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La nonviolenza e' in cammino. 592
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 592
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Tue, 24 Jun 2003 23:17:53 +0200
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 592 del 25 giugno 2003 Sommario di questo numero: 1. Lidia Menapace: una proposta per le bandiere della pace 2. La newsletter di "Migra" 3. Maria G. Di Rienzo: il senso politico del trauma e il lavoro per la verita' e la riconciliazione 4. Matteo Bartocci intervista Mae-Wan Ho 5. Celeste Grossi: una relazione a Firenze 6. Anna Picciolini: una relazione a Firenze 7. Imma Barbarossa: una relazione a Firenze 8. Patricia Tough, Franca Gianoni: un confronto a Firenze 9. Luisa Morgantini: la "road map", una speranza per la pace 10. Riletture: Marcello Flores (a cura di), Verita' senza vendetta 11. Riletture: Desmond Tutu, Non c'e' futuro senza perdono 12. Riletture: Tzvetan Todorov, Memoria del male, tentazione del bene 13. La "Carta" del Movimento Nonviolento 14. Per saperne di piu' 1. EDITORIALE. LIDIA MENAPACE: UNA PROPOSTA PER LE BANDIERE DELLA PACE [Ringraziamo Lidia Menapace (per contatti: llidiamenapace at virgilio.it) per questo intervento. Lidia Menapace e' nata a Novara nel 1924, partecipa alla Resistenza, e' poi impegnata nel movimento cattolico, pubblica amministratrice, docente universitaria, fondatrice del "Manifesto"; e' tra le voci piu' alte e significative della cultura delle donne, dei movimenti della societa' civile, della nonviolenza in cammino. La maggior parte degli scritti e degli interventi di Lidia Menapace e' dispersa in quotidiani e riviste, atti di convegni, volumi di autori vari; tra i suoi libri cfr. (a cura di), Per un movimento politico di liberazione della donna, Bertani, Verona 1973; La Democrazia Cristiana, Mazzotta, Milano 1974; Economia politica della differenza sessuale, Felina, Roma 1987; (a cura di, ed in collaborazione con Chiara Ingrao), Ne' indifesa ne' in divisa, Sinistra indipendente, Roma 1988; Il papa chiede perdono: le donne glielo accorderanno?, Il dito e la luna, Milano 2000; Resiste', Il dito e la luna, Milano 2001] Il grande successo delle bandiere della pace e' un fatto, e mi attengo alle disposizioni date da chi le propose e terro' dunque la bandiera esposta anche se col sole dell'estate forse diventera' bianca: del resto a me la bandiera bianca va pure benissimo. Ma a parte tutto, mi vien voglia invece di dire qualcosa in merito, anche a seguito di un discorso scambiato con Giovanni Catti in quanto membri ambedue del comitato scientifico della Scuola di pace del Comune di Senigallia. Dice Catti che bisognera' trovare un modo di gestire le bandiere, altrimenti si sporcano, sbrindellano, ecc. Propone di dare indicazione di ritirarle, lavarle e metterle via, e di stenderle sempre ad ogni inzio di stagione come per chiedere una stagione di pace dopo l'altra: dunque adesso passato il 21 di giugno si ritirano e si rimettono fuori un giorno o una settimana il 21 di settembre, il 21 dicembre e poi il 21 di marzo. A mia volta propongo che tassativamente si espongano sempre il 2 giugno per protestare contro la deriva militarista della festa della Repubblica. A me pare che se si lasciano sempre, a parte che via via stingono e si sbrindellano, non si vedono piu', fanno parte del paesaggio: invece bisogna rinnovare ritmi e riti per ancorarli nella coscienza e nella memoria: che ve ne pare? 2. INFORMAZIONE. LA NEWSLETTER DI "MIGRA" [Da Daniele Barbieri della redazione di "Migra" (per contatti: barbieri at migranews.net) riceviamo e diffondiamo la settima newsletter di "Migra" del 19 giugno 2003] Questa e' la settima newsletter di "Migra" (Agenzia informazione immigrati associati). "Migra" e' realizzata nel contesto del progetto comunitario Equal "L'immagine degli immigrati in Italia". I corrispondenti dell'agenzia sono immigrate e immigrati in una rete che si allarghera' a coprire le principali citta' italiane. Negli ultimi giorni su www.migranews.net in primo piano fra l'altro c'erano: Dossier e articoli sull'asilo negato; "Non sara' espulso Safet, il kosovaro che si diede fuoco a Bologna"; Storie in gabbia, una ricerca sui Cpt; Khalid Chaouki invita a fare meno salamelecchi e a scoprire la condivisione; Lampedusa: i numeri dicono che non e' invasione; Hamid Barole Abdu spiega che essere immigrato e' anche stressante; L'orchestra multietnica di piazza Vittorio vista e ascoltata da Anelise Sanchez; Irida Cami racconta l'albanese volante; Okechukwu Anyadiegwu parla di paure e speranze fra i migranti di via Anelli a Padova; Al seggio quello "strano" presidente si chiama Milad; ... e molto altro. * Nelle diverse sezioni (culture, leggi, societa', speciali) potete trovare articoli, interventi e commenti di Farid Adly, Faustin Akafack, Masturah Alatas, Sabatino Annecchiarico, Okechukwu Anyaduegwu, Hamid Barole, Milad Basir, Saliha Belloumi, Rhyma Boussouf, Marcelo Cafaldo, Irida Cami, Alessandra Cecchi, Khalid Chaouki, Vitore Cokaj, Daniela Conti, Ousmane Coulibaly, Rosa Crispim Da Costa, Alvaro Erique Duque, Ziad Elayyan, Udo Clement Enwereuzor, Ubax Cristina Ali Farah, Nicoleta Mirela Filip, Arturo Ghinelli, Taysir Hasan, Jawahir Mohamed Hassan, Mahmoud Kairouan, Liana Corina Iosip, Adel Jabbar, Ylli Jasa, Maria De Lourdes Jesus, Monica Lanfranco, Mia Lecomte, David Lifodi, Zouhir Louassini, Pape Diaw Mbaye, Jean Mbundani, Karim Metref, Viorica Nechifor, Jamal Ouzine, Silvina Perez, Franco Pittau, Rosa Juarez Ramirez, Annamaria Rivera, Anelise Sanchez, Brunetto Salvarani, Alex Moustapha Sarr, Romana Sansa, Igiaba Scego, Vesna Scepanovic, Nando Sigona, Jenny Tessaro, Jan Carlos Torres, Aluisi Tosolini, Fulvio Vassallo, Paula Baudet Vivanco, Saleh Zaghloul. E poi ancora: l'agenda del mese, il calendario degli eventi, schede sulle comunita' e i Paesi d'origine, immagini, statistiche, link utili. * Nei prossimi giorni: racconteremo di tessere sanitarie; Saleh Zaghloul indaghera' sui "cedolini"; Jawahir Mohamed Hassan tornera' sull'infibulazione; riparleremo del diritto all'asilo; Ziad Elayyan ragionera' sui palestinesi fra esilio e migrazioni; Cristina Ubax Ali Farah ci guidera' in un viaggio fra Somalia, Olanda e Italia; ospiteremo le fotografie di Nancy Motta... e molto altro. * "Migra" risponde al numero 0639031235; ci siamo dal lunedi' al venerdi' (ore 10-18); la mail e': redazione at migranews.net Ovviamente questo e' anche un invito a collaborare con noi, a mandarci notizie, a metterci nei vostri indirizzari. Pensiamo, durante l'estate, di rivedere tecnicamente il sito e dunque se avete critiche (o lodi) e suggerimenti inviateci un messaggio. 