Diario da Ankara: aggiornamenti sulla situazione di Leyla Zana e dei deputati curdi incarcerati in Turchia





Ormai da molto tempo come Punto Rosso stiamo seguendo la vicenda di Leyla Zana e degli altri deputati curdi incarcerati in Turchia. Oltre ad aver organizzato diverse iniziative pubbliche stiamo seguendo in loco l'iter processuale e giudiziario.


Di seguito trovate il diario di Silvana Barbieri da Ankara, presente al processo a Leyla Zana e ai deputati curdi incarcerati con lei. Trovate poi le dichiarazioni di questi tre deputati.





Libertà per Leyla Zana, libertà per il popolo curdo!





Buona lettura.






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Silvana Barbieri



Ankara


Diario della prima seduta del nuovo processo a Leyla Zana, Hatip Dicle, Orhan Dogan e Selim Sadak, 28 marzo 2003



Ci siamo alzati molto presto questa mattina per il timore di non riuscire a trovare rapidamente il sito del nuovo processo, da parte del Tribunale per la sicurezza dello Stato, ai quattro parlamentari curdi condannati nel 1994, Leyla Zana, Hatip Dicle, Orhan Dogan e Selim Sadak, oppure di difficoltà a entrare nel tribunale, o di non trovare posto nell’aula dove il processo sarà celebrato. Infatti quando arriviamo al tribunale sbagliamo una prima volta l’entrata, quindi ci indirizziamo verso il retro dell’edificio perché vediamo lì della folla e una quantità di agenti della polizia, di gendarmi (di agenti della polizia militare) e di soldati, qui però ci viene indicata un’altra entrata sbagliata, alla fine capiamo qual è l’entrata giusta ma per arrivarci occorre passare attraverso una quantità di cordoni di gendarmi e di soldati, ad uno dei quali un tale della polizia in borghese tenta di non farci passare. Questo processo è tutt’altro che pubblico. La nostra amica turca che ci accompagna e che ci fa da interprete è un poco intimidita, conosce i sistemi della polizia turca anche per una dura esperienza personale. Da tutte le parti stazionano gruppetti di curdi e gruppetti di agenti di polizia in borghese, riconoscibilissimi questi ultimi perché ognuno ha un walkie-talkie e ci parla concitatamente dentro. Stefano Squarcina alla fine si incazza, sfoglia carte, prende in mano il telefonino, uno sketch insomma di grande effetto scenografico, alla fine ci fanno passare. Siamo in cinque, due parlamentari europei (Feleknas Uca, Felek per gli amici, eletta nelle liste del PDS tedesco, figlia di immigrati curdi, e Luigi Vinci, mio marito, eletto nelle liste di Rifondazione Comunista), Stefano, collaboratore di mio marito, l’amica turca Lerzan e io nella veste, per l’occasione, di collaboratrice dei due parlamentari.



Dopo essere passati per un metal-detector e aver abbandonato in portineria le borse entriamo finalmente nel tribunale, saliamo al primo piano cioè dov’è l’aula del processo, ci fermiamo nell’atrio, assieme a una quantità di persone, in attesa che il processo cominci, prima che cominci in aula non si può entrare. Sono lì con noi ad attendere molti rappresentanti delle organizzazioni curde e di quelle per i diritti umani, molti parenti degli imputati, tra i quali una sorella e la figlia di Leyla Zana, e ci sono pure i rappresentanti della delegazione ad Ankara della Commissione Europea e delle Ambasciate di Germania, Gran Bretagna e Grecia, quest’ultima anche per conto del Consiglio Europeo. Ci sono, cosa interessante e importante, anche alcuni parlamentari turchi, del partito islamista al governo, tra i quali il Presidente della Commissione per i diritti umani. Ci sono inoltre il solito quantitativo di agenti di polizia in borghese e altri agenti in tuta. Cominciano dopo un po’ ad arrivare volti noti, di donne e di uomini del partito curdo Hadep, incontrati due anni fa qui ad Ankara, poi molti tra gli avvocati del collegio di difesa, tra i quali Yusuf Alata_, capo del collegio di difesa e tra i difensori di Leyla Zana, incontrato in diverse precedenti occasioni.



