internazionale vincolante. Se cosi' fosse la questione Palestina-Israele
sarebbe risolta da lungo tempo, perlomeno da quando, nell'88 ad Algeri,
l'Olp ha scelto di coesistere con lo stato israeliano e di avere il proprio
stato  nei territori occupati nel '67.
Lo sbilanciamento, l'assimmetria, e' la condizione tra palestinesi e
israeliani. Non e' banale, anzi e' essenziale ribadire che  non e'
l'esercito palestinese ad occupare Israele, non e' l'autorita' palestinese
a costruire insediamenti in territorio israeliano, a tenere in carcere
migliaia di persone, a tenere in una prigione a cielo aperto milioni di
palestinesi.
Gli atti esecrabili di terrorismo contro la popolazione civile sono condotti
da forze estremiste palestinesi, non da un esercito armato di F 16. E questo
senza assolvere l'autorita' palestinese di errori e debolezze nocive  ad una
pace giusta.
La road map come possibilita' di pace per tutti e due i popoli e' ancora una
volta una sfida ed una speranza, ma se si vuole davvero che palestinesi ed
israeliani vivano in pace e sicurezza, bisogna, certo, chiedere
all'autorita' palestinese di cercare ogni strada legale per fermare le
azioni di terrorismo, del resto Abu Mazen con l'appoggio del presidente
Arafat sta cercando con molta fermezza la via del dialogo per fermare la
violenza e non incorrere in una guerra civile; ma e' a Sharon che bisogna
chiedere con molta forza di rispettare le prime fasi della road map, di
cessare gli assassini mirati, che sembrano fatti apposta per provocare
reazioni terroriste. Sharon ha detto che non si possono dominare tre milioni
e mezzo di palestinesi con l'occupazione militare, e allora  dalle parole ai
fatti, come dice Gideon Levy - un commentatore del giornale "Haaretz" -, via
i check point, la fame, la mancanza di lavoro, la demolizione delle case,
che gli ammalati e le puerpere possano andare in ospedale, che i bambini non
vedano piu' i genitori picchiati e umiliati nel cuore della notte. Questo
dara' forze alla pace.
*
C'e' una mostruosita' di cui la road map non parla: il muro di separazione,
di apartheid, di annessione territoriale, 364 km, alto 8 metri, filo
spinato, controlli elettronici, il muro non e' sulla linea verde dei
territori occupati nel '67, annette ad Israele nuovo territorio, 30 pozzi
idrici confiscati, 15 villaggi palestinesi saranno separati dalla terra
coltivata.
Un costo immenso, milioni e milioni di euro, un muro che separera' in
bantustan il territorio palestinese. Sharon ha dato ordine di lavorare anche
la notte per la costruzione e non gli bastano i 374 km, vuole il recinto
anche nella parte del confine giordano.
*
Usiamo ogni strumento di pressione pacifica e democratica per permettere la
realizzazione di due popoli e due stati, e appoggiamo la richiesta di Kofi
Annan e sostenuta dal ministro degli esteri francese perche' si dislochi sul
territorio una forza internazionale di peacekeeping, capace di fermare le
morti palestinesi e israeliane.
E', come al solito, gia' molto tardi: una forza internazionale avrebbe
dovuto essere presente fin dall'inizio della recrudescenza del conflitto. A
gran voce lo hanno richiesto i movimenti sociali e pacifisti palestinesi,
israeliani e internazionali.
Rachel Corrie, per proteggere la popolazione civile e' morta schiacciata da
un bulldozer israeliano. La sua morte, cosi come quella di migliaia di
palestinesi e israeliani, si ascrivono al delitto di omissione della
comunita' internazionale. Ripariamo.

10. RILETTURE. MARCELLO FLORES (A CURA DI): VERITA' SENZA VENDETTA
Marcello Flores (a cura di), Verita' senza vendetta, Manifestolibri, Roma
1999, pp. 246, euro 17,56. Un'analisi e una raccolta di documenti
dell'esperienza della Commissione sudafricana per la verita' e
riconciliazione.

11. RILETTURE. DESMOND TUTU: NON C'E' FUTURO SENZA PERDONO
Desmond Tutu, Non c'e' futuro senza perdono, Feltrinelli, Milano 2001, pp.
216, euro 13,43. L'esperienza della Commissione sudafricana per la verita' e
la riconciliazione  nel racconto del suo presidente e animatore Desmond
Tutu, arcivescovo di Citta' del Capo, premio Nobel per la pace, una delle
persone-simbolo della vittoriosa lotta contro l'apartheid.

12. RILETTURE. TZVETAN TODOROV: MEMORIA DEL MALE, TENTAZIONE DEL BENE
Tzvetan Todorov, Memoria del male, tentazione del bene, Garzanti, Milano
2001, pp. 406, euro 19,63. Un libro che e' indispensabile aver letto.

13. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

14. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti, la e-mail e': azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: lucben at libero.it;
angelaebeppe at libero.it; mir at peacelink.it, sudest at iol.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it. Per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Per non ricevere piu' questo notiziario e' sufficiente inviare un messaggio
con richiesta di rimozione a: nbawac at tin.it

Numero 592 del 25 giugno 2003