3. RIFLESSIONE. MARIA G. DI RIENZO: IL SENSO POLITICO DEL TRAUMA E IL LAVORO PER LA VERITA' E LA RICONCILIAZIONE [Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per questo intervento. Maria G. Di Rienzo e' una delle principali collaboratrici di questo foglio; prestigiosa intellettuale femminista, saggista, giornalista, regista teatrale e commediografa, formatrice, ha svolto rilevanti ricerche storiche sulle donne italiane per conto del Dipartimento di Storia Economica dell'Universita' di Sidney (Australia); e' impegnata nel movimento delle donne, nella Rete di Lilliput, in esperienze di solidarieta' e in difesa dei diritti umani, per la pace e la nonviolenza] I tradizionali concetti di diplomazia e costruzione di pace raramente prendono in considerazione l'influenza psicologica che perdite dolorose ed attacchi violenti hanno su individui, gruppi e nazioni. Gli effetti psicologici della guerra, del genocidio, dell'atto terrorista possono permanere nelle persone per anni ed anni, ed interessare intere generazioni che non hanno subito direttamente la violenza ma ne soffrono le conseguenze. Il mio punto di vista e' che il tempo non guarisce le ferite: solo la guarigione, scusate il gioco di parole, guarisce le ferite. Chi ha esperienza di negoziazione e mediazione nei conflitti, si trova spesso a dover gestire il senso di perdita del gruppo vittimizzato: una perdita non esclusivamente materiale, ovvero la perdita di fiducia e speranza nel futuro, che si riflette nell'incredulita' verso la possibilita' d'interazione e riconciliazione con i "nemici" (o i loro rappresentanti, discendenti, ecc.). Le vittime dirette di una perdita traumatica fanno esperienza di cambiamenti profondi e persistenti a livello psicologico: diventano ipersensibili, pronte ad allertarsi al minimo segno di pericolo, facilmente disturbate dai rumori; sono pervase da un senso di stanchezza e di ineluttabilita'; il loro ricordo della violenza subita puo' dissociarsi completamente dalla realta' dei fatti, oppure possono ricordare l'episodio in ogni dettaglio ma senza collegare ad esso alcuna emozione. Queste persone credono di aver perso il controllo su qualsiasi minaccia la vita possa presentare loro, e di essere vulnerabili in perpetuo a nuovi attacchi. Hanno perduto la fiducia di base che sostiene gli esseri umani durante il normale ciclo della vita. Si sentono abbandonate e sole, non piu' parte dei sistemi sociali o religiosi a cui guardavano in precedenza per la loro sicurezza. * Nell'analisi della perdita traumatica tre caratteristiche di base sono evidenti: 1) il gruppo o nazione ha sofferto a causa di attacchi violenti ed ha subito rilevanti perdite; 2) qualsiasi sia il punto di vista che si assume, di regole o valori, l'attacco appare ingiustificato; 3) c'e' una paura persistente che l'aggressore ritorni e attacchi di nuovo. La terza caratteristica e' sostenuta dai seguenti fatti: a) l'aggressore, e/o i suoi discendenti, non hanno mai riconosciuto l'ingiustizia dell'originale atto di aggressione; b) inoltre, l'aggressore e/o i suoi discendenti non hanno mai espresso rincrescimento o rimorso per la violenza agita; c) e non hanno mai chiesto perdono alle vittime o ai loro discendenti. Generalmente, possiamo dividere le vittime della violenza politica in due categorie: coloro che sono stati i bersagli diretti della violenza o che hanno sofferto per la violenza diretta a persone loro vicine, e coloro la cui socializzazione e la cui formazione d'identita' hanno incluso l'insegnamento della vittimizzazione come parte integrante del loro retaggio (i cattolici nell'Irlanda del Nord, gli armeni in Anatolia, gli ebrei europei durante la seconda guerra mondiale, gli arabi palestinesi dopo il 1948, e cosi' via). * Una terza parte, che nel conflitto sia neutrale politicamente ma non moralmente, puo' giocare un ruolo positivo nel dare inizio ad un processo di guarigione: politicamente neutrale significa che tale parte non ha interesse politico nel risultato del processo; moralmente non neutrale significa che tale parte mostra senso di giustizia e valori etici, ed e' in grado di essere empatica con chi ha sofferto. E' in grado anche di creare un'atmosfera di sicurezza e rispetto per tutti gli attori del conflitto in un processo di dialogo. Essenziale e' che le vittime si sentano al sicuro, di modo da potersi confrontare con la propria perdita senza timore, o senza che la situazione esca dal loro controllo emotivo. * Una descrizione dettagliata e personale dell'evento traumatico, da parte di chi lo ha sperimentato, e' il primo passo sulla strada della guarigione. Si puo' dare inizio a questo invitando le parti a ripercorrere la storia della loro relazione. La richiesta va fatta ad entrambe: "Raccontaci chi sei". Per chi ha sperimentato direttamente la violenza, e che ha rimosso o dissociato il proprio ricordo dell'evento, l'esposizione dettagliata dei fatti puo' rimettere l'esperienza in un contesto reale, dando alla persona la forza di riacquistare un senso di comprensione e di graduale maggior controllo su cio' che accade. E' importante che chi racconta riesca ad esprimere le proprie emozioni, i propri sentimenti. Se la ricostruzione degli eventi si presenta in maniera spersonalizzata, meccanica, meramente "legale", il processo di guarigione sara' piu' arduo. Cio' che e' importante e' il riconoscimento della prospettiva psicologica di coloro che hanno sofferto la violenza, e riconoscimento significa