Rapidamente ci presentano la sorella e la figlia di Leyla, la sorella è una donna piccola dai capelli nerissimi e che sembrano di seta, Lerzan mi dice che capelli così li hanno molti curdi, la figlia è una bella ragazza sui vent’anni, ci abbracciamo. La figlia e la sorella sono le uniche persone della famiglia a essere vicine a Leyla Zana. Il marito vive in Europa, dopo aver scontato 12 anni di carcere per la sua militanza nelle formazioni curde legali venne a Strasburgo a ritirare il Premio Zakharov che il Parlamento Europeo aveva conferito a Leyla Zana e, avendo qui testimoniato sui maltrattamenti a cui sono sottoposti i prigionieri politici in Turchia, subì una nuova condanna, di cinque anni, e anche il figlio vive all’estero, perché non avendo fatto il militare ed essendo stato di conseguenza accusato di renitenza alla leva tornando in Turchia potrebbe essere arrestato. Ci vengono presentate tante altre persone, tra le quali un deputato curdo arrestato egli pure nel marzo del 1994 e che fu condannato a sei o sette anni anziché a 15, perché non incriminato di “propaganda terrorista”.



Finalmente ci fanno entrare, l’aula ha qualcosa come 150 posti a sedere, su lunghe panche. Ci sediamo sulla panca davanti, abbiamo dinanzi una transenna a separarci dagli imputati, che ancora non ci sono, per i quali pure c’è una panca. Ben in alto più oltre vengono a sedersi la Corte, che è composta di tre giudici (civili) e, sulla loro destra, il Procuratore dello Stato, cioè l’accusa. Invece il collegio dei difensori, una quindicina di avvocati, viene a sedersi in basso, all’altezza degli imputati, sulla loro destra. Posti a metà in termini di altezza tra la posizione dei giudici e quella degli imputati vengono a sedersi il cancelliere e una stenografa.



Saremo perciò a tre-quattro metri dagli imputati, quando arriveranno, e penso che tramite Lerzan si potrà scambiare con loro un saluto, qualche parola: ma entrano subito in aula a smentirmi una ventina di gendarmi, giovanissimi, metà con fucili di assalto in pugno, comandati da un paio di ufficiali e da un paio di graduati, che si interpongono tra la posizione degli imputati e il pubblico, metà rivolti verso la posizione degli imputati e i giudici e metà rivolta verso il pubblico. Il quale, prevalentemente curdo, non fa una piega, c’è abituato. Ma l’impressione che provo io è tremenda, di una violenza di stato cieca e feroce, di un’assenza sostanziale di regole di civiltà giuridica e di civiltà in generale. Che tribunale indipendente e orientato nel senso dei diritti umani e della democrazia può mai essere quello, mi chiedo, nel quale sono uomini armati rivolti al pubblico e a quattro imputati assolutamente inermi!



Finalmente entrano, scortati da altri gendarmi armati, gli imputati, tre uomini a cavallo dei cinquant’anni e Leyla Zana. 44 anni, ma sembra parecchio più giovane, non più magra come nelle foto di dieci anni fa ma rotonda, capelli neri a caschetto, occhi vivaci, sorridente, aria sicura e combattiva, parlotta con i suoi compagni, ridono. Si voltano, incontrano nel pubblico volti noti, sorridono, salutano con le braccia. Siamo tutti quanti parecchio emozionati. Credo che Leyla Zana sappia che c’è una delegazione del Parlamento Europeo, si volta una volta verso Felek e me, ci salutiamo, si volta una seconda volta, ci salutiamo di nuovo, ma a questo punto basta, il militare dinanzi a me è infastidito e ci fa cenno di smettere.



Il processo si apre con l’identificazione di rito degli imputati. Immediatamente dopo essi fanno istanza di ricusazione del Presidente della Corte, in quanto in precedente occasione aveva votato contro il rifacimento del processo, disposto dalla sentenza del luglio di due anni fa del Tribunale dei diritti umani di Strasburgo (a differenza degli altri due giudici, favorevoli, per cui alla fine il processo era stato deciso di rifarlo). La corte di giustizia di Strasburgo, ricordo, aveva dichiarato il precedente processo non equo, in quanto nella sua corte c’erano giudici militari, e caratterizzato dalla lesione dei diritti della difesa, perciò, in breve, del tutto fuori linea rispetto alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, della quale la Turchia è firmataria.



