La nonviolenza e' in cammino. 567



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 567 del 15 aprile 2003

Sommario di questo numero:
1. Amos Oz: il passato
2. Simone de Beauvoir: intorno a me
3. Eduardo Galeano: nausea
4. Giuliana Sgrena: mattatoio Baghdad
5. Giuliana Sgrena: si combatte a Baghdad
6. Giuliana Sgrena: tra le rovine e i "cocci" del museo
7. Giuliana Sgrena: l'ordine islamico s'allarga su Baghdad
8. Giuliana Sgrena: la disperazione dei parenti dei desaparecidos
9. Silvia Vegetti Finzi: un itinerario
10. Augusto Cavadi: il vangelo contro la lupara
11. Filippo Gentiloni rilegge la "Pacem in terris"
12. La "Carta" del Movimento Nonviolento
13. Per saperne di piu'

1. RIFLESSIONE. AMOS OZ: IL PASSATO
[Da Amos Oz, Il senso della pace, Casagrande, Bellinzona 1999, p. 44. Amos
Oz, intellettuale pacifista israeliano, e' uno dei piu' grandi scrittori
viventi]
Il passato e la storia, se somministrati in dosi eccessive, sono letali. La
storia va servita in porzioni piccole e prudenti.

2. MAESTRE. SIMONE DE BEAUVOIR: INTORNO A ME
[Da Simone de Beauvoir, Memorie di una ragazza perbene, Einaudi, Torino
1960, 1994, p. 200. Simone de Beauvoir e' nata a Parigi nel 1908; e' stata
protagonista, insieme con Jean-Paul Sartre, dell'esistenzialismo e delle
vicende della cultura, della vita civile, delle lotte politiche francesi e
mondiali dagli anni trenta fino alla scomparsa (Sartre e' morto nel 1980,
Simone de Beauvoir nel 1986). Antifascista, femminista, impegnata nei
movimenti per i diritti civili, la liberazione dei popoli, di contestazione
e di solidarieta', e' stata anche lucida testimone delle vicende e degli
ambienti intellettuali di cui e' stata partecipe e protagonista. Opere di
Simone de Beauvoir: pressoche' tutti i suoi scritti sono stati tradotti in
italiano e piu' volte ristampati; tra i romanzi si vedano particolarmente:
Il sangue degli altri (Mondadori), Tutti gli uomini sono mortali
(Mondadori), I mandarini (Einaudi); tra i saggi: Il secondo sesso (Il
Saggiatore e Mondadori), La terza eta' (Einaudi), e la raccolta Quando tutte
le donne del mondo... (Einaudi). La minuziosa autobiografia (che e' anche un
grande affresco sulla vita culturale e le lotte politiche e sociali in
Francia, e non solo in Francia, attraverso il secolo) si compone di Memorie
d'una ragazza perbene, L'eta' forte, La forza delle cose, A conti fatti, cui
vanno aggiunti i libri sulla scomparsa della madre, Una morte dolcissima, e
sulla scomparsa di Sartre, La cerimonia degli addii, tutti presso Einaudi.
Opere su Simone de Beauvoir: Enza Biagini, Simone de Beauvoir, La Nuova
Italia, Firenze 1982 (cui si rinvia per una bibliografia critica ragionata)]
Intorno a me si riprovava la menzogna ma si fuggiva diligentemente la
verita'.

3. RIFLESSIONE. EDUARDO GALEANO: NAUSEA
[Dalla mailing list "Bandiera Rossa news" (e-mail: ba.ro.news at inwind.it)
riprendiamo questo articolo gia' apparso sul quotidiano "Liberazione" del 13
aprile 2003. Eduardo Galeano e' nato nel 1940 a Montevideo (Uruguay).
Giornalista e scrittore, nel 1973 in seguito al colpo di stato militare e'
stato imprigionato e poi espulso dal suo paese. Ha vissuto lungamente in
esilio fino alla caduta della dittatura. Dotato di una scrittura nitida,
pungente, vivacissima, e' un intellettuale fortemente impegnato nella lotta
per i diritti umani e dei popoli. Tra le sue opere, fondamentali sono: Le
vene aperte dell'America Latina, recentemente ripubblicato da Sperling &
Kupfer, Milano; Memoria del fuoco, Sansoni, Firenze; il recente A testa in
giu', Sperling & Kupfer, Milano. Tra gli altri suoi libri editi in italiano:
Guatemala, una rivoluzione in lingua maya, Laterza, Bari; Voci da un mondo
in rivolta, Dedalo, Bari; La conquista che non scopri' l'America,
Manifestolibri, Roma; Las palabras andantes, Mondadori, Milano]
Le bombe intelligenti, che sembrano cosi' somare, sono quelle che sanno di
piu'. Hanno rivelato la verita' dell'invasione. Mentre Rumsfeld affermava:
"queste sono bombe umanitarie", le bombe sventravano bambini e demolivano
mercati di strada.
Il paese che nel mondo produce piu' armi e piu' menzogne disprezza il dolore
altrui: "Non stiamo qui a contare i morti", ha risposto il generale Franks,
quando qualcuno gli ha chiesto dei danni collaterali, come si chiamano i
civili che saltano in pezzi senza mangiarle o berle.
Babilonia, la meretrice dell'Antico Testamento, merita un simile castigo.
Per i suoi molti peccati e per il suo tanto petrolio.
Gli invasori vanno in cerca delle armi di distruzione di massa che avevano
venduto, quando il nemico era amico, al dittatore dell'Iraq, visto che esse
sono state il principale pretesto dell'aggressione. Finora, che si sappia,
hanno trovato solo armi da museo, in un conflitto cosi' impari.
Sono forse armi di "costruzione di massa" i giganteschi missili che sparano
loro? Gli invasori fanno bella mostra delle loro armi tossiche e di quelle
proibite: le stanno usando. L'uranio impoverito avvelena la terra e l'aria e
i grappoli d'acciaio delle bombe a frammentazione uccidono o mutilano entro
un raggio che va ben oltre i loro bersagli.
*
Nel 1983, quando i marines occuparono l'isola di Grenada, l'assemblea
dell'Onu condanno' l'invasione a schiacciante maggioranza. Il presidente
Reagan commento' rispettosamente: "La cosa non ha minimamente sconvolto la
mia colazione".
Sei anni dopo, e' stata la volta di Panama. I liberatori hanno bombardato i
quartieri piu' poveri, hanno fulminato migliaia di civili, ridotti al numero
di 560 nelle statistiche ufficiali, e hanno eletto il nuovo presidente del
paese nella base militare di Fort Clayton. Il Consiglio di Sicurezza si e'
pronunciato contro, quasi all'unanimita'. Gli Stati Uniti hanno posto il
veto alla risoluzione e si sono messi al lavoro per le successive invasioni.
L'Onu ha espresso il proprio plauso per queste successive invasioni, oppure
ha disapprovato e girato lo sguardo dall'altra parte. Ed e' stato l'Onu a
decretare quell'embargo internazionale contro l'Iraq che ha assassinato
molta piu' gente della guerra di Bush padre: oltre mezzo milione di bambini
morti per mancanza di medicinali e di cibo.
Ora invece, sorpresa! L'Onu si e' rifiutata di seguire la nuova carneficina
di Bush figlio. Onde evitare che nelle prossime guerre si ripeta questo
episodio di cattiva condotta, temo non vi sara' altro rimedio che contare i
voti del Consiglio di Sicurezza nello Stato della Florida.
*
Non erano ancora comparsi i primi missili nel cielo dell'Iraq che gia' era
stato approntato il governo d'occupazione, democratico governo integralmente
formato da militari statunitensi, e gia' avveniva la spartizione delle
spoglie del vinto. Ora si continua a contendersi il bottino, che non e'
indifferente: i favolosi giacimenti di oro nero, il grande affare della
ricostruzione di quel che l'invasione distrugge...
Le imprese favorite celebrano le loro conquiste sui tabelloni della Borsa di
New York. Li' si ritrova il miglior bollettino di guerra. Gli indici ballano
al suono della carneficina umana.
Nel 1935, il generale Smedley Butler aveva riassunto cosi' il suo
trentennale lavoro di ufficiale dei marines: "Sono stato un gangster del
capitalismo". E aveva dichiarato che avrebbe potuto fornire qualche
consiglio ad Al Capone, visto che i marines operavano in tre continenti e Al
Capone si muoveva soltanto in tre distretti di una sola citta'.
*
E a me quale fetta tocchera'?, si domandano alcuni membri della coalizione.
Ma che coalizione? I complici di questa missione liberatrice, che sono
quaranta come nella novella di Ali' Baba', fanno parte di un coro in cui
abbondano i violatori dei diritti umani e le dittature belle e buone. E da
dove e' partita la crociata? Dove erano ubicate la basi militari degli Stati
Uniti? Basta dare un'occhiata alla mappa: quelle monarchie del petrolio,
inventate dalle potenze militari, assomigliano tanto alla democrazia quanto
Bush a Gandhi.
*
Si tratta di un'alleanza a due. Uno in crescita, l'impero di oggi, l'altro
che declina, l'impero di ieri. Il resto serve il caffe' e aspetta la mancia.
Questa alleanza a due per la liberta' del petrolio, che l'Iraq ha
nazionalizzato, non ha niente di nuovo.
Nel 1953, quando l'Iran aveva annunciato la nazionalizzazione del petrolio,
Washington e Londra risposero organizzando, insieme, un colpo di Stato. Il
mondo libero minacciato fece scorrere il sangue e lo scia' Pahlevi, astro
dei rotocalchi, divenne il carceriere dell'Iran per un quarto di secolo.
Nel 1965, quando l'Indonesia annuncio' la nazionalizzazione del petrolio,
ancora una volta Washington e Londra risposero insieme organizzando un colpo
di Stato. Il mondo libero minacciato install' la dittatura del generale
Suharto su un cumulo di cadaveri. Mezzo milione, stando ai calcoli che si
fermano alla cifra piu' bassa. Da ogni albero pendeva un impiccato. Tutti
comunisti, spiegava Suharto.
E continuo' ad uccidere. Gli era rimasto il tic. Nel 1975, qualche ora dopo
la visita del presidente Gerald Ford, invase Timor Est e assassino' un terzo
della popolazione. Nel 1991 uccise, sempre a Timor, qualche altro migliaio
di persone. Dieci risoluzioni dell'Onu obbligavano Suharto al ritiro
"immediato" da Timor Est. E lui, regolarmente sordo. Nessuno lo ha
bombardato per questo, ne' l'Onu ha decretato l'embargo universale.
*
Nel 1994, John Pilger ha visitato Timor Est. Dovunque volgesse lo sguardo,
ai campi, ai monti, alle strade, vedeva soltanto croci. L'isola, tutta piena
di croci, era un grande cimitero. Nessuno si era interessato a quella
carneficina.
Lo scorso anno, Ana Luisa Valdes e' stata a Jenin, uno dei campi profughi
palestinesi bombardati da Israele. Ha visto una immensa buca piena di
cadaveri sepolti sotto le macerie. La buca di Jenin aveva la stessa
dimensione di quella delle Torri Gemelle di New York. Ma chi la vedeva, a
parte i sopravvissuti che rivoltavano le macerie in cerca dei loro cari? Le
tragedie commuovono il mondo in modo direttamente proporzionale alla
pubblicita' che ottengono.
*
Ci sono giornalisti onesti, che raccontano la guerra dell'Iraq come la
vedono. Alcuni hanno pagato con la vita. Ma ci sono giornalisti camuffati da
soldati, che sembrano piuttosto soldati camuffati da giornalisti, che
forniscono versioni adattate al gusto delle grandi catene della
disinformazione globalizzata.
Carneficine in mercati zeppi di gente? Sono state le bombe irachene. Civili
uccisi? Scudi umani usati dal dittatore. Citta' assediate senza acqua ne'
cibo? L'invasione e' una missione umanitaria. Qualche citta' ha resistito
piu' del previsto? In televisione si sono arrese tutti i giorni.
Gli invasori sono eroi. Gli invasi che resistono sono strumenti della
tirannide, accusati di difendersi. La maggioranza dei cittadini statunitensi
e' convinta che sia stato Saddam Hussein ad abbattere le Torri di New York.
E crede inoltre, questa maggioranza, che il presidente faccia quel che fa
per il bene dell'umanita' e per ispirazione divina. I mezzi di comunicazione
di massa smerciano certezze, e le certezze non hanno bisogno di prove. Ma il
mondo e' stufo che ancora una volta lo costringano ad ingoiare
quotidianamente i rospi di questo menu'.
*
Il paese dedito a bombardare gli altri paesi, che da anni e anni sta
infliggendo al pianeta una incalcolabile quantita' di 11 settembre, ha
proclamato la terza guerra mondiale infinita.
Il presidente che non e' stato in Vietnam grazie a papa' e che conosce solo
le guerre hollywoodiane, manda ad uccidere e manda a morire.
Non in nostro nome, gridano i parenti delle vittime delle Torri.
Non in nostro nome, grida l'umanita'.
Non in mio nome, grida Dio.