che l'offensore, o i suoi discendenti, ammetteranno esplicitamente che l'aggressione era ingiusta, e che le perdite delle vittime sono state terribili violazioni dei diritti umani. L'atto del riconoscimento deve avvenire nel modo piu' completo possibile. L'omissione di episodi dolorosi, il voler sorvolare su qualche fatto giudicato "minore", puo' sollevare nelle vittime il sospetto che gli altri stiano mentendo e cio' bloccherebbe di nuovo l'interazione fra le parti. Quando il riconoscimento e' franco e completo, il gruppo che ha subito violenza puo' ricominciare a credere nella possibilita' di aver fiducia non solo nella negoziazione corrente con gli ex aggressori, ma nelle relazioni future con essi. La sincera richiesta di perdono da parte di questi ultimi ha un profondo effetto di guarigione su chi e' stato ferito. Puo' non essere accettata subito: cio' non significa che il processo non abbia funzionato, ma solo che gli offesi hanno bisogno di tempo per assorbire emotivamente l'impatto dell'azione che viene loro richiesta. C'e' anche la possibilita' che abbiano bisogno di tempo per liberarsi dall'identita' di "vittime predestinate", che per molti provvede una spiegazione perversa della crudelta' che li circonda. Un nuovo significato della loro esistenza non puo' manifestarsi di colpo, ma deve essere gradualmente sperimentato e trovato emotivamente accettabile. Ad ogni modo, se il dialogo ha prodotto quel franco riconoscimento di cui parlavo, la strada della guarigione e' stata imboccata, ed i riflessi positivi nella relazione fra i due gruppi non tarderanno a manifestarsi concretamente. 4. RIFLESSIONE. MATTEO BARTOCCI INTERVISTA MAE-WAN HO [Dal quotidiano "Il manifesto" del 19 giugno 2003. Matteo Bartocci scrive di argomenti scientifici su varie testate cartacee ed on-line, tra cui segnaliamo particolarmente "Galileo" (sito: www.galileo.it). Mae-Wan Ho e' un'illustre scienziata, consulente scientifica del Third World Network] Mae Wan Ho e' una scienziata combattiva e radicale che da anni segnala i rischi dell'agricoltura geneticamente modificata. In questi giorni si trova a Roma per il convegno "Ogm, brevetti e fame nel mondo". La minuta scienziata di origine malese - nota ai lettori italiani per il suo Ingegneria genetica. Scienza e business delle biotecnologie, DeriveApprodi, 2001 - sorride spesso nel corso dell'intervista ma il tono lieve non smorza la durezza dei suoi giudizi. Le promesse dei sostenitori degli Ogm si sono rivelate una chimera. Quello di cui c'e' bisogno e' invece un cambiamento di paradigma nella genetica molecolare, una nuova biologia olistica ed ecologica, una scienza che non consideri piu' i geni come oggetti isolati ma li veda come parti di una relazione piu' ampia in cui essi stessi sono sottoposti alle influenze e al cambiamento indotti dall'ambiente. Il modello riduzionista, dice Ho con un sorriso, e' finito. - M. B.: Dottoressa Ho, insieme ad altri ricercatori ha appena pubblicato un documento chiamato "The case for a GM-Free Sustainable World". Di che si tratta? - M.-W. H.: Insieme ad alcuni scienziati di vari paesi, molto critici sul biotech, abbiamo prodotto un rapporto dettagliato, oltre 130 pagine, che raccoglie tutte le prove che mettono in dubbio la sicurezza degli Ogm (organismi geneticamente modificati). - M. B.: Ce le puo' riassumere in breve? - M.-W. H.: Gli organismi transgenici non hanno mantenuto nessuna delle promesse fatte dai loro promotori o creatori. Le difficolta' che abbiamo di fronte oggi erano state ampiamente previste da chi dubitava e criticava: resistenza delle piante e dei parassiti agli erbicidi e ai pesticidi, contaminazione delle piante normali a causa del polline, e cosi' via. Ma le prove di questo disastro sono state soppresse, per motivi commerciali, economici o politici. - M. B.: Cosa dite dal punto di vista scientifico nel vostro documento? - M.-W. H.: Le preoccupazioni della scienza sugli Ogm sono molte. Per esempio si usano vettori virali e batterici modificati, in qualche caso anche pericolosi. Il cibo creato in laboratorio, inoltre, non fa parte della nostra catena alimentare e non conosciamo i suoi effetti sul lungo periodo. - M. B.: Lei si definisce una "scienziata radicale". Qual e' la situazione a livello accademico per i ricercatori che la pensano come lei? - M.-W. H.: In Gran Bretagna, ma anche in altri paesi, ci sono molti scienziati che hanno perso il lavoro o i fondi per le loro ricerche semplicemente perche' cercavano di rendere noti i risultati delle loro scoperte sugli Ogm. Scoperte che mettono in luce, in base a test scientifici, la pericolosita' e la mancanza di sicurezza di questi organismi creati in laboratorio. Il caso piu' celebre e' quello di Arpad Pusztai, un ricercatore del Rowett Institute in Scozia. Ma una cosa simile e' successa anche a me quando mi occupavo del trasferimento genico orizzontale, cioe' tra specie diverse. Quando lavoravo all'Open University fui incoraggiata a ritirarmi prima della fine del mio contratto. Oggi infatti mi occupo poco di ricerca di base. - M. B.: Il governo americano sta per lanciare al Wto un'offensiva contro l'Unione Europea a causa della moratoria sugli Ogm in vigore nel nostro continente... - M.-W. H.: A livello internazionale gli Ogm sono regolati dal protocollo sulla biosicurezza di Cartagena firmato nel 2000 da 139 nazioni. Il trattato e' stato ratificato da 50 stati ed e' quindi entrato in vigore, permettendo ad ogni paese o regione, come l'Europa, di decidere cosa possa entrare e cosa no in base a leggi appropriate e autonome. E' vero pero' che il protocollo e' costantemente minacciato e rischia di essere inefficace. L'aspetto piu' importante, a mio avviso, e' cosa pensano i cittadini: i consumatori europei non vogliono prodotti Ogm e questo sentimento va tenuto in considerazione e accompagnato da conoscenze scientifiche valide. - M. B.: Qual e' la situazione in Gran Bretagna? - M.