Così la Corte si ritira in camera di consiglio per decidere se accettare o no la ricusazione: e, incredibile, si riunisce con il Procuratore! Chiederemo poi ad un avvocato se è la legge a stabilire una simile violazione dello stato di diritto, e la risposta sarà che no, ma è prassi! La Corte rientra dopo cinque minuti, la richiesta di ricusazione non è stata accettata, si procede.



Tocca di nuovo agli imputati, stavolta per interventi a loro difesa. Svolgono tutti e quattro interventi d’una certa ampiezza, sulla mezzora, qualcuno anche di più. Gli argomenti sono soprattutto politici, richiamano le condizioni di dieci anni fa della Turchia, cioè il regime corrotto e autoritario della Tansu Ciller e dei suoi alleati militari, l’incapacità di accettare l’esistenza stessa dei curdi, l’uso dello sciovinismo anticurdo per coprire la corruzione. Tutti e quattro si richiamano alla loro posizione di sempre, l’obiettivo della solidarietà tra turchi e curdi in uno stato democratico. Tutti e quattro denunciano il carattere totalmente manipolatorio del precedente processo, la campagna di propaganda isterica a loro danno, le prove false, i testimoni corrotti, la decisione di condanna voluta dal potere politico e militare. L’intervento di Leyla Zana è anche arricchito dalla sua riflessione di donna sulla persecuzione speciale subita in Turchia dalle donne curde. E’ soprattutto Orhan Dogan, ultimo a intervenire, a sviluppare un ragionamento anche giuridico e a rivendicare un passaggio di modernità democratica in Turchia anche sul versante delle norme del diritto e della loro applicazione.



Siamo così arrivati alla pausa per il pranzo, che andiamo a fare con gli avvocati in una trattoria non lontana dal tribunale. Alle 14 si riprende, prima di entrare in aula riesco a parlare un po’ con la figlia di Leyla Zana e a darle il libro con le poesie di Carmela Dortello “Petali per Leyla”, scritto sia in italiano che in francese, uscito questo stesso mese, Edizioni Achab, Verona. La figlia sa il francese e potrà tradurre le poesie a sua madre.



Tocca ora, dice il Presidente, ai testimoni, perciò il cancelliere va sulla porta dell’aula, la apre e comincia la chiama dei testimoni (che sono 26, tutti dell’accusa), uno per uno. Colpo di scena: dopo ogni nome il cancelliere dice “yok, non c’è”, cioè nessuno dei testimoni è presente! Nessuno su ventisei! Vero è che sono quasi tutti curdi o poliziotti che risiedevano ai tempi del precedente processo nel Curdistan, però tra loro c’è anche un deputato, ovviamente del partito della Tansu Ciller, il quale si chiama, con notevole improntitudine, della Retta Via.



A questo punto dunque intervengono quattro tra gli avvocati della difesa, tra i quali Yusuf Alata_, i quali chiedono l’interrogatorio in giudizio forzoso per le prossime sedute del processo dei testimoni, in modo che possano essere interrogati dai difensori, cosa che al precedente processo era stata impedita, e la scarcerazione immediata degli imputati, sia in relazione ai contenuti e al senso fondamentale della sentenza della Corte di Strasburgo che al fatto che le recenti riforme del codice penale turco hanno cancellato o modificato il contenuto delle figure di reato per le quali gli imputati erano stati condannati che, infine, tenendo conto di come l’escussione dei testimoni potrebbe andare per le lunghe, dopo nove anni dal precedente processo e per gli sconvolgimenti subiti in questi nove anni dal Curdistan.



La Corte perciò si riunisce nuovamente in camera di consiglio, ovviamente seguita dal Procuratore.



Si vede chiaramente dai volti tesi di tutti, pubblico, avvocati, noi, che l’assenza della totalità dei testimoni, per il significato chiarissimo che ha in fatto di inattendibilità delle loro testimonianze al precedente processo, fa pensare ad una fortissima possibilità che l’istanza di scarcerazione sia accolta. Addirittura ci dilunghiamo tra noi in ipotesi sul carattere costruito di quest’assenza, a giustificazione cioè di una decisione di scarcerazione da parte di una Corte bisognosa di coprirsi sul versante dei militari.



Torna la Corte, ci ha messo come prima pochi minuti, e dichiara di aver deciso l’accettazione dell’escussione forzosa dei testimoni, la non scarcerazione degli imputati e il 25 aprile prossimo come seconda seduta del processo. Fine della prima seduta. I gendarmi portano via gli imputati.



