ANNI NOVANTA: LA RESTAURAZIONE DI FINE SECOLO (di Raniero La Valle)



IL FATTO E IL COMMENTO


ANNI NOVANTA:
LA RESTAURAZIONE
DI FINE SECOLO

RANIERO LA VALLE



Pubblichiamo ampi stralci dell'intervento che l'autore ha fatto al
Tribunale permanente dei popoli (Roma, 14-16 dicembre). Giunto ormai alla
sua 31ª sessione, quest'anno esso s'intitolava: il diritto internazionale e
"le nuove guerre".

Avrebbe dovuto essere, come l'aveva proclamato l'Assemblea generale
dell'Onu, il "decennio del diritto internazionale", ed è stato invece il
decennio in cui è stata ripristinata la guerra come mezzo ordinario di
governo del mondo.

La novità è che l'America si pone come altro dall'Occidente. Non sta più da
una parte del mondo, ma sta sopra il mondo come sovrano universale di una
geografia globale di cui lo stesso Occidente è solo una parte.

Come spiegò Brzezinski, esponente dell'establishment americano, in un
colloquio di fine millennio a Castelgandolfo alla presenza del Papa, non
c'è altra alternativa che l'America all'anarchia globale.

È difficile tenere accesa la speranza quando il diritto è sconfitto, e lo
si viene a sapere. Il vecchio Papa ha parlato perfino di un "disgusto" di
Dio. Però la speranza sta proprio nel fatto che il diritto c'è stato.


Ci sono governanti che formulano pensieri apocalittici: la "passeggiata" di
Sharon sul Monte del Tempio, a cui i pii ebrei pensavano di tornare solo
alla fine dei tempi, l'idea di Bush di liberare il mondo dal male.


 L'ultimo decennio del Novecento, che non è un secolo breve se non viene
amputato dagli storici, è stato un decennio che si è posto in netta
discontinuità con la storia del dopoguerra. È stato il decennio delle
speranze frustrate, il decennio che avrebbe dovuto essere quello della
distribuzione dei dividendi della pace e della costruzione di un ordine
unitario del mondo dopo la rimozione del muro di Berlino e la fine dei
blocchi, ed è stato invece un decennio di grande disordine e di nuove, più
gravi divisioni. Avrebbe dovuto essere, come l'aveva proclamato l'Assemblea
generale dell'Onu, il "decennio del diritto internazionale", ed è stato
invece il decennio in cui è stata ripristinata la guerra come mezzo
ordinario di governo del mondo, tanto che dal 1991 al 2001 si sono
addirittura celebrate tre guerre che, se viste nella continuità dei
soggetti che le hanno intraprese e nella logica che le accomuna, sono in
realtà un'unica guerra, probabilmente destinata a prolungarsi
nell'annunciata guerra contro l'Iraq.
Per capire come ciò sia potuto accadere, occorre ripensare la storia del
Novecento come una storia segnata da due grandi discontinuità. Non si può
capire la storia se la si immagina come un tempo continuo e omogeneo.
Walter Benjamin, facendo appello alla sua comprensione ebraica, nelle "Tesi
di filosofia della storia" dice che ci sono degli "arresti", delle
"irruzioni" messianiche che scuotono il tempo ordinario. Ci sono delle
discontinuità. Ci sono dei potenti deposti dai troni e degli umili
esaltati, dei castelli che cadono, altri si costruiscono, poi di nuovo
cadono e quelli di prima risorgono. La storia è fatta di continuità, ma
anche di rivoluzioni, di controrivoluzioni e di restaurazioni. Oggi, nel
tempo della guerra globale e infinita, siamo nel pieno di una
controrivoluzione e di una fosca restaurazione.