4. TESTIMONIANZE. GIULIANA SGRENA: MATTATOIO BAGHDAD
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 12 aprile 2003. Giuliana Sgrena, inviata
a Baghdad, e' una illustre giornalista e saggista, esperta conoscitrice
delle questioni globali, del rapporto nord/sud, della situazione dei paesi
arabi ed islamici, della realta' mediorientale. E' da sempre impegnata per i
diritti umani, per i diritti dei popoli, per i diritti delle donne, per la
pace. Presentiamo qui i suoi articoli degli ultimi giorni]
La guerra non ha pieta' nemmeno per i morti. Non c'e' stata finora sepoltura
per molte delle vittime di questa guerra. Molti cadaveri giacciono ancora
per le strade dove sono stati colpiti a morte, sempre piu' gonfi, deformati,
prima di imputridirsi. Soprattutto nel quartiere al Mansour, il piu'
devastato dai bombardamenti e dai combattimenti.
Accatastati in camion poi rinchiusi in una stanza in attesa di trovare il
posto per una tomba, i cadaveri depositati presso l'ospedale pediatrico
al-Iskan, l'ex-Saddam (saranno molti i luoghi da rinominare vista
l'inflazione dei luoghi dedicati a Saddam), che si trova proprio a ridosso
di al Mansour, alla fine hanno deciso di seppellirli nel giardino. L'odore
era ormai insopportabile, erano morti da almeno tre giorni, in spregio ad
ogni credenza musulmana che vuole la sepoltura immediata, ieri, pale alla
mano, i dipendenti dell'ospedale hanno scavato le fosse. Comunque troppo
piccole e troppo poche per accogliere tanti morti: bambini, donne, uomini
finiti sotto i bombardamenti o nelle sparatorie. Rinchiusi in sacchi di
plastica azzurri, sono stati tirati fuori, e deposti nelle fosse appena
scavate, una preghiera, un versetto del corano per ognuno di loro, qualche
centimetro di terra e poi via, sopra un altro. Un rito interminabile sotto
un sole cocente, i cadaveri non finivano mai. Infermieri, con camice e
mascherina per proteggersi dal fetore, trasformati in becchini. Mentre le
autoambulanze continuavano a partire a sirene spiegate, per recuperare altri
feriti, altre vittime.
A al Mansour gli scontri non sono ancora terminati, e nemmeno in altre parti
della citta', come ad al-Kadhimiya. Andiamo a cercare Majid, un traduttore
che non vediamo da qualche giorno, non si e' fatto piu' fatto vivo all'hotel
Palestine, come molti altri del resto. Per poter arrivare oltre il fiume
tentiamo di attraversare diversi ponti, tutti chiusi, alla fine ci
riusciamo. Majid e' asserragliato in casa da giorni, esce ad aprirci
diffidente con una pistola nella cintola, vicino a casa sua i combattimenti
sono stati pesanti. Racconta di aver visto gli americani sparare dal
minareto della moschea poco lontana, e, tre giorni fa, di aver visto
centrare un'autoambulanza che stava trasportando all'ospedale una donna con
le doglie, che ha avuto il corpo spezzato in due. Un medico dell'ospedale
Yarmuk e' poi andato dagli americani a chiedere di poter almeno seppellire i
morti. "Purche' faccia in fretta", era stata la risposta.
Non c'e' tempo per la pieta'. A Baghdad e' il tempo della vendetta, favorita
dal vuoto politico. Un regime e' crollato e l'ordine dell'occupante non e'
stato ancora instaurato. Gli americani, troppo impegnati nel proteggere se
stessi, non si preoccupano certamente dei saccheggi e delle distruzioni. Le
strade sono disseminate di fogli svolazzanti provenienti dai ministeri prima
bombardati - gli intenditori dicono che si tratta di bombe all'uranio
impoverito - e poi saccheggiati. Come si fara' a ricostruire una parvenza di
amministrazione?
Gli americani per ora si preoccupano solo di occupare la citta': dal sud,
sulla strada proveniente da Kerbala, ieri mattina abbiamo visto arrivare una
colonna interminabile di carri armati e mezzi militari di diverso genere. Ma
non e' facile occupare una citta' di circa 5 milioni di abitanti e con un
diametro di circa cinquanta chilometri.
Si vogliono regolare i conti con il passato regime, ma tutti i responsabili
sono spariti come d'incanto, e allora ci si accanisce contro quel che resta.
I familiari degli scomparsi hanno preso d'assalto il palazzo che ospitava i
servizi segreti, per cercare se vi fossero detenuti i loro parenti,
inutilmente.
Nell'anarchia piu' totale i saccheggi e le distruzioni colpiscono anche i
luoghi piu' prestigiosi della capitale, come il museo archeologico,
straordinaria testimonianza delle antiche civilta' della Mesopotamia. L'Iraq
museum era stato chiuso proprio in vista della guerra e, secondo quanto ci
era stato detto da uno dei responsabili, le opere, come quelle di altri
musei, erano state messe in salvo, anche se probabilmente non per tutte e'
stato possibile. Speriamo sia vero e che i vandali abbiano trovato solo
opere di minor valore. Queste distruzioni danno comunque il segno
dell'imbarbarimento provocato dalla guerra. E c'e' chi osa parlare di
liberazione.
In mattinata il ministero del commercio e' stato dato alle fiamme, in quello
del petrolio era ancora in corso il saccheggio, le strade sono percorse
quasi esclusivamente da camion, pick up, vecchie macchine e carretti
stracarichi di masserizie. Ieri abbiamo assistito al saccheggio dello
shopping center di al Mansour. Probabilmente colpito da un colpo di cannone,
perche' aveva un'ala che stava crollando e un incendio in corso, la gente si
fiondava nella nube di fumo per raccattare il raccattabile. E usciva di
corsa con la refurtiva pigiata all'inverosimile dentro qualsiasi mezzo a
disposizione. Sulla porta alcuni uomini con il fucile, poco rassicuranti. Ma
dopo i ministeri, le ville della nomenklatura, i grandi magazzini, le sedi
dell'Onu, gli ospedali, e' cominciato l'assalto alle case, prima dei
funzionari del regime, e poi a quelle piu' benestanti, e non solo. Tanto che
gli abitanti di alcuni quartieri hanno iniziato a organizzarsi per
difendersi. Sul Lungotigri ci siamo imbattuti in gruppi di uomini armati che
minacciavano un taxista perche' ritenuto un aspirante saccheggiatore. Ne
siamo sfuggiti velocemente: in questo clima di tensione ed eccitazione puo'
sempre partire un colpo, piu' o meno volutamente. Per poi rischiare di
incappare in un gruppo di mujahidin - provenienti da diversi paesi arabi -
allo sbando, appostati sulla piazza di al Mansour da dove si dirama la
strada che porta verso la Giordania. Poco piu' in la' un nuovo tafferuglio:
urla, spari, rissa per accaparrarsi della benzina contenuta in
un'autocisterna. Non ci sono nemmeno piu' code ai distributori, il
carburante e' finito. Lunghe code continuano invece la mattina davanti ai
forni del pane, uno dei pochi alimenti ancora disponibili, e il cui prezzo
non restera' calmierato a lungo.
Tutti i negozi comunque restano ancora chiusi. La gente continua a rimanere
in casa, anche ieri, giorno della preghiera. Persino le moschee erano meno
frequentate del solito, in alcune per la presenza dei carri armati, come
quella che si trova sulla piazza Firdaus, in altre perche' la popolazione e'
ancora incerta sul da farsi. Il venerdi' e' particolarmente sentito a Saddam
city, il quartiere piu' fatiscente e piu' esplosivo della capitale. E la
tensione e' in aumento anche per quando sta succedendo a Najaf -
l'assassinio degli imam, tra cui uno dei figli del famoso ayatollah Khoi -,
dove i fedeli del quartiere sciita si recano spesso in pellegrinaggio al
santuario di Ali, loro capostipite. Ma a surriscaldare il clima hanno
contribuito anche i rastrellamenti degli americani, e pensare che proprio
qui avevamo sentito alcuni ragazzi inneggiare a Bush mentre saccheggiavano
la sede della polizia con il kalashnikov in spalla. A Baghdad molti sono
armati, chi non possiede ancora un'arma la puo' trovare in qualche deposito
abbandonato oppure al mercato, con pochi soldi, un kalashnikov si recupera
con cinque dollari. Le truppe americane non saranno contrastate finche' non
impediranno il caos e l'anarchia, ma appena cercheranno di intervenire per
portare il loro ordine troveranno pane per i loro denti. Il primo kamikaze
di Baghdad si e' fatto saltare in aria davanti a un carro armato proprio
qui, a Saddam city, giovedi' sera.
Gli sciiti che dovevano essere gli alleati delle truppe anglo-britanniche -
sciita e' anche lo screditato ex-banchiere Ahmed Chalabi, uno degli
aspiranti alla successione di Saddam - rischiano di diventare la spina nel
fianco di Bush. Anche se molto dipendera' dal ruolo che vorra' giocare
l'Iran nella crisi irachena. Non solo quella di Saddam city, tutte le
moschee rischiano di diventare un referente per l'organizzazione
dell'opposizione alla presenza anglo-americana. Ieri, dalla moschea al-Nidha
di al-Adhamiya, crivellata giovedi' da proiettili perche' secondo gli
americani vi si sarebbe trovato nascosto Saddam Hussein, l'imam ha lanciato
un appello alla resistenza contro l'occupazione americana. Nella moschea
avrebbero trovato riparo gruppi di mujahidin e, forse non a caso, e' uno dei
quartieri dove le truppe americane sono state ingaggiate in pesanti scontri
nei giorni scorsi. I bombardamenti sono finiti, per ora, ma il futuro di
Baghdad e' piu' incerto che mai. E la popolazione lo sa.

