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Fw: [Lettere.da.bagdad] articolo di mario
- Subject: Fw: [Lettere.da.bagdad] articolo di mario
- From: "Crt Bonate - casella vecchia" <crt.bonate at ospedale.treviglio.bg.it> (by way of Carlo Gubitosa <c.gubitosa at peacelink.it>)
- Date: Tue, 18 Mar 2003 18:01:18 +0100
----- Original Message ----- From: <squilibrato2 at inwind.it> To: "lettere.da.bagdad" <lettere.da.bagdad at epicuriosi.org> Sent: Sunday, March 16, 2003 6:11 PM Subject: [Lettere.da.bagdad] articolo di mario vi invio l'articolo fatto da mario, mio compagno di sventura apparso sul corriere ciao alfredo Rodrigo, fotomodello argentino che vive a Milano, è ancora lì. E' l'ultimo arrivato nella casa dentro la raffineria a sud di Bagdad e ora fa compagnia ad Alfredo, un viaggiatore bergamasco che era in vacanza in Giordania quando ha deciso di diventare scudo umano. Forse per la prima volta centinaia di persone comuni lasciano i figli, il lavoro, l'affitto che corre e si spostano là dove le bombe dovrebbero cadere. Convinti che così si possa fermare una guerra annunciata. E' questo lo scopo di «Human shields», nome collettivo che indica tutti gli individui, diversi per età, provenienza, motivazioni e sensibilità, passati per Bagdad. Alcuni di loro non si sono nemmeno conosciuti, non si sono mai incrociati per le strade della capitale dell'Iraq, eppure sono tutti Human shields, chi è rimasto laggiù un mese come chi è appena arrivato. Qui c'è la loro storia. O almeno, una delle tante possibili da raccontare dopo aver vissuto quattro settimane in mezzo a loro. 6 FEBBRAIO Mille dubbi sulla strada verso Bagdad La sala conferenze di Istanbul è piena di troupe e taccuini. I giornalisti vogliono parlare con gli scudi umani. Ascolto domande e risposte e intanto mi chiedo se ci sia più coraggio nel cuore di quel presidente che sceglie di dichiarare una guerra o in quello di Roberta, la nonna canadese che ai microfoni delle tv sta dicendo: «Noi siamo le famiglie del mondo e tutte insieme possiamo fermare il conflitto». Dubbi e incertezze, del resto, sono i compagni di viaggio delle prime quattordici persone partite sotto le insegne di Human shields. Pacifisti che potrebbero trovarsi a recitare un ruolo in una guerra. 10 FEBBRAIO Al confine con l'Iraq Sulla jeep, correndo verso dove finisce la Siria, si ascolta Franco Battiato. E non si parla quasi più mentre si avvicina il confine con l'Iraq. Lo specchietto inquadra i fari delle nostre auto in colonna, pastori beduini e greggi di pecore che sanno brucare il deserto. Dopo 9 giorni di viaggio siamo a 600 chilometri da Bagdad: raggiungerla in macchina dall'Italia è stato come vivere in un documentario. Il rettilineo finale è in apnea: là in fondo sapremo che cosa siamo venuti a fare davvero. Che cosa ci aspetta in questo Paese che viene descritto come ostile, difficile, schiacciato da un regime così forte che, teme qualcuno, potrà disporre di noi a suo piacimento. 12 FEBBRAIO Ospiti del regime? A Bagdad per noi ci sono camere riservate in un hotel lungo il Tigri. Paga l'Associazione per la pace la solidarietà e l'amicizia, una Organizzazione non governativa irachena (sempre che qui esista davvero qualcosa di simile) che si occupa delle delegazioni di scudi in arrivo. La cosa presenta rischi evidenti. Rifiutando si offenderebbe l'ospitalità mediorientale (magari mista alla legittima necessità di esercitare un controllo su di noi). D'altro canto, è facile immaginare i titoli dei giornali: «Scudi umani ospiti del regime di Saddam». Basterebbe guardare in faccia i miei compagni di viaggio per sapere che sarebbe un trattamento ingiusto. «E' assurdo che siamo proprio noi, venuti fino qua, a doverci giustificare», si ribellano loro. Ma il problema è reale, proprio come quello posto dalla propaganda del raìs che pare intenzionata a sfruttare la presenza di occidentali quaggiù. La soluzione: donare ai cittadini iracheni, di gran lunga la parte migliore del Paese, i soldi che non saranno spesi per l'albergo. 