La nonviolenza e' in cammino. 561



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 561 del 9 aprile 2003

Sommario di questo numero:
1. Fedele Labruiero: la scacchiera
2. Elisabetta Caravati: pace, femminile plurale
3. Benito D'Ippolito: ancora una cantata dei morti invano
4. Alessandra Bocchetti: simili nella debolezza
5. Giulio Vittorangeli: le parole e la guerra
6. Ida Dominijanni: due note sul giornalismo e sull'Occidente
7. Unione cristiana evangelica battista d'Italia: dichiarazione sulla guerra
in Iraq
8. Arundhati Roy: l'argomento dell'ago e del pagliaio
9. Ali Rashid: l'opposizione alla guerra e' la legittima difesa
dell'umanita' intera
10. Yesh Gvul: fermate il massacro
11. War Resisters' International: a sostegno degli obiettori di coscienza
israeliani
12. Augusto Cavadi: una chiesa cattolica per gli indu'
13. Charlotte Bronte: Achab e Michea
14. La "Carta" del Movimento Nonviolento
15. Per saperne di piu'

1. RIFLESSIONE. FEDELE LABRUIERO: LA SCACCHIERA
[Ringraziamo il dottor Labruiero per questo intervento]

"La solidarieta' del mondo progressista per il popolo del Vietnam ricorda
l'amara ironia che rappresentava, per i gladiatori del circo romano,
l'incoraggiamento della plebe" (da una lettera ben nota del dottor Ernesto
Guevara de la Serna)

Mentre scrivevo importantissimo un articolo
contro la guerra, il bimbo mio piccino
mi fa cadere con fracasso grande
dall'intarsiato suo bel tavolino
opima la scacchiera.
Il caro frugoletto e' qui che piange
per lo spavento, ma quella scacchiera
era dono e ricordo di famiglia
e adesso giace li', spezzata a un bordo
e mai ne trovero', ohime', l'eguale.

Quanti dolori deve sopportare
un uomo di buon cuore come me.
Ma non punii il bimbetto gemebondo,
siamo gente civile, e senza indugi
impartii l'ordine di pulir tutto
alla servetta, giovin clandestina
che di bonta' per impeto teniamo
quasi come se fosse una di casa.

E adesso, con augusta calma e forza
di volonta', il dolore gia' domato,
torniamo a scrivere che orrore grande
la guerra sia e come e' nostro impegno
convocar tutti ad opporsi alle stragi.

Che gran fatica e' vivere e che gioia
sentir di avere un'alma tanto magna.

2. RIFLESSIONE. ELISABETTA CARAVATI: PACE, FEMMINILE PLURALE
[Dalla mailing list di "Peacelink News" (per contatti: news at peacelink.it)
riprendiamo questo intervento di Elisabetta Caravati, impegnata
nell'esperienza delle "Donne in nero" a Varese]
"La guerra e' anche il piede, di un soldato iracheno morto steso a terra,
che in una fotografia ci viene mostrato, vestito di una calza bucata; e,
accanto a lui, un soldato anglo-americano nella sua impeccabile e
costosissima uniforme. La guerra noi non l'abbiamo voluta! Noi, con le
nostre manifestazioni, le nostre bandiere affacciate alle nostre finestre;
noi che abbiamo tentato di fermare treni e navi; noi non abbiamo impedito ai
B 52 di bombardare, distruggere e uccidere! Noi, con le nostre
manifestazioni, le nostre bandiere affacciate alle nostre finestre; noi che
abbiamo tentato di fermare treni e navi; noi abbiamo impedito che crescesse
ancor di piu' l'odio verso l'Occidente da parte del mondo arabo; noi abbiamo
impedito che aumentasse ancor di piu' la separazione fra due mondi diversi."
Con queste parole Luisa Morgantini (coordinatrice nazionale delle Donne in
nero ed europarlamentare), ci restituisce gioia e speranza e fiducia e
complicita' che riescono a placare, per un momento almeno, l'angoscia, la
sofferenza ed il dolore che accompagnano le nostre giornate di guerra.
A Varese sabato 5 aprile, la', dove la domenica sera sono solita andare a
vedere film che, lontani dai grandi produttori statunitensi, sanno ancora
parlare al cuore; ben piu' delle cento solite persone che la sala dovrebbe
ospitare sono pronte per partire per una riflessione al femminile dal
titolo: Donne e guerra.
E' con immensa gioia che Gabriella, portavoce delle Donne in nero di Varese,
ci saluta e orgogliosa ribadisce che le donne devono imparare ad osare
sempre di piu'... in questo caso, avrebbero dovuto osare organizzare la
giornata di riflessione in un locale che avrebbe potuto ospitare piu'
persone. Ma va bene anche cosi', le ragazze si siedono per terra, come gia'
sono abituate a fare nelle manifestazioni, e lasciano il posto a quelle piu'
grandi di loro. E allora Gabriella ricorda brevemente che sono state le
donne israeliane nel 1987 le prime a vestirsi di nero ed a manifestare in
silenzio, perche' il dolore non ha voce, contro il loro stesso governo che
occupava (ed occupa) i territori palestinesi; poi si sono aggiunte a loro le
donne palestinesi; poi altre donne in altri luoghi del mondo hanno seguito
il loro esempio con un messaggio ben chiaro: fuori la guerra dalla storia.
*
Ma "fuori la guerra dalla storia", ci spiega piu' tardi Lidia Menapace, con
una saggezza ed una dolcezza che incantano, non e' solo uno slogan, ma e' un
processo culturale molto piu' complesso; per il movimento femminile che ha
messo insieme queste parole, esse sono come una targa stradale,
un'indicazione di cammino. La guerra non e' un evento naturale; percio',
come e' entrata nella storia, dalla storia deve uscire. Ci sono stati,
nell'Europa neolitica, mille anni di pace. Pace non vuol dire assenza di
conflitti. Pace vuol dire imparare a riconoscere, nominare e gestire i
conflitti; non con la guerra, ma con molteplici altre soluzioni. Le donne
ogni giorno imparano a gestire i loro piccoli e grandi conflitti quotidiani;
le donne ogni giorno imparano a far fronte agli imprevisti. La guerra recita
sempre lo stesso copione; la pace si costruisce e si mantiene cercando ogni
volta nuove soluzioni.  L'Europa - continua a spiegarci Lidia - ha scritto
la sua storia con le aggressioni ed il colonialismo; ma, all'interno
dell'Europa, sono nati anche quei due movimenti, quello operaio sindacale e
quello delle donne, capaci di organizzarsi, manifestare, scioperare,
sabotare, boicottare per rivendicare i propri diritti. Oggi l'Europa
dovrebbe dichiarasi neutrale, uscire dalla Nato, e diventare non
l'antagonista degli Usa, bensi' l'alternativa agli Usa, per costruire
appunto quell'altro mondo possibile.
*
Quasi tutte donne ad ascoltare altre donne parlare, narrare, spiegare... una
suora, una psichiatra, una volontaria di Emergency, un'insegnante e le sue
alunne. Tutte donne. Tutte con la consapevolezza che siamo appunto noi
donne, che facciamo continuare il mondo. Le donne palestinesi, le donne
irachene, le donne del Sudan e tutte quelle dei tanti paesi in guerra, hanno
il coraggio di passare oltre la guerra, di guardare al futuro e offrire al
futuro nuovi bambini. Le donne, che quasi mai, sono sedute la', dove le
guerre vengono decise; le donne che mai scelgono la guerra, ma sempre la
subiscono, sanno di dover essere tessitrici di pace, nel senso che sanno
perfettamente che tocchera' a loro ristabilire tutti i rapporti e le
relazioni che ogni guerra interrompe in modo brutale.
Nella cultura degli uomini la guerra e' vista come un modo per poter andare
contro la morte; un eroe verra' ricordato oltre la sua morte. Per noi donne
la morte e' sconfitta dalla vita; la vita cresce in noi, e continua dopo di
noi, attraverso i figli.
Mentre la mente umana progetta e costruisce armi in grado di distruggere
l'umanita' stessa; mentre il governo degli Usa programma e lancia le sue
guerre stellari; mentre nessuna donna che lascia a casa il proprio figlio e
parte a combattere in nome del petrolio, potra' mai essere considerata un
eroina al femminile; gli occhi e il cuore della maggior parte delle donne,
fra uccidere e morire scelgono di vivere. Perche' gli occhi e il cuore
continuano ad avere ragioni che la ragione non conosce. Solo il punto di
vista femminile potra' tutelare un mondo nuovo. Quell'altro mondo
indispensabile. Dunque ne' con Bush, ne' con Saddam, lontane dalle loro
macabre danze, lontane dalle loro culture di morte; per riaffermare
l'illegalita' di ogni guerra affinche' la guerra sia fuori dalla storia e
percio' fuori dalla vita di ogni singolo essere umano.