5. TESTIMONIANZE. GIULIANA SGRENA: SI COMBATTE A BAGHDAD
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 13 aprile 2003]
"Bush Down" (abbasso Bush) dicono avvicinandosi a noi alcune donne velate in
lacrime. Ci troviamo davanti alla moschea sunnita Abu Hanifa, nel cuore del
vecchio quartiere Safina di Baghdad, che e' stata bombardata nella notte tra
venerdi' e sabato. Uno squarcio ha rovinato il bel minareto, un altro
missile ha colpito anche all'interno, vicino alla tomba di Abu Hanifa, dalla
parte della moschea dove pregano le donne. E' stata bombardata anche una
preziosa biblioteca ospitata in un antico edificio dalla parte opposta della
piazza. Cosi' come numerose abitazioni qui intorno, tutte pesantemente
danneggiate, ma per fortuna non ci sono stati morti, solo feriti. Il
bombardamento e' iniziato alla cinque del mattino ed e' durato tre ore,
raccontano. Nella via accanto, invece, la casa di Mohammed Nouri e' stata
attaccata con un elicottero che e' sceso basso a bombardare dopo poco l'una
di notte. Un'ala della casa e' completamente distrutta, per fortuna tutta la
sua famiglia, 22 persone, dormivano dalla parte opposta. Nei giorni scorsi
si diceva che nella moschea si nascondessero dei mujaheddin (combattenti
provenienti da diversi paesi arabi: Siria, Libano, Yemen, Egitto ecc.) che
avrebbero alimentato resistenza anche nel vicino quartiere al-Adhamiya.
La gente che ci circonda al nostro arrivo assicura che non c'era nessun
mujahidin nascosto nella moschea ieri sera. La tensione sale. "Cosi' Bush e'
venuto a liberarci?", ci dicono minacciosi gli uomini che stazionano davanti
alla moschea, armati. Cerchiamo di spiegare che noi siamo contro Bush e
contro la guerra. Non basta nemmeno la presenza di un amico algerino, arabo
e musulmano (non confessa che e' ateo), a calmarli: "Anche gli arabi ci
hanno tradito, sono tutti amici dei sudisti, complici della distruzione
dell'Iraq", urlano minacciosi. "Siamo stretti tra Saddam e Bush, se parlano
di liberazione dovrebbero salvare i civili, invece e' un nuovo colonialismo
quello che si sta instaurando, tra poco cominceremo a rimpiangere Saddam",
dice con rabbia Mohammed.
L'esternazione di tanta rabbia viene bruscamente interrotta dall'arrivo di
una jeep da cui scendono infermieri del vicino ospedale Noman con camice e
kalashnikov, trascinano un uomo con le mani legate dietro la schiena, e'
stato catturato mentre era intento a saccheggiare l'ospedale. La folla
inferocita e' pronta al linciaggio: lo assale, lo pesta, con pugni e
bastoni, calci. Diventa sempre piu' violenta quando arrivano altri ali baba
(come chiamano i ladri), trascinati per terra, mentre vengono pestati a
sangue, prima di essere buttati dentro la moschea. Forse entreranno in
funzione le corti islamiche in mancanza di governo, giustizia, polizia e
sicurezza. Una deriva gia' conosciuta da altri paesi.
La situazione si fa sempre piu' pesante, meglio allontanarsi.
Del resto si combatte in tutta la citta'. I feddayn sono infatti tornati in
azione ingaggiando due sparatorie con le truppe americane, due brevi
battaglie finite con l'uccisione dei miliziani e la conquista da parte degli
americani di due postazioni ancora in mano ai fedelissimi del regime.
Cerchiamo di raggiungere il museo. Non e' facile. Dovunque carcasse di
macchine bruciate, altre sono crivellate di colpi abbandonate ai lati della
strada, quando non in mezzo. La strada che avevamo percorso solo il giorno
prima e' bloccata: sono in corso tafferugli, ci fanno segno di tornare
indietro. Riusciamo ad avvicinarsi al quartiere al Mansour, dove la
situazione e' sempre particolarmente esplosiva, passando accanto allo
shopping center saccheggiato venerdi'. Allora c'era solo fumo che usciva da
un'ala dell'edificio, ora e' quasi completamente crollato. Solo frutto del
fuoco? Sembra sia stato bombardato.
Giriamo per oltre un'ora intorno al quartiere, nella zona di Zoura sono in
corso scontri, ci fanno deviare da una via all'altra, tornare al punto di
partenza, mentre tutto intorno si spara. I marines scorrazzano per la
citta', ma non riescono ad eliminare tutte le sacche di resistenza. Ieri
pomeriggio, due carri armati che sostano accanto al nostro albergo sono
scesi sulla riva del fiume per bersagliare di cannonate una costruzione a
due piani sull'altra riva del Tigri, dove si sarebbe nascosto un gruppo di
mujaheddin. Loro da li' non riescono a raggiungere questa riva con le armi
che hanno a disposizione tanto meno ad infastidire gli elefantiaci Abrahms.
Pare comunque che i mujaheddin siano riusciti a fuggire dal retro della
palazzina.
Gli scontri che bloccano varie vie della citta' cominciano a provocare code,
ieri le macchine hanno ripreso a circolare come al solito, si vedono anche
piu' persone per strada, ma i negozi continuano a rimanere chiusi. E'
ricomparsa solo qualche bancarella di frutta e verdura, mentre continuano le
code per il pane.
L'hotel Palestine, sede dei marines a Baghdad, continua ad essere il luogo
piu' protetto e al centro dell'attenzione della citta'. Qui si sono arresi
al comandante delle forze americane Mcoy quattro alti ufficiali
dell'esercito, presentatesi in divisa per proporsi di collaborare con le
truppe di invasione per formare la nuova polizia militare. Ma la resa piu'
clamorosa e' senza dubbio quella del generale Amir al-Saadi, consigliere di
Saddam quale controparte degli ispettori Onu per l'Iraq, e tra i 55
super-ricercati dalle truppe Usa.
Al Palestine sono intanto approdati anche gli 80 "volontari" Freedom Iraqi
Fighters (Fif), mercenari iracheni arruolati dai marines addestrati in
Ungheria. Il piu' noto tra loro si chiama Hashen Oldery, ma "chiamami Larry"
, mi dice, in perfetto stile americano. 50 anni, occhiali da sole, vivace,
e' curdo, nato a Arbil, dice di aver fatto il giornalista e di non aver mai
militato in un partito, ma di essere finito in testa alla lista nera di
Saddam perche' si batteva per la liberta'. Cosi' nel 1996, dopo l'intervento
dell'esercito iracheno nel Kurdistan in difesa del partito democratico del
Kurdistan di Massud Barzani contro la rivale Unione patriottica nel
Kurdistan di Jalal Talabani, aveva deciso di lasciare l'Iraq per trasferirsi
con la famiglia negli Stati Uniti. E' rientrato in Iraq con i marines.
Perche' e' tornato? "Sono tornato come volontario per servire il mio popolo,
sto lavorando con gli americani per ripristinare l'elettricita', la
distribuzione dell'acqua, garantire la sicurezza". Ma chi e' stato a
bloccare il funzionamento delle centrali elettriche? "Saddam che ha sabotato
i generatori, interrompendo la fornitura di carburante per farli
funzionare", la risposta e' per lo meno ingenua. E cosa ne pensa dei
saccheggi che stanno distruggendo i ministeri, gli ospedali, musei...
"piango dentro di me, ma questo sta succedendo solo a Baghdad, perche' sono
gli uomini di Saddam a compiere atti di vandalismo". E le donne che aiutano
a svuotare i magazzini? "Saranno le mogli degli uomini di Saddam".
Hashen e' circondato da iracheni che vengono a chiedere lavoro ai marines,
lui fa il mediatore con gli americani, anche per problemi di lingua, e
assicura che presto sara' ricostituita anche la polizia irachena.
L'alleanza angloamericana ha lanciato un messaggio attraverso la radio per
invitare gli ingegneri, poliziotti, specialisti vari a rivolgersi al comando
dei marines che necessita di mano d'opera per riparare i danni dei
bombardamenti e ricostituire un apparato nello stato liquidato. E la
sicurezza al primo posto. Ma per ora i marines si preoccupano solo di
proteggere se stessi. Fin dalla prima mattina di fronte all'Hotel Palestine
si sono formate lunghe code di iracheni in cerca di lavoro. Entrata
ovviamente preferenziale per un dirigente dell'ex ministero della sanita'
che chiedeva protezione per gli ospedali. Ma e' solo uno dei tanti a
mettersi al servizio dell'esercito di Bush.

