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La nonviolenza e' in cammino. 504
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 504
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Tue, 11 Feb 2003 00:52:03 +0100
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 504 dell'11 febbraio 2003 Sommario di questo numero: 1. Maria G. Di Rienzo, fermare la violenza interpersonale 2. Luigi Ferrajoli: la guerra contro il diritto, il diritto contro la guerra 3. "Una citta'" intervista Donatella Della Porta sul movimento new global 4. Riletture: Norberto Bobbio, La mia Italia 5. Riletture: Oscar Cullmann, Il Nuovo Testamento 6. Riletture: Lu Hsun, Fuga sulla luna 7. La "Carta" del Movimento Nonviolento 8. Per saperne di piu' 1. EDITORIALE. MARIA G. DI RIENZO: FERMARE LA VIOLENZA INTERPERSONALE [Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per questo intervento. Maria G. Di Rienzo e' una delle principali collaboratrici di questo foglio; prestigiosa intellettuale femminista, saggista, giornalista, regista teatrale e commediografa, ha svolto rilevanti ricerche storiche sulle donne italiane per conto del Dipartimento di Storia Economica dell'Universita' di Sidney (Australia); e' impegnata nel movimento delle donne, nella Rete di Lilliput, in esperienze di solidarieta' e in difesa dei diritti umani, per la pace e la nonviolenza] Fatto: Secondo l'Oms (Organizzazione mondiale della sanita'), ogni anno 40 milioni di bambini sotto i 15 anni sono vittime dell'abuso familiare al punto di aver necessita' di ricovero medico (Onu, We the Children: Meeting the Promises of the World Summit for Children 2001, p. 73). Fatto: Studi su 11 nazioni hanno riportato che fra il 5 e il 48% delle donne denunciano di aver subito abusi da un partner almeno una volta nella loro vita. Studi locali in Africa, America Latina ed Asia portano il picco della percentuale al 58% (Onu, The World's Women 2000: Trends and Statistics, p. 153). Fatto: 130 milioni di bambini nel mondo non frequentano la scuola elementare: il 70% sono bambine. Fatto: Secondo il Dipartimento statunitense per la Giustizia, fra il 1995 e il 1996 piu' di 670.000 donne negli Usa sono state vittime di stupri e abusi sessuali (National Crime Victimization Survey, Bureau of Justice Statistics, 1997). Fatto: Dal 40 al 60% dei crimini a sfondo sessuale vengono commessi contro ragazze minori di 15 anni, senza distinzione di luogo o cultura (Onu, The World's Women 1995: Trends and Statistics, p. 158). Fatto: La violenza contro le donne e i bambini e' la piu' estesa violazione del diritto umano oggi nel mondo (Charlotte Bunch, Unicef, 1997). * La violenza nei rapporti interpersonali e' la scuola della violenza per eccellenza. E' nelle relazioni familiari, intime, amicali, che impariamo a praticare il rispetto per gli altri esseri umani o apprendiamo ad accettare la violenza e l'abuso come "naturali". C'e' sempre qualcuno, persino in buona fede, pronto a dirvi che la violenza e' normale, che e' nella natura umana, persino nei nostri geni. Cosi', siamo "scusati" se la usiamo: possiamo parlare delle ragioni economiche e sociali del conflitto, della guerra e del terrorismo su scala internazionale, ma non della nostra guerra quotidiana, che e' semplicemente "il modo in cui vanno le cose". Persone autorevoli, laiche e religiose, sotto la spinta dell'imminente attacco all'Iraq, stanno giustamente prendendo posizione contro la guerra. Ma abbiamo bisogno che le stesse voci si facciano udire sulla violenza interpersonale, che semina, nutre e rialimenta la violenza internazionale. Il crollo delle Torri ha ucciso o seriamente ferito 4.000 persone inermi: la nostra condanna e' stata immediata. Ogni giorno, piu' di 4.000 donne e bambini vengono uccisi o sono seriamente feriti da membri della loro stessa famiglia. Non odo, al proposito, neppure un mormorio di disapprovazione. Questo tipo di violenza e' spesso visto come il risultato dell'azione di poche "mele marce": ma se diamo uno sguardo alla