L'ETÀ DELLA DISSOLUZIONE DEGLI IMPERI
Il Novecento aveva già conosciuto la novità della rivoluzione d'Ottobre. Ma
la grande discontinuità che ha segnato nel Novecento un vero passaggio
d'epoca, è stata nel 1945 quando, dopo la tragica esperienza della seconda
guerra mondiale e della Shoah si è posto mano a costruire la grande
comunità internazionale delle Nazioni. Questa discontinuità è consistita
essenzialmente nell'aver posto il principio della dissoluzione dei grandi
Imperi. Questo principio fu posto dall'Onu e in maniera specialissima dagli
Stati Uniti d'America che non volevano un mondo di Imperi, ma immaginando
una specie di pantografia della democrazia americana, promossero nella
grande assemblea costituente di San Francisco un modello universale di
democrazia e di diritto saldamente controllato dalle Nazioni che si erano
unite nella guerra antifascista (e perciò "Nazioni Unite") e in particolare
dalle cinque grandi Potenze vincitrici.

L'OCCASIONE PERDUTA DELL'89
Nel 1989 si produce la seconda grande discontinuità. Quando finisce
l'Unione Sovietica, si chiude la fase della dissoluzione degli Imperi e si
può ricominciare. Gli Stati Uniti sono pronti a raccogliere l'eredità di
una sovranità universale. Il decennio successivo, dalla guerra del Golfo
agli attentati terroristici dell'11 settembre 2001, è il periodo in cui
questo progetto prende corpo, si perfeziona, si chiarisce agli stessi
americani.
La rimozione del muro di Berlino è la grande occasione perduta per la
costruzione di un mondo diverso, di "quell'altro mondo possibile" che il
movimento no-global comincerà ad invocare sulle soglie del nuovo millennio.
L'ipotesi che qui vorrei avanzare, è che l'Occidente ha sbagliato la
lettura e la risposta agli eventi dell'89, prima favorendo la dissoluzione
dell'Urss, poi concependo un mondo di cui esso fosse l'unico gendarme e
padrone; l'Occidente non ha saputo uscire dal sistema di dominio e di
guerra che era legato alla diarchia del terrore ma, venuta meno l'Unione
Sovietica, ha proseguito quel medesimo sistema, mettendosi alla sua testa
da solo; esso pertanto non ha saputo cogliere l'occasione di quella
inaudita e pacifica discontinuità storica, non ha saputo concepire e
gestire un progetto nuovo per il mondo che rappresentasse un vero
superamento del vecchio sistema bipolare, e così facendo si è inserito
nella traiettoria della sua caduta, giungendo oggi a una crisi che è
speculare a quella che fu la crisi del comunismo e che può essere
considerata come la fase finale della crisi di quell'ordine.

NOI E LORO
Ma che fare del mondo? Questo è il problema dei vincitori, ormai non più
trattenuti da nessuno. Finalmente il capitalismo ha prevalso, il mercato è
ormai universale, le più ardite speranze dei teorici del liberalismo che
avevano profetato: col libero commercio, l'eterna pace, si possono
realizzare. La storia è giunta al suo adempimento e noi ce l'abbiamo
portata.
Ma a questo punto, caduto il limite esterno, il capitalismo realizzato si
accorge di non essere affatto universale. È il sistema migliore possibile,
ma non è per tutti. Esso non può reggere la vita e lo sviluppo del mondo.
Non può sfamare tutti, non può avere acqua e medicine per tutti, non può
permettere la democrazia a tutti. I meccanismi economici non sono
attrezzati per questo, perché sono fatti per incrementare il denaro e non
per soddisfare i bisogni.
Contro il mito del progresso illimitato, si fa strada la coscienza della
scarsità. Gli anni 90, gli anni dopo la fine dell'Urss, sono gli anni in
cui i grandi poteri rimasti sono posti di fronte a queste alternative, a
queste scelte. Ci sono correnti che spingono verso una ristrutturazione
equa di tutti i rapporti mondiali, che postulano la pace, la giustizia e la
salvaguardia del creato, ci sono i pacifisti, ci sono i rapporti delle
Agenzie intergovernative sul clima che denunciano i pericoli e che spingono
verso quei primi risultati che saranno la conferenza di Rio e il Trattato
di Kyoto.
Ma il sistema fa un'altra scelta. Se il mondo non si può tenere in piedi
tutto, allora se ne garantisce solo una parte, la propria. Un quinto contro
gli altri quattro quinti. Il capitalismo vincente non può certo ritrarsi e
rientrare nei vecchi confini del Primo Mondo, non può ridursi a essere la
forma economica e sociale della minoranza appagata, continuerà a inglobare
tutto il mondo, ma con una stratificazione, una gerarchia, una grande
selezione, una realistica diseguaglianza; c'è un mondo da salvare e un
mondo a perdere; cioè noi e loro.