3. LE INUTILI PAROLE. BENITO D'IPPOLITO: ANCORA UNA CANTATA DEI MORTI INVANO
[Dall nostro buon amico Benito D'Ippolito riceviamo e diffondiamo]

E noi siamo i soliti morti
i soliti morti invano
quelli come sempre poco furbi
che non sapevano guardar lontano
e quelli come sempre troppo furbi
che non sapevano guardar vicino.
Adesso siamo qui, presi all'uncino
nello sheol infrante estinte spoglie
morti per sempre come tutti i morti,
e come tutti i morti morti invano.

E noi anche avevamo attese e voglie
e vite personali e aspetto umano
di femmine e di maschi, e come foglie
discerpaci ed invola un vento vano.
E i sogni alati e le gioie e le doglie
tutto disparve qual miraggio arcano
quando al lume dei giorni e al buon cammino
per sempre ci strappo' il colpo assassino.

E voi che questa voce che si spegne
avete cuore di ascoltare ancora
sappiate che anche le nostre eran degne
di essere vissute vite, e l'ora
che ce le tolse - ed erano ancor pregne
di luce e di belta' che t'innamora -
non fu di caso o fato il cupo frutto:
furono uomini a rapirci tutto.

E tu che ancora senti e ancora vedi
a te affidiamo un'ultima parola:
ferma la guerra, con le mani e i piedi;
ferma la guerra e bruciati la gola
a forza di gridarlo; e se non cedi
vi e' speme che s'inceppi questa mola
e cessi questa storia di orchi e brace
e possa venir l'ora della pace.

Ma noi siamo solo i soliti morti
i soliti morti invano
quelli come sempre poco furbi
che non sapevano guardar lontano
e quelli come sempre troppo furbi
che non sapevano guardar vicino.
Adesso siamo qui, presi all'uncino
nello sheol infrante estinte spoglie
morti per sempre come tutti i morti,
e come tutti i morti morti invano.

4. MAESTRE. ALESSANDRA BOCCHETTI: SIMILI NELLA DEBOLEZZA
[Da Alessandra Bocchetti, Dell'ammirazione, Stampa Alternativa, Roma 1996,
pp. 37-38. Alessandra Bocchetti, tra le fondatrici del Centro culturale
Virginia Woolf, e' una delle figure piu' autorevoli del movimento delle
donne in Italia. Tra le sue opere: Cosa vuole una donna, La Tartaruga,
Milano 1995]
Se non si arriva al pensiero di essere simili, di essere tutti simili, la
guerra non finira'. Le guerre non finiranno. Bisogna fare leva su qualcosa
di comune per averne ragione. Ma come si fa a trovare qualcosa di comune in
una guerra civile, la piu' terribile delle guerre, dove viene negata proprio
questa comunanza, dove terra, aria, acqua, sangue, tutto si vorrebbe
dividere. A questa domanda una donna potrebbe rispondere che cio' che rende
simili e' la debolezza. Una donna risponde non perche' sia dotata di una
intelligenza speciale, ma perche' conosce gli esseri umani da quel verso
li', sa la debolezza di tutti, la propria e quella degli altri, e sa che e'
proprio questo a rendere umani gli umani. Se la forza ci rende diversi, e'
la debolezza che ci rende simili.
La debolezza puo' essere una risorsa e un'opportunita'. E' una virtu'. Dalla
debolezza si potrebbe raccontare la storia in un altro modo e si potrebbero
aprire nuove prospettive. Nella debolezza c'e' una ricchezza che, volendo,
sarebbe capace di governare il mondo, di renderlo diverso.