13 FEBBRAIO In diretta su RaiTre L'arrivo degli scudi umani in città non passa inosservato. I giornalisti vogliono conoscere le loro storie, sapere cosa li ha spinti a partire. Cercano, invano, paura e vocazione al martirio. Giovanna Botteri, inviata di RaiTre, vuole quattro italiani per un collegamento in diretta con Roma. Quando li presenta come «pronti a morire» questi strabuzzano gli occhi e si lasciano andare a gesti scaramantici rimasti fuori dalle inquadrature. La serata è l'occasione per una visita dietro le quinte dell'informazione di guerra. Le televisioni, regine dei media, trasmettono dagli studios più scassati che si siano mai visti. Il luogo dal quale sarà raccontato il conflitto, quando e se scoppierà, è una favela costruita sul tetto di un edificio fatiscente. Resti di cibo vicini a generatori, tappeti persiani e sedie da camping dentro baracche di plastica, tecnici e giornalisti che parlano in tutte le lingue del mondo. Si sente l'inviato della Cnn turca che annuncia: «A settembre apriremo un nostro ufficio qui in Iraq, abbiamo già trovato il responsabile». Non solo la guerra la dà per scontata: lui l'ha già vinta. 15 FEBBRAIO Due cortei per la pace Questo giorno lo aspettavamo con ansia. Il mondo protesta contro la guerra, noi però siamo quelli che sfileranno a Bagdad. Giovanni, professore in pensione di Mantova, arriva in corteo con un cartello al collo. C'è scritto: «Primum vivere». Diventa il motto del gruppo. Perché qui nessuno vuole morire, ma nemmeno limitarsi a sopravvivere da indifferente. Dicono tutti: «Per una volta abbiamo spento la tv e deciso di fare qualcosa». Il corteo dei pacifisti «stranieri» è al mattino: 120 persone - la metà dall'Italia - marciano con bandiere arcobaleno e striscioni contro l'embargo. Nel pomeriggio tocca agli iracheni: bimbi di 3 anni in mimetica e basco hanno il mitra di legno in una mano e il Corano nell'altra. Davanti ai fotografi fanno il saluto militare e baciano foto di Saddam. 18 FEBBRAIO Chiacchiere irachene Con il passare dei giorni i controlli si allentano e gli occidentali cominciano a muoversi liberamente per la città. Usano un «lasciapassare» fatto di tre parole: «Nacnù drue basharia». In arabo vuol dire «noi siamo scudi umani» ed è una frase che gli iracheni hanno ascoltato per centinaia di volte, pronunciata con improbabili cadenze norvegesi, anglosassoni o spagnole. C'è chi porta la mano destra al cuore, per ringraziare, e chi ride. C'è anche qualcuno che chiede: «Che cosa siete venuti a fare?». Nella mensa di scienze politiche si conversa con gli studenti. «La guerra con l'Iran? Ci hanno attaccato e dopo 12 giorni l'Iraq ha risposto - assicurano -. E' scritto così nei nostri libri di storia». Fuori, per strada, si incontra Alì. E' un tassista, un reduce, un monarchico, veste all'occidentale o in sandali e kefiah, perché Alì è il nome usato dagli iracheni che non vogliono dirti quello vero. Ma che, assunta questa identità, parlano anche di argomenti «pericolosi». Alì, soggetto multiplo della dissidenza irachena, è capace di sintesi fulminanti: «L'esercito di Saddam è troppo forte per noi e troppo debole per Bush». Con tre amici al caffè Shebander, vicino al mercato dei libri, si parla di ragazze. Ne vedono una sulle pagine di una vecchia rivista italiana e sospirano: «I need this», ne ho bisogno. 