Usciamo tutti abbastanza abbattuti, i curdi presenti in aula meno, ci sono abituati, gli avvocati invece appaiono assai provati. Li salutiamo assicurando la nostra presenza il 25 aprile.



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Ankara, 28 marzo 2003, processo a Leyla Zana e agli altri tre parlamentari curdi in carcere dal 1994





Sintesi, da appunti, dell’intervento di Hatip Dicle





Siamo lieti di essere nuovamente giudicati.

Con questo processo si sta procedendo anche, di fatto, a giudicare la condizione della democrazia in Turchia. Qui i nostri giudici debbono decidere se proteggere lo status quo e difendere una condizione di oppressione oppure se optare per la democrazia.

In questi quattro anni sono stati fatti dei passi verso la democrazia. E’ un progresso in senso democratico aver cominciato a rispettare le sentenze della Corte europea di Strasburgo. Se vi sarà qui un processo giusto, imparziale, un processo fondato sui principi dello stato di diritto, sarà stato fatto un passo importante in avanti per la democrazia.

Vorrei illustrare i termini principali di questo processo.

Primo. Questo processo è un processo politico. Esso è connesso all’andamento della questione curda. Noi fummo arrestati perché avevamo opinioni politiche in contrasto in materia con quelle del governo di allora.

Oggi invece le autorità di governo si esprimono in questa materia come noi. E’ un progresso importante. Infatti ha richiesto nove anni.

Secondo. Noi entrammo in Parlamento con i voti del popolo. E del popolo per 24 mesi fummo i rappresentanti. Ma nel marzo del 1994, pur non avendo compiuto alcun reato, fummo messi in stato di accusa e, in pieno Parlamento, presi per il collo dai poliziotti, malmenati. Fu così violata la nostra immunità di parlamentari; e neppure ci fu consentito di contestare questa violazione. Il nostro arresto avvenne quindi in violazione di ogni principio legale. La stampa scrisse che il 2 marzo c’era stato di fatto un colpo di stato.

Il 13 marzo il Capo delle forze armate Dogan Güre_ dichiarò: “sono stato io a togliere l’immunità parlamentare ai deputati del Dep”. E Demirel affermò che “il nostro esercito ora è contento, anche se non è stata un’azione elegante”.

Fummo poi giudicati, in sostanza, da una parte politica, e inoltre Tansu Ciller impose, il 16 marzo, di “terminare rapidamente” il processo. Non si trattò quindi di un processo equo. In particolare vi fu violato l’art. 85, cioè il nostro diritto alla difesa.

Molti altri episodi successivi dimostrano che la giustizia in quegli anni 1993, 1994 e 1995 non era indipendente, che la giustizia era continuamente violata da chi aveva potere, che il Procuratore generale Nusret Damirel violò la legge.

L’inchiesta doveva avere carattere riservato, ma la stampa ne era continuamente informata. Nelle nostre celle eravamo continuamente controllati. Fummo indicati in televisione come traditori e come responsabili della morte di migliaia di persone. Le cinque udienze del processo si tennero in un clima molto teso. Come testimoni vi furono solamente spie, “guardie del villaggio” e poliziotti; i nostri testimoni non furono ascoltati. I nostri 32 dossier di prove a discolpa non furono presi in considerazione.

Ci fu un incidente automobilistico il 3 novembre 1996 a Susurlik. Un camion si scontrò con una mercedes sulla quale erano il deputato Sedat Bucak, Abdullah Çatli, che era un membro della mafia che trafficava in droga, e un dirigente della polizia, Kuseyin Kocadad. Quest’incidente dimostrò che nello Stato c’erano dei banditi e che a questo erano dovute le violazioni della Costituzione, l’allontanamento dello Stato dalla legalità. La firma del capo della polizia che ci aveva fatto prendere per il collo in Parlamento, Mehmet Agar, era sul passaporto ad Abdullah Çatli, trafficante di droga. Mehmet Agar era stato tra i principali testimoni al processo contro di noi. Il deputato della banda mafiosa distrutta dall’incidente era stato ascoltato nel nostro processo come testimone anche lui di primaria importanza.

Quei banditi compivano omicidi extragiudiziari. A causa loro si soffriva molto. Furono bruciati molti villaggi, ci furono molte vittime di omicidi extragiudiziari, molte persone scomparvero.

