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La nonviolenza e' in cammino. 561
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 561
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Wed, 9 Apr 2003 01:02:44 +0200
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 561 del 9 aprile 2003 Sommario di questo numero: 1. Fedele Labruiero: la scacchiera 2. Elisabetta Caravati: pace, femminile plurale 3. Benito D'Ippolito: ancora una cantata dei morti invano 4. Alessandra Bocchetti: simili nella debolezza 5. Giulio Vittorangeli: le parole e la guerra 6. Ida Dominijanni: due note sul giornalismo e sull'Occidente 7. Unione cristiana evangelica battista d'Italia: dichiarazione sulla guerra in Iraq 8. Arundhati Roy: l'argomento dell'ago e del pagliaio 9. Ali Rashid: l'opposizione alla guerra e' la legittima difesa dell'umanita' intera 10. Yesh Gvul: fermate il massacro 11. War Resisters' International: a sostegno degli obiettori di coscienza israeliani 12. Augusto Cavadi: una chiesa cattolica per gli indu' 13. Charlotte Bronte: Achab e Michea 14. La "Carta" del Movimento Nonviolento 15. Per saperne di piu' 1. RIFLESSIONE. FEDELE LABRUIERO: LA SCACCHIERA [Ringraziamo il dottor Labruiero per questo intervento] "La solidarieta' del mondo progressista per il popolo del Vietnam ricorda l'amara ironia che rappresentava, per i gladiatori del circo romano, l'incoraggiamento della plebe" (da una lettera ben nota del dottor Ernesto Guevara de la Serna) Mentre scrivevo importantissimo un articolo contro la guerra, il bimbo mio piccino mi fa cadere con fracasso grande dall'intarsiato suo bel tavolino opima la scacchiera. Il caro frugoletto e' qui che piange per lo spavento, ma quella scacchiera era dono e ricordo di famiglia e adesso giace li', spezzata a un bordo e mai ne trovero', ohime', l'eguale. Quanti dolori deve sopportare un uomo di buon cuore come me. Ma non punii il bimbetto gemebondo, siamo gente civile, e senza indugi impartii l'ordine di pulir tutto alla servetta, giovin clandestina che di bonta' per impeto teniamo quasi come se fosse una di casa. E adesso, con augusta calma e forza di volonta', il dolore gia' domato, torniamo a scrivere che orrore grande la guerra sia e come e' nostro impegno convocar tutti ad opporsi alle stragi. Che gran fatica e' vivere e che gioia sentir di avere un'alma tanto magna. 2. RIFLESSIONE. ELISABETTA CARAVATI: PACE, FEMMINILE PLURALE [Dalla mailing list di "Peacelink News" (per contatti: news at peacelink.it) riprendiamo questo intervento di Elisabetta Caravati, impegnata nell'esperienza delle "Donne in nero" a Varese] "La guerra e' anche il piede, di un soldato iracheno morto steso a terra, che in una fotografia ci viene mostrato, vestito di una calza bucata; e, accanto a lui, un soldato anglo-americano nella sua impeccabile e costosissima uniforme. La guerra noi non l'abbiamo voluta! Noi, con le nostre manifestazioni, le nostre bandiere affacciate alle nostre finestre; noi che abbiamo tentato di fermare treni e navi; noi non abbiamo impedito ai B 52 di bombardare, distruggere e uccidere! Noi, con le nostre manifestazioni, le nostre bandiere affacciate alle nostre finestre; noi che abbiamo tentato di fermare treni e navi; noi abbiamo impedito che crescesse ancor di piu' l'odio verso l'Occidente da parte del mondo arabo; noi abbiamo impedito che aumentasse ancor di piu' la separazione fra due mondi diversi." Con queste parole Luisa Morgantini (coordinatrice nazionale delle Donne in nero ed europarlamentare), ci restituisce gioia e speranza e fiducia e complicita' che riescono a placare, per un momento almeno, l'angoscia, la sofferenza ed il dolore che accompagnano le nostre giornate di guerra. A Varese sabato 5 aprile, la', dove la domenica sera sono solita andare a vedere film che, lontani dai grandi produttori statunitensi, sanno ancora parlare al cuore; ben piu' delle cento solite persone che la sala dovrebbe ospitare sono pronte per partire per una riflessione al femminile dal titolo: Donne e guerra. E' con immensa gioia che Gabriella, portavoce delle Donne in nero di Varese, ci saluta e orgogliosa ribadisce che le donne devono imparare ad osare sempre di piu'... in questo caso, avrebbero dovuto osare organizzare la giornata di riflessione in un locale che avrebbe potuto ospitare piu' persone. Ma va bene anche cosi', le ragazze si siedono per terra, come gia' sono abituate a fare nelle manifestazioni, e lasciano il posto a quelle piu' grandi di loro. E allora Gabriella ricorda brevemente che sono state le donne israeliane nel 1987 le prime a vestirsi di nero ed a manifestare in silenzio, perche' il dolore non ha voce, contro il loro stesso governo che occupava (ed occupa) i territori palestinesi; poi si sono aggiunte a loro le donne palestinesi; poi altre donne in altri luoghi del mondo hanno seguito il loro esempio con un messaggio ben chiaro: fuori la guerra dalla storia. * Ma "fuori la guerra dalla storia", ci spiega piu' tardi Lidia Menapace, con una saggezza ed una dolcezza che incantano, non e' solo uno slogan, ma e' un processo culturale molto piu' complesso; per il movimento femminile che ha messo insieme queste parole, esse sono come una targa stradale, un'indicazione di cammino. La guerra non e' un evento naturale; percio', come e' entrata nella storia, dalla storia deve uscire. Ci sono stati, nell'Europa neolitica, mille anni di pace. Pace non vuol dire assenza di conflitti. Pace vuol dire imparare a riconoscere, nominare e gestire i conflitti; non con la guerra, ma con molteplici altre soluzioni. Le donne ogni giorno imparano a gestire i loro piccoli e grandi conflitti quotidiani; le donne ogni giorno imparano a far fronte agli imprevisti. La guerra recita sempre lo stesso copione; la pace si costruisce e si mantiene cercando ogni volta nuove