6. TESTIMONIANZE. GIULIANA SGRENA: TRA LE ROVINE E I "COCCI" DEL MUSEO
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 13 aprile 2003]
"Ma che me ne faccio di questa liberazione?", dice piangendo Nidal Amin, che
per dieci anni ha diretto l'Iraq Museum, il museo archeologico iracheno dove
erano esposti i reperti piu' preziosi delle civilta' della Mesopotamia. Il
Museo non e' stato risparmiato dall'orda dei saccheggi che stanno investendo
in questi giorni Baghdad. Quattro giorno fa, alle 5 di mattina, degli
scalmanati hanno fatto irruzione nell'enorme edificio e sono riusciti a
penetrare nei magazzini dove erano state conservate le opere per proteggerle
dalla guerra e dai bombardamenti. 170.000 pezzi sono stati distrutti o
trafugati, sostiene Nidal Amin.
Nei locali del museo tra cocci di vasi, frantumi di statue, pezzi di oggetti
preziosi di quelli che costituivano le sale del tesoro, libri distrutti,
carte svolazzanti, filmati srotolati, cassetti rovistati, troviamo,
esterrefatto, anche il dottor Mohsen, archeologo. Non riesce a crederci, "ho
passato tutta la mia vita a catalogare le opere: tutto distrutto, migliaia
di anni di storia della Mesopotamia. Sono dei barbari". Si e' distrutta una
parte della memoria di un popolo e di un paese "per il Medioriente l'Iraq e'
come Roma per l'Occidente", mi dice uno studente algerino, che era venuto
qui per laurearsi in archeologia, ma proprio mentre stava per discutere la
tesi e' scoppiata la guerra. Un dipendente del museo non vorrebbe nemmeno
farci vedere questo "esempio di incivilta'", lo ritiene troppo umiliante per
il suo popolo. Lo comprendiamo ma poi lo convinciamo a farci entrare: e'
importante anche denunciare quanto e' successo.
Il museo di Baghdad era infatti uno dei meglio organizzati, dove le opere
erano tutte attentamente classificate: un registro di popoli e culture che
fiorirono nella Mesopotamia da tempi immemorabili. Il museo offriva la
possibilita' di ammirare reperti preistorici, dell'arte dei Sumeri,
Babilonesi, Assiri, Caldei, Farti, Sassanidi e Abassidi, in un susseguirsi
cronologico. Accanto all'esposizione vi era anche una preziosa biblioteca
decisiva per gli studi sulla Mesopotamia. Tutto questo non c'e' piu', e
l'archeologo ci mostra sconsolato un catalogo miracolosamente intatto tra i
pezzi di carta, che poi ci regala.
Quando, alla vigilia dei bombardamenti, ero andata al museo per vedere gli
effetti della guerra passata e quelli probabili futuri su siti archeologici
e opere d'arte, mi avevano assicurato che le opere erano state messe al
sicuro. E speriamo che qualche opera importante non fosse rinchiusa in
quelle stanze con doppia porta, tutte sfondate. Forse la costruzione avrebbe
potuto perfino resistere alle bombe, se non fossero state quelle perforanti,
ma gli archeologi non avevano fatto i conti con la violenza dei vandali.
Quando sono arrivati, i guardiani sono corsi a chiamare i marines appostati
sui carri armati poco lontano: hanno risposto che non hanno compiti di
polizia e hanno permesso che lo scempio si compisse. Ora i dipendenti del
museo temono nuove irruzioni e l'archeologo Mohsen ha chiesto il nostro
aiuto. Lo abbiamo accompagnato al comando dei marines per perorare la sua
causa: i marines devono proteggere il museo, tutti i musei. Anche l'Unesco
ne chiede la tutela militare. Non abbiamo le forze, ma presto ci sara' la
polizia irachena, e poi dobbiamo pensare anche agli ospedali, ci rispondono.
Giustissimo, peccato che nel frattempo quasi tutti gli ospedali e il museo
siano gia' stati saccheggiati e distrutti. "Perche' proteggono solo il
ministero del petrolio?".