5. RIFLESSIONE. GIULIO VITTORANGELI: LE PAROLE E LA GUERRA
[Ringraziamo Giulio Vittorangeli (per contatti: giulio.vittorangeli at tin.it)
per questo intervento. Giulio Vittorangeli e' uno dei principali
collaboratori di questo foglio, e una delle persone piu' lucide e rigorose
impegnate nella solidarieta' internazionale]
Dubito che ci si possa immedesimare con chi questa guerra oscena la subisce,
ma e' veramente ipocrita chi ne discute comodamente seduti in poltrona.
Davvero la parola e' niente di fronte a cadaveri sventrati, corpi mutilati e
atroci pianti di madri; perche' la guerra ammala anche il linguaggio. Non se
ne puo' piu' dell'eufemismo che dice "intervento" invece che "guerra", che
chiama le bombe "uso della forza", dei giochini per cui la guerra e' sempre
fra "gli alleati" e "gli uomini di Saddam", mai fra "l'Iraq" e "gli uomini
di Bush e Blair". Ha scritto Marc Auge' ("Il manifesto", 6 aprile 2003):
"L'aspetto piu' terrificante delle immagini e dicerie con cui si pretende di
informarci e' che le parole, lungi dal dare un senso alle immagini, hanno
perso il loro significato. La democrazia, i diritti umani, la liberta', i
fini umanitari: tutte nozioni massacrate dai bombardamenti di una retorica
arrogante, tracotante, ingarbugliata e cialtrona. Come le citta' in rovina,
le macerie semantiche testimoniano il trionfo della farneticazione (...). La
guerra e' dappertutto e da nessuna parte. Le immagini la mostrano, le
immagini la mascherano. Le parole fuggono, le parole mancano. Quando le
parole torneranno, sara' per dirci quel che le immagini non riuscivano a
tacere. Che questa guerra non si doveva fare".
Eppure la guerra teme la parola, in particolare quando diventa poesia. Un
tempo la poesia e' stata profezia e preveggenza, oggi conserva la capacita'
di restituire alle parole il loro significato piu' profondo e autentico.
Ieri come oggi i poeti vengono banditi dalle citta' e dalle case perche'
smascherano l'ipocrisia dei politici e dei mercanti di morte. Si cerca di
far accettare l'inaccettabile, usurpando e rovesciando il senso delle
parole, cosi' le guerre diventano giuste, umanitarie e sante, e quindi
inevitabili e - perche' no? - desiderabili!
Da quando le bombe sono diventate intelligenti c'e' di che preoccuparsi di
come viene utilizzata la parola e l'intelligenza. Per arrivare al ripugnante
"effetto collaterale" con cui viene definita la morte di civili innocenti.
Per restare al far-west iracheno: le stragi al mercato nei due quartieri
popolari di Baghdad, gli undici bambini bombardati nella fattoria, le
famiglie sterminate dai razzi mentre fuggivano, quelle uccise
(prevalentemente donne e bambini) su un furgoncino perche' non si sono
fermati all'alt, ospedali sventrati, bambini morti o deturpati dalle bombe,
persone disperate, case distrutte, macerie ovunque... si puo' fare l'elenco
di una lugubre litania. Ma sembra che non accada niente di grave: il crimine
e' ingrediente quotidiano e rischia di diventare assuefazione.
Nonostante tutto, la guerra e i suoi rappresentanti temono le parole perche'
prima o poi torneranno a riprendersi il loro vero significato. Allora
riappropriamoci della poesia perche' la parola pace possa raggiungere gli
uditi meno sensibili, anche quelli dei potenti che solo con la forza tentano
di dominare il mondo. Lo facciamo con un piccolo Promemoria scritto da
Gianni Rodari:
"Ci sono cose da fare ogni giorno:
lavarsi, studiare, giocare,
preparare la tavola
a mezzogiorno.
Ci sono cose da fare di notte:
chiudere gli occhi, dormire,
avere sogni da sognare,
orecchie per non sentire.
Ci sono cose da non fare mai
ne' di giorno ne' di notte,
ne' per mare ne' per terra:
per esempio, la guerra".