soluzioni. L'Europa - continua a spiegarci Lidia - ha scritto la sua storia con le aggressioni ed il colonialismo; ma, all'interno dell'Europa, sono nati anche quei due movimenti, quello operaio sindacale e quello delle donne, capaci di organizzarsi, manifestare, scioperare, sabotare, boicottare per rivendicare i propri diritti. Oggi l'Europa dovrebbe dichiarasi neutrale, uscire dalla Nato, e diventare non l'antagonista degli Usa, bensi' l'alternativa agli Usa, per costruire appunto quell'altro mondo possibile. * Quasi tutte donne ad ascoltare altre donne parlare, narrare, spiegare... una suora, una psichiatra, una volontaria di Emergency, un'insegnante e le sue alunne. Tutte donne. Tutte con la consapevolezza che siamo appunto noi donne, che facciamo continuare il mondo. Le donne palestinesi, le donne irachene, le donne del Sudan e tutte quelle dei tanti paesi in guerra, hanno il coraggio di passare oltre la guerra, di guardare al futuro e offrire al futuro nuovi bambini. Le donne, che quasi mai, sono sedute la', dove le guerre vengono decise; le donne che mai scelgono la guerra, ma sempre la subiscono, sanno di dover essere tessitrici di pace, nel senso che sanno perfettamente che tocchera' a loro ristabilire tutti i rapporti e le relazioni che ogni guerra interrompe in modo brutale. Nella cultura degli uomini la guerra e' vista come un modo per poter andare contro la morte; un eroe verra' ricordato oltre la sua morte. Per noi donne la morte e' sconfitta dalla vita; la vita cresce in noi, e continua dopo di noi, attraverso i figli. Mentre la mente umana progetta e costruisce armi in grado di distruggere l'umanita' stessa; mentre il governo degli Usa programma e lancia le sue guerre stellari; mentre nessuna donna che lascia a casa il proprio figlio e parte a combattere in nome del petrolio, potra' mai essere considerata un eroina al femminile; gli occhi e il cuore della maggior parte delle donne, fra uccidere e morire scelgono di vivere. Perche' gli occhi e il cuore continuano ad avere ragioni che la ragione non conosce. Solo il punto di vista femminile potra' tutelare un mondo nuovo. Quell'altro mondo indispensabile. Dunque ne' con Bush, ne' con Saddam, lontane dalle loro macabre danze, lontane dalle loro culture di morte; per riaffermare l'illegalita' di ogni guerra affinche' la guerra sia fuori dalla storia e percio' fuori dalla vita di ogni singolo essere umano. 3. LE INUTILI PAROLE. BENITO D'IPPOLITO: ANCORA UNA CANTATA DEI MORTI INVANO [Dall nostro buon amico Benito D'Ippolito riceviamo e diffondiamo] E noi siamo i soliti morti i soliti morti invano quelli come sempre poco furbi che non sapevano guardar lontano e quelli come sempre troppo furbi che non sapevano guardar vicino. Adesso siamo qui, presi all'uncino nello sheol infrante estinte spoglie morti per sempre come tutti i morti, e come tutti i morti morti invano. E noi anche avevamo attese e voglie e vite personali e aspetto umano di femmine e di maschi, e come foglie discerpaci ed invola un vento vano. E i sogni alati e le gioie e le doglie tutto disparve qual miraggio arcano quando al lume dei giorni e al buon cammino per sempre ci strappo' il colpo assassino. E voi che questa voce che si spegne avete cuore di ascoltare ancora sappiate che anche le nostre eran degne di essere vissute vite, e l'ora che ce le tolse - ed erano ancor pregne di luce e di belta' che t'innamora - non fu di caso o fato il cupo frutto: furono uomini a rapirci tutto. E tu che ancora senti e ancora vedi a te affidiamo un'ultima parola: ferma la guerra, con le mani e i piedi; ferma la guerra e bruciati la gola a forza di gridarlo; e se non cedi vi e' speme che s'inceppi questa mola e cessi questa storia di orchi e brace e possa venir l'ora della pace. Ma noi siamo solo i soliti morti i soliti morti invano quelli come sempre poco furbi che non sapevano guardar lontano e quelli come sempre troppo furbi che non sapevano guardar vicino. Adesso siamo qui, presi all'uncino nello sheol infrante estinte spoglie morti per sempre come tutti i morti, e come tutti i morti morti invano. 4. MAESTRE. ALESSANDRA BOCCHETTI: SIMILI NELLA DEBOLEZZA [Da Alessandra Bocchetti, Dell'ammirazione, Stampa Alternativa, Roma 1996, pp. 37-38. Alessandra Bocchetti, tra le fondatrici del Centro culturale Virginia Woolf, e' una delle figure piu' autorevoli del movimento delle donne in Italia. Tra le sue opere: Cosa vuole una donna, La Tartaruga, Milano 1995] Se non si arriva al pensiero di essere simili, di essere tutti simili, la guerra non finira'. Le guerre non finiranno. Bisogna fare leva su qualcosa di comune per averne ragione. Ma come si fa a trovare qualcosa di comune in una guerra civile, la piu' terribile delle guerre, dove viene negata proprio questa comunanza, dove terra, aria, acqua, sangue, tutto si vorrebbe dividere. A questa domanda una donna potrebbe rispondere che cio' che rende simili e' la debolezza. Una donna risponde non perche' sia dotata di una intelligenza speciale, ma perche' conosce gli esseri umani da quel verso li', sa la debolezza di tutti, la propria e quella degli altri, e sa che e' proprio questo a rendere umani gli umani. Se la forza ci rende diversi, e' la debolezza che ci rende simili. La debolezza puo' essere una risorsa e un'opportunita'. E' una virtu'. Dalla debolezza si potrebbe raccontare la storia in un altro modo e si potrebbero aprire nuove prospettive. Nella debolezza c'e' una ricchezza che, volendo, sarebbe capace di governare il mondo, di renderlo diverso. 