questione da una prospettiva storica e interdisciplinare ci accorgeremo che abbiamo a che fare con un disagio culturale, una malattia dello spirito umano, che ci trasciniamo dietro da secoli. Per perpetuare se stesse, le societa' basate sulla guerra hanno bisogno che il dominio e la gerarchia si insedino nel nostro pensiero, divengano il fondamento delle nostre relazioni e vengano mantenute con la violenza o la minaccia della stessa. Le societa' umane, ci piaccia o no, sono primariamente basate sulla relazione fra la meta' femminile e la meta' maschile dell'umanita', e sulle relazioni che madri e padri hanno con i loro figli e figlie. Le nostre prime lezioni sulle relazioni umane non le impariamo in pubblico, ma in una sfera piu' privata ed intima, dove possiamo apprendere il rispetto e la liberta', o la crudelta' e l'oppressione. Gli schemi di comportamento che ne risultano non sono facili da sciogliere, tanto piu' che sono interconnessi con leggi, usi, costumi, tradizioni che incoraggiano, approvano o semplicemente fingono di ignorare la violenza domestica. Per alcuni, la violenza contro donne e bambini e' addirittura consentita, richiesta e giustificata da un superiore ordine divino. Essa non ha confini di struttura (famiglia nucleare o famiglia estesa), ne' di classe sociale, ne' territoriali, ed il suo nodo centrale e' la dominazione di un genere sull'altro: in nome della quale si puu' negare cure e alimentazione alle bambine del Punjab (che fra i 2 e i 4 anni muoiono in una percentuale doppia rispetto ai coetanei di sesso maschile); si puo' introdurre annualmente nel "mercato del sesso" due milioni di bambine thailandesi, indiane, russe, la cui eta' va dai cinque agli undici anni; si puo' battere regolarmente le mogli o le donne in genere (il 42% delle donne in Kenya, il 67% delle donne in Nuova Guinea, una donna su tre a Lima, in Peru'), ed arrivare a ucciderle: il 62% delle donne uccise in Canada durante gli ultimi anni sono morte di violenza domestica. I legami fra la violenza interpersonale e la struttura sociale, i sistemi di valori correnti, dimostrano che esse si influenzano a vicenda: dove la guerra e' il paradigma per la relazione umana alle donne si chiede di obbedire, di essere a disposizione, di restare o tornare in una posizione definita "tradizionale", ed i bambini e le bambine imparano con dolore che porre domande all'autorita', mettere in discussione l'ordine gerarchico, e' pericoloso per la loro incolumita' fisica e mentale. I paladini della guerra negli Usa, quelli che parlano di "guerra santa", di "nemici senza dio", di "liberta' infinita", sono gli stessi che si oppongono all'eguaglianza di diritti per le donne; non solo per quanto riguarda la costituzione statunitense, per la quale si propongono di battere l'emendamento che sancirebbe tale eguaglianza: gruppi ed uomini politici si rifiutano persino di ratificare la convenzione Onu che protegge i diritti di donne e bambine. E' nella famiglia umana che impariamo a considerare il terrore e la violenza delle cifre normali per l'esistenza. E' nelle relazioni fra i sessi che impariamo il "doppio standard", per il quale le violazioni all'integrita' personale hanno differente peso a seconda di chi sia la vittima, e possono persino non venir perseguite, oscurate da argomentazioni legali, culturali e religiose. E fra chi sostiene di opporsi alla violenza, vi sono molti pronti ad opporre gli stessi distinguo, in nome del rispetto delle altrui tradizioni, che soverchierebbe il rispetto dovuto alle persone umane: ovviamente, ogni comportamento istituzionalizzato, inclusa la schiavitu', e' una tradizione culturale. Nessuno pero' si sognerebbe oggi di giustificare la schiavitu' con il medesimo argomento. E' venuto il momento di riconoscere la violenza contro donne e bambine/i per cio' che essa e', una brutale pratica di controllo e dominazione, e se non bastano a muoverci il dolore e la morte di coloro verso cui e' indirizzata, riflettiamo sulle connessioni fra violenza interpersonale e violenza internazionale, sui costi e le minacce che esse ci impongono. Per costruire veramente la pace dobbiamo partire da qui, donne ed uomini, insieme. 