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rossonotizienet n. 29 - aprile 2003
- Subject: rossonotizienet n. 29 - aprile 2003
- From: "associazione culturale punto rosso" <puntorosso at puntorosso.it>
- Date: Thu, 10 Apr 2003 16:28:31 +0200
ROSSONotizieNet numero 29 - aprile 2003 periodico elettronico dell'Associazione Culturale Punto Rosso In ricordo di Tiziana Saporito Nei giorni scorsi è scomparsa Tiziana dopo una lunga malattia. La morte l'ha portata via giovane e nel pieno della sua attività politica. La vogliamo ricordare come compagna e amica attenta, partecipe, gioviale, intelligente. Un abbraccio alla sua famiglia e alle compagne e ai compagni che l'hanno seguita fino all'ultimo. Le compagne e i compagni di Punto Rosso FERMIAMO LA GUERRA - FERMIAMO IL MASSACRO Fermiamo la mano degli apprendisti stregoni che, pur di mantenere il dominio sulle risorse strategiche, di occupare regioni del mondo cruciali, di perpetuare un ordine mondiale iniquo, non recedono di un passo dallo scatenare l'inferno. Basta con lo scempio dei corpi, dell'ambiente, della democrazia, della cultura, della vita. Basta morti, basta dolori, basta distruzioni. Basta con la banda di avventurieri che pretende di governare il mondo. L'Associazione Culturale Punto Rosso e il Forum Mondiale delle Alternative daranno come sempre il loro contributo, assieme al movimento, alle forze politiche, agli uomini e alle donne di buona volontà, di contrinformazione, di controcultura e di mobilitazione per affermare la giustizia e la pace. Consultate il sito http://www.fermiamolaguerra.it e per Milano http://www.fermiamolaguerra.it/milano -------------------------------------------------------------------------------- Sommario Iniziative Milano: presentazione del libro di Carla Ravaioli, Un mondo diverso è necessario (16 aprile 2003) Milano: Assemblea Nazionale dell'Associazione Culturale Punto Rosso - Fma (17 maggio 2003) Lup - Libera Università Popolare - i prossimi corsi - Il Capitale di Marx - Il Sistema della Comunicazione - Immigrazione e globalizzazione Magenta (MI): dibattito pubblico: L'impero del caos (28 aprile 2003) Massa: incontro con Rosalina Tuyuc (22 aprile 2003) Garbagnate (MI): La nuova America Latina (14 aprile 2003) Fermo: Il cielo sopra Bagdad (10 aprile 2003) Materiali: - Samir Amin, L'ambizione criminale e fuor di misura degli Stati Uniti: controllare militarmente il pianeta - Mario Agostinelli, L'antibandiera della pace - Novità Edizioni Punto Rosso: uscite imminenti IN OCCASIONE DELLA PRESENTAZIONE DEL LIBRO DI CARLA RAVAIOLI, UN MONDO DIVERSO E' NECESSARIO (EDITORI RIUNITI 2003) PER UN MONDO SENZA PIU' GUERRA DISCUSSIONE SULLE PROSPETTIVE DELLA PACE E SULLA NECESSITÀ DI UNO SVILUPPO ALTERNATIVO MILANO MERCOLEDÌ 16 APRILE - ORE 21 CASA DELLA CULTURA - VIA BORGOGNA 3 partecipano CARLA RAVAIOLI (autrice del libro) GIORGIO LUNGHINI (Università di Pavia) MARCO REVELLI (Università di Torino) KARL SCHIBEL (Alleanza per il clima, Francoforte) FERRUCCIO CAPELLI (direttore Casa della Cultura) coordina MARIO AGOSTINELLI (Ass. Cult. Punto Rosso-Forum Mondiale delle Alternative) organizzano Associazione Culturale Punto Rosso - Forum Mondiale delle Alternative e Casa della Cultura Informazioni Tel. 02-874324 e 02-76005383 puntorosso at puntorosso.it e segreteria at casadellacultura.it ASSEMBLEA NAZIONALE DELL'ASSOCIAZIONE CULTURALE PUNTO ROSSO - FORUM MONDIALE DELLE ALTERNATIVE MILANO, SABATO 17 MAGGIO 2003, dalle ORE 10.30 ALLE 19.30 presso la SALA AEM in via della Signora 10 (MM1 - MM3 Duomo). Questa assemblea vuole essere, in primo luogo, una occasione di analisi e confronto sulla situazione politico-culturale attuale. Con particolare riferimento alle condizioni e alle prospettive del movimento dei movimenti di cui facciamo parte, nello sforzo di immaginazione e di proposizione per i lineamenti fondamentali di una politica e di una cultura comune di alternativa. Anche in riferimento alle sorti di una possibile rifondazione della sinistra italiana. In secondo luogo si cercherà di tessere una rete culturale e sociale in grado di produrre queste ricerche e di vivificarle nelle articolazioni nazionali e internazionali di movimento. In proposito verrà messo in rete un breve un documento introduttivo, che farà da contributo comune e iniziale alla discussione. Oltre alla relazione introduttiva, all'assemblea daranno un contributo con relazioni specifiche François Houtart, segretario generale del Forum Mondiale delle Alternative e Mimmo Porcaro, studioso della politica. Siete tutti invitati........ LUP- LIBERA UNIVERSITA' POPOLARE prossimi corsi Dipartimento di storia della filosofia e del pensiero umano "Ernst Bloch" Il pensiero occidentale attraverso le sue grandi opere. A seguito del grande interesse suscitato dai corsi svolti nei due anni passati sulla storia del pensiero occidentale, riprendiamo questo percorso a partire dalle grandi opere di questo pensiero, come momenti paradigmatici della storia della filosofia. Undicesimo Corso IL CAPITALE DI MARX Durata: 3 lezioni. Luogo: Punto Rosso, Via Morigi 8, Milano. Quota di iscrizione: 10 Euro Martedì 1 Aprile 2003, ore 18.30-20-30 Introduzione alla filosofia di Marx Relatore: Giorgio Giovannetti Martedì 8 Aprile 2003, ore 18.30-20-30 Il Capitale (I) Relatore: Giorgio Riolo - Roberto Mapelli Martedì 15 Aprile 2003, ore 18.30-20-30 Il Capitale (II) Relatore: Giorgio Riolo - Roberto Mapelli -------------------------------------------------------------------------------- Dipartimento di critica dell'economia politica e della società "Rosa Luxemburg" IL SISTEMA DELLA COMUNICAZIONE. PARTE I: LA STORIA, LA STRUTTURA, LE PROSPETTIVE NELL'ERA DELLA GUERRA GLOBALE. Durata: 4 incontri. Luogo : Punto Rosso, via Morigi 8, Milano. Quota di partecipazione: 15 euro Primo incontro. Mercoledì 26 Marzo, ore 18.30 Il sistema dei media: storia e problemi. Relatore: Giovanni Cesareo (Politecnico di Milano) Secondo incontro. Mercoledì 2 Aprile, ore 18.30. Il sistema dei media: l'economia della comunicazione, i giganti dell'informazione, i rapporti con la politica. Relatore: Francesco Siliato (Politecnico di Milano) Terzo incontro. Mercoledì 9 Aprile, ore 18.30 Le nuove tecnologie: sviluppi e previsioni. Relatore: Roberto Rosso (gruppo comunicazione del Social Forum). Quarto incontro, mercoledì 16 Aprile, ore 18.30 Il sistema dei media e il sistema di guerra: le relazioni, la comune struttura di potere, le contraddizioni. Relatore: Giovanni Cesareo (Politecnico di Milano). IL SISTEMA DELLA COMUNICAZIONE. PARTE II: LA REALTA', L'IDEOLOGIA, LE ALTERNATIVE. Durata: 3 incontri. Luogo: Punto Rosso, via Morigi 8, Milano. Quota di partecipazione: 10 euro Primo incontro. Mercoledì 7 Maggio, ore 18.30. Gli effetti della comunicazione mediatica: strategie, presunzioni, ideologia, realtà. Relatore: Francesco Siliato (Politecnico di Milano). Secondo incontro. Mercoledì 14 Maggio, ore 18.30 Il lavoro nel sistema informativo: la forma di apparato, l'impresa, l'organizzazione, le alternative. Relatore: Giovanni Cesareo (Politecnico di Milano) Terzo incontro. Mercoledì 21 Maggio, ore 18.30. I media alternativi e di movimento. Relatori: Roberto Savio (Ips, consiglio internazionale FSM), Claudio Jampaglia (responsabile comunicazione Attac Italia). -------------------------------------------------------------------------------- Dipartimento di Studi Internazionali "Patrice Lumumba" IMMIGRAZIONE E GLOBALIZZAZIONE I MIGRANTI E IL CONFLITTO SOCIALE NELL'ERA DEL NEOLIBERISMO Le migrazioni d'individui non sono un fenomeno sociale dei nostri giorni. Sono piuttosto una pratica storicamente sedimentata nel processo evolutivo della società umana. Il movimento di popolazioni da un luogo ad un altro è fenomeno riscontrabile in tutte le epoche storiche. La storia dell'uomo è una storia di umanità in movimento. La stessa storia dell'Europa moderna può essere scandita dai tempi delle migrazioni interne, dagli spostamenti di lavoratori da un paese all'altro, dal