Dies iraq. Due



Dies iraq. Due
lanfranco caminiti [www.lanfranco.org]

L'attacco all'Iraq - indipendentemente da come si protrarrà la guerra,
dalla sua durata, persino dai suoi esiti e dal dopo guerra - segna
irreversibilmente lo scenario politico futuro del nostro mondo.
Complementare prosecuzione dell'invasione dell'Afghanistan, darà
contorni definitivi a una nuova "soggettività politica mondiale": il
fondamentalismo islamico e la sua jihad. Quella dell'attacco terrorista
dell'11 settembre.
E' questa la nuova vera "moltitudine miserabile": le masse arabe
disperate, frustrate, povere, invasate, distruttrici e autodistruttrici,
di Islamabad, di Peshawar o del Cairo, della Siria, dell'Indonesia o del
Sudan. Una marea montante di fanatismo religioso e politico, di odio
contro i simboli, le forme di vita, le espressioni, i sistemi del "mondo
occidentale". Se l'Iraq resisterà e impegnerà gli Stati uniti in una
guerra lunga e defatigante, con un prezzo alto in vite e lacerazioni
interne, si dimostrerà che "è possibile" battere l'Impero; se l'Iraq
crollerà presto, si dimostrerà che non c'è altra strada che il
terrrorismo, infliggere colpi ovunque e comunque. Una miscela di
indipendenza nazionale, rivendicazione e ridistribuzione delle
ricchezze, fede, che trova al momento in Al Quaeda l'imprendibile
paladino.
La chiesa di papa Woytila, la cui prensilità e sensibilità davvero
globale, planetaria, è ancora alta, più di tutti si è battuta e continua
a battersi con vigore contro la soluzione militare  e l'uso continuo
della guerra perché sta avvertendo in ogni angolo del mondo - in
particolare dove la sua presenza è minuta, minoranza - il crescere d'una
insofferenza, la rottura della tolleranza e della convivenza: gli
attacchi alle chiese si moltiplicano, gli attentati contro i fedeli si
intensificano. Sono i primi, preoccupanti, segnali di quello che
potrebbe accadere. I cattolici sparsi nel mondo sono a rischio e la cosa
non può lasciarci indifferenti, come toccasse a altri. E tutto il
processo ecumenico delle fedi su cui tanto ha investito papa Woytila,
con le sue visite al ghetto, con le sue visite agli ortodossi, con i
suoi incontri d'Assisi con mullah e dalai lama, rischia di diventare, in
breve tempo, solo fuffa.
La forma ancora bruta e brutale, grezza, rivoltosa, dolente e ringhiosa
con cui questa nuova soggettività si esprime [guardate i funerali nel
mondo arabo, come si somigliano; guardate l'empia soddisfazione accanto
i cadaveri degli "invasori bianchi", come si somiglia quando si linciano
soldati a Ramallah o si mostrano soldati morti a Bassora], lascia
pensare che tra il terrorismo di bin Laden [e la sua "macchina"
logistico-organizzativa] e queste masse non vi sia alcun rapporto
"politico": nessuna intelaiatura, nessuna ossatura che vi dia continuità
e forma, ma solo una crescente identificazione simbolica [i ritratti del
"califfo" issati per tutte le strade dell'islam].
Ma le cose non stanno proprio così: c'è una "intellettualità di massa",
cresciuta a Corano e sue interpretazioni [imam, mullah, gli uomini delle
madrassa, i combattenti] che costituisce l'ossatura e la "parola"
continua di questa rivolta. Questa intellettualità diffusa non viene
dalla carriera militare o diplomatica o dagli studi in Europa o di
"testi europei", non viene dalle università della Sorbona o di Mosca,
dalle Internazionali comuniste o socialiste [come era per Nasser e
Nyerere, per Ho Chi Minh, per Ciu-en-lai e persino per Pol Pot,  per
Franz Fanon o per Boumedien e Ben Bella, per Lumumba o per i dirigenti
dei movimenti di liberazione in Angola e Mozambico, personaggi e storie
politiche tutti diversissimi fra loro, a volte agli antipodi, ma "tenuti
insieme" dalla storia del novecento]. Qui invece non ci sono neppure le
parole per mediare, neppure i testi per concionare, dibattere,
argomentare. Non c'è nulla di "comune". Spesso è un'intellettualità
"armata", che conosce il valore del coraggio, della resistenza per
difendere e espandere la propria fede e le proprie ragioni. Non sono
"ceto medio riflessivo".