22 FEBBRAIO Uno striscione sul Tigri «Bush, il mondo ti sta guardando», dice lo striscione che gli scudi umani hanno appeso a un ponte sul Tigri. Lo osservano dal basso, seduti sugli argini del grande fiume, quando Karl Dallas, un signore dello Yorkshire che pare clonato dal fumetto Andy Capp, toglie la chitarra dal fodero e inizia a cantare. «We shall overcome, we shall overcome...». Si forma un cerchio di persone che ballano mano nella mano. Tra ragazzi scandinavi e bimbi iracheni in divisa da calcio, attratti dal suono dei bonghi, c'è un uomo in giacca e cravatta: la nostra guardia ha «disertato», chiusi gli occhi ha iniziato a danzare. 28 FEBBRAIO «Ora fate quello per cui siete venuti» Oggi mister Al-Hashimi, referente iracheno per gli scudi umani, li ha convocati tutti in una sala del Palestine Hotel. Il solito incipit: «Miei coraggiosi e nobili ospiti...». Poi cambia tono: «Non venite a dirci quello di cui abbiamo bisogno. Se scoppia la guerra le scuole saranno chiuse e negli ospedali dareste fastidio. Quindi vi chiediamo di presidiare i siti che abbiamo individuato con voi: centrale elettrica, impianto di purificazione per l'acqua, raffineria, magazzino di cibo. E' il momento di fare quello per cui siete venuti: da oggi nessuno starà più negli hotel. O negli obiettivi o a casa». E' la prima volta che riceviamo un ordine così netto. Qualcuno però non si arrende: gli spagnoli insistono per gli ospedali. «In Spagna milioni di persone sono pronte a scendere in piazza - dice Pancho -. Ma si aspettano di vederci dormire negli ospedali. Autorizzateci, è nel vostro interesse». Nulla da fare, finisce in lite. 3 MARZO Vita, amore e politica nella raffineria Faccio parte degli scudi che hanno scelto la raffineria. Nel '91 la bombardarono ed è un sito un po' pericoloso. Però abbiamo una casa confortevole, vicina a quelle dove vivono gli ingegneri e le loro famiglie. Alla sera Alfredo carica il narghilè. Si fuma tabacco alla mela attorno ai resti della cena. C'è Salih, un curdo nato in Iran: ha 25 anni e a Istanbul, dove abita adesso, guida una Porsche. Insomma, è ricco. Però sta qui con noi, vive in raffineria, e per gioco maltratta Marta, che per venire a Bagdad ha interrotto un Phd in sociologia all'università di Lubiana. E' uno degli amori nati fra gli Human shields. Vivranno forse solo lo spazio di pochi giorni. Non si potranno dimenticare mai. In salotto, intanto, si discute di politica. La visione di John, giornalista-attivista americano, 63 anni, benda da pirata sull'occhio sinistro e 4 libri sul Chiapas all'attivo: «Abbiamo insegnato al popolo iracheno che cos'è la democrazia. Forse anche come fare la rivoluzione». La visione di Guillermo, indipendentista catalano, che ha 35 anni e ne ha trascorsi 8 nelle galere spagnole, condannato per lotta armata: «Dobbiamo essere imparziali. E' inutile venire qui per la pace e poi criticare Saddam. Gli iracheni hanno il diritto di scegliere i propri governanti». Ma poi aggiunge: «Certo che se l'Iraq lasciasse avanzare gli yankees nel deserto, sempre più in profondità, e poi li accerchiasse con una manovra a tenaglia...». L'imparzialità va a farsi benedire e lui ride: «E' incredibile che qui come simbolo pacifista ci sia proprio io». 