continuo esodo dei profughi delle guerre che hanno insanguinato il nostro continente negli ultimi cinque secoli. Le immigrazioni contemporanee si iscrivono in questo continuum storico ma differiscono dal passato per le concause che oggi le generano. Gli attuali processi migratori vanno contestualizzati all'interno dell'attuale situazione socio-economica mondiale nella quale questi stessi si dipanano. Si tratta di una riflessione che non può non essere posta in termini sistemici all'interno di quel macro-fenomeno sociale definito globalizzazione. Tale è il sistema nel quale si inseriscono gli odierni processi migratori, non solo per il sottosviluppo generato in alcune zone del mondo dai processi di globalizzazione dei mercati, ma anche perché le migrazioni - e soprattutto le politiche di controllo delle stesse, attuate dalle "democrazie occidentali" - sono funzionali ai processi di precarizzazione e di indebolimento della forza lavoro anche nei paesi a sviluppo avanzato. Gli incontri formativi che proponiamo cercheranno di analizzare i punti critici delle attuali politiche migratorie, partendo da una visione differente che prenderà in considerazione non tanto i risultati pratici che queste politiche si propongono, quanto i riflessi sul controllo del lavoro migrante che le stesse provocano. Si cercherà inoltre di mettere in luce la reale possibilità di una diversa politica migratoria. Durata: 4 incontri. Luogo: Punto Rosso, via Morigi 8, Milano. Quota di partecipazione: 20 Euro 1) Venerdì 9 Maggio 2003, 18.30-20.30, relatore Andrea De Bonis Processi migratori e politiche di controllo I movimenti di popolazione negli ultimi due secoli: la creazione della figura giuridica dello straniero - le migrazioni del dopoguerra - il controllo del lavoro migrante nella Germania - migrazioni e segregazionismo in U.S.A. 2) Giovedì 15 Maggio 2003, 18.30-20.30, relatori Marco Ferrero e Anna Andrian La costruzione della fortezza Europa Diritto diseguale e controllo del lavoro migrante - il modello tedesco del lavoratore-ospite (Gastarbeiter) - il modello assimilazionista francese - il modello inglese: tra imperialismo e riconoscimento - le nuove migrazioni nell'Europa del Sud - le politiche europee di immigrazione e asilo. 3) Venerdì 23 Maggio 2003, 18.30-20.30, relatrici Flavia Favero e Roberta Rossolini I processi migratori e l'ibridazione culturale Multicultura, intercultura, transcultura? - diversità/affinità tra esperienze geoculturali differenti - razza, etnia, cultura: i rischi di vecchie e nuove etichette - alla scoperta dell'ibridazione culturale. 4) Venerdì 30 Maggio 2003, 18.30-20.30, relatori Andrea De Bonis e Eleonora Garosi, con la partecipazione del Professor Salvatore Palidda - L'immigrazione in Italia: precarietà e criminalizzazione La criminalizzazione dei migranti - Soft-apartheid e differenza giuridica del migrante - Sans-papiers ed economia informale - la cittadinanza come diritto esclusivo - il controllo del lavoro migrante in Italia - proposte per una possibile nuova politica migratoria. L A L U P LIBERA UNIVERSITA' POPOLARE La sede LUP di Magenta in collaborazione con la LUP - Legnano o r g a n i z z a Una serata di riflessione e di approfondimento su L'IMPERO DEL CAOS Resistenze e alternativa alla guerra e ai terrorismi Lunedì 28 Aprile 2003 - alle ore 21 Sala Convegni IDEAL - Viale Piemonte, 10 - Magenta Introduzione: Prof. Filomena Battipaglia - LUP Magenta Relazioni: Giorgio Riolo - Ass. Culturale Punto Rosso - Milano Don Alberto Vitali - Pax Christi - Milano Coordina Piero Spadaro - LUP - Magenta Segue dibattito. La LUP - Libera università popolare, inaugura con questa serata l'inizio di una serie di attività di dibattito, studio, approfondimento, su temi di natura politica, economica, culturale. Per maggiori informazioni Piero Spadaro 02.97299861 "Le donne sostengono la meta' del cielo" Antico proverbio cinese LE DONNE NELLA RESISTENZA DEI POPOLI INDIGENI MARTEDI 22 APRILE 2003 - ORE 21.00 SALA DELLA RESISTENZA - PALAZZO DUCALE PIAZZA ARANCI - MASSA INCONTRO CON ROSALINA TUYUC E' una delle testimoni e simboli di lotta contro la violenza e di resistenza del popolo indigeno del Guatemala. E' la fondatrice ed attuale direttrice del Coordinamento nazionale delle vedove del Guatemala (Conavigua). E' stata una delle prime deputate maya nel Congresso della Repubblica PARTECIPA: ALDO ZANCHETTA - Tavola della Pace della Provincia di Lucca ORGANIZZA ASSOCIAZIONE CULTURALE PUNTO ROSSO CON IL PATROCINIO COMMISSIONE PARI OPPORTUNITA' PROVINCIA DI MASSA CARRARA info: cell. 347-1085533 ____________________________________________________________ INFORMAZIONI SU ROSALINA TUYUC Rosalina Tuyuc Velasquez è una donna maya Kakchiquel proveniente da San Juan Comalapa, nel Dipartimento di Chimaltenango, un paesino nell'altipiano guatemalteco, duramente colpito dalla guerra. Nel suo paese svolgeva la professione di infermiera, ma già all'età di 18 anni era Presidentessa della Gioventù Operaia Cattolica Femminile di San Juan Comalapa. A vent'anni era presidentessa dell'Azione Cattolica del paese. La sua famiglia era impegnata nell'ambito sociale e religioso, quando la guerra sconvolse l'altipiano. Tutti i dirigenti popolari vennero sistematicamente eliminati e le organizzazioni sociali sciolte. Rosalina aveva 26 anni quando suo padre fu sequestrato nel luglio 1982. Tre anni dopo (maggio 1985) anche suo marito scomparve, così all'età di 29 anni rimane vedova e con due figli. Nel 1988 fondò, assieme ad altre donne vedove, il Coordinamento Nazionale delle Vedove del Guatemala (CONAVIGUA), di cui fu eletta Presidentessa. Quando ancora i massacri e il genocidio si scatenavano contro il suo popolo ebbe il coraggio di lottare contro la repressione e la militarizzazione. Assunse anche numerosi ruoli di responsabilità che la rendono una delle dirigenti più note e rispettate della società civile guatemalteca: Presidentessa della Commissione delle Vittime della Violenza nel Dialogo Nazionale; membro del Consiglio Direttivo dell'Unità di Azione Sindacale e Popolare; membro del Tavolo di Coordinamento dell'Incontro Intercontinentale "500 Anni di Resistenza Indigena, Nera e Popolare"; Fondatrice e coordinatrice dell'Istanza di Unità e Consenso Maya; fondatrice e membro del Coordinamento Nazionale di Organizzazioni del Popolo Maya del Guatemala (COPMAGUA). Nel dicembre 1994, a 38 anni, viene eletta deputata nel Congresso della Repubblica per il Fronte Democratico Nuova Guatemala, che raggruppa le organizzazioni sociali e popolari guatemalteche: durante l'esperienza di deputata si distingue per il suo impegno a favore dei settori esclusi e assume l'incarico di VicePresidente del Congresso, di Capo gruppo parlamentare del FDNG e di Presidentessa della Commissione per la Donna, i Minori e la Famiglia del Congresso. Dopo cinque anni di esperienza come deputata, nel 1999 è tornata a lottare a fianco delle donne vedove ed è stata eletta nuovamente Presidentessa di CONAVIGUA. Adesso lavora anche insieme all'equipe della Premio Nobel per la Pace Rigoberta Menchú Tum nella lotta contro l'impunità, presentando denuncie per il genocidio commesso nei confronti dei popoli indigeni guatemaltechi. Lunedì 14 Aprile 2003 ore 21.00 "La nuova America Latina" Dopo il fallimento delle politiche del FMI in Argentina e le devastazioni del neoliberismo: il continente sudamericano degli zapatisti e dei Sem Terra, dei piqueteros e dei cacerolazos dove la speranza prende la strada del Brasile di Lula e del Venezuela di Chavez relatori: Giorgio Riolo (Ass.cult.Punto Rosso) e Josè Luis Tagliaferro (Forum Mondiale delle Alternative) Presso il circolo "Che Guevara" di via Monviso 124, Garbagnate Milanese SCEGLIPACE COORDINAMENTO TERRITORIALE DEL FERMANO GIOVEDI' 10 APRILE ore 21.15 FERMO SALA MULTIMEDIALE ( v.Mazzini 3, di fronte al Municipio) INCONTRO - DIBATTITO IL CIELO SOPRA BAGHDAD SIGNIFICATI E CONSEGUENZE DELLA GUERRA "PREVENTIVA" Interviene il Prof. Alberto TAROZZI (Docente di