I cervelli della banda erano Tansu Ciller e Dogan Güre_.

Occorre fare piena luce sulla banda di Susurluk. Se ciò non sarà fatto la nostra democrazia non riuscirà a essere completa.

In conclusione finimmo incarcerati per via, semplicemente, del nostro orientamento politico democratico.

Abbiamo pagato un prezzo molto alto, nove anni di carcere, alla democrazia.

In questi nove anni non siamo stati senza fare nulla, abbiamo invece lottato, assieme ai nostri avvocati.

La Corte di Strasburgo ha condannato la Turchia per quattro violazioni principali:

-         perché siamo stati messi per 15 giorni in custodia cautelare

-         per lo scioglimento del nostro partito, il Dep

-         per non essere stati giudicati in modo equo

- perché fu violato l’art. 85, cioè il nostro diritto alla difesa, principalmente in quanto non fu presa in considerazione alcuna la nostra documentazione a difesa, costituita da 32 dossier.

Ora molte cose sono cambiate. Si rifà il processo. Il tribunale è cambiato. La posizione dello Stato sulla questione curda è cambiata. Ora si può parlare dell’esistenza della lingua curda e di programmi televisivi in curdo.

Non bisogna più aver paura in Turchia che ci sia la lingua curda.

I due popoli della Turchia devono essere fratelli se si vogliono sconfiggere le difficoltà all’entrata della Turchia nell’Unione Europea.

Noi vogliamo, anche per questo, la democrazia, la pace nella nostra società e un’amnistia generale.




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Ankara, 28 marzo 2003, processo a Leyla Zana e agli altri tre parlamentari curdi in carcere dal 1994







Sintesi, da appunti, dell’intervento di Orhan Dogan





Signor Presidente, la maggior parte dei miei pensieri sono già stati espressi dai miei amici. Non voglio ripeterli. Desidero invece parlare nella mia qualità di uomo di diritto, nelle mie competenze di avvocato.

Sino ad oggi non avevamo incontrato un’istituzione dello stato intenzionata ad ascoltarci.

Siamo molto felici della decisione della Corte europea di Strasburgo. E’ una decisione di grande modernità giuridica.

Anche la decisione di rifare il nostro processo è un fatto democratico. E’ stata una decisione che rispetta le norme, di valore universale, dello stato di diritto.

Inoltre questo processo va ben oltre la questione della nostra libertà personale. Noi non abbandoneremo mai la nostra lotta per la fraternità tra i popoli della Turchia e per la democrazia in Turchia.

Voi ora avete il potere di continuare a tenerci in prigione, però avete anche il dovere di fare un processo moderno ed equo.

L’applicazione della sospensione dell’esecuzione della nostra condanna, stabilita dalla Corte europea, non è in ogni caso così importante. Noi fummo condannati a 11 anni di carcere. Ora siamo già al decimo anno. Ci resta solo un anno, cosa che non è molto importante.

Il nostro precedente processo fu realizzato in una situazione alterata. La decisione di farlo e di arrivare a una condanna fu presa in una stanza del Tribunale per la sicurezza dello Stato. Tansu Ciller ordinò alla Corte di fare il nostro processo alla svelta. In questo nuovo processo, questa situazione dev’essere corretta. Le strutture che amministrano la giustizia non devono predeterminare la logica e la conclusione di un processo ma conformarsi alla logica dei fatti reali e al diritto. Da questo punto di vista la decisione che ci riguarda presa dalla Corte europea dei diritti dell’uomo è un buon esempio.

Avevamo un professore alla facoltà di diritto che diceva che “oggi si tratta di avere uomini di diritto e non di legge. La differenza è che l’uomo di diritto è un artista, l’uomo di legge no. L’uomo di diritto sta all’uomo di legge come il pittore sta all’insegnante di disegno. L’uomo di diritto deve fare una ricerca minuziosa sull’argomento e presentarne il risultato in modo tale che il diritto abbia uno sviluppo”.

E’ questo il tipo di diritto che opera nei paesi democratici.

Il diritto invece fu usato molto male negli Stati Uniti al tempo di Mac Carthy, così come fu usato molto male all’epoca in Turchia di Tansu Ciller.