6. RIFLESSIONE. IDA DOMINIJANNI: DUE NOTE SUL GIORNALISMO E SULL'OCCIDENTE
[Dal quotidiano "Il manifesto" riprendiamo i seguenti due articoli,
rispettivamente il primo ("Embedded in guerra e in pace") dall'edizione del
7 aprile 2003; e il secondo ("In nome dell'Occidente") dall'edizione dell'8
aprile 2003. Ida Dominijanni (per contatti:  idomini at ilmanifesto.it) e' una
prestigiosa giornalista e saggista]
I. Embedded in guerra e in pace
Se la prima guerra irachena inauguro' l'era delle guerre a copertura
mediatica totale - tanto totale da "coprire" interamente la realta', scrisse
all'epoca Jean Baudrillard - questa seconda pare aver inaugurato
l'edificante prassi dei giornalisti "embedded", ovverossia incastrati - in
tutti i sensi - nelle truppe di cui dovrebbero raccontare fatti e misfatti.
Li vediamo ogni sera anche nelle nostre tv, ma negli Stati Uniti pare che i
loro reportage debordino incontrastati, fonte unica e conferma garantita del
discorso ufficiale sulla guerra. E la cosa da' non poco fastidio a chi della
guerra ha in testa tutt'altra interpretazione. Tom Engelhardt, l'autore di
The End of Victory Culture, su "Mother Jones.com" coglie l'occasione per
sparare a zero contro il giornalismo embedded in tutte le sue forme, di
guerra e non. Non e' una novita' dell'operazione irachena, denuncia infatti
giustamente: e' embedded ormai tutto il giornalismo di palazzo, che della
"collusione" con l'oggetto che dovrebbe liberamente indagare ha fatto la
propria cifra. "La collusione e' uno strano misto di possibilita' di
accesso, adulazione, servitu', attrazione", scrive Engelhardt. E il fatto e'
che al giornalismo embedded si somma una visione del mondo a sua volta
"profondamente embedded", cioe' a sua volta collusa con la collusione. Il
giornalismo di guerra e' solo la continuazione del giornalismo politico con
altri mezzi?
*
II. In nome dell'Occidente
Nell'attesa della battaglia di Baghdad cominciamo a contare i cadaveri. Non
quelli che giacciono sul campo e non si contano piu', ma quelli che pesano
nelle teste. E il cadavere numero uno, il piu' ingombrante di tutti, quello
fa piu' sporco il gioco della guerra e che minaccia di agitare il dopoguerra
come il fantasma di Amleto agitava il regno putrescente di Danimarca, e' il
cadavere dell'Occidente. Cioe' del vincitore.
Vorrei rovesciare un discorso corrente, che promette in queste ore di
diventare un alibi politico per quella sinistra moderata sempre in cerca di
qualche via di ritirata. Il discorso recita piu' o meno questo: fatta come
l'ha fatta Bush, questa guerra e' illegittima, violenta, sproporzionata.
Tuttavia risponde, in modo sbagliato, a una questione fondata. Che sarebbe
non solo la fine del regime di Saddam Hussein, ma anche e soprattutto la
democratizzazione forzata dell'Iraq, e ancor di piu' la sconfitta di un
islamismo che sta diventando la bandiera dell'internazionalismo
anti-occidentale. Insomma, bisogna in ultima analisi stringersi a coorte a
difesa dell'Occidente minacciato dallo scontro di civilta'. Come? Tentando
di condizionare l'estremismo di Bush con la buona volonta' di Blair, e
ricomponendo per questa via nel dopoguerra la frattura fra Europa e Stati
Uniti che si e' prodotta con la guerra. Sottoscrivono questo ragionamento
tutti i pasdaran del riformismo (blairiano), che con la parola "sinistra"
evitano ormai di contaminarsi. Ma ad articolarlo con il dovuto corredo di
toni e mezzi toni e' stato, su "Repubblica" di qualche giorno fa, Adriano
Sofri - e chi oserebbe dubitare della patente di sinistra dell'ex leader di
Lotta Continua? nessuno, come non ha mancato di far presente prontamente "Il
foglio".
Lasciamo perdere le patenti, che di questi tempi valgono quanto un
certificato d'identita' scaduto, e veniamo alle intenzioni morali (e
moraliste), che invece di questi tempi purtroppo abbondano e abbindolano. A
sostegno della sua lealta' con l'occidente scritto minuscolo come vuole un
sobrio minimalismo, Sofri ne avanza due: corresponsabilita' e solidarieta',
due vincoli che dovrebbero legarci tutti, comunque vadano le cose e chiunque
guidi la barca, alle nostre democrazie libere (tralascio la polemica sul
metro di misura di questa liberta', che stavolta e' la liberta' delle donne
di decidere non come vestirsi bensi' come pettinarsi: cfr. la guerra
precedente in Afghanistan).
Propongo di sostituire queste due obbligazioni morali con due sentimenti,
che prendo a prestito dalle parole di una occidentalissima e americanissima
filosofa come Judith Butler: vergogna e umiliazione. Vergogna e umiliazione
sono quello che molti e molte di noi occidentali provano in queste
settimane. E non, o non solo, per quello che l'Occidente, per il quale
continuo a nutrire tanta affezione da continuare a scriverlo maiuscolo, sta
facendo al popolo iracheno, ma per quello che sta facendo a se stesso:
sfigurandosi in sostanza e in immagine, fino a diventare impresentabile. Che
ne facciamo di questi due sentimenti? Non dubito che la logica binaria e
strumentale che sempre si impossessa del mercato delle idee in tempi di
guerra si affrettera' a sospingermi, per queste parole, nel campo
filoislamico. Inutile depistaggio: e non solo perche' all'Islam non mi lega,
non foss'altro che per i rapporti tra i sessi che lo abitano, alcuna
particolare simpatia. C'e' dell'altro.
C'e' che, a differenza di quanti civettano con lo scontro di civilta', e a
differenza altresi' di quanti (a sinistra) sono tentati di ripristinare sul
fronte mediorientale le dinamiche del bipolarismo che fu, io non credo che
stia a Baghdad la trincea politica decisiva. Il mondo non e' piu' quello del
Vietnam. E tanto rispetto la resistenza irachena, quanto sono convinta che
non e' ad essa che possiamo delegare il nostro problema. E il nostro
problema - per nostro intendo: degli occidentali che provano vergogna e
umiliazione per le res gestae dell'Occidente - e' esattamente il rovescio di
quello di Sofri e compagnia: salvare l'Occidente, si', ma non dai barbari
bensi' dai suoi usurpatori. Sottrarre la bandiera della democrazia a leader
eletti in forza di brogli, apatia politica e miliardi, la bandiera della
liberta' a governi che ingabbiano la gente a Guantanamo, la bandiera dei
diritti a sondaggi che equiparano i pacifisti ai terroristi, la bandiera del
diritto a chi distrugge in pochi mesi mezzo secolo di diritto
internazionale. E' questo panorama di macerie il problema di noi occidentali
che abbiamo a cuore le sorti dell'Occidente, e a risolvercelo non sara' ne'
la colla di Blair sui cocci dell'atlantismo, ne' d'altro canto la resistenza
irechena. L'Occidente, che nella sua storia ha fatto tutto e il contrario di
tutto, dalle rivoluzioni di liberta' a Auschwitz, e' un'idea molto spuria e
tutt'altro che innocente, come dovrebbe essere diventato di senso comune
dopo decenni di critica postcoloniale delle sue pretese universalistiche. Ma
almeno questo dovrebbe avercelo insegnato: che quando il quartier generale
diventa pericoloso, non lo si copre di solidarieta' ma si combatte, e in
casa propria.