PREPARAZIONE E FONDAZIONE DEL NUOVO IMPERO
Ma naturalmente un mondo così non sta a posto da solo. Deve essere tenuto a
bada con scettro di ferro. La maggioranza scartata non accetta di essere
votata all'esclusione. Il grande problema che si apre con la fine
dell'ordine bipolare e la scomparsa dell'Urss, è perciò quello del governo
del mondo. L'idea è che occorre stabilire un sovrano universale, e questo
ruolo non può essere se non degli Stati Uniti perché, come spiegò
Brzezinski, esponente dell'establishment americano, in un colloquio di fine
millennio a Castelgandolfo alla presenza del Papa, non c'è altra
alternativa che l'America all'anarchia globale. Per far questo occorreva al
più presto possibile riappropriarsi dello strumento sovrano del governo del
mondo: la guerra.
L'occasione la fornì l'Iraq con l'occupazione del Kuwait. Questo crimine
gli fu fatale. Il muro di Berlino era stato rimosso da un anno, l'Urss non
era più in grado di fermare l'Occidente. E Bush padre fece la guerra; la
fece per due ragioni; la prima, come spiegò poi nelle sue memorie, perché
non si poteva permettere che le riserve di petrolio del Medio Oriente
cadessero sotto il controllo di una potenza ostile; e fu la prima guerra
per il petrolio; e la seconda ragione, più importante, fu per ristabilire
il diritto di guerra esercitandolo in nome di quelle stesse Nazioni Unite
che l'avevano abrogato; ci vollero alcuni mesi non solo per preparare
l'armata, ma per sviluppare un'imponente campagna di persuasione che
riaccreditasse la guerra.
Fu, quella, la prima guerra mai finita. La guerra contro l'Iraq è
continuata infatti fino ad oggi, come guerra aerea e come embargo (e un
milione e mezzo di morti, in gran parte bambini). Tuttavia la guerra del
Golfo si fa ancora con la copertura dell'Onu, anche se con uno strappo al
quadro di legittimità, di cui essa è garante. Ma ben presto questo quadro
di legittimità viene esplicitamente abbandonato, e si innesca il processo
volto a sostituire l'Onu prima con la Nato, sotto la guida degli Stati
Uniti, poi con gli Stati Uniti da soli. Vengono elaborati i primi documenti
che dovranno consacrare e accompagnare la svolta.
In Italia, nell'ottobre del 1991, il Nuovo Modello di Difesa già
considerava la guerra come praticabile e normale, non solo nel caso
deprecabile di un'aggressione, ma come mezzo ordinario per tutelare gli
"interessi esterni" dell'Italia e dei suoi alleati.
Nel 1999 toccò alla Iugoslavia. La guerra era stata ormai richiamata in
servizio, era "libera all'esercizio". Anche per quella guerra si parlò di
petrolio, della necessità di aprire un corridoio per gli oleodotti dal
Caspio. Ma la vera ragione fu politica. La ragione fu di uscire dall'ordine
delle Nazioni Unite, dove la guerra era ancora formalmente bandita, ed
entrare, ormai senza altre remore, nell'ordine della Nato; la Nato
diventava essa la nuova comunità internazionale, la parte per il tutto,
assumeva prerogative sovrane, si investiva in proprio del diritto e del
potere sovrano di guerra.
La metamorfosi della Nato occupò tutto il decennio. Nel novembre 1991, si
decideva nel vertice atlantico di Roma che essa doveva continuare a
sussistere. Ma era pur sempre la vecchia alleanza; essa entrava in un
processo evolutivo, ma era ancora pensata nel quadro del suo trattato
istitutivo.
Nel 1999, l'evoluzione è compiuta. Con la guerra alla Serbia compare un
nuovo soggetto che della vecchia alleanza mantiene ancora il nome, ma non
più l'identità. Comincia la nuova alleanza (v. box).
È evidente come questa concezione è alternativa a quella dell'Onu. Nel
vertice di Washington la Nato riprende il principio dell'Onu della
indivisibilità della pace e della sicurezza, ma esse non sono più
indivisibili per tutti, bensì solo per sé e per i 19 Paesi membri; e dopo
l'ultimo vertice di Praga del novembre scorso, l'ex ministro della Difesa
americano Weinberger giungerà a postulare apertamente la sostituzione della
Nato all'Onu, come struttura più flessibile, più efficace e più sensibile
agli interessi degli Stati Uniti.
Tuttavia, anche la Nato finisce per essere un vestito troppo stretto. Sulla
fine del decennio gli Stati Uniti sono ormai pronti a giocare in proprio il
ruolo di Potenza globale ed esclusiva.
Gli eventi dell'11 settembre 2001 innescano la reazione per la quale si
completa la mutazione, cambia la figura dell'America, quella figura che il
mondo amava, e gli Stati Uniti dichiarano apertamente la volontà di
costituire un Impero mondiale.
Il 14 settembre, Bush ne enuncia il principio fondativo dal pulpito della
National Cathedral di Washington, nella "giornata nazionale di preghiera e
commemorazione per le vittime" indetta dalla Casa Bianca; tale principio
consiste nel raccogliere "l'impegno preso dai padri, diventato l'appello
del tempo presente", rispondere agli attacchi con una guerra di cui solo
gli Stati Uniti decideranno la fine, e "liberare il mondo dal Male". La
preghiera del Pater noster sarà finalmente esaudita. A garanzia Bush, con
una citazione aggiustata della Lettera ai Romani, assicura che nulla potrà
separare l'America dall'amore di Dio.