2. RIFLESSIONE. LUIGI FERRAJOLI: LA GUERRA CONTRO IL DIRITTO, IL DIRITTO CONTRO LA GUERRA [Da "La rivista del manifesto" n. 36, del febbraio 2003, riprendiamo il seguente articolo. Luigi Ferrajoli, illustre giurista, e' nato a Firenze nel 1940, gia' magistrato tra il 1967 e il 1975, dal 1970 docente universitario. Opere di Luigi Ferrajoli: tra i lavori recenti segnaliamo particolarmente la monumentale monografia Diritto e ragione, Laterza 1989, giunta alla terza edizione; il saggio La sovranita' nel mondo moderno, Laterza 1997; e La cultura giuridica nell'Italia del Novecento, Laterza 1999] Che cosa significa "stare con l'Onu" C'e' un equivoco che sta deformando il dibattito sulla guerra e che e' stato riproposto dall'ambiguo discorso di fine d'anno del presidente Ciampi: l'idea che la scelta di stare dalla parte delle Nazioni Unite comporterebbe, in base alla seconda parte dell'articolo 11 della Costituzione italiana, che nella sua prima parte "ripudia la guerra", il dovere di aderire alla guerra contro l'Iraq qualora il Consiglio di sicurezza, a seguito delle ispezioni ordinate con la risoluzione 1441, l'autorizzasse con una nuova, esplicita risoluzione. Dietro questo equivoco c'e' una grossolana confusione: tra l'Onu, ossia l'ordinamento istituito con la Carta delle Nazioni Unite, e il Consiglio di sicurezza, qualunque cosa decida, quasi fosse un sovrano legibus solutus e non un organo dell'Onu sottoposto alla sua Carta statutaria. Se dissipiamo questo equivoco, e riconosciamo che l'Onu, come e' ovvio, e' l'ordinamento delle Nazioni Unite disciplinato dalla sua Carta istitutiva, diventa chiaro che la guerra annunciata contro l'Iraq, autorizzata o meno da una seconda risoluzione, sarebbe comunque, sulla base di quella Carta, un illecito internazionale; che la sua autorizzazione avrebbe il solo effetto di coinvolgere il Consiglio di sicurezza nella violazione e, forse, nella dissoluzione del suo stesso ordinamento; che dunque "stare con l'Onu", come ripetono di volere molti esponenti dell'Ulivo, vuol dire non gia' aderire, bensi' condannare comunque la guerra, perche' vistosamente in contrasto con l'ordinamento dell'Onu medesima. Ho gia' argomentato lungamente questa tesi sul numero di dicembre di questa rivista (1). Qui mi limitero' ad insistere sulle due principali ragioni che rendono comunque illecita una guerra contro l'Iraq. Manca, innanzitutto, il presupposto previsto dalla Carta dell'Onu per un uso della forza diretto a mantenere o a ristabilire la pace. Questo presupposto, dice l'art. 39, e' l'esistenza di una minaccia alla pace o di una violazione della pace o di un'aggressione in atto. Ora, la sola minaccia alla pace che esiste attualmente e che meriterebbe di essere severamente censurata dal Consiglio e' quella posta in atto dagli Stati Uniti, che da mesi minacciano la guerra e perfino l'uso dell'atomica, bombardano quotidianamente le zone irachene di "non volo" e stanno percio' violando sistematicamente il comma 4 dell'art. 2 della Carta, che vieta ai paesi membri sia "l'uso" che "la minaccia" dell'uso della forza. Quanto all'Iraq, per quanto ripugnante sia il regime di Saddam, un intervento armato diretto a disarmarlo o a rovesciarlo non sarebbe legittimo neppure nell'ipotesi che le ispezioni ordinate dal Consiglio di sicurezza accertassero o comunque non escludessero il possesso di armi di distruzione di massa. Armi simili, chimiche e nucleari, sono detenute da mezzo mondo, dalla Corea del Nord all'India e al Pakistan, per non parlare degli Stati Uniti, della Russia, della Cina e di Israele, senza che questo sia mai stato considerato una minaccia alla pace sufficiente a giustificare una "difesa preventiva". Al contrario, proprio la guerra di difesa preventiva, invocata da Bush, e' stata ripetutamente dichiarata contraria all'ordinamento delle