Op Colomba: si ritorna a casa



 

Gerusalemme 01/04/2003
 
Si ritorna a casa. Tristi. Troppo in fretta. Prima del tempo.
Sarei dovuto essere l'ultimo “casco bianco” del mio gruppo a tornare e invece sono il primo.
Addio.
Vorrei che fosse un'arriderci ma ora è più difficile pensare ad un ritorno, in futuro, di quanto non lo sia non crederlo.
Lascio questa terra, che richiama alla santità, ma che è pregna di odio, di violenza, di bestemmia.
Addio Palestina. Usciamo e rientriamo dai “Territori Occupati” dove lascio a brandelli pezzi di me.
Saluto questa terra mentre mi sto preparando a tornare in quella dove sono nato e cresciuto, lasciando un paese, una cultura, persone, che mi hanno accolto come se non me ne fossi mai andato, come se fossi, al mio arrivo, già loro.
Non ho neanche il tempo di salutare tutte le persone che mi hanno cresciuto.
Non è sicuro.
Questo ha dell'incredibile, soprattutto considerando che avevamo deciso di vivere lo stesso pericolo anche in caso di invasione, di peggioramento e inasprimento delle rappresaglie israeliane, quando litigavamo tra noi se in emergenza assoluta dovessimo chiamare la macchina consolare oppure no.
E' ora di partire ed è una sconfitta, non solo morale.
E' perso un anno di presenza in una delle zone più degradate, misere e abbandonate di questo pianeta.
E' perso il senso di dignità ora che il mio privilegio di internazionale viene ad imporsi contro tutto quello che sento vero.
E' persa la possibilità di essere voce di questa gente in un momento in cui, grazie!! alla guerra in Iraq, il silenzio sulla Palestina e su come vive la gente qui, è ancora più opprimente.
E' persa la possibilità di salutare tutti coloro che mi hanno accolto, voluto bene e accompagnato nella comprensione di questo mondo.
Non ho voglia di scrivere. Ho voglia solo di piangere.
Piango.
Mi vengono in mente i volti, l'intensità degli sguardi e la fermezza delle strette di mani.
Le voci e le parole degli amici che sento di tradire.
Ricordo A. che continuerà a vivere ancora a venti metri dalle torretta israeliana.
I soldati che entrando in casa sua nel mezzo della notte gli dicono che sanno che lui è un brav'uomo e aggiungono quasi fosse una domanda retorica se ha amici italiani che lo vanno a trovare, che dormono ogni tanto a casa sua, quasi contenti perché siamo brava gente anche noi, non gli facciamo paura, non siamo temibili.
Ricordo la prima volta che l'ho conosciuto, quando ha sgridato pesantemente suo figlio M. perché cercava di dirci che lui odia gli ebrei (yahudi) facendoci segno come di sparargli.
A. lo ha preso a ceffoni perché bisogna rispettare la persona in quanto persona.
Prima di tutto l'uomo, il suo valore. La sua vita.
E noi ritorniamo in Italia.
Mi viene in mente F., sua madre, suo fratello, che vivono dall'inizio dell'Intifada sotto tende di palme sradicate e teloni di  plastica. La loro casa esisteva su quella che ora è "zona di sicurezza".
Ora tre famiglie vivono sotto tende da aia perché i coloni israeliani siano sicuri mentre transitano sulla Kussufim Road, dagli insediamenti a Israele e ritorno.
Penso alla mamma di F. che piangendo a causa del tentato sequestro, aveva deciso di andare con altre donne del villaggio a sfidare i nostri rapitori per "ucciderli" perché noi ce ne saremmo andati.
E noi ce ne andiamo.
Sento il sussurro della voce di E. (bimba di nove anni) che mi parla all'orecchio la sera che le ho regalato il mio cordoncino con appesa una colomba intagliata nel legno.
Ora la porta sua madre, la moglie di I.
Penso ad A. e A., le figlie di A. Non lettere del nostro alfabeto, ma bimbe di sei anni che ci fanno telefonare dal babbo per salutarci.
A O. che chiede di noi e vuole venire a vederci prima che partiamo, nonostante abbia la febbre e non possa uscire.
Penso ai ragazzi del centro. Per molti saranno solo delle iniziali, ma per me sono più che amici, sono fratelli.
Ad A. (hoppa hoppa, tekka tekka) e F., a quando, il giorno prima dell'omicidio di Rachel, ci hanno detto che metterci di fronte ai carri armati e ai buldozeer era stata una cosa stupida.
Ad A. e i suoi figli (N. e A.) che hanno una malattia rara delle ossa per cui sono estremamente fragili e si rompono come fosse niente. A loro che non possono andare a scuola, che non possono giocare, che vivono una vita ancora meno vita di tutti gli altri palestinesi.
Vivono anche loro a ridosso di una postazione militare israeliana e con la loro presenza insegnano al mondo, scrivendo la Storia, cosa sia quella cosa che noi chiamiamo nonviolenza.
Penso ai due S. che abitano entrambi a pochi metri dal blocco delle colonie di Katif e alla scritta che intima, flebile, "peace now" dal cemento grezzo delle mura esterne delle loro case.
Penso alle persone e qualcuna dimentico sicuramente di annotarla. Ma tutte occupano un posto in me.
Darei via il mio passaporto e il mio biglietto aereo pur di rivedere tutte le persone che quotidianamente venivano a trovarci a casa portandoci all'esasperazione perché non riuscivamo ad avere un momento per noi.
Penso a N. con cui ho condiviso, ospite a casa sua, la gioia della compagnia e la paura durante l'invasione e le esplosioni israeliane dell'undici gennaio scorso.
E ora me ne vado senza neanche vederlo.
Loro rimangono qui a soffrire, a strappare dignità da ogni giorno che Dio concede chiedendomi quando ma soprattutto se riuscirò a rivederli.
Lascio un villaggio che mi ha fatto da famiglia.
Penso a quello che abbiamo portato loro con la loro presenza, ma non riuscirò mai a sdebitarmi per ciò che loro hanno donato a me.
Piango lacrime che segnano più a fondo di ogni torretta, di ogni muro e di ogni reticolato.
Mi fa male ricordare ma è più doloroso non farlo.
 
"People live...people die.
 People laugh...people cry.
 Some give up...some still try.
 Some say hi! While some say bye.
 Others may forget you, but never will I!!"
 
Arrivederci.
Insh'Allah.
Lorenzo - volontario in servizio civile - "Casco Bianco"
 
I volontari dell'Operazione Colomba, che avevano deciso di riamanere nella Striscia di Gaza anche in caso di invasione armata, hanno dovoto lasciare momentaneamente il villaggio dove abitavano da circa un anno a causa di un tentato rapimento compiuto da uomini armati.
 
Comunità Papa Giovanni XXIII- Operazione Colomba Nonviolent Peace Corp