Sociologia dello sviluppo Univ. Bologna) All'interno dell'iniziativa verrà illustrata e lanciata anche a livello locale la campagna di boicottaggio della Esso, fornitore di carburanti e oli all'esercito americano. SCEGLIPACE aderisce alla Manifestazione nazionale a Roma del 12 aprile per un CESSATE ILFUOCO immediato Materiali Samir AMIN L'ambizione criminale e fuor di misura degli Stati Uniti: controllare militarmente il pianeta 1. Negli anni 80, quando già si annunciava il crollo del sistema sovietico, si profila un'opzione egemonica che conquista l'insieme della classe dirigente degli Stati Uniti, sia democratica che repubblicana. Trascinati dalla vertigine della loro potenza armata, ormai priva di concorrenti capaci di tenerne a freno i fantasmi, gli Stati Uniti scelgono di affermare il loro dominio applicando in primo luogo una strategia strettamente militare di "controllo del pianeta.". Una prima serie di interventi - Golfo, Jugoslavia, Asia centrale, Palestina, Iraq - inaugura negli anni 90 l'attuazione di quel piano di guerre "made in Usa", che non avranno fine, pianificate e decise unilateralmente da Washington. La strategia politica che accompagna il progetto ne prepara i pretesti, che si tratti del terrorismo, della lotta contro il narcotraffico o dell'accusa di produrre armi di distruzione di massa. Solo ed evidentemente pretesti, se si conoscono le complicità che hanno permesso alla Cia di fabbricare un avversario "terrorista" su misura (i talebani, Bin Laden - non è mai stata fatta piena luce sull'11 settembre) o di sviluppare il Piano Colombia diretto di fatto contro il Brasile. Quanto alle accuse di eventuale produzione di armi pericolose, lanciate contro l'Iraq, la Corea del nord o qualsiasi altro Stato, fanno una misera figura di fronte all'uso effettivo di queste armi da parte degli Stati Uniti (le bombe di Hiroscima e Nagasaki, l'impiego di armi chimiche nel Vietnam, la minaccia di utilizzare armi nucleari nelle guerre future…) Si tratta di mezzi che sono di fatto pura propaganda, nel senso che Goebbels dava al termine, efficaci forse per convincere l'opinione pubblica sprovveduta degli Stati Uniti, ma sempre meno credibili altrove. La "guerra preventiva", formulata ormai come un "diritto" che Washington si arroga, abolisce di fatto ogni traccia di diritto internazionale. La Carta delle Nazioni Unite vieta il ricorso alla guerra, eccetto i casi di legittima difesa; e subordina un proprio eventuale intervento militare a condizioni rigorose, dovendo limitarsi a una risposta misurata e provvisoria. Tutti i giuristi sanno che le guerre iniziate dopo il 1990 sono perfettamente illegittime e che dunque in via di principio coloro che se ne sono assunti la responsabilità sono dei criminali di guerra. Gli Stati Uniti - con la complicità di altri - stanno trattando l'Onu esattamente come nel passato gli Stati fascisti trattarono la Società delle Nazioni. 2. L'abolizione del diritto dei popoli, già consumata, sostituisce al principio della loro uguaglianza quello della distinzione fra un "Herrenvolk" (il popolo degli Stati Uniti e in secondo luogo quello di Israele) che ha il diritto di conquistare lo "spazio vitale" che giudica necessario e gli altri, la cui esistenza è tollerabile solo se non costituisce una "minaccia" per i progetti di coloro che sono chiamati a essere i "padroni del mondo". Quali sono dunque gli "interessi nazionali" che la classe dirigente degli Stati Uniti si riserva il diritto di invocare quando le pare? Per dire la verità tale classe si riconosce in un unico obiettivo - il denaro. Lo Stato americano si è messo apertamente al servizio prioritario della soddisfazione delle esigenze del segmento dominante del capitale, rappresentato dalle transnazionali degli Stati Uniti. Agli occhi dell'establishment di Washington, siamo diventati tutti quanti dei pellirosse, cioè dei popoli che hanno diritto di esistere solo nella misura in cui non disturbano l'espansione del capitale transnazionale degli Stati Uniti. Ogni resistenza sarà ridotta con ogni mezzo, fino allo sterminio se necessario, ci promettono. Quindici milioni di dollari di profitti supplementari per le transnazionali americane contro trecento milioni di vittime: nessuna esitazione. Lo Stato "canaglia" per eccellenza, per riprendere il linguaggio dei presidenti Bush padre, Clinton e Bush figlio, è proprio quello degli Stati Uniti. Tale progetto è certamente imperialista nel senso più brutale del termine, ma non è "imperiale" nel senso che Negri attribuisce a questo termine, giacché non si tratta di gestire l'insieme delle società del pianeta per integrarle in un piano capitalista coerente, ma soltanto di rapinare le loro risorse. La riduzione del pensiero sociale agli assiomi di base dell'economia volgare, l'attenzione unilaterale focalizzata sulla massimizzazione della redditività finanziaria a breve termine del capitale dominante, rafforzata dalla presenza a tutela di esso dei mezzi militari che si conoscono, sono responsabili di questa deriva barbara che il capitalismo porta con sé, quando abbandona ogni sistema di valori umani per sostituirvi le esigenze esclusive della soggezione alle pretese leggi del mercato. Il capitalismo nordamericano con la sua storia si prestava a questa riduzione meglio di quello delle società europee. Di fatto lo Stato americano e la sua concezione politica sono stati modellati per servire l'economia e niente altro, abolendo il rapporto contraddittorio e dialettico fra economia e politica. Il genocidio degli Indiani, la schiavitù dei Neri, la successione di ondate migratorie che ha sostituito il confronto fra i gruppi che condividevano pretese identità comunitarie (manipolate dalla classe dirigente) alla maturazione di una coscienza di classe, hanno prodotto una gestione politica della società guidata da un partito unico del capitale, i cui due segmenti condividono le stesse concezioni strategiche globali, pur con retoriche diverse dirette ad ognuna delle "constituencies" della metà della società che crede al sistema quel tanto che basta per darsi la pena di andare a votare. Privata della tradizione con cui i partiti operai socialdemocratici e comunisti hanno segnato la formazione della cultura politica europea moderna, la società americana non dispone di strumenti ideologici che le permetterebbero di resistere alla dittatura senza contrappesi del capitale. Al contrario, il capitale modella unilateralmente il modo di pensare della società in tutte le sue dimensioni, e in particolare riproduce rafforzandolo il suo razzismo fondamentale che le permette di assumersi come "Herrenfolk". "Play boy Clinton, cow-boy Bush, same policy": questo slogan ascoltato in India accentua giustamente la natura del partito unico che gestisce la pretesa democrazia americana. Il progetto americano non è perciò un progetto egemonico banale che condividerebbe con altri che si sono succeduti nella storia moderna e antica le virtù di una concezione generale dei problemi che permetta di dar loro risposte coerenti e stabilizzanti, ancorché fondate sullo sfruttamento economico e la disuguaglianza politica. Esso è infinitamente più brutale con la sua concezione unilaterale estremamente semplicistica e da questo punto di vista è più prossimo al progetto nazista, pure fondato sul principio esclusivo dello "Herrenvolk". Tale progetto statunitense non ha nulla a che vedere con ciò che dicono gli universitari liberali americani, che qualificano tale egemonia come "benign", cioè indolore. Se riuscirà a svilupparsi ancora per un po' di tempo, tale progetto potrà generare solo un caos sempre maggiore, con una gestione sempre più brutale di colpo su colpo, senza alcuna concezione strategica a lungo termine. Al limite, Washington non cercherà più di rafforzare delle vere alleanze, il che implica sempre delle concessioni. Sono più utili i governi fantocci come quello di Karzai in Afghanistan finché il delirio di potenza militare permette di credere all'invincibilità degli Stati Uniti. Hitler non la pensava diversamente. 