5. RIFLESSIONE. GIULIO VITTORANGELI: LE PAROLE E LA GUERRA [Ringraziamo Giulio Vittorangeli (per contatti: giulio.vittorangeli at tin.it) per questo intervento. Giulio Vittorangeli e' uno dei principali collaboratori di questo foglio, e una delle persone piu' lucide e rigorose impegnate nella solidarieta' internazionale] Dubito che ci si possa immedesimare con chi questa guerra oscena la subisce, ma e' veramente ipocrita chi ne discute comodamente seduti in poltrona. Davvero la parola e' niente di fronte a cadaveri sventrati, corpi mutilati e atroci pianti di madri; perche' la guerra ammala anche il linguaggio. Non se ne puo' piu' dell'eufemismo che dice "intervento" invece che "guerra", che chiama le bombe "uso della forza", dei giochini per cui la guerra e' sempre fra "gli alleati" e "gli uomini di Saddam", mai fra "l'Iraq" e "gli uomini di Bush e Blair". Ha scritto Marc Auge' ("Il manifesto", 6 aprile 2003): "L'aspetto piu' terrificante delle immagini e dicerie con cui si pretende di informarci e' che le parole, lungi dal dare un senso alle immagini, hanno perso il loro significato. La democrazia, i diritti umani, la liberta', i fini umanitari: tutte nozioni massacrate dai bombardamenti di una retorica arrogante, tracotante, ingarbugliata e cialtrona. Come le citta' in rovina, le macerie semantiche testimoniano il trionfo della farneticazione (...). La guerra e' dappertutto e da nessuna parte. Le immagini la mostrano, le immagini la mascherano. Le parole fuggono, le parole mancano. Quando le parole torneranno, sara' per dirci quel che le immagini non riuscivano a tacere. Che questa guerra non si doveva fare". Eppure la guerra teme la parola, in particolare quando diventa poesia. Un tempo la poesia e' stata profezia e preveggenza, oggi conserva la capacita' di restituire alle parole il loro significato piu' profondo e autentico. Ieri come oggi i poeti vengono banditi dalle citta' e dalle case perche' smascherano l'ipocrisia dei politici e dei mercanti di morte. Si cerca di far accettare l'inaccettabile, usurpando e rovesciando il senso delle parole, cosi' le guerre diventano giuste, umanitarie e sante, e quindi inevitabili e - perche' no? - desiderabili! Da quando le bombe sono diventate intelligenti c'e' di che preoccuparsi di come viene utilizzata la parola e l'intelligenza. Per arrivare al ripugnante "effetto collaterale" con cui viene definita la morte di civili innocenti. Per restare al far-west iracheno: le stragi al mercato nei due quartieri popolari di Baghdad, gli undici bambini bombardati nella fattoria, le famiglie sterminate dai razzi mentre fuggivano, quelle uccise (prevalentemente donne e bambini) su un furgoncino perche' non si sono fermati all'alt, ospedali sventrati, bambini morti o deturpati dalle bombe, persone disperate, case distrutte, macerie ovunque... si puo' fare l'elenco di una lugubre litania. Ma sembra che non accada niente di grave: il crimine e' ingrediente quotidiano e rischia di diventare assuefazione. Nonostante tutto, la guerra e i suoi rappresentanti temono le parole perche' prima o poi torneranno a riprendersi il loro vero significato. Allora riappropriamoci della poesia perche' la parola pace possa raggiungere gli uditi meno sensibili, anche quelli dei potenti che solo con la forza tentano di dominare il mondo. Lo facciamo con un piccolo Promemoria scritto da Gianni Rodari: "Ci sono cose da fare ogni giorno: lavarsi, studiare, giocare, preparare la tavola a mezzogiorno. Ci sono cose da fare di notte: chiudere gli occhi, dormire, avere sogni da sognare, orecchie per non sentire. Ci sono cose da non fare mai ne' di giorno ne' di notte, ne' per mare ne' per terra: per esempio, la guerra". 6. RIFLESSIONE. IDA DOMINIJANNI: DUE NOTE SUL GIORNALISMO E SULL'OCCIDENTE [Dal quotidiano "Il manifesto" riprendiamo i seguenti due articoli, rispettivamente il primo ("Embedded in guerra e in pace") dall'edizione del 7 aprile 2003; e il secondo ("In nome dell'Occidente") dall'edizione dell'8 aprile 2003. Ida Dominijanni (per contatti: idomini at ilmanifesto.it) e' una prestigiosa giornalista e saggista] I. Embedded in guerra e in pace Se la prima guerra irachena inauguro' l'era delle guerre a copertura mediatica totale - tanto totale da "coprire" interamente la realta', scrisse all'epoca Jean Baudrillard - questa seconda pare aver inaugurato l'edificante prassi dei giornalisti "embedded", ovverossia incastrati - in tutti i sensi - nelle truppe di cui dovrebbero raccontare fatti e misfatti. Li vediamo ogni sera anche nelle nostre tv, ma negli Stati Uniti pare che i loro reportage debordino incontrastati, fonte unica e conferma garantita del discorso ufficiale sulla guerra. E la cosa da' non poco fastidio a chi della guerra ha in testa tutt'altra interpretazione. Tom Engelhardt, l'autore di The End of Victory Culture, su "Mother Jones.com" coglie l'occasione per sparare a zero contro il giornalismo embedded in tutte le sue forme, di guerra e non. Non e' una novita' dell'operazione irachena, denuncia infatti giustamente: e' embedded ormai tutto il giornalismo di palazzo, che della "collusione" con l'oggetto che dovrebbe liberamente indagare ha fatto la propria cifra. "La collusione e' uno strano misto di possibilita' di accesso, adulazione, servitu', attrazione", scrive Engelhardt. E il fatto e' che al giornalismo embedded si somma una visione del mondo a sua volta "profondamente embedded", cioe' a sua volta collusa con la collusione. Il giornalismo di guerra e' solo la continuazione del giornalismo politico con altri mezzi? * II. In nome dell'Occidente Nell'attesa della battaglia di Baghdad cominciamo a contare i cadaveri. Non quelli che giacciono sul campo e non si contano piu', ma quelli che pesano nelle teste. E il cadavere numero uno, il piu' ingombrante di tutti, quello fa piu' sporco il gioco della guerra e che minaccia di agitare il dopoguerra come il fantasma di Amleto agitava il regno putrescente di Danimarca, e' il cadavere dell'Occidente. Cioe' del vincitore. Vorrei rovesciare un discorso corrente, che promette in queste ore di diventare un alibi politico per