LA CARTA DELL'IMPERO
Un anno dopo, il 17 settembre 2002, la dottrina dell'Impero viene
formalmente enunciata nel documento sulla nuova strategia della sicurezza
nazionale degli Stati Uniti, che in realtà è la Carta istitutiva
dell'Impero.
Essa proclama che c'è un unico modello accettabile per le nazioni, che è
definito con tre termini: libertà, democrazia e libera impresa. Dunque è un
modello politico, che è quello dello Stato liberale, è un modello
istituzionale, che è quello delle democrazie occidentali, ed è un modello
economico che è quello del capitalismo; ogni alternativa, ogni pluralismo
di dottrine e di sistemi sono negati. Poi il documento afferma l'unicità e
insuperabilità degli Stati Uniti: gli Stati Uniti, dice il documento,
"godono di una potenza militare senza eguali e di una grande influenza
economica e politica". Questa unicità dovrà essere mantenuta per sempre.
Mai più una potenza come l'Urss, ma anche mai una potenza come la Cina o
come l'Unione Europea. In questo contesto, il documento enuncia la dottrina
della guerra preventiva - "la migliore difesa è una buona offesa" - e
dichiara che gli Stati Uniti agiranno anche da soli. C'è una rivendicazione
della solitudine americana. E quando il documento cita le organizzazioni
internazionali con le quali gli Stati Uniti intendono collaborare, cita
l'Onu, l'Organizzazione mondiale del commercio, l'Organizzazione degli
Stati Americani e la Nato, ma la Nato non è più al primo posto, è
un'alleanza tra tante. E in un altro punto del documento si citano come
distinti gli Stati Uniti e la comunità euro-atlantica.
Dunque la novità è che l'America si pone come altro dall'Occidente. Non sta
più da una parte del mondo, ma sta sopra il mondo come sovrano universale
di una geografia globale, di cui lo stesso Occidente è solo una parte.