3. L'analisi dei rapporti fra questo progetto criminale e le realtà del capitalismo dominante costituito dall'insieme dei paesi della triade (Stati Uniti, Europa, Giappone) permette di misurarne i punti di forza e di debolezza. Secondo l'opinione generale più diffusa, veicolata dai media che non invitano a riflettere, la potenza militare degli Stati Uniti sarebbe solo la punta dell'iceberg che prolunga una superiorità del paese in tutti i settori, in particolare quello economico, nonché quello politico e culturale. Sarebbe quindi inevitabile inchinarsi alla sua egemonia, come esso pretende. L'analisi della realtà economica inficia peraltro questa opinione. Il sistema produttivo degli Stati Uniti è ben lontano dall'essere "il più efficiente del mondo". Al contrario, quasi nessuno dei suoi segmenti sarebbe in grado di competere vittoriosamente con i suoi concorrenti su un mercato veramente aperto come lo immaginano gli economisti liberali. Ne è testimonianza il deficit commerciale degli Stati Uniti, che si aggrava di anno in anno, e che è passato da 100 miliardi di dollari nel 1989 a 450 miliardi nel 2000. Per di più tale deficit riguarda praticamente tutti i segmenti del sistema produttivo. Anche l'eccedente di cui beneficiavano gli Stati Uniti nel settore dei beni di alta tecnologia, che era di 35 miliardi nel 1990, ha ormai lasciato il posto a un deficit. La concorrenza fra Ariane e i missili della Nasa, fra Airbus e Boeing, testimonia la vulnerabilità del vantaggio americano. Di fronte all'Europa e al Giappone per le produzioni di alta tecnologia, alla Cina, la Corea e altri paesi industrializzati dell'Asia e dell'America Latina per i prodotti manifatturieri più banali, all'Europa e all'America Latina per l'agricoltura, gli Stati Uniti probabilmente non la vincerebbero senza ricorrere a mezzi extra-economici che violano i principi del liberismo imposti ai concorrenti. Di fatto gli Stati Uniti beneficiano di vantaggi comparativi stabili solo nel settore degli armamenti, precisamente perché questo sfugge ampiamente alle regole del mercato e gode del sostegno statale. Tale vantaggio ha indubbiamente qualche ricaduta per il settore civile (Internet ne costituisce l'esempio più noto) ma è anche all'origine di serie distorsioni che costituiscono un handicap per molti settori produttivi. L'economia americana vive da parassita a danno dei suoi partner nel sistema mondiale. "Gli Stati Uniti dipendono per il 10% dei loro consumi industriali da beni la cui importazione non è coperta da esportazioni di prodotti nazionali" (E. Todd, Après l'Empire, p. 80) La crescita del periodo clintoniano, vantata come prodotto del "liberismo" cui l'Europa aveva disgraziatamente anche troppo resistito, è di fatto ampiamente fittizia e in ogni caso non generalizzabile, perché si basa su trasferimenti di capitali che implicano la stagnazione dei partner. Per tutti i segmenti del sistema produttivo reale, la crescita degli Stati Uniti non è stata migliore di quella europea. Il "miracolo americano" si è alimentato esclusivamente della crescita delle spese prodotte dall'aggravarsi delle disuguaglianze sociali (servizi finanziari e personali: legioni di avvocati e guardie private ecc.). In questo senso, il liberismo di Clinton ha di fatto preparato le condizioni che hanno permesso la ripresa reazionaria e la vittoria successiva di Bush figlio. Inoltre, come sostiene Todd (p. 84) "gonfiato in maniera fraudolenta, il Pil americano comincia a somigliare, per l'affidabilità statistica, a quello dell'Unione Sovietica". Il mondo produce, gli Stati Uniti (con un risparmio nazionale praticamente nullo) consumano. Il "vantaggio" degli Stati Uniti è quello di un predatore il cui deficit è coperto dall'apporto degli altri, consensuale o forzato. I mezzi usati da Washington per compensare le sue deficienze sono di natura diversa: violazioni unilaterali e ripetute dei principi del liberismo, esportazione di armi (60% del mercato mondiale) largamente imposte ad alleati subalternizzati (che per di più - come i paesi del Golfo - non le useranno mai), ricerca di superprofitti petroliferi (che suppongono la regolamentazione dei produttori, motivo reale delle guerre in Asia centrale e in Iraq). Ma di fatto il deficit americano è coperto essenzialmente dagli apporti di capitale proveniente dall'Europa e dal Giappone, dal Sud (paesi petroliferi ricchi e classi compradoras di tutti i paesi del terzo mondo, compresi i più poveri), ai quali va aggiunto il prelievo a titolo di servizio del debito imposto alla quasi totalità dei paesi della periferia del sistema mondiale. La ragioni del persistere del flusso di capitali che alimenta il parassitismo dell'economia e della società americana e permette alla superpotenza di vivere giorno per giorno sono certamente complesse. Ma non sono affatto le pretese "leggi del mercato", aventi caratteristiche di razionalità e inevitabilità. La solidarietà dei segmenti dominanti del capitale transnazionale di tutti i partner della triade è reale, e si esprime nella loro adesione al neoliberismo globalizzato. In questa prospettiva gli Stati Uniti sono visti come i difensori (militari, se necessario) di questi "interessi comuni". Ma resta il fatto che Washington non intende condividere equamente i profitti della sua leadership. Gli Stati Uniti si sforzano invece di trasformare gli alleati in vassalli, e in questo senso sono pronti ad accordare agli alleati subalterni della triade solo concessioni di poco conto. Questo conflitto di interessi del capitale dominante è destinato ad acutizzarsi al punto di portare a una rottura nell'alleanza atlantica? Non è impossibile, ma è poco probabile. Il conflitto più promettente si apre su un altro terreno. Quello delle culture politiche. In Europa resta sempre possibile un'alternativa di sinistra. Essa imporrebbe contemporaneamente una rottura con il neoliberismo (e l'abbandono della vana speranza di sottomettere gli Stati Uniti alle sue esigenze, permettendo al capitale europeo di sferrare battaglia sul terreno non minato della concorrenza economica) e con l'allineamento sulle strategie politiche degli Stati Uniti. Il surplus di capitali che l'Europa si rassegna a "piazzare" negli Stati Uniti potrebbe allora venir investito per un rilancio economico e sociale, impossibile senza quello. Ma se l'Europa scegliesse di dare priorità al proprio slancio economico e sociale, minerebbe la salute artificiale dell'economia degli Stati Uniti e la classe dirigente americana dovrebbe affrontare i propri problemi sociali. Questo è il senso che io presto alla mia conclusione "l'Europa o sarà di sinistra o non sarà". Per arrivarci bisogna abbandonare l'illusione che tutti giochino lealmente la carta del liberismo e che in questo caso tutto andrebbe meglio. Gli Stati Uniti non possono rinunciare alla loro opzione in favore di una pratica asimmetrica del liberismo perché essa è il solo mezzo per compensare le loro deficienze. La "prosperità" americana ha per prezzo la stagnazione degli altri. Perché dunque prosegue il flusso di capitali a beneficio degli Stati Uniti, malgrado questi fatti evidenti? Indubbiamente per molti il motivo è semplicemente che gli Stati Uniti sono "lo Stato dei ricchi", il rifugio più sicuro. E' questo il caso per le borghesie compradoras del terzo mondo. Ma per gli europei? Il virus liberistico - e la convinzione ingenua che gli Stati Uniti finiranno per accettare "il gioco del mercato" - opera qui con potenza sicura presso grandi opinioni pubbliche. In questo spirito, il principio della "libera circolazione dei capitali" è stato reso sacro dal Fmi. Di fatto, serve agli Stati Uniti per coprire il proprio deficit pompando i surplus finanziari generati altrove con le politiche neoliberiste, cui essi peraltro si sottopongono in maniera molto selettiva. Tuttavia per il grande capitale dominante i vantaggi del sistema superano gli inconvenienti: i tributi che bisogna pagare a Washington per assicurarne la permanenza. Ci sono paesi qualificati come "paesi poveri indebitati" che sono costretti a pagare. Ma c'è anche un "paese potente indebitato" di cui bisogna sapere che non rimborserà mai i suoi debiti. Questo autentico tributo imposto dal ricatto politico degli Stati Uniti ne risulta pertanto molto fragile. 