Il dio delle piccole cose di Arundhati Roy, il suo "combattente per la
libertà" della provincia indiana del Kempala sembra un contadino lucano
degli anni cinquanta, sventola le bandiere rosse in corteo, va alla
sezione del partito e litiga con l'ottuso e cinico segretario, partecipa
a scioperi di fabbrica e occupazioni delle terre: noi queste cose le
capiamo, noi capiamo Arundhati Roy quando parla ai forum di Porto
Alegre. E la capiscono i "sem terra" o i cocaleros. Capiamo Lula e
capiamo i cacerolazos argentini. Appartengono al "nostro" mondo. Si
battono come noi.
Tra noi e il fondamentalismo islamico invece non c'è nulla.
Questo fondamentalismo islamico è teocratico, reazionario, anti-storico
esattamente tanto quanto è "rivoluzionario": infiamma o mobilita
centinaia di milioni di persone e vagheggia un nuovo disegno geopolitico
dell'ordine mondiale, dell'ordine delle cose. Ha un programma semplice e
comprensibile da ognuno: "A morte gli infedeli".
Forse sottovalutiamo o non comprendiamo appieno il significato della
jihad. Non c'è "pace" per la jihad, non è previsto un processo di
interruzione della guerra santa. Qualcuno pensa davvero che basterebbe
il ritiro dei coloni dai territori occupati perché Hamas smetta gli
attentati e gli Hezbollah non lancino più i loro missili? Qualcuno
riesce a immaginare un incontro tra Andrea Ricciardi della comunità di
Sant'Egidio e bin Laden?
Il nemico di questa jihad è proprio ogni "spazio intermedio": come ogni
terrorismo, colpisce il nemico non tanto per il danno che può
infliggergli in un'economia di propri costi [che appartiene alla
strategia militare e alla concezione della guerriglia] ma per il valore
simbolico da capitalizzare all'interno del proprio campo di Agramante.
L'uccisione di Massud, il leone del Panshir, è esattamente uguale alle
centinaia di uccisioni che in Algeria si sono ripetute contro tutti
coloro che provano a interporsi in una posizione "mediana", di lotta
aperta ma con uno sguardo rivolto alle mediazioni, così come accade in
Egitto. Massud, come gli intellettuali o il ceto politico egiziano o
algerino che viene sgozzato dentro casa sono tutte figure che guardavano
all'Europa, a un suo ruolo possibile e a una propria "radice". E' la
stessa logica che guida gli attacchi suicidi a Gerusalemme e in
Palestina: spazzare via Arafat e l'Autorità palestinese, involucro senza
più sostanza e tenuto in piedi solo da un circuito esterno. Assumere per
intero su sé la "rappresentanza". E' questo il passaggio a cui punta il
fondamentalismo terrorista: la crisi dei governi arabi moderati nei
paesi dove cresce l'opposizione sociale. Mentre rimane sullo sfondo la
guerra contro il loro Satana, il mondo occidentale, l'obiettivo
ravvicinato di questa guerra sono i governi moderati arabi, i traditori,
gli emiri sauditi, i Musharraf, governi che tengono in condizioni
miserabili le proprie masse, corrotti all'inverosimile, con una politica
repressiva costante basata su arresti preventivi, chiusura di spazi
religiosi e civili, e in un processo di intensificazione. La capacità di
"resistenza" di questi governi è ridottissima, e solo l'aiuto esterno,
dei Blair, dei Bush permette loro di sopravvivere. Ma la loro "politica
di governo" non si modificherà d'un millimetro, essi sono per natura
repressivi, corrotti: il governo sociale gli è in buona parte sfuggito
di mano, minato alla base dallo sviluppo impetuoso d'una frustrazione
sociale alimentata dal fondamentalismo. Non sono solo canaglie per conto
d'altri, sono canaglie in proprio. D'altro canto, abbiamo già visto
quali sono i risultati della "esportazione" della democrazia: quando il
Fis accettò le elezioni in Algeria e le vinse a man bassa, si scatenò la
guerra civile. Cosa accadrebbe in Pakistan se un nuovo partito islamico
vincesse le elezioni, e in Afghanistan?