-W. H.: Anche i cittadini inglesi sono nettamente contrari agli Ogm. Penso alle molte battaglie locali nei piccoli paesi scelti come terreno di prova per la coltivazione di piante transgeniche. Molti cittadini sono intervenuti per distruggere questi raccolti, perche' la preoccupazione sulla sicurezza e sui tentativi di instaurare un monopolio sul cibo sono molto diffusi. Sicurezza, salute e tutela dell'ambiente sono preoccupazioni molto sentite in Inghilterra. - M. B.: Proprio per contrastare queste resistenze, il governo britannico ha lanciato in questi giorni un dibattito nazionale aperto a tutti i cittadini sulle questioni sollevate dagli Ogm, chiamato "GM Nation?". Di che cosa si tratta? - M.-W. H.: Finalmente il governo ha deciso di dare il via a una consultazione nazionale. E ha impostato il dibattito su tre filoni principali: cosa deve fare il Regno Unito nei confronti del transgenico; gli aspetti economici del biotech; le valutazioni scientifiche sugli Ogm. Il che, detto per inciso, si riduce a una serie di incontri poco pubblicizzati e a un sito web. Infatti ci sono state molte polemiche in Gran Bretagna, perche' il governo ha destinato ai dibattiti fondi insufficienti e non ha fatto alcuna promozione degli eventi tenuti nelle varie citta'. Ma chi e' andato, molte centinaia di persone, e' riuscito comunque a esprimere la propria contrarieta'. - M. B.: Nonostante questi limiti e' pero' la prima volta che un governo consulta i cittadini su questioni cosi' complesse ma che li riguardano direttamente. Un'iniziativa tutto sommato interessante e forse da approfondire anche in altri paesi. Come si svolgeva il dibattito in concreto? - M.-W. H.: Le riunioni si svolgevano in alcune grandi sale allestite con tavoli e sedie. Non ci sono stati interventi diretti di esperti, attivisti o politici. All'inizio della riunione veniva proiettato un video abbastanza obiettivo preparato dal governo. E su questa semplice base, del tutto insufficiente a soddisfare le molteplici curiosita' su questioni cosi' complesse, i cittadini iniziavano a discutere tra di loro. Non c'e' stata abbastanza informazione, specialmente scientifica. Ne' si potevano porre domande, perche' non c'era nessuno a cui rivolgerle. - M. B.: Se "Gm Nation?" non e' un modello appropriato, cosa si dovrebbe fare allora per coinvolgere il pubblico nelle questioni scientifiche e ambientali che lo riguardano? - M.-W. H.: A mio avviso e' piu' utile creare una serie di eventi pubblici in cui tutte le questioni siano presentate in modo chiaro. Riunioni in cui il pubblico possa fare domande e ottenere risposte sincere e attendibili. Un video non basta per farsi un'opinione... Il pubblico ha bisogno di avere un'informazione completa e non deve essere tenuto all'oscuro. Nessuno puo' dire: "Non ti preoccupare, io sono un esperto", oppure "Tu non puoi capire perche' non hai studiato biologia". Chiunque puo' farsi un'idea sulla base di prove attendibili e scientificamente valide. - M. B.: Lei ha pubblicato recentemente un libro intitolato Living with the Fluid Genome, non ancora tradotto nel nostro paese. Il concetto di genoma "fluido" si sta diffondendo nel dibattito sulla biologia, penso ad esempio al lavoro di Evelyn Fox Keller, ma anche ad alcuni risultati del Progetto Genoma Umano. Ci puo' spiegare meglio di che si tratta? - M.-W. H.: Il mio libro e' un'introduzione al cambiamento di paradigma in atto nella biologia molecolare. Alla base delle biotecnologie e delle tecniche sul Dna ricombinante c'e' infatti un approccio riduzionista, espresso a chiare lettere da Francis Crick in quello che lui ha chiamato il "dogma centrale della biologia molecolare": l'informazione genetica si muove in modo unidirezionale: dal Dna va all'Rna, poi alle proteine e infine arriva all'organismo. Questo modello e' falso e inadeguato alla realta' del vivente. Le proteine non sono burattini manovrati dai geni. Il "genoma fluido" significa che ci sono molteplici sentieri che conducono dai geni alle proteine e, soprattutto, che il movimento non e' lineare, ci sono feedback e relazioni che vanno a ritroso dall'ambiente alle proteine al Dna. Si fa quindi strada, anche nella scienza piu' ortodossa, il concetto di "reti di regolazione e di espressione genica". Un'idea molto diversa dal dogma di cui le ho parlato. Il Dna e' una molecola molto dinamica e i geni, a differenza dei diamanti, non sono per sempre. Il corredo genetico e' sensibile all'ambiente che lo circonda. Ecco perche' pesticidi, erbicidi e vaccini possono condurre a un rimescolamento genetico, un fenomeno di cui cominciamo solo ora a capire i pericoli. - M. B.: Dopo concetti come "sicurezza", "tracciabilita'" e "etichettatura" si sta affrontando ora quello di "prossimita'". Gli scienziati come lei sono contrari alla coesistenza tra prodotti geneticamente modificati e non. Perche'? - M.-W. H.: Perche' non esiste separazione tra organismi e ambiente. Se distruggiamo quello che ci circonda distruggiamo noi stessi. Le prove scientifiche dicono infatti che i geni delle piante modificate contaminano le altre tramite il polline. Non c'e' modo di bloccare il vento. In Canada, per esempio, 32 varieta' di semi su 33 sono contaminati con Ogm, anche se non dovrebbero. Le ricerche sugli Ogm agricoli non dovrebbero essere ammesse in campo aperto, ma confinate nei laboratori. - M. B.: Molti dicono che gli Ogm potranno contribuire a risolvere il probema della fame nel mondo e accusano gli ambientalisti di una sorta di barbaro cinismo. Lei che ne pensa? - M.-W. H.: Sono consulente scientifica del Third World Network e quindi sono coinvolta direttamente in queste questioni. Vorrei raccontare il caso dello Zambia. L'anno scorso questo paese africano e' stato colpito da una pesante carestia, ma rifiuto' i semi transgenici inviati dagli Stati Uniti, una decisione che fu accolta come uno scandalo. Prima della decisione, pero', il presidente dello Zambia invito' nel paese molti scienziati internazionali e alla fine del dibattito si voto' democraticamente a favore del rifiuto degli aiuti "umanitari" americani. Il problema era che se li avessero accettati avrebbero perso lo status di paese "Ogm-free" e quindi le loro esportazioni agricole ne avrebbero risentito. In seguito, in un forum panafricano, fu firmata la "dichiarazione di Lusaka" che afferma che gli Ogm non sono la soluzione alla fame nel continente. L'Africa e' in grado di nutrirsi. Pero' mancano l'acqua, le strade, le infrastrutture, le attrezzature agricole. Il problema della fame e' un problema di distribuzione, non di produzione. Nel mondo c'e' un surplus di cibo e gli Ogm non possono risolvere i problemi logistici e di distribuzione degli alimenti, dell'acqua e della produzione agricola. - M. B.: Lei e' contraria anche all'uso delle biotecnologie in medicina? - M.