7. RIFLESSIONE. UNIONE CRISTIANA EVANGELICA BATTISTA D'ITALIA: DICHIARAZIONE
SULLA GUERRA IN IRAQ
[Ringraziamo Lidia Maggi (per contatti: lidia.maggi at ucebi.it) per averci
inviato questa dichiarazione del comitato esecutivo dell'Unione cristiana
evangelica battista d'Italia sulla guerra in Iraq, del 29 marzo 2003]
Mentre ascoltiamo le notizie se pur frammentarie che provengono dai campi di
battaglia aperti in Iraq dall'attacco anglo-americano, mentre le pagine dei
giornali si riempiono di foto di corpi dilaniati, di padri e madri
disperate, di palazzi sventrati, mentre cominciano a tornare in patria le
prime bare di soldati occidentali e le strade polverose dell'Iraq si
riempiono di cadaveri a migliaia, mentre l'odio, la paura e la violenza
vengono seminati nella coscienza e nel cuore dei bambini iracheni, siamo qui
a chiederci: come si poteva evitare tutto cio'?
In che cosa il popolo della pace, mai tanto numeroso e visibile in ogni
angolo del mondo, ha sbagliato? Dove hanno sbagliato i cristiani, mai tanto
uniti nel dire il proprio no alle minacce di guerra, come in questo
frangente?
Come e' stato possibile iniziare una guerra senza tener conto del fatto che
la popolazione irachena era gia' alla fame e i loro bambini avevano pagato
un prezzo altissimo all'embargo per ben 13 anni?
Come e' possibile oggi dichiarare giusta una guerra? Questa guerra? Una
guerra in contrasto con l'Onu, che non risponde ad un'aggressione militare
in atto e che pericolosamente mina un equilibrio gia' precario in una
regione afflitta da grave instabilita' politica e sociale?
Ma soprattutto, come invocare Dio mentre ci si prepara ad uccidere? Come
dire che Dio lo vuole? Quale Dio?
Una donna di antica saggezza disse un giorno al re Davide proprio per
respingere la violenza come fonte di giustizia: "Noi siamo come acqua
versata in terra che non si puo' piu' raccogliere, ma Dio non toglie la
vita" (II Samuele 14, 14). Se mai citiamo Dio e la sua volonta' per il
genere umano dobbiamo ricordare la sua supplica affinche' nell'alternativa
fra vita e morte scegliamo la vita perche' ci sia futuro per noi e per i
nostri figli (Deuteronomio 30, 19). Ma anche per i figli degli altri. Gesu'
stesso disse ai suoi discepoli "Io sono venuto perche' abbiano vita e
l'abbiano in abbondanza" (Giovanni 10, 10). Cristo crocifisso e' il volto
della scelta di Dio di donare la vita, non di toglierla, di soffrire la
violenza, non di farla.
Nel settembre 2001, durante il convegno nazionale delle nostre chiese,
restammo in silenzio e in preghiera, esprimemmo la nostra angoscia e
solidarieta' alle vittime del terrorismo e al popolo americano. Oggi mentre
e' in corso un'altra strage, ugualmente evitabile, foriera di altri lutti e
di altre distruzioni, diciamo la nostra vicinanza a tutte le vittime e ai
loro parenti. Diciamo la nostra volonta' e il nostro impegno perche' le armi
cessino e si faccia di nuovo spazio al dialogo e alla trattativa diplomatica
perche' smantellino in Iraq, ma non solo in Iraq, tutte le armi di
distruzione di massa, perche' si dia soccorso alla popolazione stremata e si
accolgano i profughi. Diciamo il nostro impegno perche' non si costruiscano
piu' tali ordigni e ci sia rigido controllo per la commercializzazione di
tutte le armi.
Portiamo anche noi  cristiani le nostre responsabilita'. Troppo tardi ci
siamo accorti che la nonviolenza e' nel cuore della rivelazione di Dio,
troppe bandiere nazionali hanno cancellato nella storia l'immagine di Dio
nel volto dell'altro, troppo spesso abbiamo nominato il nome di Dio invano e
la nostra preghiera si e' trasformata in bestemmia.
Il futuro di tutti noi e' solo nella pazienza di Dio e nella sua capacita'
di avere ancora pieta' di noi.

8. MAESTRE. ARUNDHATI ROY: L'ARGOMENTO DELL'AGO E DEL PAGLIAIO
[Da Arundhati Roy, Guerra e' pace, Guanda, Parma 2002, p. 27. Arundhati Roy
e' una celebre scrittrice indiana, impegnata contro il riarmo, in difesa
dell'ambiente e per i diritti dei popoli. Opere di Arundhati Roy: cfr. il
romanzo Il Dio delle piccole cose, Guanda, Parma 1997; poi in edizione
economica Superpocket, Milano 2000; e i due saggi di testimonianza e
denuncia raccolti in La fine delle illusioni, Guanda, Parma 1999, poi in
edizione economica Tea, Milano 2001, poi recuperati poi nella piu' ampia
raccolta di saggi di intervento civile, Guerra e' pace, Guanda, Parma 2002]
Bruciare il pagliaio puo' aiutarvi a trovare l'ago? O servira' soltanto a
far montare la rabbia e a rendere il mondo un inferno vivente per tutti noi?