quella sinistra moderata sempre in cerca di qualche via di ritirata. Il discorso recita piu' o meno questo: fatta come l'ha fatta Bush, questa guerra e' illegittima, violenta, sproporzionata. Tuttavia risponde, in modo sbagliato, a una questione fondata. Che sarebbe non solo la fine del regime di Saddam Hussein, ma anche e soprattutto la democratizzazione forzata dell'Iraq, e ancor di piu' la sconfitta di un islamismo che sta diventando la bandiera dell'internazionalismo anti-occidentale. Insomma, bisogna in ultima analisi stringersi a coorte a difesa dell'Occidente minacciato dallo scontro di civilta'. Come? Tentando di condizionare l'estremismo di Bush con la buona volonta' di Blair, e ricomponendo per questa via nel dopoguerra la frattura fra Europa e Stati Uniti che si e' prodotta con la guerra. Sottoscrivono questo ragionamento tutti i pasdaran del riformismo (blairiano), che con la parola "sinistra" evitano ormai di contaminarsi. Ma ad articolarlo con il dovuto corredo di toni e mezzi toni e' stato, su "Repubblica" di qualche giorno fa, Adriano Sofri - e chi oserebbe dubitare della patente di sinistra dell'ex leader di Lotta Continua? nessuno, come non ha mancato di far presente prontamente "Il foglio". Lasciamo perdere le patenti, che di questi tempi valgono quanto un certificato d'identita' scaduto, e veniamo alle intenzioni morali (e moraliste), che invece di questi tempi purtroppo abbondano e abbindolano. A sostegno della sua lealta' con l'occidente scritto minuscolo come vuole un sobrio minimalismo, Sofri ne avanza due: corresponsabilita' e solidarieta', due vincoli che dovrebbero legarci tutti, comunque vadano le cose e chiunque guidi la barca, alle nostre democrazie libere (tralascio la polemica sul metro di misura di questa liberta', che stavolta e' la liberta' delle donne di decidere non come vestirsi bensi' come pettinarsi: cfr. la guerra precedente in Afghanistan). Propongo di sostituire queste due obbligazioni morali con due sentimenti, che prendo a prestito dalle parole di una occidentalissima e americanissima filosofa come Judith Butler: vergogna e umiliazione. Vergogna e umiliazione sono quello che molti e molte di noi occidentali provano in queste settimane. E non, o non solo, per quello che l'Occidente, per il quale continuo a nutrire tanta affezione da continuare a scriverlo maiuscolo, sta facendo al popolo iracheno, ma per quello che sta facendo a se stesso: sfigurandosi in sostanza e in immagine, fino a diventare impresentabile. Che ne facciamo di questi due sentimenti? Non dubito che la logica binaria e strumentale che sempre si impossessa del mercato delle idee in tempi di guerra si affrettera' a sospingermi, per queste parole, nel campo filoislamico. Inutile depistaggio: e non solo perche' all'Islam non mi lega, non foss'altro che per i rapporti tra i sessi che lo abitano, alcuna particolare simpatia. C'e' dell'altro. C'e' che, a differenza di quanti civettano con lo scontro di civilta', e a differenza altresi' di quanti (a sinistra) sono tentati di ripristinare sul fronte mediorientale le dinamiche del bipolarismo che fu, io non credo che stia a Baghdad la trincea politica decisiva. Il mondo non e' piu' quello del Vietnam. E tanto rispetto la resistenza irachena, quanto sono convinta che non e' ad essa che possiamo delegare il nostro problema. E il nostro problema - per nostro intendo: degli occidentali che provano vergogna e umiliazione per le res gestae dell'Occidente - e' esattamente il rovescio di quello di Sofri e compagnia: salvare l'Occidente, si', ma non dai barbari bensi' dai suoi usurpatori. Sottrarre la bandiera della democrazia a leader eletti in forza di brogli, apatia politica e miliardi, la bandiera della liberta' a governi che ingabbiano la gente a Guantanamo, la bandiera dei diritti a sondaggi che equiparano i pacifisti ai terroristi, la bandiera del diritto a chi distrugge in pochi mesi mezzo secolo di diritto internazionale. E' questo panorama di macerie il problema di noi occidentali che abbiamo a cuore le sorti dell'Occidente, e a risolvercelo non sara' ne' la colla di Blair sui cocci dell'atlantismo, ne' d'altro canto la resistenza irechena. L'Occidente, che nella sua storia ha fatto tutto e il contrario di tutto, dalle rivoluzioni di liberta' a Auschwitz, e' un'idea molto spuria e tutt'altro che innocente, come dovrebbe essere diventato di senso comune dopo decenni di critica postcoloniale delle sue pretese universalistiche. Ma almeno questo dovrebbe avercelo insegnato: che quando il quartier generale diventa pericoloso, non lo si copre di solidarieta' ma si combatte, e in casa propria. 7. RIFLESSIONE. UNIONE CRISTIANA EVANGELICA BATTISTA D'ITALIA: DICHIARAZIONE SULLA GUERRA IN IRAQ [Ringraziamo Lidia Maggi (per contatti: lidia.maggi at ucebi.it) per averci inviato questa dichiarazione del comitato esecutivo dell'Unione cristiana evangelica battista d'Italia sulla guerra in Iraq, del 29 marzo 2003] Mentre ascoltiamo le notizie se pur frammentarie che provengono dai campi di battaglia aperti in Iraq dall'attacco anglo-americano, mentre le pagine dei giornali si riempiono di foto di corpi dilaniati, di padri e madri disperate, di palazzi sventrati, mentre cominciano a tornare in patria le prime bare di soldati occidentali e le strade polverose dell'Iraq si riempiono di cadaveri a migliaia, mentre l'odio, la paura e la violenza vengono seminati nella coscienza e nel cuore dei bambini iracheni, siamo qui a chiederci: come si poteva evitare tutto cio'? In che cosa il popolo della pace, mai tanto numeroso e visibile in ogni angolo del mondo, ha sbagliato? Dove hanno sbagliato i cristiani, mai tanto uniti nel dire il proprio no alle minacce di guerra, come in questo frangente? Come e' stato possibile iniziare una guerra senza tener conto del fatto che la