4. La scelta militarista dell'establishment degli Stati Uniti si situa in questa prospettiva. Non è altro che l'ammissione da parte degli Stati Uniti di non avere altri mezzi a disposizione per imporre la loro egemonia economica. Le cause che stanno all'origine dell'indebolimento del sistema produttivo statunitense sono complesse. Non sono certo congiunturali, e quindi correggibili con l'adozione - per esempio - di un tasso di cambio corretto, o con la costruzione di un rapporto più favorevole fra salari e produttività. Le cause sono strutturali. La mediocrità del sistema educativo generale e della formazione - prodotto di un pregiudizio tenace che favorisce sistematicamente il privato rispetto al servizio pubblico - è una delle ragioni principali della crisi profonda attraversata dalla società degli Stati Uniti. Ci si dovrebbe stupire quindi che gli europei, invece di trarre le conclusioni imposte dalla constatazione dell'insufficienza economica degli Stati Uniti, si attivino al contrario a imitarli. Anche qui il virus liberistico non spiega tutto, anche se svolge una funzione utile per il sistema, paralizzando la sinistra. La privatizzazione a oltranza, lo smantellamento dei servizi pubblici non potranno che ridurre i vantaggi comparativi di cui beneficia ancora la "vecchia Europa" (come la chiama Bush). Ma quali che siano i danni che provocheranno a lungo termine, tali misure offrono al capitale dominante - che vive sul breve termine - l'occasione di ulteriori profitti. La scelta militarista degli Stati Uniti minaccia tutti i popoli. Deriva dalla stessa logica applicata a suo tempo da Adolf Hitler: usare la violenza militare per modificare i rapporti economici e sociali a favore dello "Herrenfolk" del momento. Tale scelta, imponendosi in primo piano, determina tutte le congiunture politiche, giacché rende estremamente fragile ogni progresso che i popoli potrebbero ottenere con le loro lotte sociali e democratiche. Mettere in scacco il progetto militarista degli Stati Uniti diventa allora il compito principale, la responsabilità primaria per tutti. L'aggressione militare non si fermerà ai paesi che ne sono oggi le vittime dirette. Il controllo militare del pianeta punta direttamente alla Russia, alla Cina, all'India e all'Iran, assoggettando questi paesi al ricatto permanente di interventi militari condotti a partire dalle basi militari permanenti che gli Stati Uniti installano in Medio Oriente e in Asia centrale, mentre l'Europa viene subalternizzata mediante il controllo esclusivo che Washington esercita sulle risorse petrolifere più importanti del pianeta. Nello stesso modo il Piano Colombia costituisce una minaccia permanente di intervento diretta principalmente contro il Brasile. L'establishment di Washington non cela le sue intenzioni: ha orrore dei "paesi grandi" che un giorno o l'altro potrebbero resistergli, ed è deciso ad impedire con ogni mezzo - inclusi quelli militari - che quelli arrivino a svilupparsi abbastanza da sfidarlo. La lotta per mettere in scacco il progetto degli Stati Uniti è certamente multiforme. Assume aspetti diplomatici (difendere il diritto internazionale), militari (si impone il riarmo di tutti i paesi del mondo per fronteggiare le aggressioni di Washington - senza dimenticare che gli Stati Uniti hanno utilizzato le armi nucleari quando ne avevano il monopolio e vi hanno rinunciato solo quando non lo avevano più) e politici (in particolare per quanto riguarda la costruzione dell'Europa e la ricostruzione di un fronte di paesi non allineati). Il successo di questa lotta dipenderà dalla capacità di liberarsi delle illusioni liberistiche. Non ci sarà mai un'economia globalizzata autenticamente liberistica. Eppure si tenta e si continuerà a tentare con ogni mezzo di farlo credere. I discorsi della Banca mondiale operano come una specie di Ministero della propaganda di Washington, parlano di "democrazia" e di "buona governance" o di "riduzione della povertà", e non hanno altra funzione che il rumore mediatico, come quello organizzato intorno a Joseph Stiglitz, che ha detto qualche verità elementare, affermandola con arrogante autorità, senza peraltro trarne la minima conclusione che rimetta in discussione i tenaci pregiudizi dell'economia volgare. La ricostruzione di un fronte del Sud, capace di dare alla solidarietà dei popoli d'Asia, d'Africa e della Tricontinentale una capacità di agire sul piano mondiale, passa anch'essa per la liberazione dalle illusioni di un sistema liberistico mondializzato "non asimmetrico", che permetterebbe alle nazioni del terzo mondo di superare i loro "ritardi". Non è ridicolo vedere alcuni paesi del Sud che reclamano "l'attuazione dei principi del liberismo, ma senza discriminazioni", meritandosi gli applausi della Banca mondiale? Da quando la Banca mondiale difende il terzo mondo contro gli Stati Uniti? La lotta contro l'imperialismo e la scelta militare degli Stati Uniti è compito di tutti i popoli, delle sue vittime principali in Asia, Africa e America Latina, dei popoli europei e giapponesi condannati alla subordinazione, ma anche del popolo statunitense. Rendiamo omaggio qui al coraggio di tutti coloro che "nel cuore della bestia" rifiutano di abbassare la testa, come i loro predecessori hanno rifiutato di arrendersi al maccartismo degli anni cinquanta. Come coloro che hanno osato resistere a Hitler, essi hanno conquistato tutti i titoli di nobiltà che la storia può accordare. La classe dirigente degli Stati Uniti sarà capace di abbandonare il progetto criminale cui si è alleata? Una domanda cui non è facile rispondere. Poco o niente nella formazione storica della società degli Stati Uniti lo favorisce. Il partito unico del capitale, di cui nessuno negli Usa contesta il potere, non ha rinunciato all'avventura militare. In questo senso la responsabilità di tale classe nel suo insieme non ne è certo attenuata. Il potere di Bush junior non è quello di una "cricca" - i petrolieri e l'industria bellica. Come in tutta la storia moderna degli Usa il potere dominante non è mai stato altro che quello in particolare di una coalizione di interessi di segmenti del capitale (mal definiti come "lobbies"). Ma questa coalizione può governare solo se gli altri segmenti lo accettano. In mancanza di tale consenso può succedere tutto in questo paese così poco rispettoso del diritto. Evidentemente, qualche insuccesso sul piano politico, diplomatico e forse anche militare potrebbe incoraggiare le minoranze che entro l'establishment degli Stati Uniti accetterebbero di rinunciare alle avventure militari in cui il loro paese è impegnato. Sperare di più mi sembra ingenuo, come lo erano a suo tempo le speranze che Hitler finisse per moderarsi. Se avessero reagito nel 1935 o nel 1937, gli europei sarebbero riusciti a fermare il delirio hitleriano. Reagendo soltanto nel settembre del 1939, si sono inflitti le decine di milioni di vittime della seconda guerra mondiale. Facciamo in modo che di fronte ai neo-nazisti di Washington la risposta sia più tempestiva. Mario Agostinelli L'ANTIBANDIERA DELLA PACE 1. La semina è più forte della tempesta Sospendere l'angosciosa attesa di eventi tremendi e l'impegno ostinato per fermarli, e concedersi una riflessione che abbia l'ambizione di definire, sistematizzare le novità che emergono in un movimento per la pace maggioritario in tutti i paesi (tranne, per ora, negli Usa dove tuttavia combatte da tempo una sua fondamentale battaglia di presenza e di opinione), che ha superato quel tratto profetico ed elitario che lo confinava in un ruolo testimoniale non appena la partita passava al livello statuale o