9. RIFLESSIONE. ALI RASHID: L'OPPOSIZIONE ALLA GUERRA E' LA LEGITTIMA DIFESA
DELL'UMANITA' INTERA
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 6 aprile 2003. Ali Rashid e' il primo
segretario della delegazione palestinese in Italia. Fine intellettuale di
profonda cultura, conoscitore minuzioso degli aspetti storici, politici,
economici e culturali della situazione nell'area mediorientale, esperto di
questioni internazionali, ed anche acuto osservatore della vita italiana. E'
figura di grande autorevolezza per rigore intellettuale e morale, ed e' una
delle piu' qualificate voci della grande tradizione culturale laica
palestinese. Suoi scritti appaiono sovente nel nostro paese sui principali
quotidiani democratici e sulle maggiori riviste di cultura e politica]
E' un clima avvilente quello che diffondono i media, e' una Italia inedita
quella che si vede in tv, fortunatamente non e' il paese reale, ma ci lascia
inquieti. E' uno dei tanti effetti non collaterali di questa guerra che ha
come bersaglio principale la parte piu' avanzata della cultura di pace e del
diritto internazionale che molti, in Occidente, vogliono cancellare. E' una
colossale campagna di propaganda e incitamento all'odio razziale e religioso
costruita sulla menzogna che umilia milioni di donne e uomini vittime di
circostanze politiche e storiche che hanno frenato il loro sviluppo
economico, ma che non si sentono figli di una civilta' inferiore. Come si fa
a disprezzare interi popoli al punto di crederli incapaci di avere una
propria memoria? Peggio ancora, di scambiare questa mattanza per il dominio
e la rapina, con un'operazione "chirurgica" per portare democrazia e
liberta' mentre gli invasori vengono accolti con i fiori dagli assediati
gia' messi alla fame? Solo le parole del papa e la fermezza della chiesa
cattolica hanno impedito che questa guerra diventasse una guerra di
religione come avrebbero voluto Bush e bin Laden, cosi' come la grande
mobilitazione delle forze democratiche e progressiste in Occidente ha
impedito di trasformarla in una guerra tra civilta' com'e' stata teorizzata
dagli ideologi dell'amministrazione americana.
La settimana scorsa gli abitanti di Jenin, hanno visto girare per il loro
campo profughi strani "turisti": era una delegazione di ufficiali Usa per
apprendere la tecnica usata dagli israeliani nell'assedio e l'occupazione
delle citta' palestinesi. E' uno degli aspetti di cooperazione tra Israele e
Stati Uniti che condividono un piano strategico teso a consolidare il loro
dominio su tutto il Medio Oriente. Solo l'arroganza della forza ed il
disprezzo d'ogni forma di diritto possono indurre una potenza ad agire con
tanta superficialita', ma e' quello che Israele pratica da anni. Le nuove e
le vecchie minacce alla Siria ed all'Iran, il pieno sostegno alla politica
di Sharon contro i palestinesi, dimostra che Bush ha adottato in pieno le
tesi della destra israeliana e dei suoi sostenitore nei circoli reazionari
degli Stati Uniti rispetto al futuro della regione.
Se e' vero che L'America possiede la forza di demolire l'Iraq sul piano
militare, e' altrettanto vero che non avra' la capacita' di gestire il paese
e la regione nella fase postbellica, sbagliando finora tutte le sue
previsioni e incassando piu' d'una sconfitta politica. Perche'? Perche' sta
destabilizzando un quadro geopolitico che aveva permesso proprio agli Usa di
dominare l'area per quasi 50 anni. In Iraq ed in tutto il mondo arabo, ed in
parte in quello islamico, e' iniziata con questa guerra una fase di
resistenza politica, culturale e militare contro il piano di dominio
americano. Si rafforzano, e' vero, in Medio Oriente da una parte le
organizzazioni piu' radicali di matrice religiosa, pero' in assenza di
guerra di religioni o di una nuova crociata - e questo grazie alla chiesa,
apprezzata per questo anche dagli ambienti islamici piu' integralisti. Ma,
dall'altra, grazie alla straordinaria mobilitazione democratica e pacifista,
ecco che stanno emergendo nuove realta' e movimenti sociali e politici che
si misurano con i contenuti della liberta', dell'emancipazione e del
processo di liberazione nazionale incompiuto.
A differenza del passato, ed a causa della divisione in Occidente tra la
barbarie di chi vuole la guerra, e la civilta' di chi vuole la pace, oggi
esistono le condizioni per una stagione di comunicazione che prima sembrava
impossibile. Oggi vanno concentrati tutti gli sforzi per fermare la guerra
ed impedire agli americani di raccoglierne i vantaggi, sapendo fin d'ora che
raccoglieranno solo il disastro che hanno seminato: un paese balcanizzato e
ingovernabile, una grande Striscia di Gaza. Cosi', augurarsi una vittoria
rapida degli americani significa soltanto volonta' di salire sul carro dei
vincitori e porre fine ad una straordinaria mobilitazione popolare che sta
cambiando il modo di concepire l'impegno politico, trasformato negli ultimi
anni (sia in Oriente che in Occidente) nel diritto esclusivo di una casta
privilegiata.
La tragedia che si consuma in Iraq coinvolgera' inevitabilmente altri paesi
e popoli, il punto di partenza per fermarla e' la continua mobilitazione in
Occidente contro la guerra, perche' si affermino i suoi valori piu' alti ed
il riprestino della legalita' internazionale. Abbiamo, da parte nostra, il
dovere morale e politico di opporre tutte le forme di resistenza possibile a
questa guerra - tenendo possibilmente fuori la religione. E' una battaglia
di difesa, ma legittima e doverosa, in attesa di restituire credibilita'
alla politica ad al diritto internazionali umiliati da Bush e da Sharon.

10. APPELLI. YESH GVUL: FERMATE IL MASSACRO
[Dagli amici della redazione di "Missione Oggi" (per contatti: e-mail:
missioneoggi at saveriani.bs.it; sito: www.saveriani.bs.it/missioneoggi/)
riceviamo e diffondiamo questo noto appello del gruppo pacifista israeliano
Yesh Gvul (per contatti: www.yesh-gvul.org). "Yesh Gvul ('C'e' un limite!')
e' un gruppo di pacifisti israeliani che si batte contro l'occupazione dei
territori, appoggiando i refusenik: ovvero i soldati disponibili a far
servizio nell'esercito, ma non nei territori. Dal 1982 - quando per la prima
volta, durante l'invasione israeliana del Libano, ci si comincio' a chiedere
che senso avesse quell'atto di aggressione - il numero dei refusenik ha
continuato a salire: dai 168 soldati incarcerati ripetutamente vent'anni fa,
ai quasi 200 in occasione della prima Intifada nel 1987, ai mille di oggi"]
Fermate il massacro. Ponete fine all'occupazione. L'occupazione genera
terrorismo. L'occupazione militare e' terrorismo.
Quando ordinate o permettete esecuzioni extragiudiziali ("liquidazioni" in
gergo militare), quando ordinate o permettete la demolizione di case
abitate, quando fate fuoco sulla popolazione civile inerme o sulle sue
abitazioni, quando sradicate frutteti, quando impedite gli
approvvigionamenti di cibo o le cure mediche, state compiendo azioni
definite dalle convenzioni internazionali (come la quarta Convenzione di
Ginevra) e dalla stessa legge israeliana, crimini di guerra.
Pensate che tali crimini siano giustificabili? Considerate giustificabile
demolire case e distruggere le proprieta' di intere famiglie? E'
giustificabile l'uccisione di bambini, donne, vecchi o, comunque, di civili
inermi?
Cosa sono questi territori "di sicurezza" che giustificano il ridurre alla
fame interi villaggi e privare i malati delle cure mediche? Che genere di
"sicurezza" puo' nascere dal coprifuoco e dall'assedio, dalla confisca delle
terre, dall'impedire che la gente lavoro o studi, dall'umiliazione dei posti
di blocco, dalle perquisizioni violente nelle case palestinesi?
Ponete fine all'occupazione! Interrompete la catena di sangue! Ogni
"liquidazione" (assassinio) prepara un atto terroristico. Il bambino che
ferite oggi, sara' il terrorista di domani. Ponete fine all'occupazione.
Fermate il massacro. Il mondo vi guarda.