popolazione irachena era gia' alla fame e i loro bambini avevano pagato un prezzo altissimo all'embargo per ben 13 anni? Come e' possibile oggi dichiarare giusta una guerra? Questa guerra? Una guerra in contrasto con l'Onu, che non risponde ad un'aggressione militare in atto e che pericolosamente mina un equilibrio gia' precario in una regione afflitta da grave instabilita' politica e sociale? Ma soprattutto, come invocare Dio mentre ci si prepara ad uccidere? Come dire che Dio lo vuole? Quale Dio? Una donna di antica saggezza disse un giorno al re Davide proprio per respingere la violenza come fonte di giustizia: "Noi siamo come acqua versata in terra che non si puo' piu' raccogliere, ma Dio non toglie la vita" (II Samuele 14, 14). Se mai citiamo Dio e la sua volonta' per il genere umano dobbiamo ricordare la sua supplica affinche' nell'alternativa fra vita e morte scegliamo la vita perche' ci sia futuro per noi e per i nostri figli (Deuteronomio 30, 19). Ma anche per i figli degli altri. Gesu' stesso disse ai suoi discepoli "Io sono venuto perche' abbiano vita e l'abbiano in abbondanza" (Giovanni 10, 10). Cristo crocifisso e' il volto della scelta di Dio di donare la vita, non di toglierla, di soffrire la violenza, non di farla. Nel settembre 2001, durante il convegno nazionale delle nostre chiese, restammo in silenzio e in preghiera, esprimemmo la nostra angoscia e solidarieta' alle vittime del terrorismo e al popolo americano. Oggi mentre e' in corso un'altra strage, ugualmente evitabile, foriera di altri lutti e di altre distruzioni, diciamo la nostra vicinanza a tutte le vittime e ai loro parenti. Diciamo la nostra volonta' e il nostro impegno perche' le armi cessino e si faccia di nuovo spazio al dialogo e alla trattativa diplomatica perche' smantellino in Iraq, ma non solo in Iraq, tutte le armi di distruzione di massa, perche' si dia soccorso alla popolazione stremata e si accolgano i profughi. Diciamo il nostro impegno perche' non si costruiscano piu' tali ordigni e ci sia rigido controllo per la commercializzazione di tutte le armi. Portiamo anche noi cristiani le nostre responsabilita'. Troppo tardi ci siamo accorti che la nonviolenza e' nel cuore della rivelazione di Dio, troppe bandiere nazionali hanno cancellato nella storia l'immagine di Dio nel volto dell'altro, troppo spesso abbiamo nominato il nome di Dio invano e la nostra preghiera si e' trasformata in bestemmia. Il futuro di tutti noi e' solo nella pazienza di Dio e nella sua capacita' di avere ancora pieta' di noi. 8. MAESTRE. ARUNDHATI ROY: L'ARGOMENTO DELL'AGO E DEL PAGLIAIO [Da Arundhati Roy, Guerra e' pace, Guanda, Parma 2002, p. 27. Arundhati Roy e' una celebre scrittrice indiana, impegnata contro il riarmo, in difesa dell'ambiente e per i diritti dei popoli. Opere di Arundhati Roy: cfr. il romanzo Il Dio delle piccole cose, Guanda, Parma 1997; poi in edizione economica Superpocket, Milano 2000; e i due saggi di testimonianza e denuncia raccolti in La fine delle illusioni, Guanda, Parma 1999, poi in edizione economica Tea, Milano 2001, poi recuperati poi nella piu' ampia raccolta di saggi di intervento civile, Guerra e' pace, Guanda, Parma 2002] Bruciare il pagliaio puo' aiutarvi a trovare l'ago? O servira' soltanto a far montare la rabbia e a rendere il mondo un inferno vivente per tutti noi? 9. RIFLESSIONE. ALI RASHID: L'OPPOSIZIONE ALLA GUERRA E' LA LEGITTIMA DIFESA DELL'UMANITA' INTERA [Dal quotidiano "Il manifesto" del 6 aprile 2003. Ali Rashid e' il primo segretario della delegazione palestinese in Italia. Fine intellettuale di profonda cultura, conoscitore minuzioso degli aspetti storici, politici, economici e culturali della situazione nell'area mediorientale, esperto di questioni internazionali, ed anche acuto osservatore della vita italiana. E' figura di grande autorevolezza per rigore intellettuale e morale, ed e' una delle piu' qualificate voci della grande tradizione culturale laica palestinese. Suoi scritti appaiono sovente nel nostro paese sui principali quotidiani democratici e sulle maggiori riviste di cultura e politica] E' un clima avvilente quello che diffondono i media, e' una Italia inedita quella che si vede in tv, fortunatamente non e' il paese reale, ma ci lascia inquieti. E' uno dei tanti effetti non collaterali di questa guerra che ha come bersaglio principale la parte piu' avanzata della cultura di pace e del diritto internazionale che molti, in Occidente, vogliono cancellare. E' una colossale campagna di propaganda e incitamento all'odio razziale e religioso costruita sulla menzogna che umilia milioni di donne e uomini vittime di circostanze politiche e storiche che hanno frenato il loro sviluppo economico, ma che non si sentono figli di una civilta' inferiore. Come si fa a disprezzare interi popoli al punto di crederli incapaci di avere una propria memoria? Peggio ancora, di scambiare questa mattanza per il dominio e la rapina, con un'operazione "chirurgica" per portare democrazia e liberta' mentre gli invasori vengono accolti con i fiori dagli assediati gia' messi alla fame? Solo le parole del papa e la fermezza della chiesa cattolica hanno impedito che questa guerra diventasse una guerra di religione come avrebbero voluto Bush e bin Laden, cosi' come la grande mobilitazione delle forze democratiche e progressiste in Occidente ha impedito di trasformarla in una guerra tra civilta' com'e' stata teorizzata dagli ideologi dell'amministrazione americana. La settimana scorsa gli abitanti di Jenin, hanno visto girare per il loro campo profughi strani "turisti": era una delegazione di ufficiali Usa per apprendere la tecnica usata dagli israeliani nell'assedio e l'occupazione delle citta' palestinesi. E' uno degli aspetti di cooperazione tra Israele e Stati Uniti che condividono un piano strategico