-W. H.: Sebbene abbia registrato una manciata di successi, il biotech in campo sanitario sta incontrando molte difficolta'. I problemi principali sono, per esempio, i vari e complessi meccanismi di rigetto messi in atto dal nostro corpo di fronte a oggetti estranei, come le cellule modificate. In qualche caso, poi, le cure hanno anche dato luogo a forme tumorali, cioe' a delle vere e proprie disfunzioni cellulari. Inoltre le patologie basate sul malfunzionamento di un singolo gene - le migliori candidate a una terapia genica funzionante -, purtroppo sono solo una minoranza. Infine l'esposizione al Dna transgenico potrebbe essere una cosa pericolosa in se'. La medicina "riduzionista" non funziona. Per avere un organismo in salute ed efficiente dobbiamo trovare un equilibrio sano con l'ambiente che ci circonda. 5. RIFLESSIONE. CELESTE GROSSI: UNA RELAZIONE A FIRENZE [Dal sito de "Il paese delle donne" (www.womenews.net) riportiamo la relazione introduttiva di Celeste Grossi, delle Donne in Nero, al gruppo "Pace e guerra: parole e pratiche di donne" dell'incontro di donne svoltosi a Firenze il 17-18 maggio 2003] "Donne in nero In difesa del benessere dell'incerta posterita' era gia' tutto deciso arbitrariamente. L'angoscia si accaniva. La fraternita' offesa atrocemente. Per non disperare per non nasconderci per recidere l'indifferenza: nel tetro inverno nel centro della citta' in piedi ferme non rassegnate non sperdute. Il nostro furioso silenzio si faceva sentire contro la morte contro il massacro. Ne abbiamo visti tanti passare adirati curiosi disorientati trascinando i figli per mano fingevano di non vedere la nostra testimonianza. Facevamo paura noi. Aspettando che ridiventassero uomini speravamo la risposta una voglia di pace perche' non fosse piu' necessario noi donne consapevoli gridare il lutto con il silenzio" (Gladys Basagoitia Dazza: nata in Peru', Donna in Nero a Perugia) * Ho pensato di iniziare con la lettura della poesia di Gladys perche' contiene alcuni degli elementi simbolici del nostro pensare e del nostro fare: il nero e il silenzio. Quando manifestiamo siamo vestite di nero, il colore del lutto di fronte agli orrori della guerra, e stiamo in silenzio. Il nostro silenzio non e' rassegnazione e impotenza (i nostri occhi interrogano le donne e gli uomini che passano, ma anche i potenti della terra ai quali vogliamo segnalare la nostra totale estraneita' alle loro scelte e il nostro rifiuto di qualsiasi complicita'. La nostra pratica e' nonviolenta ma radicale. Ci siamo con il corpo, con il cuore, con la mente. Le manine (a forma di fiore di loto, simbolo di pace, rappresentano un "ponte" tra donne che rifiutano di sentirsi nemiche) recano scritte rivolte ai propri governi, parole non urlate, semplici ma frutto di una elaborazione collettiva e di un processo di condivisione. La prima manina e' comparsa a Gerusalemme Ovest a Paris Square, oggi per tutte noi Hagar Square, in ricordo di Hagar Roublev la femminista pacifista israeliana cofondatrice delle Donne in Nero, sopra c'era scritto Stop the occupation. L'idea delle Donne in Nero israeliane era quella di lanciare una forma di protesta permanente, pubblica, nonviolenta, cosi' fortemente simbolica da poter essere attuata anche in poche. Una pratica, ormai diffusa nel mondo (la Rete internazionale delle Donne in Nero contro la guerra e il militarismo e' presente in tutti i continenti), basata sulla continuita' (a Gerusalemme le Donne in Nero manifestano senza interruzioni ogni venerdi' dal 1988). Essere per le strade per urlare in silenzio "Fuori la guerra dalla storia" assume una valenza straordinaria oggi che la guerra, che sta nel dna del neoliberismo, e' "preventiva" e permanente; non e' piu' uno strumento della politica ma e' la politica stessa di chi, con le armi, difende il mondo iniquo in cui viviamo; oggi che la guerra e' considerata una transizione accettabile verso la pace, perfino da donne, uomini e partiti che si definiscono di sinistra. Essere per le strade per urlare in silenzio "Fuori la guerra dalla storia" sa di utopia eppure noi Donne in Nero agiamo perche' l'utopia diventi concreta: per fare la pace prepariamo la pace, con modalita' di pace. Una pace giusta, perche' non c'e' pace senza giustizia e non c'e' giustizia se non si sradica la poverta'. Reali sono le nostre iniziative di opposizione alla guerra e alla partecipazione dell'esercito italiano alla guerra. Reale la nostra azione di denuncia della militarizzazione dei cuori e delle menti e della spericolata macchina del consenso mediatico che la sostiene. Reale il nostro pensare, fare, parlare. Reale il nostro attraversare confini, anche quando sono difesi con le armi, e conflitti per "abitare" i "luoghi difficili" con i nostri occhi testimoni e i nostri corpi solidali. Reali i nostri incontri con le donne dei "luoghi difficili" per tessere relazioni e praticare la "diplomazia dal basso" e una politica internazionale altra, dalla parte dei popoli inermi e non degli stati in armi. Reale il nostro agire per l'affermazione dei diritti collettivi e individuali (perche' i diritti o sono di tutti, di tutte, o non sono), dei diritti di uomini e di donne, piu' spesso delle donne perche' nel mondo patriarcale in cui viviamo sono piu' spesso violati. Reale il nostro costruire ponti di pace e tessere reti di solidarieta', trame invisibili che segnano il tracciato della relazione e del riconoscimento delle differenze. Reale il nostro dare voce a chi voce non ha per rompere il muro del silenzio indifferente e perche' nessuna, nessuno, possa dire "non sapevo". Reali i nostri progetti per disarmare il mondo e le menti. Reale il nostro sostenere le "signore della pace", invece che i "signori della guerra", per accompagnarle nel loro percorso di liberta'-liberazione. E reali sono soprattutto i nostri corpi quando ci interponiamo tra eserciti armati e civili inermi. 