11. APPELLI. WAR RESISTERS' INTERNATIONAL: A SOSTEGNO DEGLI OBIETTORI DI
COSCIENZA ISRAELIANI
[Dal Movimento Nonviolento (per contatti: azionenonviolenta at sis.it)
riceviamo e diffondiamo questo appello della War Resisters' International
(per contatti: e-mail: concodoc at wri-irg.org, o anche: info@wri_irg.org, tel.
442072784040)]
Il comitato esecutivo della War Resisters' International, il network
ultraottantenne di associazioni pacifiste che collega 90 affiliati in 45
paesi, ha espresso grave preoccupazione per la situazione degli obiettori di
coscienza israeliani. La posizione e' stata espressa durante l'incontro che
si e' tenuto a Londra nel week-end passato. Alla luce delle pene crescenti
comminate agli obiettori israeliani, il comitato esecutivo fa appello al
governo israeliano perche' riconosca il diritto umano all'obiezione di
coscienza.
Invita i movimenti pacifisti internazionali a sostenere gli obiettori
israeliani, e a far conoscere la loro protesta contro le politiche di
governo.
Israele non riconosce il diritto all'obiezione di coscienza, che deriva
dall'art. 18 della Convenzione internazionale sui diritti civili e politici,
di cui Israele e' un firmatario. Nonostante questo, e in risposta al numero
crescente di obiettori che rifiutano di arruolarsi, le autorita' israeliane
stanno moltiplicando le condanne per i giovani refusenik. Ancora in
violazione del diritto internazionale, gli obiettori di coscienza vengono
incarcerati piu' e piu' volte - proprio di recente l'obiettore di coscienza
Jonathan Ben-Artzi ha ricevuto l'ottava condanna, e Dror Boimel ha iniziato
la settima. Allo scopo ulteriore di fiaccare la determinazione di questi
giovani, le autorita' militari li stanno ora sottoponendo alla prova della
Corte Marziale, nonostante abbiano gia' trascorso in cella oltre 150 giorni.
Una corte marziale puo' condannarli per un periodo massimo di 3 anni.
Jonathan Ben-Artzi e Dror Boimel saranno i primi.
Un rapporto della War Resisters' International sull'obiezione di coscienza
in Israele, recentemente sottoposto al Comitato sui diritti umani dell'Onu
(e pubblicato in sintesi sul prossimo numero di "Azione nonviolenta" - ndt),
elenca oltre 180 obiettori di coscienza incarcerati tra il settembre 2001 e
il gennaio 2003 - in tutto, piu' di 6.500 giorni di carcere.
La War Resisters' International chiede al governo israeliano:
- di riconoscere il diritto all'obiezione di coscienza, e di approvare una
legge al riguardo secondo gli standard stabiliti dalla Commissione Onu sui
diritti umani nelle risoluzioni 1998/77 e 2002/45;
- di rilasciare immediatamente tutti gli obiettori in carcere, e di
posticipare la chiamata alle armi di quanti dichiarano la loro obiezione di
coscienza al momento in cui ci sara' una legge in materia.
La War Resisters' International invita con urgenza le organizzazioni
affiliate, le altre organizzazioni pacifiste e ognuno di noi a:
- esprimere la loro protesta contro l'incarcerazione di obiettori di
coscienza scrivendo lettere alle ambasciate, ai militari e al governo di
Israele;
- sostenere gli obiettori di coscienza in carcere inviando loro lettere e
messaggi;
- prendere parte alla campagna della War Resisters' International a sostegno
degli obiettori, che culminera' il 15 maggio con la Giornata Internazionale
dell'obiezione di coscienza: organizzate azioni di protesta, manifestazioni,
seminari, dibattiti pubblici, per aumentare la consapevolezza al riguardo e
sostenere gli obiettori israeliani;
- unirsi ad una delegazione della War Resisters' International come
osservatori delle corti marziali che giudicheranno gli obiettori di
coscienza.
Il comitato esecutivo della War Resisters' International: Joanne Sheehan,
Bart Horeman, Ellen Elster, Siva Ramamoorthy