teso a consolidare il loro dominio su tutto il Medio Oriente. Solo l'arroganza della forza ed il disprezzo d'ogni forma di diritto possono indurre una potenza ad agire con tanta superficialita', ma e' quello che Israele pratica da anni. Le nuove e le vecchie minacce alla Siria ed all'Iran, il pieno sostegno alla politica di Sharon contro i palestinesi, dimostra che Bush ha adottato in pieno le tesi della destra israeliana e dei suoi sostenitore nei circoli reazionari degli Stati Uniti rispetto al futuro della regione. Se e' vero che L'America possiede la forza di demolire l'Iraq sul piano militare, e' altrettanto vero che non avra' la capacita' di gestire il paese e la regione nella fase postbellica, sbagliando finora tutte le sue previsioni e incassando piu' d'una sconfitta politica. Perche'? Perche' sta destabilizzando un quadro geopolitico che aveva permesso proprio agli Usa di dominare l'area per quasi 50 anni. In Iraq ed in tutto il mondo arabo, ed in parte in quello islamico, e' iniziata con questa guerra una fase di resistenza politica, culturale e militare contro il piano di dominio americano. Si rafforzano, e' vero, in Medio Oriente da una parte le organizzazioni piu' radicali di matrice religiosa, pero' in assenza di guerra di religioni o di una nuova crociata - e questo grazie alla chiesa, apprezzata per questo anche dagli ambienti islamici piu' integralisti. Ma, dall'altra, grazie alla straordinaria mobilitazione democratica e pacifista, ecco che stanno emergendo nuove realta' e movimenti sociali e politici che si misurano con i contenuti della liberta', dell'emancipazione e del processo di liberazione nazionale incompiuto. A differenza del passato, ed a causa della divisione in Occidente tra la barbarie di chi vuole la guerra, e la civilta' di chi vuole la pace, oggi esistono le condizioni per una stagione di comunicazione che prima sembrava impossibile. Oggi vanno concentrati tutti gli sforzi per fermare la guerra ed impedire agli americani di raccoglierne i vantaggi, sapendo fin d'ora che raccoglieranno solo il disastro che hanno seminato: un paese balcanizzato e ingovernabile, una grande Striscia di Gaza. Cosi', augurarsi una vittoria rapida degli americani significa soltanto volonta' di salire sul carro dei vincitori e porre fine ad una straordinaria mobilitazione popolare che sta cambiando il modo di concepire l'impegno politico, trasformato negli ultimi anni (sia in Oriente che in Occidente) nel diritto esclusivo di una casta privilegiata. La tragedia che si consuma in Iraq coinvolgera' inevitabilmente altri paesi e popoli, il punto di partenza per fermarla e' la continua mobilitazione in Occidente contro la guerra, perche' si affermino i suoi valori piu' alti ed il riprestino della legalita' internazionale. Abbiamo, da parte nostra, il dovere morale e politico di opporre tutte le forme di resistenza possibile a questa guerra - tenendo possibilmente fuori la religione. E' una battaglia di difesa, ma legittima e doverosa, in attesa di restituire credibilita' alla politica ad al diritto internazionali umiliati da Bush e da Sharon. 10. APPELLI. YESH GVUL: FERMATE IL MASSACRO [Dagli amici della redazione di "Missione Oggi" (per contatti: e-mail: missioneoggi at saveriani.bs.it; sito: www.saveriani.bs.it/missioneoggi/) riceviamo e diffondiamo questo noto appello del gruppo pacifista israeliano Yesh Gvul (per contatti: www.yesh-gvul.org). "Yesh Gvul ('C'e' un limite!') e' un gruppo di pacifisti israeliani che si batte contro l'occupazione dei territori, appoggiando i refusenik: ovvero i soldati disponibili a far servizio nell'esercito, ma non nei territori. Dal 1982 - quando per la prima volta, durante l'invasione israeliana del Libano, ci si comincio' a chiedere che senso avesse quell'atto di aggressione - il numero dei refusenik ha continuato a salire: dai 168 soldati incarcerati ripetutamente vent'anni fa, ai quasi 200 in occasione della prima Intifada nel 1987, ai mille di oggi"] Fermate il massacro. Ponete fine all'occupazione. L'occupazione genera terrorismo. L'occupazione militare e' terrorismo. Quando ordinate o permettete esecuzioni extragiudiziali ("liquidazioni" in gergo militare), quando ordinate o permettete la demolizione di case abitate, quando fate fuoco sulla popolazione civile inerme o sulle sue abitazioni, quando sradicate frutteti, quando impedite gli approvvigionamenti di cibo o le cure mediche, state compiendo azioni definite dalle convenzioni internazionali (come la quarta Convenzione di Ginevra) e dalla stessa legge israeliana, crimini di guerra. Pensate che tali crimini siano giustificabili? Considerate giustificabile demolire case e distruggere le proprieta' di intere famiglie? E' giustificabile l'uccisione di bambini, donne, vecchi o, comunque, di civili inermi? Cosa sono questi territori "di sicurezza" che giustificano il ridurre alla fame interi villaggi e privare i malati delle cure mediche? Che genere di "sicurezza" puo' nascere dal coprifuoco e dall'assedio, dalla confisca delle terre, dall'impedire che la gente lavoro o studi, dall'umiliazione dei posti di blocco, dalle perquisizioni violente nelle case palestinesi? Ponete fine all'occupazione! Interrompete la catena di sangue! Ogni "liquidazione" (assassinio) prepara un atto terroristico. Il bambino che ferite oggi, sara' il terrorista di domani. Ponete fine all'occupazione. Fermate il massacro. Il mondo vi guarda. 