6. RIFLESSIONE. ANNA PICCIOLINI: UNA RELAZIONE A FIRENZE [Dal sito de "Il paese delle donne" (www.womenews.net) riportiamo la relazione introduttiva di Anna Picciolini, dell'Associazione Rosa Luxemburg, al gruppo "Pace e guerra: parole e pratiche di donne" dell'incontro di donne svoltosi a Firenze il 17-18 maggio 2003] L'Associazione nasce nel contesto della Convenzione permanente di donne contro le guerre, con l'obiettivo di lavorare per costruire una cultura e una pratica politica che escluda la guerra come strumento di soluzione dei conflitti. Il nome di Rosa Luxemburg e' stato proposto di Lidia Menapace: per alcune di noi all'inizio questo era poco piu' di un nome nella bibliografia essenziale del marxismo. Abbiamo invece scoperto a poco a poco una profonda consonanza. Nel seminario che si tenne a Firenze nel dicembre 2001, a tre mesi dalla Torri gemelle e alla vigilia della guerra in Afghanistan, la figura di Rosa e' uscita sempre meglio delineata, nella sua interezza di donna, capace di tenere insieme passione politica, lucidita' di analisi teorica e sentimento forte di partecipazione alla vita, nella sua dimensione quotidiana e non solo nella tensione rivoluzionaria verso un mondo migliore. Donna, e contro la guerra: sarebbe una forzatura chiamarla femminista, ma fu donna libera con una pratica di liberta' e un pensiero antidogmatico; forse anche la definizione di pacifista sarebbe inadeguata, ma fu antimilitarista, denunciando il legame inestricabile fra militarismo e capitalismo. E quindi il seminario di Firenze allargava lo sguardo sulla guerra oggi: quali i rapporti fra l'industria militare in cerca dei massimi profitti e l'economia della globalizzazione? E quale soggetto politico puo' opporsi a questo nuovo imperialismo? Al Social Forum Europeo dello scorso novembre, abbiamo partecipato proseguendo la riflessione su alcune parole chiave: ordine/disordine; estraneita'/infedelta', resistenza, complicita'/responsabilita'. Adesso, nel percorso che da Firenze 2002 va a Parigi 2003, stiamo preparando, per il prossimo mese di ottobre un seminario sul conflitto, su come il conflitto si presenta in diversi contesti e come si possono trovare modalita' non distruttive per gestirlo: conflitto di genere e interno al genere; conflitto fra stati e fra etnie; conflitto di classe; conflitto fra la specie umana e la natura. 7. RIFLESSIONE. IMMA BARBAROSSA: UNA RELAZIONE A FIRENZE [Dal sito de "Il paese delle donne" (www.womenews.net) riportiamo la relazione introduttiva di Imma Barbarossa, della Convenzione permanente di donne contro le guerre, al gruppo "Pace e guerra: parole e pratiche di donne" dell'incontro di donne svoltosi a Firenze il 17-18 maggio 2003] L'elemento innovativo di questi ultimi 15 anni e' senza dubbio la guerra nel cuore dell'Europa, la guerra di una parte dell'Europa all'altra, la partecipazione degli eserciti europei nelle guerre americane al Sud del mondo. Prima dell'89 il confine tra un'Europa e l'altra attraversava il cuore di Berlino e attraverso l'Istria arrivava nell'Adriatico. Quella dell'est era un'altra Europa, quella povera e "antidemocratica" che - caduto il regime socialista - diventa "l'Europa delle etnie e dei barbari". Crollano i regimi, tornano le appartenenze "comunitarie" che o si dispongono ad accogliere il mercato "democratico" occidentale o fanno caos e disordine. A un certo punto l'Europa "buona e democratica", l'Europa "dei diritti umani", decide di fare ordine nel caos delle macerie. Nasce la guerra umanitaria, una guerra illegale e fuori del diritto internazionale, una guerra paradossalmente per i diritti. Nel cuore della guerra del Kosovo siamo nate come Convenzione permanente di donne contro le guerre. E le parole hanno un senso: convenzione di donne, perche' alcune donne, singole o associate, con-vengono su alcuni punti politici e programmatici, permanente perche' le guerre sono permanenti e infinite, denotano la fase che stiamo attraversando. La nostra riflessione, in particolare la mia, verte sulla critica delle appartenenze, delle patrie, degli eroismi, dei nazionalismi e dei militarismi. In secondo luogo occorre scavare nell'ordine patriarcale per comprenderne fino in fondo la modernita', al fine di decostruirlo anche negli aspetti simbolici. Il patriarcato oggi si annida nella globalizzazione, si presenta con la faccia feroce degli integralismi e dei fondamentalismi (ad est e ad ovest), o si presenta con la faccia esportatrice della democrazia dei diritti umani e del mercato. Penso che le donne possano e debbano avviare una pratica della nonviolenza attiva, che certo non tende ad equiparare aggressori e aggrediti, ma che ritiene che occorra disarmare la ferocia dei rapporti tra gli stati attraverso il disarmo dei militarismi mentali. La pratica della nonviolenza non puo' che coniugarsi con l'affermazione della giustizia. Tuttavia se proponiamo una Europa "in pace", non possiamo pensare all'Europa come ad una cittadella autosufficiente, ma ad una Europa soggetto attivo di pace e tramite tra il Nord e il Sud del mondo. A questo proposito l'Italia come altri paesi che si affacciano sul Mediterraneo, per la sua collocazione "mediana", per la sua storia e per la sua cultura "meticcia" (si pensi alla Sicilia araba e greca, alla Calabria e alla Puglia greche, albanesi, bizantine) ha l'obbligo di farsi sostenitrice dell'abbattimento delle barriere e del superamento delle frontiere. 