INIZIO O DECLINO DI UN IMPERO?
È significativo che questa dottrina dell'Impero venga enunciata nell'atto
stesso, in cui febbrilmente si prepara e si reclama la prima guerra di
fondazione dell'Impero, che è quella contro l'Iraq; guerra che non si
spiega né con le armi né con il petrolio di Saddam, ma solo perché non c'è
Impero mondiale senza il controllo fisico e territoriale del Medio Oriente,
senza insediarsi in quella terra tra i due fiumi che è la culla e il
crocevia dell'umanità, all'incrocio delle antiche rotte carovaniere che
univano l'Asia, l'Europa e l'Africa, da dove si può guardare ad Est, fino
all'India e alla Cina. E Israele non basta più a rappresentare lì gli Stati
Uniti.
Ma la guerra è il solo prezzo da pagare a questa novità di un Impero
nascente? C'è qualcuno che sostiene che, al di là della forma sgradevole,
si tratta pur sempre di una figura politica di universalità, di un Impero
inclusivo, dove certo ci sono ingiustizie da sanare e sfruttamenti iniqui
da combattere, ma dove sarebbe pur sempre vigente la "koiné" dei diritti
umani.
Credo che invece debba essere scoperta la vera natura dell'Impero, nel
quale viene a concludere e a trovare la sua forma politica e militare la
globalizzazione. Come la globalizzazione, l'Impero non è inclusivo, ma
seccamente selettivo. I limiti non sono fisici, territoriali; nella
geografia dell'Impero potenzialmente sono tutti inclusi. Ma di fatto la
maggior parte è esclusa, non cooptata, non assunta dentro gli stessi
confini di una unità politica che se pure è estesa a comprendere tutto il
mondo, tuttavia è disseminata di "apartheid", di muri di separazione, di
isole di estraneità. Il rischio è proprio quello che il modello del
rapporto tra Israele e palestinesi in Palestina, si riproduca e diventi il
paradigma del nuovo ordine planetario.
Ma allora non si tratta solo di un sovvertimento del diritto. Dietro
quest'ipotesi di ordine del mondo si intravede, che sia conscia o
inconscia, una cultura di tipo apocalittico. C'è il rischio di un collasso,
anzi di una catastrofe della speranza, e perciò di una crisi della
condizione umana, nel cuore e nelle menti delle persone e soprattutto dei
giovani, più grave delle stesse negazioni e degli scuotimenti della vita
fisica e della crisi ecologica o alimentare.
Ho vissuto questa crisi esistenziale nei giorni scorsi a Baghdad, dove sono
stato dal 1° al 6 dicembre con una delegazione italiana, quando andavo per
le strade e vedevo le persone, ma già conoscevo la sentenza di morte che
qualcuno aveva pronunciato lontano da lì, e non sapevo se quelle persone,
quelle case, perfino l'albergo in cui stavamo sarebbero ancora esistiti tra
un mese. E tuttavia non si avvertiva tra la gente alcun presentimento della
fine. Però si vedeva camminare il dolore.
È difficile tenere accesa la speranza quando il diritto è sconfitto, e lo
si viene a sapere. Il vecchio Papa ha parlato perfino di un "disgusto" di
Dio.
Però la speranza sta proprio nel fatto che il diritto c'è stato. Che
l'umanità lo ha saputo concepire, che essa ha nutrito dottrine e fedi e
continuamente pone gesti che tolgono il pungiglione alla morte; che perfino
di fronte ad Auschwitz ha potuto risuonare la parola impossibile e potente
che "la vita è bella", e milioni di persone l'hanno condivisa.
Se squarciamo l'armatura rutilante di cui si riveste la cultura della fine,
e le cortine dietro cui essa si trincera per riservare agli altri la fine,
noi troviamo il fondamento della nostra resistenza e la ragione della
nostra speranza. Perché questa non è la cultura di un Impero nascente, ma è
la cultura di un Impero in declino, è una cultura analoga a quella delle
sette gnostiche, manichee e apocalittiche che esprimevano l'angoscia della
fine di un mondo, al tramonto dell'Impero antico. Ci sono per contro
milioni di persone in tutto il mondo che vivono una cultura dell'inizio e
della fecondità, milioni di persone che sanno l'arte del vivere insieme e
diversi, milioni di persone che pensano in modo inclusivo,  tali che nessun
terrorismo ha ragione di sfidare e di abbattere. C'è uno spirito europeo
che è lontanissimo dall'idea di un'estrema lotta tra i mondi, e di uno
"scontro di civiltà". C'è un Islam che non pensa affatto al paradiso come
contropartita di un inferno sulla terra. E anche l'America non è solo
quella delle sue minoranze settarie. Perciò è fondato fare affidamento
sull'antidoto della ragione, sull'alternativa del diritto, e sulla
sovranità in itinere della pace.
Dio non si è pentito dell'uomo.