E' stato detto che a fronte dell'impero c'è la potenza di una opinione
pubblica "globale". Il movimento a me sembra "globale" in senso
abbastanza relativo, è globale per quel che in questo momento ha
caratteristiche di similarità, nel mercato, nelle forme di vita e di
lavoro e persino nella rappresentanza politica, e qui sicuramente le
caratteristiche sono quanto mai simili: forse solo verso la fine
dell'ottocento e l'inizio del novecento c'è stata questa "simiglianza di
movimento" fra le due sponde dell'Atlantico. E in un momento in cui
anche l'Europa dell'est è tornata a essere "europea". Ma questo mentre
si va approfondendo la frattura con il "resto" del mondo, quello
islamico in primo luogo, quello dell'Africa profonda. Le "province"
dell'impero sono in rivolta, in fiamme. Vi vengono inviati centurioni e
consoli.
Sto dicendo una cosa terribile: la non violenza del movimento - la
scelta "politica", non quella di fede o personale, pronta anche al
martirio - è "garantita" dalla violenza dell'impero, da quella stessa
violenza contro cui si batte. Perché nella battaglia dei Gracchi e
persino nelle guerre civili di Mario e Silla la "questione" era la
distribuzione dei poteri e il loro bilanciamento, la questione era la
rappresentanza politica, mai erano in discussione i confini di Roma.
Furono in pericolo, mai in discussione. Mario e Silla si contendevano la
testa di Mitridate, re del Ponto. Così, a petto di questa "doppia
rivoluzione" [quella del riordino dell'impero, della guerra da un lato e
del terrorismo dall'altro], posizioni conservative assumono profili
radicali: vale per la Francia, per la Germania, per chi chiede di ridare
sostanza all'Onu, come per i sindacati e gli ultra-riformisti europei o
per ambienti repubblicani americani.
Eppure, questa contraddizione terribile è l'unica strada praticabile.
Contro la guerra e contro il terrorismo, contro l'impero e contro il
fondamentalismo, contro l'Europa e contro i governi repressivi e
corrotti del mondo. Con la stessa intensità e con la stessa nettezza, se
si vuol "guadagnare spazio".
Si è sorriso alla demenza o ci si è allarmati per capirne i risvolti
logistici, ma l'attenzione dei nuovi terroristi italiani all'esplosione
islamica [e all'attacco dell'11 settembre] ha invece una sua deforme
logica interna. I nuovi terroristi e bin Laden hanno molte più cose in
comune di quanto si possa credere a prima vista: una nemicità "di fede",
senza alcuna possibilità di mediazione, con il nostro mondo. Dal mercato
alla "nuova scienza", dal capitale agli scioperi, dagli sprechi alla
rappresentanza politica.
Non ci saranno qui forme massicce di affascinazione, ma situazioni di
"follia metropolitana", impazzimenti individuali in condizioni ai
margini, espulse, possono dare origine a episodi inquietanti e
terribili: lo sniper dello stato di Washington sembra la "matrice" del
giovane soldato che lancia le granate nelle tende dei commilitoni in
Iraq: entrambi negri, entrambi soldati, entrambi pieni di un furore
inestinguibile e incomprensibile. Senza parole, appunto.
Essere "un po' più" disobbedienti non cambia la sostanza delle cose e
semmai la deforma pericolosamente. La non violenza, la disobbedienza, il
movimento, appartengono alla dialettica politica del "nostro" mondo,
alla distribuzione dei poteri e al loro bilanciamento. Out there, là
fuori, c'è qualcosa d'altro. Di incommensurabilmente altro.

Roma, 26 marzo 2003