7. TESTIMONIANZE. GIULIANA SGRENA: L'ORDINE ISLAMICO S'ALLARGA SU BAGHDAD
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 15 aprile 2003]
Una improvvisa sparatoria ci blocca in mezzo al traffico nel quartiere
al-Taifiya, davanti alla moschea intitolata all'imam Ali: non si tratta di
una battaglia contro i tank americani, e' la nuova "polizia islamica" che
sta intercettando i saccheggiatori per requisire le merci rubate. E lo fa
bloccando le auto e i camion con kalashnikov, pistole e bastoni. Gli ordini
arrivano direttamente da Najaf, la citta' santa che ospita il santuario
dell'imam Ali capostipite dello sciismo e che continua a forgiare nelle sue
madrasa i quadri dell'islamismo sciita.
Da una madrasa di Najaf arriva anche lo sheikh Walid al Zawi, inviato qui
dall'imam Mukhtada al-Sadr, figlio del famoso ayatollah al-Sadr assassinato
dal regime nel 1999, la cui morte aveva provocato il movimento di
insurrezione sciita piu' importante dopo la rivolta del 1991, e nella cui
memoria e' stato ribattezzato anche il piu' grande quartiere sciita di
Baghdad: Saddam city e' cosi' diventata Sadr city. Sono peraltro due i
Sadr - Muhammed Baqer e Muhammed Sadeq - "martiri della fede", vittime
entrambi del regime, alla cui "arabita'" si rifa' il partito Dawa in
contrapposizione alla eccessiva "iranita'" di altri leader religiosi sciiti.
Lo sceicco Walid al-Zawi, in accordo con l'imam locale, Abdul Munir Massawi,
controlla l'opera dei suoi giustizieri, la refurtiva, macchine comprese,
viene immagazzinata in un grande deposito di autobus che si trova proprio di
fronte alla moschea Ali. L'imam Mussawi dice che il bottino sara'
riconsegnato ai legittimi proprietari, come insegna il corano, se non si
troveranno sara' distribuito tra i bisognosi. Avete contatto con gli
americani? chiediamo allo sceicco Walid al Zawi. "Non abbiamo contatti con
nessuno, ne' con gli americani ne' con i gruppi di opposizione, riceviamo
ordini solo dall'imam al-Sadr". La lotta per il potere degli islamisti
sembra aperta con il processo di radicalizzazione che tende ad isolare il
piu' "moderato" ayatollah Sistani.
Il movimento sciita dell'interno rifiuta l'intervento americano ma per il
momento, piu' che a manifestare la propria opposizione all'invasione, sembra
interessato ad occupare lo spazio lasciato libero dal vuoto di potere per
mettere il nuovo governo, che gli americani stanno faticosamente cercando di
costruire, di fronte al fatto compiuto. Si tratta di un copione classico,
gia' sperimentato altrove. Collassato il precedente regime e tutta la sua
rete assistenziale, sicuramente il movimento islamista sciita -
l'islamizzazione voluta da Saddam era a favore della minoranza sunnita al
potere - e' il piu' preparato - nonostante la repressione subita - a
supplire alle carenze con la rete di solidarieta' delle moschee.
L'opposizione laica e' stata invece completamente eliminata da Saddam, che
aveva sterminato i comunisti con una forte base tra la comunita' sciita
favorendo cosi' la componente religiosa. La "polizia religiosa" non e'
l'unico esempio di occupazione degli spazi istituzionali in una situazione
di anarchia, alla quale l'arroganza militare americana per ora non mette
freno. L'abbiamo verificato anche nell'ospedale al-Kindy.
Un carro armato e' ora appostato davanti al centro traumatologico, uno degli
ospedali piu' grandi della citta', con decine di sale operatorie, che
serviva anche per la formazione universitaria. Ma e' arrivato troppo tardi,
l'al-Kindy era gia' stato completamente saccheggiato e i circa 400 pazienti
sono stati costretti a fuggire, la maggior parte sono andati a casa, alcuni
hanno cercato riparo in altri ospedali, quei pochi che si sono salvati. Qui
erano state ricoverate anche le vittime della guerra, quelle civili, mentre
i militari erano stati dirottati sullo Yarmuk. Alcuni cadaveri sono ancora
rinchiusi in una cella frigorifera, altri su un camion.
"Aspettiamo ancora 24 ore, per vedere se i familiari vengono a cercarli,
altrimenti saremo costretti a seppellirli, anche senza riconoscimento", dice
il dottor Ali Rodan Schwelf, capo del dipartimento chirurgico. Dei circa 500
dipendenti, tra medici, infermieri e inservienti vari, ne sono rimasti solo
una cinquantina. Quelli che non si rassegnano alla chiusura dell'ospedale.
Avevano chiesto protezione ai marines, inutilmente, allora si erano rivolti
agli imam (religiosi), sunniti e sciiti, nel rispetto delle due componenti
islamiche presenti in Iraq, racconta il chirurgo. E sunniti e sciiti hanno
subito risposto approfittando dell'occasione per spartirsi la gestione
dell'ospedale, garantendo anche la guardia notturna con 250 militanti
islamisti. Stanno tentando la riapertura dell'ospedale che per ora funziona
solo come ambulatorio.
Incontriamo sheikh Munir al-Obeida, sunnita, imam di una moschea di al
Kindy, e lo sheikh Abbas, sciita dell'ex Saddam city e studente in una
madrasa di Najaf, intenti nel loro lavoro. I vostri rapporti con gli
americani? "Non abbiamo rapporti con gli americani", risponde sheikh Munir,
"non accettiamo di essere colonizzati, vogliamo la nostra liberta', per
questo eravamo contro Saddam, ma rifiutiamo gli stranieri". Eppure gli
americani sono qui, si stanno occupando di formare un nuovo governo...,
insistiamo. "Se entro sei mesi non se ne andranno, li combatteremo". Con il
jihad (guerra santa)?, suggeriamo. "Con il jihad", risponde entusiasta
sheikh Abbas che convinto di aver intuito una comprensione sul terreno
religioso ci investe con una raffica di domande. A salvarci e' l'arrivo di
un gruppo di "volontari" con un carico di medicine. Gli imam hanno lanciato
un appello perche' si metta fine ai saccheggi e la refurtiva venga raccolta
nelle moschee. Forse anche queste medicine sono state recuperate in questo
modo.
Molti dei pazienti o dei bisognosi di pronto soccorso sono ora dirottati su
uno dei pochi ospedali risparmiati dai vandali, quello che era l'ex ospedale
pediatrico Saddam, che ora non solo ha cambiato nome - si chiama al-Iskan -
ma non e' piu' riservato solo ai bambini. Trovandosi ai margini del
quartiere al-Mansour, il piu' colpito dalla guerra, ha dovuto far fronte
agli effetti dei bombardamenti e degli scontri. E' un via vai continuo di
autoambulanze che arrivano e partono a sirene spiegate, trasportano donne,
bambini, anziani, giovani che vanno a riempire il pronto soccorso. Eravamo
stati qui prima della guerra a vedere i bambini vittime dell'embargo. La
situazione allora era drammatica, ora e' la catastrofe. Vediamo bambini
morenti trasportati qui dai genitori che sfuggono alle battaglie ancora in
corso e ai controlli degli americani che non fermano i saccheggiatori ma le
autoambulanze si', donne dal volto bruciato, anziani che si sono trascinati
qui da un altro ospedale con l'ago della flebo infilato nella gamba.
Neanche i morti possono riposare in pace. Qualche giorno fa, proprio nel
giardino dell'ospedale, avevamo assistito a delle sepolture, nel frattempo
le tombe si sono moltiplicate, da una parte i musulmani e dall'altra i
cristiani con le loro croci, i cadaveri vengono sepolti nelle fosse uno
sopra l'altro, non c'e' abbastanza posto. E il lavoro dei monatti di Baghdad
non e' ancora finito. Arriva un pick up che vomita altri cadaveri sul
selciato, il fetore e' insopportabile. Alcune sono le vittime delle quattro
abitazioni distrutte con un missile ad al Mansour diversi giorni fa, gli
americani pensavano che in quel luogo fosse in corso un pranzo di Saddam con
i figli.
Sulla strada di al-Kadhimiya ci imbattiamo con uno dei pochi poliziotti che
ha deciso di riprendere servizio. Il colonnello Laher Jellab al Bahakri si
definisce un "volontario" e dice di non essere un collaboratore degli
americani, ma forse e' solo per non deludere la folla che lo circonda e lo
applaude.

