[MEDIA] il mercato nero dell'informazione





      Liberazione 21.02.2003
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      John Rendon e la macchina Usa per vendere la guerra
      Al mercato nero della propaganda

di Daniele Zaccaria

      Come vendere l'America al mondo? Una domanda dal retrogusto demenziale
per coloro che ignorano l'esistenza di John Rendon. Il «guerriero
dell'informazione», come ama farsi chiamare dagli intimi, di mestiere fa
proprio questo, il venditore del logo Usa in tempi di guerra. Una specie di
piazzista globale, che però agisce meticolosamente nell'ombra ed è da
decenni sul libro paga della Cia. Un venditore clandestino che smista la sua
merce al mercato nero. «Curo le pubbliche relazioni del governo- spiega con
innocenza- coordinando l'attività dei vari portavoce affinché passi un solo
messaggio».
      Da vent'anni a questa parte quando il Pentagono pianifica un
conflitto, mette a punto un operazione più o meno sporca in terra straniera,
oltre a truppe e mezzi militari chiama a rapporto anche lui, il responsabile
della «propaganda clandestina». Dal Nicaragua, dove doveva «demoralizzare i
sandinisti» a Panama per detronizzare l'ex protetto Noriega, dall'isola di
Haiti, dove ha preparato l'insediamento del dittatore Aristide (suo amico
personale), ai Balcani per persuadere la popolazione della giustezza dei
bombardamenti alleati. Ma, da più di tredici anni, il pallino di Rendon è
l'Iraq, dove ha già prestato servizio durante la prima guerra del Golfo,
sempre nel ruolo di "public relation". Quando i marines americani entrarono
con i carri armati a Kuwait City, suggellando la liberazione dell'emirato,
trovarono ad accoglierli migliaia di persone con le bandierine a stelle
strisce che urlavano entusiaste "Bush, Bush": indovinate chi si era occupato
della direzione artistica? «Fa parte del mio lavoro», disse sfrontato ai
giornalisti che gli chiedevano come aveva fatto la popolazione civile a
procurarsi gli sfavillanti gadget.

      Lo scorso luglio, rivela il quotidianoNew York Times l'amministrazione
repubblicana decide di lanciare l'offensiva mediatica contro Saddam Hussein,
un'offensiva «dall'ampiezza fuori dal coune». A Rendon viene chiesto di
prendere in mano le redini del gioco e di onorare la sua fama di
disinformatore di professione. E' necessario persuadere l'opinione pubblica
mondiale sulla necessità di rovesciare il regime di Baghdad. E per far
questo, bisogna dipingere lo stato del Golfo come una costante minaccia
planetaria, istituire costi quel che costi, legami tra Saddam e gli
attentatori dell'11 settembre. Il baffuto rais e il barbuto Osama Bin-Laden
come artefici del medesimo diabolico disegno: la distruzione degli Stati
Uniti e dei loro alleati occidentali. Ma non è tutto; l'intossicazione
mediatica può anche scivolare su sentieri grotteschi, al limite del
tragicomico: come la divulgazione di un' improbabile intervista ad un'amante
di Saddam, che racconta, con dovizia di particolari, come il dittatore sia
un impotente, frenetico consumatore di Viagra. Cosa non si farebbe per far
digerire al mondo una dottrina impopolare come quella della guerra
preventiva. E se il mondo non si convincesse della rettitudine di quella
dottrina, se le società civili non se la sentissero di comprare il prodotto?
Niente paura, tra le numerose funzioni svolte da Rendon vi è anche quella di
animare l'"Office of strategic influence" (Osi), un ufficio che si occupa di
manipolare clandestinamente l'opinione pubblica nei paesi amici, prezzolando
editori, giornalisti della stampa e della televisione, ha svelato ancora il
New York Times. La pubblicazione di queste informazioni ha suscitato un
discreto scandalo, tanto che è dovuto intervenire il Segretario alla Difesa
in persona, il "falco" Donald Rumsfeld, per annunciare agli americani, lo
scorso novembre, la chiusura dell'Osi: «Volete seppellire l'ufficio, va bene
fate pure, vuol dire che continuerò io stesso quel che c'è da fare». Poiché
l'Osi compie attività segrete le dichiarazioni di Rumsfeld lasciano il tempo
che trovano e infatti nessuno gli ha creduto. Anche perché, come direbbe
Omero, Rendon è «uomo dal multiforme ingegno».

      Il dossier presentato dal Segretario di stato Usa Colin Powell al
consiglio di sicurezza, in cui si "dimostrava" la presenza di armi di
sterminio in territorio irakeno, è stato coordinato e confezionato proprio
da lui, che all'occorrenza si trasforma in cineasta d'assalto, in
fotoreporter di battaglia, in abilissimo Hacker. Uno che «risolve problemi».

      Ma i servizi di Rendon vanno ben al di là del semplice marketing
guerresco. Il fantomatico "Comitato per la liberazione dell'Iraq" (definito
dai maligni "Comitato per l'invasione dell'Iraq") che ha sede a Washington,
una lobby che organizza per la stampa colazioni con i vertici del Pentagono
e briefing con "esperti" del Medio Oriente ovviamente favorevoli
all'intervento, è ad esempio una sua creatura. Tra i suoi esponenti si
trovano le figure più radicali della destra repubblicana, come il razzista
Newt Gingrich, il vicepresidente della multinazionale delle armi Lockheed
Bruce Jackson o lo scrittore neo-reazionario Wiliam Kristol. Sua creatura
era anche il comitato dei "Cittadini per un Kuwait libero", fondato nel 1990
pochi mesi prima del conflitto e che all'epoca si occupò della diffusione di
finti reportage in cui esercito irakeno uccideva barbaramente dei neonati
kuwaitiani. Un bidone certo, ma un bidone che si rivelò efficace.

      La "strategia dei comitati" perseguita con ardore dalla classe
dirigente repubblicana non si esaurisce però nel mero sostegno alle
operazioni di guerra. Il "Comitato per l'espansione della Nato" è l'ultimo
degli arrivati ma non per questo sfigura nel bieco campionario del lobbysmo
mediatico. Il suo scopo è screditare tutti quei paesi (come, guarda caso, la
Francia) che si oppongono all'estensione dell'Allenza atlantica agli ex
membri del Patto di Varsavia oggi tra i più ferventi ammiratori delle
politiche di Bush.

      Corrompere, manipolare, persuadere, intossicare, ogni mezzo sembra
lecito per ampliare l'influenza dell'impero.