11. APPELLI. WAR RESISTERS' INTERNATIONAL: A SOSTEGNO DEGLI OBIETTORI DI COSCIENZA ISRAELIANI [Dal Movimento Nonviolento (per contatti: azionenonviolenta at sis.it) riceviamo e diffondiamo questo appello della War Resisters' International (per contatti: e-mail: concodoc at wri-irg.org, o anche: info@wri_irg.org, tel. 442072784040)] Il comitato esecutivo della War Resisters' International, il network ultraottantenne di associazioni pacifiste che collega 90 affiliati in 45 paesi, ha espresso grave preoccupazione per la situazione degli obiettori di coscienza israeliani. La posizione e' stata espressa durante l'incontro che si e' tenuto a Londra nel week-end passato. Alla luce delle pene crescenti comminate agli obiettori israeliani, il comitato esecutivo fa appello al governo israeliano perche' riconosca il diritto umano all'obiezione di coscienza. Invita i movimenti pacifisti internazionali a sostenere gli obiettori israeliani, e a far conoscere la loro protesta contro le politiche di governo. Israele non riconosce il diritto all'obiezione di coscienza, che deriva dall'art. 18 della Convenzione internazionale sui diritti civili e politici, di cui Israele e' un firmatario. Nonostante questo, e in risposta al numero crescente di obiettori che rifiutano di arruolarsi, le autorita' israeliane stanno moltiplicando le condanne per i giovani refusenik. Ancora in violazione del diritto internazionale, gli obiettori di coscienza vengono incarcerati piu' e piu' volte - proprio di recente l'obiettore di coscienza Jonathan Ben-Artzi ha ricevuto l'ottava condanna, e Dror Boimel ha iniziato la settima. Allo scopo ulteriore di fiaccare la determinazione di questi giovani, le autorita' militari li stanno ora sottoponendo alla prova della Corte Marziale, nonostante abbiano gia' trascorso in cella oltre 150 giorni. Una corte marziale puo' condannarli per un periodo massimo di 3 anni. Jonathan Ben-Artzi e Dror Boimel saranno i primi. Un rapporto della War Resisters' International sull'obiezione di coscienza in Israele, recentemente sottoposto al Comitato sui diritti umani dell'Onu (e pubblicato in sintesi sul prossimo numero di "Azione nonviolenta" - ndt), elenca oltre 180 obiettori di coscienza incarcerati tra il settembre 2001 e il gennaio 2003 - in tutto, piu' di 6.500 giorni di carcere. La War Resisters' International chiede al governo israeliano: - di riconoscere il diritto all'obiezione di coscienza, e di approvare una legge al riguardo secondo gli standard stabiliti dalla Commissione Onu sui diritti umani nelle risoluzioni 1998/77 e 2002/45; - di rilasciare immediatamente tutti gli obiettori in carcere, e di posticipare la chiamata alle armi di quanti dichiarano la loro obiezione di coscienza al momento in cui ci sara' una legge in materia. La War Resisters' International invita con urgenza le organizzazioni affiliate, le altre organizzazioni pacifiste e ognuno di noi a: - esprimere la loro protesta contro l'incarcerazione di obiettori di coscienza scrivendo lettere alle ambasciate, ai militari e al governo di Israele; - sostenere gli obiettori di coscienza in carcere inviando loro lettere e messaggi; - prendere parte alla campagna della War Resisters' International a sostegno degli obiettori, che culminera' il 15 maggio con la Giornata Internazionale dell'obiezione di coscienza: organizzate azioni di protesta, manifestazioni, seminari, dibattiti pubblici, per aumentare la consapevolezza al riguardo e sostenere gli obiettori israeliani; - unirsi ad una delegazione della War Resisters' International come osservatori delle corti marziali che giudicheranno gli obiettori di coscienza. Il comitato esecutivo della War Resisters' International: Joanne Sheehan, Bart Horeman, Ellen Elster, Siva Ramamoorthy 12. RIFLESSIONE. AUGUSTO CAVADI: UNA CHIESA CATTOLICA PER GLI INDU' [Ringraziamo Augusto Cavadi per averci messo a disposizione questo suo articolo apparso nell'edizione palermitana de "La repubblica" il 26 marzo 2003. Augusto Cavadi e' docente di filosofia, storia ed educazione civica, impegnato nel movimento antimafia e nelle esperienze di risanamento a Palermo, collabora a varie qualificate riviste che si occupano di problematiche educative e che partecipano dell'impegno contro la mafia. Opere di Augusto Cavadi: Per meditare. Itinerari alla ricerca della consapevolezza, Gribaudi, Torino 1988; Con occhi nuovi. Risposte possibili a questioni inevitabili, Augustinus, Palermo 1989; Fare teologia a Palermo, Augustinus, Palermo 1990; Pregare senza confini, Paoline, Milano 1990; trad. portoghese 1999; Ciascuno nella sua lingua. Tracce per un'altra preghiera, Augustinus, Palermo 1991; Pregare con il cosmo, Paoline, Milano 1992, trad. portoghese 1999; Le nuove frontiere dell'impegno sociale, politico, ecclesiale, Paoline, Milano 1992; Liberarsi dal dominio mafioso. Che cosa puo' fare ciascuno di noi qui e subito, Dehoniane, Bologna 1993, seconda ed.; Il vangelo e la lupara. Materiali su chiese e mafia, 2 voll., Dehoniane, Bologna 1994; A scuola di antimafia. Materiali di studio, criteri educativi, esperienze didattiche, Centro siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato", Palermo 1994; Essere profeti oggi. La dimensione profetica dell'esperienza cristiana, Dehoniane, Bologna 1997; trad. spagnola 1999; Jacques Maritain fra moderno e post-moderno, Edisco, Torino 1998; Volontari a Palermo. Indicazioni per chi fa o vuol fare l'operatore sociale, Centro siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato", Palermo 1998, seconda ed.; voce "Pedagogia" nel cd- rom di AA. VV., La Mafia. 