8. TESTIMONIANZE. GIULIANA SGRENA: LA DISPERAZIONE DEI PARENTI DEI
DESAPARECIDOS
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 15 aprile 2003]
Nel quartiere di al-Kadhimiya, un enorme compound con diversi edifici,
alcuni dei quali distrutti dai bombardamenti, ospitava la sede dei servizi
segreti militari iracheni, l'Istikbahrat.
L'accesso e' ora bloccato, decine di carri armati hanno occupato il terreno,
domenica, quando noi eravamo all'interno insieme a molti iracheni e ci era
stato intimato di andarcene per quella che i marines hanno definito una
"operazione di bonifica". Da giorni una folla urlante sostava davanti a una
costruzione bassa, intorno alla quale vi sono una serie di "pozzi". Erano
parenti e conoscenti di persone scomparse nelle carceri segrete di Saddam e
che potrebbero essere richiusi proprio la' dentro, nei sotterranei di un
impianto idrico. La folla arrivata per liberare i detenuti dopo l'abbandono
dei guardiani in seguito al collasso del regime, aveva trovato tutto
l'edificio allagato. Non si sa quale sia stata la causa dell'allagamento:
potrebbe essere l'effetto del blocco dell'impianto per mancanza di
elettricita' oppure l'acqua potrebbe essere penetrata dai cunicoli che
raggiungono il vicino Tigri. Mancava una pompa per risucchiare l'acqua e non
c'era nemmeno un generatore per farla funzionare. Non volevano farci entrare
all'interno dell'edificio, perche' un gruppo di ragazzi si stava spogliando
per tuffarsi nell'acqua fetida. Solo dopo esserci coperte con un velo, che
copriva la nostra testa ma non le loro nudita', abbiamo avuto via libera.
Sembrava di essere entrati in un girone infernale. Tra un gran vociare che
rimbombava in tutto il sotterraneo, un gruppo di ragazzi, a turno, si
tuffava per cercare di individuare la porta di accesso alla prigione
sotterranea, che sostenevano sia ermetica e quindi non avrebbe dovuto
lasciar penetrare l'acqua nella prigione. Ma con il buio pesto, senza
nemmeno una torcia funzionante sott'acqua, tutte le immersioni risultavano
vane.
Non ci sono comunque certezze che i prigionieri politici siano sepolti in
quei sotterranei ora coperti da metri d'acqua. Quando erano venuti gli
ispettori dell'Onu, i detenuti erano stati trasferiti alla periferia della
citta' con autobus, ma poi riportati in quel compound, assicura Alaa
Muhamed, dal nome tatuato sul braccio, che qui aveva fatto il guardiano anni
fa. Anche Emad Hussein e' sicuro che suo figlio, catturato tredici anni fa,
sia ancora sepolto in quella prigione. E nei giorni scorsi c'era chi giurava
di aver sentito i lamenti dei sepolti vivi attraverso degli sfiatatoi che si
trovano in superficie. L'eco provocato dal gran vociare tutt'intorno rendeva
comunque improbabile una verifica.
Ma e' possibile, se veramente sono rimasti li' sepolti, che siano ancora
vivi, dopo una settimana senza cibo e senz'acqua, ammesso che il sotterraneo
non sia stato allagato? E quanti saranno? C'e' chi dice centinaia, chi
addirittura migliaia. Ma, a parte le denunce dei parenti, non ci sono prove
e il dubbio non stimola certamente i marines ad intervenire.
Inutilmente abbiamo cercato di perorare la causa dei parenti dei prigionieri
politici presso i marines, sostenendo che se anche non trovassero nulla, il
solo dubbio dovrebbe spingerli alla verifica: non dicono di essere venuti
qui per liberare gli iracheni? Alla nostra sollecitazione hanno risposto
sprezzanti che non sono qui per fare "i nuotatori nel Tigri", come non erano
venuti per fare i poliziotti e proteggere il museo o la biblioteca
nazionale.
Prima che il compound fosse chiuso avevamo fatto in tempo a girare tra i
vari edifici dove, l'odore delle bombe era ancora fortissimo, penetrante,
non lasciava respirare, e avevamo scoperto diversi sotterranei, a piu'
piani, adibiti a celle, ma erano tutte stanze vuote, come gli uffici, a
parte qualche divisa a righe da carcerato abbandonata. Alcuni ragazzi con
picconi avevano cercato di sollevare alcune piastrelle che lasciavano
presumere fossero messe a copertura di passaggi sotterranei. Ma l'arrivo dei
marines aveva bloccato tutti i tentativi. Uscendo avevamo visto qualcuno che
buttava catene e manette dentro il Tigri. Dicevano che tra chi si aggirava
dentro il recinto vi fossero ancora ex-agenti segreti, ma non si sapra' mai.
Ieri, mentre sostavamo davanti all'entrata del compound, abbiamo visto
buttare fuori dai marines un uomo che perdeva sangue, evidentemente
picchiato. Hanno detto che era un ladro, ma finora i marines non hanno mai
fermato i saccheggiatori.