Nazioni Unite sia dalla Corte internazionale di giustizia che dallo stesso Consiglio di sicurezza. Ricordero' solo, perche' riguarda proprio l'Iraq di Saddam, la risoluzione di condanna adottata dal Consiglio il 19 giugno 1981 con il voto favorevole anche degli Stati Uniti contro neppure una guerra, ma un singolo attacco militare israeliano al reattore atomico Osiraq, nei pressi di Bagdad, che Israele aveva giustificato con la "necessita' di difendersi dalla costruzione di una bomba atomica in Iraq" (2). C'e' poi un secondo e non meno grave aspetto di illegittimita' di un'eventuale guerra, pur avallata dal Consiglio di sicurezza. Cio' che l'Onu puo' deliberare non e' certo una guerra ma solo, quale estrema misura diretta a "mantenere o ristabilire la pace", l'uso della forza in "un'azione coercitiva internazionale" che deve essere svolta "alle dipendenze" del Consiglio di sicurezza (art. 47 comma terzo) e comunque, ove siano utilizzate forze diverse da quelle di cui parla il Capitolo VII, "sotto la sua direzione" (art. 53, comma primo). E' chiaro che tra la guerra e questo uso della forza c'e' una differenza radicale, che non riguarda solo le forme, che pure in una materia come questa sono essenziali, ma la sostanza. La guerra e' per natura un uso della forza smisurato e incontrollato, diretto all'annientamento dell'avversario e destinato inevitabilmente a colpire anche le popolazioni civili. L'impiego legittimo della forza e' invece solo quello strettamente necessario per mantenere la pace e la sicurezza internazionale e proprio per questo posto sotto la costante direzione del Consiglio di sicurezza. La differenza tra le due cose - che non puo' certo essere occultata con un gioco di parole, chiamando "azione coercitiva" o "di polizia" quella che ha tutte le caratteristiche della guerra - risiede poi in altre due circostanze, assicurate dall'uso legittimo della forza e non invece dalla guerra: che l'intervento non serva interessi di parte e che sia garantita l'incolumita' degli innocenti. Che e' la stessa differenza che corre tra pena e vendetta, tra diritto e ragion fattasi: l'uno e' la negazione dell'altra, e per negazione dell'altra si definisce. * Giusto massacro? Quanti oggi rifiutano il pacifismo cosiddetto "assoluto" come "utopistico", o "ideologico", o "idealistico" oppure pregiudizialmente "anti-americano", evocando magari la giusta guerra combattuta contro Hitler, dimenticano dunque che proprio all'indomani di quella catastrofe mondiale, per scongiurare altre future catastrofi, l'idea stessa della "guerra giusta" fu archiviata dalla Carta dell'Onu. Innanzitutto perche' la Carta, regolando l'uso legittimo della forza nei rapporti tra Stati, ha posto fine all'anarchia internazionale generata dallo jus ad bellum di tutti contro tutti e ha trasformato in ordinamento giuridico, incompatibile con la guerra, il vecchio sistema puramente pattizio delle relazioni tra Stati: la guerra e' da allora illecita come lo e', all'interno degli ordinamenti degli Stati, la vendetta o la ragion fattasi. In secondo luogo perche' si e' compreso che la guerra moderna ha cambiato natura ed e' stata percio' riconosciuta, dai padri costituenti delle Nazioni Unite, come un male assoluto: ingiustificabile perche' rispetto ad essa tutte le vecchie cause di giustificazione e i vecchi limiti giusnaturalistici della guerra giusta sono divenuti incongruenti, essendo stati travolti tutti i limiti naturali alle sue ormai illimitate capacita' distruttive. La tragica conferma di questa incongruenza tra le illimitate capacita' distruttive del mezzo della guerra e qualunque fine invocato come sua giusta causa e' stata offerta proprio dagli effetti provocati dalle nuove guerre di questi anni, opposti alle "giuste" finalita' dichiarate a suo sostegno nell'odierna riesumazione imperiale della dottrina medioevale della "guerra giusta": la tutela dei diritti umani nel Kosovo e la lotta al terrorismo in Afghanistan. La cosiddetta "guerra umanitaria" della Nato alla