8. DOCUMENTAZIONE. PATRICIA TOUGH, FRANCA GIANONI: UN CONFRONTO A FIRENZE [Dal sito de "Il paese delle donne" (www.womenews.net) riportiamo il resoconto del gruppo di lavoro "Pace e guerra: parole e pratiche di donne" dell'incontro di donne svoltosi a Firenze il 17-18 maggio 2003; altri materiali sull'incontro sono apparsi nel n. 590 di questo notiziario. Patrizia Tough fa parte delle Donne in nero di Bologna; Franca Gianoni fa parte del gruppo Basta guerra del Forum sociale fiorentino] La discussione che si e' avviata all'interno del gruppo e' stata molto vivace ed ha espresso posizioni diversificate, molti comunque gli interventi che hanno posto in discussione il nesso fra femminismo e pacifismo. Le parole chiave del gruppo sono state: patriarcato, guerra/conflitto, militarismo, militarizzazione della societa' e delle menti, insignificanza. Temi di discussione: - Femminismo e pacifismo (nesso): alcune hanno sottolineato il nesso fra femminismo e pacifismo, inteso quest'ultimo come movimento che tende alla creazione di un mondo senza guerra senza negare i conflitti; alcune hanno sottolineato come proprio a partire dal femminismo si arriva alla scelta del pacifismo; Carla Lonzi (antimilitarista) parla del conflitto fondamentale uomo/donna come di quel conflitto che non finisce con l'eliminazione dell'antagonosta quindi proprio a partire da qui no alla logica amico/nemico, si' alla gestione positiva dei momenti e delle situazioni di scontro o di conflitto. - Patriarcato e guerra (nesso): ci si e' chieste se questo e' un contributo originale rispetto alle analisi del movimento piu' improntate alla questioni economiche, militari e geopolitiche, e se questo puo' costituire il nostro contributo; molte ne hanno convenuto, qualcuna ha eccepito che la guerra la subiamo tutti e tutte e quindi il movimento delle donne puo' essere d'aiuto alla lotta contro la guerra in modo migliore stando in modo piu' organico all'interno del movimento. Sull'analisi di questo nesso ma anche sull'analisi della globalizzazione non c'e' comunque dubbio che Pechino e' stato il primo e piu' alto momemto in cui si e' iniziato a parlare in termini di globalizzazione e di politiche comuni in un mondo globalizzato e che questo oltre al linguaggio e alle pratiche e' un debito che il movimento ha verso le donne molto spesso poco riconosciuto. - Insignificanza: qualcuna ne ha parlato rispetto al movimento delle donne sugli esiti di questa guerra e in seguito a questa guerra, sensazione spressa anche da altre come delusione rispetto alle pratiche (interposizione in Iraq). Si e' detto anche che spesso le donne occidentali appaiono rispetto alle donne del Sud del mondo un po' autoreferenziali e portatrici anch'esse di un pensiero occidentale non sempre condiviso dalle altre, oppure americanizzate (guardiamo solo ai soldi, guardiamo solo al nostro ombelico, distruggiamo il senso della comunita', insomma manchiamo di trascendenza). Su questo puinto c'e' dibattito, certamente c'e' bisogno di nuove parole, inventare nuove modalita' di andare oltre le insufficienze, ma trascendenza e' anche sapere che il mondo non finisce con noi e dobbiamo costruire una cultura altra fondandoci sulla memoria di cio' che e' stato realmente. E' positivo che nei movimenti affiori questa memoria anche per quanto riguarda l'assunzione delle pratiche delle donne (orizzontalita', rispetto delle differenze, ascolto, almeno nei desideri). Qualcuna ha sottolineato anche che non ritiene insignificante l'apporto delle donne al dibattito contro la guerra perche' e' un pensiero che trascende le guerre contingenti anche se in un contesto in cui la guerra si avvia a diventare permenente, e si impegna per un mondo senza guerra e senza violenza. Verso la fine dei lavori e' venuto fuori un discorso sulle pratiche di nicchia che sarebbero quelle dei gruppi di donne che si distinguono per le varie pratiche e posizioni, naturalmente altre hanno sostenuto che non c'e' voglia di stare in niocchia ma di distinguersi per il portato dell'analisi che non puo' prescindere dal conflitto uomo/donna nel personale e nel politico. * Si e' convenuto sul fatto che non si poteva costruire una "riflessione condivisa" per Parigi e che sentivamo la necessita' di ritrovarci per un altro incontro in settembre/ottobre mentre nel frattempo ci saranno altri incontri nazionali o internazionali di donne. La Convenzione il 21 giugno a Roma alla Casa internazionale delle donne. Alla fine di agosto le Donne in nero nel convegno internazionale a Massa Marittima. In ottobre l'incontro dell'Associazione "Rosa Luxemburg" di cui si dice nella relazione di Anna Picciolini. L'incontro sara' su questi punti: 1) Approfondire il nesso "femminismo e pacifismo"; 2) Un ragionamento sulle pratiche e i metodi nonviolenti di agire i conflitti: a. pratiche di interposizione, difesa civile, presenza internazionale come testimonianza e documentazione di quanto accade, diplomazia dal basso, diplomazia femminile, ecc.; b. conoscenza precisa dei termini del dibattito internazionale (Onu, Unione Europea, Osce, ecc.) senza dimenticare una riflessione femminista sul diritto sessuato presente da decenni (es. diritto d'asilo sessuato); c. saper progettare anche rispetto a riforme e a varchi offerti dalle stesse istituzioni internazionali ( es. risoluzione 1325 del 30 ottobre 2000 che affida alle donne risoluzione dei conflitti, Costituzione europea); 2) approfondire il nesso fra patriarcato e guerra decostruendolo. 