9. MAESTRE. SILVIA VEGETTI FINZI: UN ITINERARIO
[Da Silvia Vegetti Finzi (a cura di), Psicoanalisi al femminile, Laterza,
Roma-Bari 1992, p. XVII. "Silvia Vegetti Finzi e' nata a Brescia il 5
ottobre 1938. Laureatasi in Pedagogia, si e' specializzata in Psicologia
Clinica presso l'Istituto di Psicologia dell'Universita' Cattolica di
Milano. All'inizio degli anni '70 ha partecipato a una vasta ricerca
internazionale, progettata dalle Associazioni Iard e Van Leer, sulle cause
del disadattamento scolastico. Inoltre ha lavorato come psicoterapeuta
dell'infanzia e della famiglia nelle istituzioni pubbliche. Dal 1975 e'
entrata a far parte del Dipartimento di Filosofia dell'Universita' di Pavia
ove attualmente insegna Psicologia Dinamica. Dagli anni '80 partecipa al
movimento femminista, collaborando con la "Universita' delle donne Virginia
Woolf"di Roma e con il Centro Documentazione Donne di Firenze. Nel 1990 e'
tra i fondatori della Consulta (laica) di Bioetica. Dal 1986 e' pubblicista
del "Corriere della Sera" e successivamente anche di "Io donna" e di
"Insieme". Fa parte del comitato scientifico delle riviste: "Bio-logica",
"Adultita'", "Imago ricercae", nonche' dell'Istituto Gramsci di Roma, della
"Casa della Cultura" di Milano, della "Libera Universita'
dell'Autobiografia" di Anghiari. E' membro dell'Osservatorio Nazionale per
l'infanzia e l'adolescenza, della Societa' Italiana di Psicologia; della
Societe' internationale d'histoire de la psychoanalyse. Nel 1998 ha
ricevuto, per i suoi scritti di psicoanalisi, il premio nazionale "Cesare
Musatti" e per quelli di bioetica il premio nazionale "Giuseppina Teodori".
Sposata con lo storico della filosofia antica Mario Vegetti, ha due figli
adulti, Valentina e Matteo" (Questa notizia biografica abbiamo estratto dal
sito dell'Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche:
www.emsf.rai.it). Opere di Silvia Vegetti Finzi: (a cura di), Il bambino
nella psicoanalisi, Zanichelli, Bologna 1976; (con L. Bellomo), Bambini a
tempo pieno, Il Mulino, Bologna 1978; (con altri), Verso il luogo delle
origini, La Tartaruga, Milano 1982; Storia della psicoanalisi, Mondadori,
Milano 1986; La ricerca delle donne (1987); Bioetica, 1989; Il bambino della
notte. Divenire donna, divenire madre, Mondadori, Milano 1990; Il romanzo
della famiglia. Passioni e ragioni del vivere insieme, Mondadori, Milano
1992; (con altri), Questioni di Bioetica, Laterza, Roma-Bari 1993; (con Anna
Maria Battistin), A piccoli passi. La psicologia dei bambini dall'attesa ai
cinque anni, Mondadori, Milano 1994; Freud e la nascita della psicoanalisi,
1994; (con Marina Catenazzi), Psicoanalisi ed educazione sessuale, Laterza,
Roma-Bari 1995; (con altri), Psicoanalisi ed identita' di genere, Laterza,
Roma-Bari 1995; (con Anna Maria Battistin), I bambini sono cambiati. La
psicologia dei bambini dai cinque ai dieci anni, Mondadori, Milano 1996;
(con Silvia Lagorio, Lella Ravasi), Se noi siamo la terra. Identita'
femminile e negazione della maternita', Il Saggiatore, Milano 1996; (con
altri), Il respiro delle donne, Il Saggiatore, Milano 1996; Volere un
figlio. La nuova maternita' fra natura e scienza, Mondadori, Milano 1997;
(con altri), Storia delle passioni, Laterza, Roma-Bari 1997; Il fantasma del
patriarcato, 1997; (con altri), Fedi e violenze, Rosenberg & Sellier, 1997;
L'eta' incerta. I nuovi adolescenti, Mondadori, Milano, 2000. Collabora
inoltre con le riviste filosofiche: "Aut Aut" e "Iride". Molti suoi scritti
sono stati tradotti in francese, inglese, tedesco e spagnolo]
La inesausta apertura della ricerca rappresenta la funzione specifica e lo
scopo ultimo di una "psicoanalisi al femminile", la sua estrema promessa di
verita' e di liberta'. Ma affinche' la decostruzione del sistema non sia
fine a se stessa, occorre si accompagni alla elaborazione di un sapere
alternativo, di proposte diverse. A questo scopo ripercorrere le biografie
di altre donne che si sono trovate a vivere difficolta' e contraddizioni
molto simili alle nostre, puo' costituire un itinerario di formazione, non
solo culturale ma esistenziale.

10. RIFLESSIONE. AUGUSTO CAVADI: IL VANGELO CONTRO LA LUPARA
[Ringraziamo Augusto Cavadi per averci messo a disposizione questo suo
articolo gia' apparso nell'edizione palermitana de "La repubblica" il primo
aprile 2003. Augusto Cavadi e' docente di filosofia, storia ed educazione
civica, impegnato nel movimento antimafia e nelle esperienze di risanamento
a Palermo, collabora a varie qualificate riviste che si occupano di
problematiche educative e che partecipano dell'impegno contro la mafia.
Opere di Augusto Cavadi: Per meditare. Itinerari alla ricerca della
consapevolezza, Gribaudi, Torino 1988; Con occhi nuovi. Risposte possibili a
questioni inevitabili, Augustinus, Palermo 1989; Fare teologia a Palermo,
Augustinus, Palermo 1990; Pregare senza confini, Paoline, Milano 1990; trad.
portoghese 1999; Ciascuno nella sua lingua. Tracce per un'altra preghiera,
Augustinus, Palermo 1991; Pregare con il cosmo, Paoline, Milano 1992, trad.
portoghese 1999; Le nuove frontiere dell'impegno sociale, politico,
ecclesiale, Paoline, Milano 1992; Liberarsi dal dominio mafioso. Che cosa
puo' fare ciascuno di noi qui e subito, Dehoniane, Bologna 1993, seconda
ed.; Il vangelo e la lupara. Materiali su chiese e mafia, 2 voll.,
Dehoniane, Bologna 1994; A scuola di antimafia. Materiali di studio, criteri
educativi, esperienze didattiche, Centro siciliano di documentazione
"Giuseppe Impastato", Palermo 1994; Essere profeti oggi. La dimensione
profetica dell'esperienza cristiana, Dehoniane, Bologna 1997; trad. spagnola
1999; Jacques Maritain fra moderno e post-moderno, Edisco, Torino 1998;
Volontari a Palermo. Indicazioni per chi fa o vuol fare l'operatore sociale,
Centro siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato", Palermo 1998,
seconda ed.; voce "Pedagogia" nel cd- rom di AA. VV., La Mafia. 150 anni di
storia e storie, Cliomedia Officina, Torino 1998, ed. inglese 1999;
Ripartire dalle radici. Naufragio della politica e indicazioni dall'etica,
Cittadella, Assisi, 2000; Le ideologie del Novecento, Rubbettino, Soveria
Mannelli 2001. Vari suoi contributi sono apparsi sulle migliori riviste
antimafia di Palermo. Indirizzi utili: segnaliamo il sito:
http://www.neomedia.it/personal/augustocavadi (con bibliografia completa)]
"La mafia non e' peccato. Se devi confessarti, scegliti un prete
intelligente che capisca queste cose e non la faccia troppo lunga". Se
questo consiglio il dottor Guttadauro, medico presso l'ospedale civico di
Palermo e presunto boss del quartiere Brancaccio, l'avesse manifestato in un
pubblico intervento, non sarebbe il caso di occuparsene: si potrebbe
legittimamente supporre, infatti, che egli avesse parlato in malafede solo
per persuadere capziosamente gli ascoltatori di una tesi da lui stesso in
realta' ritenuta infondata. Ma, parola piu' parola meno, e' - secondo i
resoconti giornalistici - quanto egli ha pronunziato nel segreto della
propria casa, confidandosi con persone amiche e non sospettando minimamente
di essere intercettato dalle microspie della polizia. Dunque e' molto piu'
probabile che egli abbia formulato a voce una convinzione autentica,
radicata, sincera: che merita, dunque, di essere ascoltata con
l'attenzione - e direi quasi il rispetto - che meritano le convinzioni
profondamente personali. Ascoltata, ma anche discussa e criticata.
Prima di tutto perche' se e' vero che nessuno abbandona un'opinione espressa
solo sofisticamente per tattica dialettica, almeno sino a quando gli risulta
conveniente sostenerla, non si puo' escludere che, riflettendo con calma, si
possa modificare un'idea maturata lentamente e in piena coscienza.
Secondariamente perche', al di la' delle intime persuasioni - attuali e
future - del dottor Guttadauro, la sua teoria e' diffusa fra centinaia,
forse migliaia di altri cittadini che militano in "Cosa nostra" o che, per
le ragioni soggettive piu' svariate, con essa collaborano contribuendo a
costituire quel sistema di potere articolato che e', al di la' delle
immagini romanzate, la mafia siciliana.
Allora: essere mafiosi e contemporaneamente cristiani e' lecito? Ho avuto
bisogno di due volumi, pubblicati col titolo eloquente "Il vangelo e la
lupara", per raccogliere gli elementi di riflessione piu' significativi
offerti in proposito negli ultimi decenni da teologi, storici, sociologi,
filosofi e magistrati: non posso sperare dunque di sintetizzare in poche
righe la risposta. Comunque, pur rischiando la schematicita', direi che
apparentemente non c'e' nessuna incompatibilita' fra fedelta' a Cristo e
militanza mafiosa, ma che - in realta' - siamo di fronte ad un'alternativa
secca, irrimediabile.
Se sfogliamo il catechismo della Chiesa cattolica o di altre chiese
protestanti operanti in Sicilia e, piu' in generale, nel Meridione italiano,
non troviamo in effetti citato nessun peccato di mafia. Se poi interroghiamo
la storia delle associazioni mafiose dalla loro data di nascita - intendiamo
solitamente dall'unificazione italiana (1860) - ad oggi, incontriamo boss
che pregano, che meditano la Bibbia, che ricevono preti per confessare i
peccati e per chiedere celebrazioni eucaristiche, che erigono altarini
all'esterno delle loro villette e altari nelle cappelle interne: da Michele
Greco detto non a caso "il papa", ad Aglieri, lettore di teologia e di
mistica, gli esempi potrebbero moltiplicarsi senza difficolta'. La foto di
gruppo con il parroco, il sindaco ed il capomafia - l'uno a fianco
all'altro, tutti e tre in prima fila - in processione dietro la statua della
Madonna o di Sant'Antonino e' rintracciabile negli archivi di moltissimi
comuni isolani. Dunque la religione cristiana e' stata di fatto,
incontestabilmente, compatibile con la pratica mafiosa.
Ma il cristianesimo e' una religione? O, per essere piu' precisi, e' solo o
principalmente una religione? La domanda puo' stupire solo chi e' totalmente
ignaro del dibattito teologico europeo degli ultimi cento anni. Chi invece
ha qualche notizia in proposito sa che, in ambito protestante prima e
cattolico dopo, si e' andata configurando con sempre maggiore nettezza la
separazione, o per lo meno la distinzione, fra religione e fede: intendendo
per "religione" un insieme di testi, riti, istituzioni, simboli (e cosi'
via) attraverso i quali si manifesta (o si dovrebbe manifestare)
quell'atteggiamento interiore di fiducia in Dio e di dedizione agli esseri
viventi che chiamiamo "fede".
L'importanza decisiva di questa differenza scaturisce dalla constatazione,
evidente quanto sconvolgente, che Gesu' ha vissuto e testimoniato molto la
fede (come affidamento al Dio dell'amore e della solidarieta' universale) e
poco, o niente, la religione (come obbedienza a precetti, divieti,
consuetudini faticosamente elaborati dalle caste sacerdotali e da queste
stesse modificati continuamente e arbitrariamente). "Non e' l'uomo fatto per
il Sabato, ma il Sabato per l'uomo": cosi', per scegliere un esempio fra
cento, il maestro di Nazareth ha provocatoriamente giustificato il primato
della giustizia e della liberta' rispetto agli ordinamenti ecclesiastici (e,
potremmo aggiungere col senno di poi, rispetto ai politici come Bush o
Berlusconi che sbandierano la "religione" in misura esattamente inversa a
quanto praticano la "fede").
Se tutto questo e' - almeno nella sostanza - vero, si intuisce facilmente
che il mafioso puo' seguire senza troppi intoppi il cristianesimo come
religione, dunque come corteccia esteriore e strumentale, ma non certo il
cristianesimo come fede, dunque come consapevolezza della propria fragilita'
creaturale e come incessante servizio a favore della vita. Se il test
conclusivo, al termine della propria esistenza terrena, consistesse nel
rispondere alla domanda su quanti rosari si sono recitati o su quanti
terreni sono stati donati ai vescovi per costruire cappelle, certo non pochi
mafiosi sarebbero "promossi" ai vertici paradisiaci. Purtroppo per loro  -
per fortuna per tanti altri, magari atei o indifferenti ai dibattiti
dogmatici - il profeta di Galilea, almeno secondo la testimonianza del Nuovo
Testamento, chiedera' loro se hanno coltivato la dignita' dei fratelli, se
hanno alimentato la liberta' degli oppressi, se hanno avuto rispetto per il
sudore di chi lavorava onestamente e sfamava la famiglia. Chiedera' loro se
hanno lasciato il mondo migliore o peggiore di come l'hanno trovato, se
hanno sfigurato il volto degli innocenti, la trasparenza delle acque, la
purezza dell'aria, il profumo dei boschi. Chiedera' loro se hanno custodito
e promosso il benessere di uomini e animali o se non hanno utilizzato
brutalmente gli uni e gli altri (anzi: gli uni contro gli altri) per
capitalizzare potere e denaro. A quel punto forse molti si accorgeranno di
quanto possa essere illusorio conciliare, nella propria testa e nelle
proprie mani, il vangelo e la lupara.