Federazione jugoslava in difesa dei diritti umani non solo ha cagionato migliaia di vittime innocenti e la distruzione dell'intera infrastruttura economica della Serbia e del Kosovo, ma favori', all'indomani del suo inizio, le vendette di Milosevic contro le popolazioni kosovare e le loro espulsioni in massa. "Guerra a tutela dei diritti", d'altro canto, e' una clamorosa contraddizione in termini, dato che i diritti si garantiscono con il diritto - con i tribunali e con l'accertamento e la sanzione delle responsabilita' - e non certo con quella massima e massiccia violazione del diritto e dei diritti, primo tra tutti il diritto alla vita, che e' la guerra. Quanto al terrorismo, esso non e' stato affatto debellato dalla guerra in Afghanistan, nella quale sono state uccise migliaia di persone innocenti ma sono sopravvissuti sia Osama bin Laden che il mullah Omar. Ne e' prova il fatto che lo si continua a invocare come giustificazione di una nuova guerra, che non si capisce perche' dovrebbe riuscire a raggiungere l'obiettivo fallito dalla prima. Al contrario, la guerra al terrorismo ha finito con l'omologarsi, quale violenza sregolata e rivolta contro vittime innocenti, al terrorismo medesimo, e cosi' per rompere l'asimmetria tra violenza privata e risposta istituzionale - consistente nelle indagini di polizia e nella cattura dei colpevoli, e non in bombardamenti indiscriminati -, che e' il vero segreto della forza simbolica, delegittimante e depotenziante, propria del diritto. Tutte le nuove guerre, insomma, sono consistite nella punizione, per una sorta di "responsabilita' collettiva", di persone innocenti. E hanno quindi violato - in maniera tanto piu' ripugnante, perche' accreditate come guerre "a zero morti", per i soli aggressori, ovviamente - i due principi fondamentali dell'etica moderna: quello kantiano secondo cui nessuna persona puo' essere usata come mezzo per fini non suoi e quello, proprio dell'etica della responsabilita', della congruenza dei mezzi impiegati ai fini dichiarati. Chiamare simili imprese "guerra giusta" o "guerra etica" o "guerra umanitaria" o "guerra legittima" o "guerra preventiva" equivale a parlare, come abbiamo scritto nell'appello contro la guerra del Tribunale permanente dei popoli, di "giusto massacro", o di "legittima strage degli innocenti", o di "carneficina etica o umanitaria" o di "massacro preventivo". * Politica imperiale e razzismo Se le finalita' dichiarate con cui in questi anni si e' tentato sempre piu' apertamente di riabilitare la guerra come mezzo di soluzione dei problemi e delle controversie internazionali non sono state raggiunte - ne' era possibile che lo fossero, ne' comunque sono moralmente sostenibili -, quali sono gli effetti che concretamente esse sono in grado di produrre? L'effetto piu' grave, al di la' delle vittime e delle devastazioni, e' il crollo del diritto internazionale. Se e' vero che il diritto e' la negazione della guerra, e' anche vero il contrario: la guerra e' la negazione del diritto e la sua rilegittimazione equivale alla delegittimazione dell'intero edificio eretto con l'istituzione dell'Onu e alla regressione allo stato selvaggio delle relazioni internazionali. Sarebbe questo il risultato di un'eventuale guerra contro l'Iraq, la quale non potrebbe neanche accampare taluna delle pur infondate giustificazioni invocate per le altre guerre del passato decennio. Le sole ragioni di questa guerra, cosi' palesemente illecita, ingiustificata e ingiustificabile, si rivelerebbero percio' le ragioni della forza: come ha detto Raniero La Valle nella sua relazione al Tribunale, il suo scopo principale sarebbe la legittimazione di se medesima e si identificherebbe quindi con il mezzo (3). Per questo un simile strappo alla legalita', cosi' sprezzantemente voluto e perfino ostentato, sarebbe, tanto piu' se avallato dal Consiglio di sicurezza, il segno della volonta' di instaurare un nuovo ordine internazionale, modellato sul dominio dell'Occidente, di fatto degli Stati