9. DOCUMENTAZIONE. LUISA MORGANTINI: LA "ROAD MAP", UNA SPERANZA PER LA PACE [Riportiamo l'intervento di Luisa Morgantini nella seduta plenaria del parlamento europeo del 18 giugno 2003. Luisa Morgantini (per contatti: lmorgantini at europarl.eu.int), parlamentare europea, e' una delle figure piu' vive dell'impegno per la pace e i diritti] Non c'e' dubbio che la "road map" sia una speranza alla quale tenersi stretti, senza perdere la lucidita' del giudizio politico sui fatti che accadono quotidianamente in Palestina e Israele. Non e' la giustizia, non e' il diritto. Non c'e' dubbio che l'Unione Europea nel suo insieme e il lavoro tenace e appassionato svolto dall'inviato speciale Miguel Angel Moratinos hanno avuto un ruolo importante nella definizione del piano e nell'accompagnare l'autorita' palestinese ad intraprendere il processo per le riforme definite nella road map. E' indispensabile pero' che sia tutto il "quartetto" ad essere partecipe e garante dei negoziati. Lasciare solo agli Usa la gestione e' un rischio troppo grosso e comunque sbagliato. Nello stesso tempo e' indispensabile accompagnare tutte le fasi dei negoziati, senza ricommettere gli errori dell'accordo di Oslo, quando dopo le grandi strette di mano si sono lasciate le due parti sole e con rapporti di potere cosi diversi. Ha prevalso non la pace ma la violenza e la sopraffazione e la continua occupazione militare. Tutti sono consapevoli (purtroppo con la compiacente subalternita' di alcuni governanti europei) del dominio dell'amministrazione Usa cosi come della tendenza del governo israeliano a sottovalutare interlocutori come l'Europa, la Russia o l'Onu, considerati a torto sbilanciati nei confronti dei palestinesi. A torto perche' non di sbilanciamento si tratta ma di non aver abidcato ancora completamente al diritto e alla giustizia. Ma a dir poco, l'amministrazione israeliana come quella Usa, non considerano il diritto internazionale vincolante. Se cosi' fosse la questione Palestina-Israele sarebbe risolta da lungo tempo, perlomeno da quando, nell'88 ad Algeri, l'Olp ha scelto di coesistere con lo stato israeliano e di avere il proprio stato nei territori occupati nel '67. Lo sbilanciamento, l'assimmetria, e' la condizione tra palestinesi e israeliani. Non e' banale, anzi e' essenziale ribadire che non e' l'esercito palestinese ad occupare Israele, non e' l'autorita' palestinese a costruire insediamenti in territorio israeliano, a tenere in carcere migliaia di persone, a tenere in una prigione a cielo aperto milioni di palestinesi. Gli atti esecrabili di terrorismo contro la popolazione civile sono condotti da forze estremiste palestinesi, non da un esercito armato di F 16. E questo senza assolvere l'autorita' palestinese di errori e debolezze nocive ad una pace giusta. La road map come possibilita' di pace per tutti e due i popoli e' ancora una volta una sfida ed una speranza, ma se si vuole davvero che palestinesi ed israeliani vivano in pace e sicurezza, bisogna, certo, chiedere all'autorita' palestinese di cercare ogni strada legale per fermare le azioni di terrorismo, del resto Abu Mazen con l'appoggio del presidente Arafat sta cercando con molta fermezza la via del dialogo per fermare la violenza e non incorrere in una guerra civile; ma e' a Sharon che bisogna chiedere con molta forza di rispettare le prime fasi della road map, di cessare gli assassini mirati, che sembrano fatti apposta per provocare reazioni terroriste. Sharon ha detto che non si possono dominare tre milioni e mezzo di palestinesi con l'occupazione militare, e allora dalle parole ai fatti, come dice Gideon Levy - un commentatore del giornale "Haaretz" -, via i check point, la fame, la mancanza di lavoro, la demolizione delle case, che gli ammalati e le puerpere possano andare in ospedale, che i bambini non vedano piu' i genitori picchiati e umiliati nel cuore della notte. Questo dara' forze alla pace. * C'e' una mostruosita' di cui la road map non parla: il muro di separazione, di apartheid, di annessione territoriale, 364 km, alto 8 metri, filo spinato, controlli elettronici, il muro non e' sulla linea verde dei territori occupati nel '67, annette ad Israele nuovo territorio, 30 pozzi idrici confiscati, 15 villaggi palestinesi saranno separati dalla terra coltivata. Un costo immenso, milioni e milioni di euro, un muro che separera' in bantustan il territorio palestinese. Sharon ha dato ordine di lavorare anche la notte per la costruzione e non gli bastano i 374 km, vuole il recinto anche nella parte del confine giordano. * Usiamo ogni strumento di pressione pacifica e democratica per permettere la realizzazione di due popoli e due stati, e appoggiamo la richiesta di Kofi Annan e sostenuta dal ministro degli esteri francese perche' si dislochi sul territorio una forza internazionale di peacekeeping, capace di fermare le morti palestinesi e israeliane. E', come al solito, gia' molto tardi: una forza internazionale avrebbe dovuto essere presente fin dall'inizio della recrudescenza del conflitto. A gran voce lo hanno richiesto i movimenti sociali e pacifisti palestinesi, israeliani e internazionali. Rachel Corrie, per proteggere la popolazione civile e' morta schiacciata da un bulldozer israeliano. La sua morte, cosi come quella di migliaia di palestinesi e israeliani, si ascrivono al delitto di omissione della comunita' internazionale. Ripariamo. 10. RILETTURE. MARCELLO FLORES (A CURA DI): VERITA' SENZA VENDETTA Marcello Flores (a cura di), Verita' senza vendetta, Manifestolibri, Roma 1999, pp. 246, euro 17,56. Un'analisi e una raccolta di documenti dell'esperienza della Commissione sudafricana per la verita' e riconciliazione. 11. RILETTURE. DESMOND TUTU: NON C'E' FUTURO SENZA PERDONO Desmond Tutu, Non c'e' futuro senza perdono, Feltrinelli, Milano 2001, pp. 216, euro 13,43. L'esperienza della Commissione sudafricana per la verita' e la riconciliazione nel racconto del suo presidente e animatore Desmond Tutu, arcivescovo di Citta' del Capo, premio Nobel per la pace, una delle persone-simbolo della vittoriosa lotta contro l'apartheid. 12. RILETTURE. TZVETAN TODOROV: MEMORIA DEL MALE, TENTAZIONE DEL BENE Tzvetan Todorov, Memoria del male, tentazione del bene, Garzanti, Milano 2001, pp. 406, euro 19,63. Un libro che e' indispensabile aver letto. 13. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 14. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti, la e-mail e': azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: lucben at libero.it; angelaebeppe at libero.it; mir at peacelink.it, sudest at iol.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it. Per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Per non ricevere piu' questo notiziario e' sufficiente inviare un messaggio con richiesta di rimozione a: nbawac at tin.it Numero 592 del 25 giugno 2003
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