                                    RANIERO LA VALLE




UNA CULTURA APOCALITTICA




C'è un mondo a perdere e un mondo da salvare. Quella americana (ma anche
quella israeliana) non è una cultura della speranza, una cultura del
futuro, e dunque una cultura della pace, ma una cultura della disperazione
e una cultura della fine.
In effetti sia in Israele che negli Stati Uniti sembrano giunti al potere
dei ceti politici esacerbati, che pensano a una salvezza da strappare nelle
condizioni della fine, ci sono governanti che pongono gesti e formulano
pensieri apocalittici: la "passeggiata" di Sharon sul Monte del Tempio, a
cui i pii ebrei pensavano di tornare solo alla fine dei tempi, l'idea di
Bush di estirpare gli Stati "zizzania" e di liberare il mondo dal male,
cosa che secondo la parabola evangelica non deve venire prima della
mietitura, cioè prima della fine del mondo; e ancora la guerra definitiva e
infinita, l'atomica brandita come una spada, la divisione tra gli Stati
Uniti e i loro nemici sentita come una divisione irrimediabile, come la
divisione tra il mondo della luce e il mondo del terrore, tra l'ordine e il
caos.

R.LV.



LA VECCHIA E LA NUOVA NATO




La vecchia Nato era un'alleanza di Stati sovrani. Essi non disponevano del
diritto di guerra, perché ne avevano fatto, sottoscrivendo la Carta
dell'Onu, solenne rinuncia. Di conseguenza, non potevano trasferire
all'Alleanza poteri che essi stessi non avevano. Essi disponevano però del
diritto di difesa contro l'aggressione, a norma dell'art. 51 della Carta.
Perciò la Nato era nata come alleanza difensiva, senza rivendicare il
potere di guerra.
La nuova alleanza che irrompe sulla scena nel '99, è un'altra cosa. Non
appare più come un'associazione, a scopi difensivi, di Stati sovrani. Essa
stessa agisce come soggetto sovrano. Il suo centro, il suo movente, la sua
ossessione, sta nell'idea che è cambiato il concetto di sicurezza, cioè è
cambiata la percezione del pericolo.
Prima il pericolo veniva dal mondo sovietico, era ben configurato, si
poteva padroneggiare. Adesso viene da ogni parte, è imprendibile. Allora ci
vuole più di un'alleanza. Ci vuole qualcuno che prenda su di sé, più di
quanto i vecchi Stati possano fare, l'intero fardello della sicurezza
collettiva, qualcuno che decida sullo stato d'eccezione, un sovrano, un
super-Stato, che ai singoli Stati dia protezione, ricevendo in cambio
obbedienza.

R.LV.
 DIDASCALIE DELLE FOTO

FOTO N° 1, ORIZ, 1500
Hyde Park (Londra), 28 settembre 2002. Protesta contro la guerra in Iraq.

Credit: Ap/Sang Tan

FOTO N° 2, ORIZ, 3600
Manifestazione fuori dalla base Nato di Geilenkirchen, in Germania, lo
scorso 25 gennaio. Il cartello dice: "Fermate la guerra contro l'Iraq".

Credit: Ap/Frank Augstein