Uniti e basato, appunto, sulla guerra. Dobbiamo allora domandarci in che cosa consisterebbe questo "nuovo ordine internazionale", alternativo a quello disegnato dalla Carta dell'Onu e difeso con la guerra. Non dobbiamo fare sforzi di fantasia. Si tratterebbe della legittimazione, oltre che della guerra e della legge del piu' forte, dell'assetto attuale del mondo, segnato da una disuguaglianza senza precedenti, che si manifesta nei milioni di morti ogni anno per fame, per mancanza di acqua e di farmaci essenziali. Con una decisiva differenza: il crollo della credibilita', agli occhi del resto del mondo, di tutti i valori dell'Occidente - la democrazia, lo Stato di diritto, la legalita', l'uguaglianza, la dignita' delle persone, i diritti umani che sono tali, e non privilegi, solo se di tutti - e percio' l'esplicitazione, senza piu' veli ideologici, del latente razzismo espresso dalle nostre politiche, o meglio dall'assenza di qualunque politica, che non sia quella delle armi, idonea a fronteggiare i grandi problemi del pianeta. E' questo latente razzismo, piu' ancora dell'oggettiva ingiustizia e disuguaglianza, che sta provocando in tutto il mondo una crescita dell'odio e dello spirito di rivolta nei confronti dell'Occidente e sta minando le basi delle nostre stesse democrazie. Il razzismo, scrisse Michel Foucault ventisette anni fa, consiste precisamente nell'"introdurre una separazione, quella tra cio' che deve vivere e cio' che deve morire": esso e' "la condizione d'accettabilita' della messa a morte..., la condizione in base alla quale si puo' esercitare il diritto di uccidere" (4). E' la condizione, appunto, che ci consente di tollerare e perfino di applaudire le odierne guerre dal cielo "senza perdite di vite umane" dalla nostra parte e con migliaia di vittime innocenti - evidentemente avvertite come "inferiori" a noi - nei paesi bombardati. E' lo stesso tacito razzismo, che ha reso possibile, negli Stati Uniti, l'approvazione delle cosiddette "leggi patriottiche", che hanno istituito tribunali militari speciali, arresti di polizia e processi sommari in segreto per i soli non-cittadini degli Stati Uniti; che rende accettabili le attuali politiche contro l'immigrazione, incluso il dramma di migliaia di persone respinte ogni anno alle nostre frontiere e di decine di altre che muoiono ogni anno affogate prima di approdare sul nostro territorio; che infine permette all'opinione pubblica dei nostri ricchi e spensierati paesi di sopportare o almeno di rimuovere la morte per fame o mancanza di cure di milioni di esseri umani ogni anno. Solo il razzismo, cioe' il senso di una radicale asimmetria tra "noi" e "loro", consente di promuovere e di praticare queste politiche di morte. E il rapporto tra politiche di morte e razzismo e' un circolo vizioso: le une sono legittimate e assecondate dall'altro. Le nostre leggi, con cui migliaia di immigrati ogni anno vengono espulsi o respinti alle nostre frontiere, non diversamente dalle nuove guerre e dalle gabbie di Guantanamo, vengono decise per soddisfare le pulsioni razziste e le richieste di vendetta indiscriminata dell'opinione pubblica (e dell'elettorato) occidentale, che da quelle politiche, a loro volta, vengono legittimate, alimentate e rafforzate. Il razzismo, del resto, e' sempre stato l'effetto piu' che la causa delle discriminazioni e delle oppressioni. Fu necessario il razzismo per rendere tollerabili la conquista del nuovo mondo, le colonizzazioni e la schiavitu'. E' necessario il razzismo per rendere oggi accettabile, al di la' degli incredibili argomenti della propaganda, il progetto di bombardare un paese con una guerra di aggressione, che provochera' migliaia di morti a beneficio di una lobby di petrolieri. C'e' poi un altro effetto che sarebbe provocato dalla guerra e che in parte e' gia' stato prodotto dalle guerre passate e dal clima di guerra in cui stiamo vivendo: la crisi della democrazia. In primo luogo la crisi delle liberta' e l'involuzione poliziesca della