intergovernativo, è un azzardo che si può prendere soltanto per definire sin d'ora, nei giorni dell'ultimatum a Saddam Hussein e sulla soglia di una guerra, ciò che resisterà oltre il fragore dei bombardamenti e della propaganda che occuperà gli spazi pubblici. Un modo di guardare nella guerra, contro e oltre la guerra con un senso esattamente opposto a quello - ormai dominante nei media - che si prepara compiaciuto o attonito allo spettacolo della guerra e ne affida l'esito soltanto alla punta della spada. Ho maturato da tempo la convinzione che il 'movimento dei movimenti' sia in grado di darsi un'autonarrazione degli eventi in corso e delle prospettive entro cui spendere la propria mobilitazione: questa raggiunta autonomia lo porta, da una parte, a mettere in relazione il ricorso preventivo alla guerra con il fondamentalismo del mercato e quindi a tagliarne ogni radice di legittimazione, e, dall'altra, a tracciare un contesto unificante un continuum che fa da filo conduttore tanto all'azione locale per la pace, non meramente propagandistica e territorialmente riconoscibile, quanto all'iniziativa incessante, che impatta con le agende dei governi, delle istituzioni, delle diplomazie. Questa pressione locale-globale ha impedito che la politica e l'etica stessero su un piano distinto dal sociale, in una sorta di sfera separata, fornendo un terreno di efficacia diretta all'intervento delle chiese e un punto di tenuta all'autonomia di alcuni Stati nazionali rispetto agli Stati Uniti. Il ritardo e l'isolamento con cui Bush ha sferrato l'attacco è in gran parte l'effetto di questa formidabile iniziativa. Grazie alla pratica, alla maturità e alle intuizioni del movimento ha preso forma e cittadinanza stabile, a livello di massa, una nozione di pace come diritto sociale, primario, che è rafforzato dal diritto individuale di matrice liberale di rifiutare la guerra. Movimenti e persone 'non si perdono di vista'. Questi pacifisti non sono anime belle o sognatori; non si rimpiccioliscono in granelli di sabbia nell'ingranaggio del sistema: fanno cultura, senso comune, sono un seme che ha già dato frutti. Si sta sedimentando un tale distacco dall'ideologia della guerra preventiva e permanente e dalla convinzione aberrante che l'identità dell'Occidente sia di volta in volta formulata specularmente all'identità di un imprecisabile nemico, da far credere che l'avvio dell'invasione dell'Iraq, in sé, non chiuda affatto la partita, ma che l'isolamento dei signori della guerra crescerà indipendentemente dal 'successo' militare ed economico della loro avventura. Sono i caratteri di questa 'durata' (nel lessico delle emozioni si potrebbe chiamare 'ottimismo') che provo di seguito ad analizzare nel movimento della pace, costitutivo del cosiddetto 'movimento dei movimenti' di Porto Alegre, sottolineandone gli aspetti permanenti, creativi, inclusivi, che rimarranno vivi e operanti nonostante le distruzioni e le morti che conteremo in Iraq e presenteranno i conti ai governanti che si sono mossi in solitudine ignorando valori diffusi e infrangendo patti costituzionali irrinunciabili per un governo e uno sviluppo unitari del pianeta. L'asse locale-globale è quello che il movimento pratica con crescente successo e uniformità. Una metodologia di dislocazione anche organizzativa delle proprie forze, che ha fatto le sue prove prima sui temi ambientali e dello sviluppo e che ha tratto in seguito impulsi da contenuti sempre più vasti, con le esperienze dei Forum regionali (Belem, Firenze, Dakkar, Buenos Aires), che hanno preceduto Porto Alegre 2003. La modalità a rete con cui viene costruita l'azione diffusa e coordinata per campagne e temi, non cancella identità e diversità, ma le fa confluire come nodi interdipendenti dentro una pratica unitaria in continua circolazione dalla periferia al centro. Per questa via si realizza un'efficacia nell'orientare sul piano generale sia l'opposizione alle pratiche liberiste che le proposte alternative, mentre non si perde la presa e la lotta nei territori dove il problema delle risorse, della giustizia sociale, dei diritti, si presenta in modo articolato, ma pur sempre riconducibile alle scelte obbligate nel confronto con la globalizzazione. Secondo lo schema locale-globale, strutturato da forme di comunicazione e di relazione sociale a rete, il movimento adegua in velocità la propria azione alla simultaneità dei contesti spazio-temporali imposti dall'economia liberista e alla rapidità delle decisioni assunte dalle istituzioni autoritarie che hanno fatto dell'esclusione di ogni forma di partecipazione la condizione dogmatica della loro efficacia. Le caratteristiche formali-esistenziali che si riflettono sull'organizzazione del movimento provengono da fattori più complessi di quanto si possa approfondire in queste note: si può tuttavia affermare che l'irrompere della tematica pace-guerra ha potenziato, anche se in circostanze straordinariamente drammatiche, il ricorso a schemi innovativi, fino a dar vita alla più grande manifestazione planetaria della storia - quella del 15 Febbraio - che ha raggiunto la sua straordinaria dimensione nonostante la debolezza delle sedi formali di decisione, la poca visibilità dei leader, il ricorso pressoché esclusivo all'autofinanziamento, la diffidenza e l'avaro impegno della comunicazione tradizionale. Locale-globale come canale sempre aperto, come flusso circolare: una prospettiva oggi decisiva nella lotta senza se e senza ma contro la guerra. Ed è la coscienza di fare parte di una società aperta che stimola ed riutilizza i processi in seguito considerati, che rafforza l'autonomia e il sentimento non minoritario di questo movimento e che metterà al fine in crisi Bush e i suoi alleati. La cultura neoliberista, invece, sembra incapace di tenere aperto lo stesso flusso in entrambe le direzioni: essa ormai comunica solo dall'alto, dal centro, e quando deve calarsi nel territorio, lo tiene separato dal resto del mondo secondo un approccio localista, xenofobo - che isola geograficamente e culturalmente i suoi abitanti - oppure lo trasforma in un 'non luogo' dove si incontrano i 'capitribù' senza popolo, come nelle Azzorre o a Davos o nelle Montagne Rocciose o sulla nave ormeggiata nel porto di Genova. Le piazze sono perdenti per i leader della globalizzazione e un luogo di crescita per i loro oppositori. Nonostante l'enormità dei mezzi a disposizione, lo stesso difetto di 'egemonia comunicativa' si riflette nell'uso dei media, che non riesce ad andare oltre l'esclusione o la manipolazione: i 'no global' si invitano al più negli studi di Porta a Porta o si contano (al ribasso) a spanne nelle manifestazioni che sono però presentate di sfuggita e sempre oscurate dai faccioni degli 'esperti' di Berlusconi, di Bossi, di Fini, che ne fanno un commento esorcizzante. L'appropriazione del territorio da parte di un movimento antagonista, radicale, unitario è un fatto politicamente rilevantissimo, tanto più se lo si considera dopo i fasti della Lega e del localismo xenofobo fattosi partito in tutta Europa. Credo che la modalità locale-globale di presentarsi come soggetto sociale unitario dischiuda importanti prospettive anche alla rappresentanza politica. Pur non essendo in discussione l'autonomia reciproca delle sfere sociale e politica, non c'è dubbio che il superamento della delega una tantum prevista in modo ancora più riduttivo dal sistema elettorale maggioritario e l'opportunità di creare, a partire dal territorio, strumenti di democrazia diretta, dove si esercita il diritto di proposta e non solo di ratifica, siano presupposti indispensabili per rimettere in comunicazione politica, istituzioni, movimenti sociali. Tutto ciò è già venuto alla luce nella grande mobilitazione per la pace, i cui tratti, ancorché oscurati dallo scatenamento dell'attacco all'Iraq, rimarranno a lungo presenti nella ricostruzione di un legame sociale che la fase attuale ha spinto ben oltre i confini dell'affinità tra i soggetti politici tradizionali. Per fare due esempi degli sconvolgimenti in corso, si pensi all'unità dei lavoratori europei nello sciopero generale proclamato il 14 marzo a fronte della divisione dei governi nazionali; o alla crisi non si sa quanto e quando rimediabile del G8 - L'Arca del patto economico-politico liberista fondato sulla 'non negoziabilità' dell'american way of life' e sul sequestro del futuro del pianeta nei caveaux delle banche metropolitane. Questo percorso locale-gobale non solo ha già alle spalle le sue stazioni che hanno prodotto effetti ancora da decifrare fino in fondo, ma parla già con i suoi simboli universalmente eloquenti. 