12. RIFLESSIONE. AUGUSTO CAVADI: UNA CHIESA CATTOLICA PER GLI INDU'
[Ringraziamo Augusto Cavadi per averci messo a disposizione questo suo
articolo apparso nell'edizione palermitana de "La repubblica" il 26 marzo
2003. Augusto Cavadi e' docente di filosofia, storia ed educazione civica,
impegnato nel movimento antimafia e nelle esperienze di risanamento a
Palermo, collabora a varie qualificate riviste che si occupano di
problematiche educative e che partecipano dell'impegno contro la mafia.
Opere di Augusto Cavadi: Per meditare. Itinerari alla ricerca della
consapevolezza, Gribaudi, Torino 1988; Con occhi nuovi. Risposte possibili a
questioni inevitabili, Augustinus, Palermo 1989; Fare teologia a Palermo,
Augustinus, Palermo 1990; Pregare senza confini, Paoline, Milano 1990; trad.
portoghese 1999; Ciascuno nella sua lingua. Tracce per un'altra preghiera,
Augustinus, Palermo 1991; Pregare con il cosmo, Paoline, Milano 1992, trad.
portoghese 1999; Le nuove frontiere dell'impegno sociale, politico,
ecclesiale, Paoline, Milano 1992; Liberarsi dal dominio mafioso. Che cosa
puo' fare ciascuno di noi qui e subito, Dehoniane, Bologna 1993, seconda
ed.; Il vangelo e la lupara. Materiali su chiese e mafia, 2 voll.,
Dehoniane, Bologna 1994; A scuola di antimafia. Materiali di studio, criteri
educativi, esperienze didattiche, Centro siciliano di documentazione
"Giuseppe Impastato", Palermo 1994; Essere profeti oggi. La dimensione
profetica dell'esperienza cristiana, Dehoniane, Bologna 1997; trad. spagnola
1999; Jacques Maritain fra moderno e post-moderno, Edisco, Torino 1998;
Volontari a Palermo. Indicazioni per chi fa o vuol fare l'operatore sociale,
Centro siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato", Palermo 1998,
seconda ed.; voce "Pedagogia" nel cd- rom di AA. VV., La Mafia. 150 anni di
storia e storie, Cliomedia Officina, Torino 1998, ed. inglese 1999;
Ripartire dalle radici. Naufragio della politica e indicazioni dall'etica,
Cittadella, Assisi, 2000; Le ideologie del Novecento, Rubbettino, Soveria
Mannelli 2001. Vari suoi contributi sono apparsi sulle migliori riviste
antimafia di Palermo. Indirizzi utili: segnaliamo il sito:
http://www.neomedia.it/personal/augustocavadi (con bibliografia completa)]
Domenica scorsa a Palermo, come in Sicilia (vedi manifestazione regionale a
Sigonella) e nel resto del mondo, e' stato tutto un fermento di iniziative e
incontri per contestare l'ipocrita guerra di Bush e per sollecitarne una
chiusura piu' rapida possibile. In questo arcipelago di appuntamenti rischia
di passare inosservata una manifestazione che invece, per molti motivi,
avrebbe meritato una maggiore attenzione pubblica. Dalle 12 alle 20 in via
Liberta' si e' assistito a una serie di canti, danze e preghiere per la pace
realizzate da connazionali di varie provenienze etniche.
Dai Tamil dello Sri Lanka a immigrati provenienti dal Bangladesh, dalle
isole Mauritius, dall'India e dalla Persia.
Che cosa accomuna uomini e donne cosi' diversi per il colore della pelle,
per la lingua, per i gusti nell'abbigliamento? Il fatto di essere seguaci
dell'induismo.
So benissimo che nove lettori su dieci non hanno un'idea precisa di questa
religione che pure per eta' e' la piu' antica del mondo e per diffusione fra
le prime cinque del pianeta (neppure io l'avrei se, dopo la laurea in
filosofia, non mi fossi dedicato per mio conto allo studio delle teologie):
ma spero che, a differenza di tanti nostri compatrioti scalpitanti alla
Bossi, concordino sul fatto che questa ignoranza non puo' addebitarsi agli
induisti.
Le persone di buon senso, infatti, indipendentemente dal proprio privato
rapporto col Padreterno, auspicano da anni che l'insegnamento confessionale
della religione cattolica (affidato a docenti scelti arbitrariamente dalla
curie vescovili) venga sostituito nelle scuole dall'insegnamento
aconfessionale della storia delle religioni (affidato a docenti scelti sulla
base di graduatorie di merito culturale) in modo che atei e credenti
occidentali guariscano dall'analfabetismo in proposito.
Gia' il fatto che i membri di una religione politeista (che onora cioe'
molti dei), con forti tinte panteistiche (che vede in tutti gli dei, ma
anche nella natura e negli animali, la manifestazione di un'unica divinita'
onnipresente), uniscano la loro invocazione di pace a quella dei seguaci
delle tre religioni del Libro (ebrei, cristiani e islamici) e' un evento
originale e significativo.
Ma la manifestazione di Palermo era stata programmata da tempo con un
intento specifico: la richiesta alle autorita' civili e religiose di un
tempio per le celebrazioni liturgiche induiste. E questa richiesta, che va
ben oltre le drammatiche contingenze storiche, non puo' cadere nel vuoto. Se
aveva una qualche ragione il cardinal Martini, prima di lasciare la diocesi
di Milano, nel ritenere che la differenza fra chi pensa e chi non pensa e'
piu' decisiva della differenza fra chi crede (o crede di credere) e chi non
crede (o crede di non credere), direi che i pensanti palermitani debbano
ascoltare non solo la voce del cuore ma anche le indicazioni della ragione.
Dare una casa di silenzio e di preghiera a una sempre piu' consistente
minoranza religiosa, infatti, non e' soltanto un gesto di solidarieta'
umana: e' anche, e direi soprattutto, una scelta d'intelligenza politica nel
senso piu' alto e piu' lungimirante del termine.
Non si tratta di esprimere "tolleranza" nei confronti di chi rivendica un
diritto un po' bislacco: si tratta di capire che una metropoli puo' vantarsi
di svolgere un ruolo internazionale di mediazione solo se, effettivamente e
concretamente, sa ospitare le tradizioni religiose e culturali piu' diverse.
Gia' e' strano, e mutilante, che Palermo pretenda di giocare il ruolo di
cuore del Mediterraneo senza una sinagoga ebraica e con una moschea islamica
soltanto (gestita per giunta da un'autorita' non unanimemente riconosciuta
da tutti i cittadini islamici operanti in citta'): sarebbe un'aggravante se
dovesse continuare a non prevedere uno spazio ne' per gli induisti (che lo
chiedono in questa occasione, anche con manifesti sparsi per le vie) ne' per
i buddisti (la quinta grande "filosofia religiosa" dell'umanita').
La richiesta dei fratelli induisti (i correligionari, tanto per citare a
caso due nomi, di Gandhi e di Tagore) e' rivolta agli amministratori di
Palermo: ma, nell'attesa che essi decidano e che traducano in atto la loro
decisione, sarebbe un gesto profetico e "pacifico" se intanto l'arcivescovo
della citta', cardinale Salvatore De Giorgi, affidasse agli induisti una
delle tante chiese chiuse, o quasi, di cui ridonda il centro storico. Forse
la decisione di raccogliere il desiderio legittimo di tanti concittadini
priverebbe, almeno provvisoriamente, la comunita' cattolica di un tempio ma
contribuirebbe, per il contraccolpo positivo, a ripopolare le altre cento
chiese in progressivo abbandono da parte dei fedeli sempre meno praticanti.

13. MAESTRE. CHARLOTTE BRONTE: ACHAB E MICHEA
[Da Charlotte Bronte, Jane  Eyre, Garzanti, Milano 1974, 1980, p. 4. E' un
passo dalla prefazione alla seconda edizione, datata 21 dicembre 1847.
Charlotte (1816-1855) e' con Emily ed Anne una delle tre sorelle Bronte che
hanno lasciato una cosi' forte impronta nella letteratura e nella cultura
europea dell'Ottocento. Il suo capolavoro Jane Eyre e' ancora una preziosa
lettura]
Achab non amava Michea perche' gli prediceva non il bene ma il male; forse
gli preferiva il sicofante figlio di Chenaana; e tuttavia Achab sarebbe
forse sfuggito a una morte cruenta se avesse chiuso il suo orecchio
all'adulazione e lo avesse aperto al consiglio sincero.

14. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

15. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti, la e-mail e': azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: lucben at libero.it;
angelaebeppe at libero.it; mir at peacelink.it, sudest at iol.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it. Per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Per non ricevere piu' questo notiziario e' sufficiente inviare un messaggio
con richiesta di rimozione a: nbawac at tin.it

Numero 561 del 9 aprile 2003