democrazia all'interno dei nostri stessi paesi. Ho gia' detto delle "leggi patriottiche" fatte votare da Bush negli Stati Uniti. Ma si pensi anche al decreto anti-terrorismo inglese, che di fatto sopprime l'habeas corpus per i sospetti di terrorismo; o al nostro Decreto legge n. 374 del 2001, che estende in maniera indeterminata i presupposti delle intercettazioni telefoniche "preventive" e consente "attivita' sotto copertura" affidate ad agenti provocatori; o alla crescita della paura, delle politiche di esclusione e del clima di intimidazione che, soprattutto negli Stati Uniti (5), si e' sviluppata in nome dell'emergenza nei confronti del dissenso. In secondo luogo sta producendosi una crisi del paradigma dello Stato di diritto e della democrazia sul piano internazionale: crisi dello Stato di diritto, ossia della soggezione del potere al diritto, dato che il nuovo ordine prefigurato dal documento strategico statunitense del 17 settembre 2002 reintroduce il potere sovrano di far guerra quale potere assoluto, senza limiti e controlli, affidato al governo americano e per esso al suo presidente, investito cosi' del potere di vita e di morte; crisi della democrazia perche' tutta la popolazione del pianeta risulterebbe soggetta a questo nuovo sovrano assoluto, eletto soltanto dal popolo del suo paese e per di piu', come sappiamo, da una minoranza di questo stesso popolo. Avremmo insomma un ordine mondiale fondato soltanto sulla forza e sul progressivo discredito e svuotamento dei nostri stessi principi di legalita' e di democrazia. Il terrorismo avrebbe vinto davvero: giacche' la guerra, promossa contro il terrorismo allo scopo, come dice il documento Bush del 17 settembre, di difendere contro il "male" i valori occidentali della liberta' e della democrazia, avrebbe avuto l'effetto di affossarli. * L'illusione irrealistica di un governo del mondo attraverso la guerra La domanda che allora dobbiamo porci e' se sia realistica, ancor prima che accettabile giuridicamente e moralmente, l'idea che il mondo, con simili ingiustizie e disuguaglianze, possa essere governato con la guerra; se sia verosimile o non sia invece illusoria, almeno nei tempi lunghi, la prospettiva di un ordine internazionale - inteso con "ordine" un qualsiasi assetto del mondo che in un modo o in un altro garantisca la convivenza pacifica - basato sulla divisione tra paesi ricchi e paesi poveri, sempre piu' privo di legittimazione e capace soltanto di politiche di guerra e di mortificazioni razziste della dignita' e dell'identita' di interi popoli e culture. Io credo che non ci sia nulla di piu' irrealistico di una simile prospettiva. E' la stessa Dichiarazione dei diritti del '48 che lo afferma, istituendo un nesso razionale e insieme realistico tra pace e sicurezza da un lato e diritti umani dall'altro: "e' indispensabile che i diritti dell'uomo siano protetti da norme giuridiche", essa dice, "se si vuole evitare che l'uomo sia costretto a ricorrere, come ultima istanza, alla ribellione contro la tirannia e l'oppressione". Per questo sarebbe un segno di realismo politico se le grandi potenze per prime, a cominciare dagli Stati Uniti, si facessero carico, onde salvaguardare la loro stessa sicurezza, di quella che Juergen Habermas ha chiamato "una politica interna del mondo" (6). Una guerra infinita, infatti, equivale certamente all'affermazione della legge del piu' forte. Ma e' altrettanto certo che essa non giova, nei tempi lunghi, neppure al piu' forte, risolvendosi in un aumento dell'odio nei suoi confronti e in una generale insicurezza e precarieta': giacche' sempre "il piu' debole", come scrisse Thomas Hobbes, "ha forza sufficiente per uccidere il piu' forte o con una macchinazione segreta o alleandosi con altri" (7). E un qualche grado di consenso e di legittimazione politica e morale, in un mondo in cui economia e comunicazioni sono globalizzate, e' indispensabile a qualunque funzione di governo. Purtroppo cio' che sta accadendo non consente nessun ottimismo. Ma