Il Capo di stato maggiore Dogan Güre_ ammirava la Ciller. Egli aveva messo la foto della Ciller accanto a quella di Atatürk. Tansu Ciller e il Capo di stato maggiore erano intimi amici . L’acquisto di armi da parte del nostro esercito doveva avere carattere segreto, ma la Ciller sapeva ogni cosa dell’acquisto di armi. E la Ciller era diventata proprietaria di appartamenti negli Stati Uniti.

Il fatto quindi è che costoro per poter proseguire con i loro affari disonesti e poterli coprire avevano bisogno di creare dei nemici interni. Così noi diventammo i nemici della patria.

Noi, noi saremmo stati i nemici della patria!

Siamo stati perciò condannati a partire da voci registrate in cassette. L’Istituto di medicina legale disse che in Turchia non c’era una tecnologia che potesse determinare l’autore di una voce. Malgrado questa dichiarazione, si trovò uno specialista di voci che dichiarò che le voci sull’audiocassetta appartenevano a noi. Fummo accusati e condannati a partire da quest’audiocassetta.

Siamo stati condannati per gli slogan scanditi durante i congressi dei partiti Hep e Dep.

C’era stata una dichiarazione sulla pace e la fraternità tra i popoli in Turchia che era stata firmata da 189 persone. Fummo accusati di aver preparato questa dichiarazione. 23 persone avevano fatto uno sciopero della fame. Fummo accusati di aver organizzato questo sciopero della fame. Era apparsa una dichiarazione pubblica della stampa contro il razzismo. Fummo accusati di essere stati noi a fare questa dichiarazione.

Come vedete, quelle cose normali che vengono fatte tutti i giorni per la pace e la fraternità delle popolazioni furono le cause della nostra condanna.

Dato che nessun livello istituzionale ci ascoltava, il 20 novembre 1993 ricorremmo alla CSCE (al Consiglio per la sicurezza e la cooperazione in Europa). Il Procuratore della repubblica tentò di impedircelo. Nel processo venne detto che lo scopo degli accusati era di allungarne i tempi.

Il 3 marzo 1994 mi appellai al Procuratore della repubblica, al Capo di stato maggiore, al Comandante della gendarmeria, alle prefetture affermando che “non vi erano argomenti minimamente sufficienti per trattarci come traditori della patria”. Dopo quest’appello gli argomenti contro di noi cominciarono a piovere come le gocce della pioggia.

L’11° processo-verbale fu preparato attraverso deposizioni sentimentali dei testimoni. La loro maggioranza raccontò i propri sentimenti contro di noi. Per esempio il processo-verbale della deposizione di un testimone, il cui nome è Ejder Aç1kal1n, è davvero molto sentimentale.

Un cuoco italiano del 16° secolo, il cui nome era Menaggio, s’interrogava ogni tanto sull’esistenza di Dio e cercava di capire il potere di Dio. Alcuni individui dissero che Menaggio aveva insultato Dio. Fu quindi accusato di avere insultato Dio e fu condannato a morte. I testimoni a carico ebbero dei benefici dalle autorità dello Stato.

Dopo la morte di Menaggio altri testimoni dichiararono che egli non aveva mai insultato Dio, che egli era stato vittima di un’ingiustizia. E i testimoni che avevano contribuito alla condanna a morte di Menaggio dichiararono che avevano avuto una relazione profittevole con le autorità.

Menaggio era stato condannato a morte ingiustamente.

Anche i testimoni a nostro carico avevano relazioni profittevoli con le autorità dello Stato.

In compenso non furono mai presi in considerazione i nostri argomenti. Nel nostro precedente processo la difesa non poté esistere. Il velo delle mistificazioni fu densissimo in quel processo.

In conclusione fummo condannati per separatismo, sulla base dell’art. 125 del codice penale, e per terrorismo.

La verità ora deve essere portata alla luce.

Senza scoprire le relazioni profittevoli dei testimoni a nostro carico con le autorità di allora dello Stato la verità non potrà essere portata alla luce.

In questi quattro anni la Turchia ha fatto alcuni progressi sulla questione curda.

Bisogna vincere in Turchia la fobia per il nemico interno. Questo nemico non esiste. Bisogna costruire la fraternità tra i popoli turco e curdo. Bisogna creare un clima di fiducia tra loro.