11. RIFLESSIONE. FILIPPO GENTILONI RILEGGE LA "PACEM IN TERRIS"
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 13 aprile 2003. Filippo Gentiloni,
scrittore e giornalista, ha partecipato attivamente al movimento delle
comunita' cristiane di base; tra le sue opere segnaliamo particolarmente
Abramo contro Ulisse, Claudiana, Torino 1984]
"Come nei rapporti fra i singoli esseri umani agli uni non e' lecito
perseguire i propri interessi a danno degli altri, cosi' nei rapporti fra le
comunita' politiche, alle une non e' lecito sviluppare se stesse comprimendo
ed opprimendo le altre. Cade qui opportuno il detto di Sant'Agostino:
'Abbandonata la giustizia, a che si riducono i regni se non a grandi
latrocini?'". Cosi' Giovanni XXIII nella "Pacem in terris", 11 aprile 1963.
Un momento difficile sullo scacchiere internazionale. La guerra fredda, il
mondo diviso in due blocchi, il rischio atomico. Non era facile, ne' di moda
parlare di pace. La rileggiamo oggi con una certa commozione. Sia per la
figura indimenticabile di quel papa, sia per le vicende di oggi. Mentre, da
una parte, si bombarda e si uccide, dall'altra mai come oggi il Vaticano - e
tutte le autorita' religiose dell'occidente - condannano la guerra. La
"Pacem in terris" insegna ancora.
Dopo una introduzione sull'ordine dell'universo, cinque capitoli. Il primo
e' sull'ordine fra i singoli esseri umani: diritti e doveri
indissolubilmente legati. Il secondo riguarda il rapporto fra gli esseri
umani e i poteri pubblici all'interno delle singole comunita' politiche. Il
terzo attiene ai rapporti fra le varie comunita' politiche, il quarto
allarga lo sguardo alla comunita' mondiale. Richiami "pastorali" nel quinto.
Ciascuno si conclude con un paragrafo dedicato ai "segni dei tempi", una
sorta di "firma" particolare di papa Giovanni, quasi a voler sottolineare
che il discorso non doveva navigare fra le nuvole, ma rendersi concreto, (si
veda, ad esempio, il paragrafo sulla partecipazione dei cittadini alla vita
pubblica, un tema che all'enciclica sta particolarmente a cuore, nel timore
che i cattolici si astraggano dalla vita politica). Si legge oggi con
attenzione e commozione il n. 75, dedicato ai "segni dei tempi" sulla
comunita' mondiale: "Auspichiamo che l'Onu, nelle strutture e nei mezzi si
adegui sempre piu' alla vastita' e nobilta' dei suoi compiti e che arrivi il
giorno nel quale i singoli esseri umani trovino in essa una tutela efficace
in ordine ai diritti che scaturiscono immediatamente dalla loro dignita' di
persone". E il n. 18 che indica i fondamenti per l'"umana convivenza", cioe'
la pace: verita', giustizia, amore, liberta'. Quattro pilastri che insieme
devono reggere l'edificio (non e' lontana la triade liberta', fraternita',
eguaglianza della rivoluzione francese). Enciclica sulla pace e non sulla
guerra: non vi si trova, infatti, nessuna menzione di quella dottrina
cattolica sui requisiti di una guerra "giusta", della quale si e' parlato in
questi giorni.
La novita' della "Pacem in terris" non va ricercata, dunque, nel campo delle
dottrine quanto in uno spostamento di accenti. Una vera svolta nel magistero
pontificio. Non piu' i dogmi in primo piano, ma quella pace che, dal cielo
alla terra, assurta in primo piano riguarda tutti. Anche i non cattolici. Il
papa si propone come maestro universale: proposta che, iniziata 40 anni fa,
in questi giorni ha trovato la sua piena conferma e decisa affermazione.
Percio' ricordare la "Pacem in terris" significa sottolineare una svolta
nella storia della chiesa. Lo potra' essere anche nella storia
dell'umanita'?

12. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

13. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti, la e-mail e': azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: lucben at libero.it;
angelaebeppe at libero.it; mir at peacelink.it, sudest at iol.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it. Per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Per non ricevere piu' questo notiziario e' sufficiente inviare un messaggio
con richiesta di rimozione a: nbawac at tin.it

Numero 567 del 15 aprile 2003