2. L''antibandiera' della pace. Da sempre la bandiera rappresenta un simbolo territoriale: la si espone, la si innalza, talvolta si pianta, per riconoscere uno spazio di terra in cui si identificano valori comuni, patti sociali, assetti di potere, in nome del quale ci si arma e si esercita l'uso della forza. Il 'viaggio' di una bandiera corrisponde all'estensione del suo spazio originario di riferimento: perciò ai drappi colorati indicanti territori e nazioni si sono spesso associati i concetti di conquista o di battaglia militare. I grandi moti di solidarietà dell'Ottocento e del Novecento avevano esposto altre bandiere, legate a un programma sociale e politico e polemicamente slegate dalle identità territoriali: in certo senso, la loro simbologia richiamava più la croce e un'appartenenza per elezione, non per nascita. Il movimento in Italia ha attuato al riguardo un rivoluzionamento spettacolare: ha scelto di radicare nelle differenze territoriali la forza evocativa di un simbolo unitario, l'ha spogliato di appartenenze politiche in senso tradizionale, l'ha imposto ai balconi, agli uffici, nei quartieri, nei Comuni e nelle chiese proprio in chiave comunitario-territoriale. L'intuizione è stata quella che, esponendo il drappo arcobaleno, si contrassegnava il proprio territorio con un simbolo antagonistico rispetto a quelli di identità escludenti, espressivo di unificazioni anziché di distinzioni, di abbattimento dei confini fisici per ricongiungere le case, le vie, il luogo di lavoro al destino comune di pace delle altre case, vie, luoghi di lavoro illegittimamente arruolati sotto le bandiere nazionali sventolate in guerra. E' stato elaborato un mezzo di comunicazione potentissimo: è come se si svolgessero assemblee permanenti di caseggiato o di quartiere dove si comunica che per nascita, al di là delle decisioni di un governo, si è membri ormai di un mondo unito, interdipendente, la cui sicurezza non è fornita dalle armi. Se questi drappi arcobaleno, esplosi nel nostro paese, si diffondessero in tutto il mondo - anche nei paesi di Bush, Blair, Aznar, - saremmo paradossalmente all''ultima bandiera', quella in cui ci si può riconoscere anche quando i governi nazionali disconoscono la Carta dell'Onu e le Costituzioni, quella che sola dà legittimità a tutte le altre. Occorre riflettere su come il processo delle bandiere si sia diffuso e sia andato in profondo fino ad un livello di coscienza difficilmente reversibile. Alcuni Comuni, addirittura i centri di ricerca dell'Unione europea, alcune stazioni ferroviarie hanno preteso un riconoscimento pubblico della loro 'dichiarazione di appartenenza' con risvolti giuridici tutt'altro che irrilevanti. Perfino Camp Darby, per la sua vocazione di guerra, è stata resa straniera in Toscana dal lancio della bandiera della pace oltre il recinto. I 'flag conservatives' americani, citati da Norman Mailer, sono invasati dall'idea che lo Stato con l'esercito più potente possa fare qualunque cosa, travolgendo gli ostacoli con la tecnologia e la pura potenza. Ma non si erano imbattuti in queste disarmate e resistentissime 'antiflags'… 3. I luoghi di lavoro I diritti sociali e la loro 'universalizzazione' sono diventati, ormai da oltre un anno, patrimonio del movimento di Porto Alegre. E' un merito in gran parte degli italiani che vi si sono impegnati e del risalto internazionale della battaglia condotta in particolare dalla Cgil. C'è continuità tra modelli sociali e scelte planetarie e i lavoratori lo stanno sperimentando. Questa, al fine, è la loro esperienza sui luoghi di lavoro dove hanno compagna quotidiana e spietata la competizione globale. La lotta contro la precarizzazione e per l'estensione dei diritti oltre i ridotti sempre più assediati delle antiche sudate conquiste ha chiarito che, se andasse a compimento l'attacco all'Iraq in una prospettiva di dominio mondiale delle armi, la crescente ingiustizia dell'ordine mondiale sarebbe inevitabilmente aggravata. Da tempo ormai c'è coscienza che la pace è il fondamento che rende possibili i diritti e che una guerra permanente li ridurrebbe e li subordinerebbe per un tempo indefinito all'obiettivo principale della sconfitta del nemico: li eliminerebbe cioè come priorità dalla dialettica sociale e dalla pratica politica. Se l'umanità investe il meglio delle sue risorse intellettuali, scientifiche, economiche nella distruzione di vite e di risorse in campo 'avverso', allora l'universalità dei diritti è impensabile e impraticabile, e così l'unità del mondo, la solidarietà di tutto il mondo del lavoro. In effetti, di fronte alla sequenza della catena produttiva che si è fatta globale e che connette direttamente postazioni di lavoro in paesi diversi, risulta visibile la rottura che la guerra produce tra lavoratori impegnati per il riconoscimento di diritti comuni, che derivano dall'essere al lavoro, e che sono invece collocati come "nemici" su fronti opposti dalle posizioni dei rispettivi governi. In questo quadro modificato rispetto al passato proprio dalle caratteristiche strutturali della globalizzazione in atto, assume un senso nuovo lo stesso sciopero generale contro la guerra, che, esteso a livello sovranazionale, ricompone il fronte del lavoro nella sfera di un interesse sociale comune, che non ha bisogno di essere mediato necessariamente dalla politica. Siamo sulla strada della elaborazione di una percezione nuova dei lavoratori a livello planetario: una maturazione faticosa, ma importante, che rimargina sul piano internazionale la rottura tra i movimenti operai arruolati sotto opposte bandiere nazionali alla soglia della Prima Guerra mondiale, divisi lungo i confini e le ideologie dei blocchi contrapposti lungo tutta la guerra fredda e che, purtroppo non era ancora giunta al compimento durante la vicenda della guerra del Kosovo. La rivalutazione della propria autonomia come produttori e del valore sociale del lavoro si è fatta strada nel dibattito di questi mesi. La soggettività dei lavoratori ha preso corpo di nuovo come 'classe', anche se con modalità diverse dal passato. Anche per questa ragione e della dinamica dei processi in corso sarebbe bene che la sinistra intera e la Cgil si spendessero per il sì al referendum sull'Articolo 18, muovendosi a considerazioni che stabiliscono una gerarchia indiscutibile fra la persona e le compatibilità macro- e microeconomiche. Ma anche nel mondo del lavoro ci troviamo di fronte alla riscoperta di una dimensione locale, oltre che di quella più generale. Qui in Italia, ma non solo, si è ricominciato a valutare la funzione sociale nello specifico della propria prestazione, andando anche oltre la questione dello scambio salariale attraverso cui è stata pattuita. Si è così ricominciato a discutere la finalizzazione del lavoro per uno sviluppo alternativo e pacifico, a cominciare dalla riconversione di settori e dalla crisi di fabbriche. L'accordo sul futuro dell'Alfa Romeo, firmato il mese scorso dai sindacati metalmeccanici milanesi, merita molta attenzione in quanto cerca di andare realisticamente oltre l'auto e il petrolio come priorità del modo di vita che stiamo subendo. Più in particolare, in queste ultime settimane è ricomparso a livello diffuso quel diritto all'obiezione di coscienza - che i più coraggiosi avevano professato con grandi drammi personali nelle fabbriche d'armi in tempo di pace - e che non è stato mai ammesso nei recinti della produzione, per essere riservato solo ai casi che riguardano la sfera etica (i medici contrari all'aborto, ad esempio). Lo sciopero dei portuali di Livorno, il rifiuto dei macchinisti dei treni che trasportavano armi, la riapparizione degli 'scienziati contro la guerra', il documento dei 100 sindacalisti Usa, sono tutti segnali che si va diffondendo la consapevolezza che la posta in palio è cruciale e che la centralità dei diritti del lavoro è pensabile, è esigibile, solo nel pieno contesto di una Costituzione che ripudia la guerra. La continuità tra le azioni di lotta del mondo del lavoro e le iniziative di disobbedienza civile della società mostrano la trama di una legalità più ricca e più attiva: quella che nella scelta dei metodi non violenti fonda il diritto di sciopero e il diritto di impedire infrazioni del patto costituzionale, e unisce la Repubblica «fondata sul lavoro» alla Repubblica che «ripudia la guerra» in uno 'spirito repubblicano' che ha imposto rispetto e moderazione a quegli stessi apparati repressivi che avevano dato a Genova prova di una vocazione violenta ed eversiva. 