150 anni di storia e storie, Cliomedia Officina, Torino 1998, ed. inglese 1999; Ripartire dalle radici. Naufragio della politica e indicazioni dall'etica, Cittadella, Assisi, 2000; Le ideologie del Novecento, Rubbettino, Soveria Mannelli 2001. Vari suoi contributi sono apparsi sulle migliori riviste antimafia di Palermo. Indirizzi utili: segnaliamo il sito: http://www.neomedia.it/personal/augustocavadi (con bibliografia completa)] Domenica scorsa a Palermo, come in Sicilia (vedi manifestazione regionale a Sigonella) e nel resto del mondo, e' stato tutto un fermento di iniziative e incontri per contestare l'ipocrita guerra di Bush e per sollecitarne una chiusura piu' rapida possibile. In questo arcipelago di appuntamenti rischia di passare inosservata una manifestazione che invece, per molti motivi, avrebbe meritato una maggiore attenzione pubblica. Dalle 12 alle 20 in via Liberta' si e' assistito a una serie di canti, danze e preghiere per la pace realizzate da connazionali di varie provenienze etniche. Dai Tamil dello Sri Lanka a immigrati provenienti dal Bangladesh, dalle isole Mauritius, dall'India e dalla Persia. Che cosa accomuna uomini e donne cosi' diversi per il colore della pelle, per la lingua, per i gusti nell'abbigliamento? Il fatto di essere seguaci dell'induismo. So benissimo che nove lettori su dieci non hanno un'idea precisa di questa religione che pure per eta' e' la piu' antica del mondo e per diffusione fra le prime cinque del pianeta (neppure io l'avrei se, dopo la laurea in filosofia, non mi fossi dedicato per mio conto allo studio delle teologie): ma spero che, a differenza di tanti nostri compatrioti scalpitanti alla Bossi, concordino sul fatto che questa ignoranza non puo' addebitarsi agli induisti. Le persone di buon senso, infatti, indipendentemente dal proprio privato rapporto col Padreterno, auspicano da anni che l'insegnamento confessionale della religione cattolica (affidato a docenti scelti arbitrariamente dalla curie vescovili) venga sostituito nelle scuole dall'insegnamento aconfessionale della storia delle religioni (affidato a docenti scelti sulla base di graduatorie di merito culturale) in modo che atei e credenti occidentali guariscano dall'analfabetismo in proposito. Gia' il fatto che i membri di una religione politeista (che onora cioe' molti dei), con forti tinte panteistiche (che vede in tutti gli dei, ma anche nella natura e negli animali, la manifestazione di un'unica divinita' onnipresente), uniscano la loro invocazione di pace a quella dei seguaci delle tre religioni del Libro (ebrei, cristiani e islamici) e' un evento originale e significativo. Ma la manifestazione di Palermo era stata programmata da tempo con un intento specifico: la richiesta alle autorita' civili e religiose di un tempio per le celebrazioni liturgiche induiste. E questa richiesta, che va ben oltre le drammatiche contingenze storiche, non puo' cadere nel vuoto. Se aveva una qualche ragione il cardinal Martini, prima di lasciare la diocesi di Milano, nel ritenere che la differenza fra chi pensa e chi non pensa e' piu' decisiva della differenza fra chi crede (o crede di credere) e chi non crede (o crede di non credere), direi che i pensanti palermitani debbano ascoltare non solo la voce del cuore ma anche le indicazioni della ragione. Dare una casa di silenzio e di preghiera a una sempre piu' consistente minoranza religiosa, infatti, non e' soltanto un gesto di solidarieta' umana: e' anche, e direi soprattutto, una scelta d'intelligenza politica nel senso piu' alto e piu' lungimirante del termine. Non si tratta di esprimere "tolleranza" nei confronti di chi rivendica un diritto un po' bislacco: si tratta di capire che una metropoli puo' vantarsi di svolgere un ruolo internazionale di mediazione solo se, effettivamente e concretamente, sa ospitare le tradizioni religiose e culturali piu' diverse. Gia' e' strano, e mutilante, che Palermo pretenda di giocare il ruolo di cuore del Mediterraneo senza una sinagoga ebraica e con una moschea islamica soltanto (gestita per giunta da un'autorita' non unanimemente riconosciuta da tutti i cittadini islamici operanti in citta'): sarebbe un'aggravante se dovesse continuare a non prevedere uno spazio ne' per gli induisti (che lo chiedono in questa occasione, anche con manifesti sparsi per le vie) ne' per i buddisti (la quinta grande "filosofia religiosa" dell'umanita'). La richiesta dei fratelli induisti (i correligionari, tanto per citare a caso due nomi, di Gandhi e di Tagore) e' rivolta agli amministratori di Palermo: ma, nell'attesa che essi decidano e che traducano in atto la loro decisione, sarebbe un gesto profetico e "pacifico" se intanto l'arcivescovo della citta', cardinale Salvatore De Giorgi, affidasse agli induisti una delle tante chiese chiuse, o quasi, di cui ridonda il centro storico. Forse la decisione di raccogliere il desiderio legittimo di tanti concittadini priverebbe, almeno provvisoriamente, la comunita' cattolica di un tempio ma contribuirebbe, per il contraccolpo positivo, a ripopolare le altre cento chiese in progressivo abbandono da parte dei fedeli sempre meno praticanti. 13. MAESTRE. CHARLOTTE BRONTE: ACHAB E MICHEA [Da Charlotte Bronte, Jane Eyre, Garzanti, Milano 1974, 1980, p. 4. E' un passo dalla prefazione alla seconda edizione, datata 21 dicembre 1847. Charlotte (1816-1855) e' con Emily ed Anne una delle tre sorelle Bronte che hanno lasciato una cosi' forte impronta nella letteratura e nella cultura europea dell'Ottocento. Il suo capolavoro Jane Eyre e' ancora una preziosa lettura] Achab non amava Michea perche' gli prediceva non il bene ma il male; forse gli preferiva il sicofante figlio di Chenaana; e tuttavia Achab sarebbe forse sfuggito a una morte cruenta se avesse chiuso il suo orecchio all'adulazione e lo avesse aperto al consiglio sincero. 14. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 15. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti, la e-mail e': azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: lucben at libero.it; angelaebeppe at libero.it; mir at peacelink.it, sudest at iol.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it. Per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Per non ricevere piu' questo notiziario e' sufficiente inviare un messaggio con richiesta di rimozione a: nbawac at tin.it Numero 561 del 9 aprile 2003
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