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Ankara, 28 marzo 2003, processo a Leyla Zana e agli altri tre parlamentari curdi in carcere dal 1994





Sintesi, da appunti, dell’intervento di Selim Sadak





Sono molto lieto e noi tutti siamo molto lieti di constatare che viene rispettata la sentenza della Corte europea di Strasburgo. Noi vogliamo un paese che rispetti i principi del diritto internazionale.

Nel precedente processo non fummo trattati in modo equo. In quel processo si verificarono molte iniquità. Per questo sono in carcere da nove anni.

Il fatto è che il periodo dei governi di Demirel e di Tansu Ciller fu un incubo. In Turchia operava una sorta di stato occulto e la vita politica ne era infettata, lo sciovinismo vi dilagava. In particolare il 1993 fu un anno terribile, ci furono una quantità di omicidi extragiudiziari, di persone scomparse, di villaggi curdi distrutti. Le “guardie del villaggio[1]” terrorizzavano la popolazione curda.

Noi eravamo contrari a questa situazione politica, quindi la nostra condizione di deputati non fu rispettata. Fummo molto calunniati: ci presentarono come i responsabili della distruzione dei villaggi. La nostra indennità parlamentare fu annullata e in più fummo espulsi dal Parlamento. Dopo la nostra espulsione il capo del governo Tansu Ciller disse che “espellendo dal Parlamento i deputati del DEP, noi abbiamo espulso il PKK dal Parlamento”. Essa inoltre ordinò di chiudere alla svelta il processo. In sostanza, perciò, il tribunale fu obbligato a condannarci. Non fu lui a decidere nei nostri confronti, la decisione era già stata presa.

Inoltre durante il processo furono ascoltate solo le deposizioni delle “guardie del villaggio”, degli autori degli omicidi extragiudiziari, delle spie.

Rifiutando in quegli anni una soluzione positiva della questione curda la Turchia ha pagato un prezzo carissimo. Ne è stata distrutta la dignità. Nella sua società è penetrata la paura. In molti hanno approfittato della guerra sporca dello stato contro i curdi. Questa guerra ha prodotto una quantità di banditi.

L’esistenza e anche l’importanza politica di questi banditi è emersa nell’incidente di Susurluk[2]. E nel nostro processo ci si affidò proprio alla testimonianza di alcuni tra questi banditi[3].

Dopo l’incidente di Susurluk la popolazione della Turchia ha cominciato a interrogarsi sulla situazione reale del nostro paese. E quando la popolazione si interroga, allora la democrazia comincia ad apparire. Però in Turchia non abbiamo ancora la democrazia. Solo due anni fa alcuni dirigenti di Silopi del partito Hadep sono stati fatti sparire[4]. Quindi la Turchia deve applicare le riforme del 3 agosto.

Noi non vogliamo delle soluzioni passeggere, ma una strada di vere riforme. Attraverso esse la Turchia deve riconciliarsi con i curdi, deve sbarazzarsi della fobia per i curdi, deve creare una situazione interna di pace sociale e di libertà degli individui. E’ questo il nostro sogno.




[1] Milizie curde collaborazioniste.



[2] Nella località di Susurluk il 3 novembre 1996 una mercedes si schiantò contro un camion. Tra i rottami vennero trovati i corpi dell’ex vicecapo della polizia di Istanbul, nonché organizzatore delle operazioni “speciali” nel sud-est, Huseyin Kocadad, quello di Abdullah Çatli, mafioso ricercato dalla polizia, e della sua compagna. Unico sopravvissuto fu un capotribù curdo, Sedat Bucak, deputato del Partito della retta via, cioè del partito della Tansu Ciller, comandante di un esercito privato anti-PKK di 2.000 uomini, incaricato dallo stato di “assicurare l’ordine e la sicurezza” nella pianura tra Diyarbakir e Urfa, accusato dalla popolazione di traffico di droga, del rapimento di molte tra le persone scomparse e di molte esecuzioni extragiudiziarie. Nell’automobile furono trovati documenti di identità, passaporti e porto d’armi firmati dal ministro degli interni Mehmet Agar, nonché armi in dotazione alle squadre speciali antiterrorismo. La scoperta di questa banda provò i legami tra polizia, mafia ed esponenti politici e di governo.



[3] Tra i quali proprio quella, considerata fondamentale, di Sedat Bucak.



[4] Essi scomparvero dopo essere stati arrestati e portati ad un comando di polizia.






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