4. L'ambiente in cui vivremo Il carico di distruzione ambientale delle guerre moderne è stato considerato appieno solo nel caso delle bombe di Hiroshima e Nagasaki. In seguito, l'effetto delle nuove armi è stato volutamente circoscritto solo alla loro precisione, all'uso specifico o specialistico cui erano destinate, al terrore che il loro possesso avrebbe potuto procurare al nemico. Eppure le guerre del Kosovo e nell'Afghanistan hanno comportato effetti ambientali di lunghissimo periodo, di cui si parla raramente, proporzionali all'intensità energetica concentrata nelle azioni di bombardamento attuate con proiettili a uranio impoverito, se non addirittura con piccole bombe nucleari tattiche. Se, come non è stato escluso, in Iraq, verranno usati ordigni nucleari, i territori saranno resi inagibili alla vita per un lungo periodo, assai superiore a quello che si prende in considerazione dal punto di vista politico e militare, cosicché ad esempio in Iraq l'equilibrio ambientale non sarà certo recuperato nel tempo in cui si pretenderebbe di ottenere l'eliminazione di Saddam e del suo regime. Per una semplice considerazione legata all'entropia dei processi energetici connessi con le armi moderne, gli effetti mortali e distruttivi ricadranno proprio su quei soggetti che si dice di voler liberare: quindi, incredibilmente ed a dispetto della loro conclamata intangibilità, i diritti delle future generazioni sono travolti dai progetti odierni di potenza militare e predati dagli interessi che oggi stringono il loro controllo sulle risorse di quel territorio e se ne impadroniscono in nome della libertà. Il bilancio territoriale delle guerre dal 1991 in poi si continua a calcolare senza considerare questa sfasatura temporale e questo livello di estensione spaziale ed i potenti preferiscono (come hanno fatto i grandi bancarottieri delle corporations) confonderli e farli svanire nelle pretese di ridisegno della geopolitica a livello mondiale e nelle previsioni di abbattimento dei prezzi delle risorse per cui tali guerre sono combattute. Al contrario, c'è una crescente sensibilità delle popolazioni attaccate a mettere a valore l'ambiente di cui vengono deprivate ed a non considerare come risarcimento accettabile una artificiale oltre che ipocrita ricostruzione, al punto di voler rimanere ostinatamente a vivere negli stessi territori violati dalle armi. Sul territorio è la biosfera il metro di giudizio, non la geopolitica. Spacciare la 'missione' della 'democratizzazione' dell'Iraq per una restituzione del paese al popolo che ne è il legittimo sovrano è il trasparente velo propagandistico di un progetto di interdizione di un eventuale processo di autonomia sociale, politica e, direi, ambientale, che - in Iraq come in tutto il Medio Oriente - potrebbe dar vita ad una realtà alternativa tanto alla dittatura che a un'élite fantoccia o compradora. Nel cuore dell'impero, allo scoccare dell'ora delle armi, purtroppo, né locale e globale e nemmeno il mondo del lavoro hanno ancora prodotto quella fusione e quella autonomia che si sono espanse in tutto il mondo fino a lambire le soglie del potere degli Stati. Ed il fondamentalismo moralistico di cui si ammanta la retorica di Bush è anche volto a impedire la formazione a livello territoriale o nei sindacati di quella autonomia sociale che può essere il laboratorio di una visione alternativa e di una pratica vincente per la pace. Eppure, proprio nel momento più difficile, si guardi con attenzione a quello che nel vecchio lessico dei conflitti chiamavamo il 'fronte interno': qualcosa è in movimento anche negli Stati Uniti, oltre che, da tempo, nella stessa Inghilterra. Ci sono più segnali che anche là un nuovo immaginario, nuove pratiche nuovi linguaggi comunichino in spazi non più separati, eliminando gli steccati e i confini di una divisione permanente del mondo segnata dalle armi. Un'ultima considerazione: la speranza di evitare la guerra di Bush contro l'Iraq stava anche nel ritenere senza futuro la dottrina della guerra preventiva e permanente in un mondo interconnesso dove la sicurezza di ciascuno dipende da quella di tutti gli altri. L'irragionevolezza, fino alla natura criminale delle decisioni che avrebbe dovuto adottare il Governo degli USA, facevano sperare che le ragioni del movimento della pace mettessero a nudo la contraddizione spaventosa di lanciare guerre per la libertà solo nei territori ricchi di petrolio. La guerra non è stata evitata; ma chi la conduce deve chiarire come l'ampliamento delle opportunità commerciali e del proprio dominio militare siano compatibili con l'idea ormai prevalente che la terra funzioni come un organismo vivente entro i cui confini vivere individualmente e nelle rispettive comunità è possibile solo se si promuove il benessere generale della più ampia biosfera in cui prosperiamo. Il movimento è cresciuto e sta individuando anche un nuovo modo di informare che è in grado di narrare gli eventi della guerra, così come le tappe del confronto aspro che si è aperto tra diverse visioni del mondo, con occhi propri, immagini dirette, tecniche di comunicazione interattive che depotenziano l'unidirezionalità autoritaria delle televisioni militarizzate. In questo contesto agire localmente e pensare globalmente corrisponde al nuovo concetto di sicurezza che va oltre il sistema fondato sul carbone e sul petrolio su cui si sono sviluppati il modello industriale e lo stato nazionale che Bush porta alle estreme conseguenze non firmando il protocollo di Kyoto, combattendo la Corte Penale Internazionale, Affossando l'ONU. Per di più, il movimento per la pace ha forse ormai già individuato il percorso futuro per mettere fuori gioco la guerra, non solo sulla base di diritti affermati e formalmente riconosciuti, ma anche con comportamenti individuali e collettivi e pratiche che, mentre producono nell'immediato sul territorio più solidarietà e più giustizia sociale, impongono al conflitto per il cambiamento a dimensione globale una sua autentica dimensione democratica. Novità Edizioni Punto Rosso: Uscite Imminenti Atilio Boron Impero & Imperialismo Quaderni di Alternatives Sud Il potere delle transnazionali. Il punto di vista del Sud François Houtart La tirannia del mercato e le alternative F. Houtart, S. Amin (a cura di) La globalizzazione delle resistenze. Lo stato delle lotte 2003 ---------------------------------------------------------------------------- ASSOCIAZIONE CULTURALE PUNTO ROSSO puntorosso at puntorosso.it FORUM MONDIALE DELLE ALTERNATIVE fma at puntorosso.it LUP - LIBERA UNIVERSITA' POPOLARE lup at puntorosso.it EDIZIONI PUNTO ROSSO edizioni at puntorosso.it VIA MORIGI 8 - 20123 MILANO - ITALIA TEL. 02-874324/72016642 FAX 02-875045 http://www.puntorosso.it
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