4 MARZO Un meeting degli scudi «Noi restiamo, anche sotto le bombe». Inizia con questo intervento di un gruppo di femministe anglosassoni uno dei tanti dibattiti fra gli scudi. Il clima è cambiato: da un lato la guerra ci sembra vicina, dall'altro gli ultimi arrivi non hanno giovato alla coesione del gruppo. «Questi sono invasati», commenta qualcuno. E adesso c'è chi si accusa a vicenda: «Tu non sei un vero scudo, non sei pronto a morire». Oppure: «Lo so, tu sei della Cia». E ancora: «Tu informi i servizi iracheni». Il brutto è che nessuno può escluderlo. Per questo e per qualche reciproca difficoltà di rapporto fra noi e gli iracheni ci si chiede se smobilitare. Parla Tolga, un turco di 36 anni, ex dirigente di Greenpeace a Istanbul. «Se la guerra comincia - è il suo punto di vista - il nostro compito sarà terminato. Restare senza più libertà d'azione né di movimento sarebbe inutile e pericoloso». La pensa così anche Kenneth O'Keefe, l'ex marine che ha lasciato l'esercito Usa, ha strappato il suo passaporto, e si è messo alla testa degli Human shields venuti da Londra. Ken è una specie di Cristo postmoderno, porta vestiti arabi che gli arrivano fino ai piedi e tutto quello che vedi di lui sono i tatuaggi e gli occhi un po' languidi. E' poco concreto ma in buona fede e di certo è un sognatore testardo: «Vogliamo un mondo migliore, senza guerre decise da leader che non rappresentano tante persone. Oggi abbiamo fallito, perché non siamo in migliaia e perché gli iracheni non hanno saputo collaborare con noi. Ma la prossima volta, in Palestina, andrà meglio». 6 MARZO Espulsi 5 Human shields E' la seconda volta che Al Hashimi convoca i suoi «nobili e coraggiosi ospiti». Che ormai sono pronti al peggio. «Cinque di voi stanno cercando di prendere il comando dell'intero gruppo, pretendono di essere i vostri rappresentanti, anche se non hanno l'autorità per farlo. Rischiano di pregiudicare la vostra missione, perciò abbiamo deciso che devono lasciare il Paese. Hanno violato le regole della casa che li ospita e non sono più graditi. E anche i vostri meeting: sono troppi e dannosi». I cinque sono Tolga, il turco, Ken, l'ex soldato, John, «il pirata», Eva, una giovane mamma slovena, e Gordon, australiano. Tra loro ci sono due dei portavoce che gli scudi si erano scelti e alcune delle persone che tenevano unito il gruppo. «Ci vogliono divisi e manipolabili», è il tono dei commenti. 9 MARZO Si torna indietro Dopo quello che è successo negli ultimi giorni e dopo lunghe settimane di Iraq, in tanti ritornano a casa. Il mio gruppo si muove al tramonto a bordo di un pullman: ci sono lacrime e baci con quelli che restano, poi si punta su Amman. Al confine l'Iraq ci mostra la sua faccia più brutta. Le perquisizioni durano quasi 10 ore, dalle 2 di notte alle 11 del mattino dopo. Il contenuto di ogni zaino viene scaraventato su un tavolo di pietra, ogni libro setacciato pagina per pagina, ogni contenitore aperto e ispezionato. Ridacchiando, ammiccando, scrutando per cogliere reazioni di stizza o paura, le guardie osservano per interi minuti oggetti come una pila o un fermacapelli. C'è qualcosa di volgare in questo sfoggio di autorità che culmina nel sequestro di tutti i rullini fotografici e dei filmati. Alla fine arriviamo in Giordania. Nell'hotel Al-Saraya aiutiamo chi aggiorna la lista degli scudi rimasti in Iraq. Studenti a un passo dal dottorato, reduci degli anni Settanta, professori in pensione, musicisti, e Marta che sta finendo un quadro da mandare a Bush. Anche questa mattina si sono svegliati a Bagdad perché la città non venga bombardata. mario da corriere della sera _______________________________________________ Lettere.da.bagdad mailing list Lettere.da.bagdad at epicuriosi.org https://lists.xsec.it/cgi-bin/mailman/listinfo/lettere.da.bagdad
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