occorre quanto meno evitare la fallacia naturalistica nella quale incorre buona parte della filosofia politica e giuridica "realistica". Non e' affatto vero che la guerra sia inevitabile, connaturata, come leggiamo quotidianamente sui giornali, alle relazioni internazionali o addirittura alla natura umana, e che la pace sia impossibile. E non c'e' nulla di naturale, ne' di necessario, ne' percio' di inevitabile nella deriva in atto dei processi di globalizzazione. Questa deriva e' al contrario il frutto di scelte politiche; cosi' come sarebbe il frutto di scelte politiche e di progettazioni istituzionali l'adozione, nel diritto internazionale e in quello interno, di tecniche di garanzia idonee a contrastarli. E' sempre stato cosi', nella storia delle istituzioni. Non confondiamo quindi problemi teorici con problemi politici. Non presentiamo come utopistico o irrealistico, occultando le responsabilita' della politica, cio' che semplicemente non si vuole fare perche' contrasta con gli interessi dominanti, oltre tutto di cortissimo respiro, e che solo per questo e' inverosimile che si faccia. Giacche' questo tipo di miopia realistica finisce per legittimare e assecondare come inevitabile cio' che resta comunque opera degli uomini, e di cui portano la responsabilita' i massimi poteri politici dei nostri paesi. Se questo e' vero, dobbiamo leggere nella crisi in atto del diritto internazionale una sfida nei confronti della ragione giuridica e della ragione politica. Non possiamo, infatti, permetterci il lusso di essere pessimisti e di dichiarare la bancarotta del diritto internazionale. Giacche' il diritto internazionale - l'Onu - continua comunque ad essere la sola alternativa razionale a un futuro di guerre, di terrorismi, di violazioni massicce dei diritti umani. E dobbiamo percio' continuare a leggere e a denunciare la divaricazione sia pure crescente tra il dover essere dei principi costituzionali e internazionali e la realta' di quanto accade non gia' come smentita o falsificazione, bensi' come violazione illecita del primo da parte della seconda; non come un segno dell'inattualita' o peggio dell'utopismo delle promesse costituzionali, bensi' come un cedimento allarmante alle vocazioni eversive e alle tentazioni assolutistiche dei poteri forti. Per questo l'idea, troppo spesso avallata dalle filosofie politiche realistiche, che la crisi e' priva di alternative e la guerra fara' sempre parte della vita umana equivarrebbe a un'abdicazione della ragione. E varrebbe di fatto a confortare, se non a legittimare, i processi di dissoluzione in atto cosi' del diritto come della ragione. Equivarrebbe, come ho gia' detto, a una fallacia naturalistica e deterministica, cioe' alla confusione tra cio' che accade e cio' che non puo' non accadere e alla derivazione di questo da quello. Dobbiamo invece essere consapevoli che nonostante (e comunque dopo) le cadute e i fallimenti e' sempre possibile un corso diverso della storia; e che questo corso diverso dipendera' - come sempre, del resto - dal ruolo che saranno in grado di svolgere il diritto e la politica. Ai quali si richiede, essenzialmente, la costruzione di una sfera pubblica internazionale, dotata, ben piu' che di istituzioni di governo, di istituzioni di garanzia dei diritti e della pace, all'altezza dei grandi e drammatici problemi del pianeta (8). * L'alternativa della pace In questa prospettiva non e' ingenuo tornare a riproporre, proprio di fronte alla gravita' della crisi, la necessita' di dare attuazione alla principale garanzia della pace prevista dalla Carta dell'Onu: l'istituzione della forza di polizia internazionale sotto la "direzione strategica" del "Comitato di stato maggiore" previsto dall'art. 47 della Carta, in vista - dobbiamo aggiungere - della graduale formazione di un monopolio giuridico della forza in capo alle Nazioni Unite. Certamente, se le norme del capitolo VII della Carta dell'Onu fossero state attuate, non avremmo avuto le nuove guerre dello scorso decennio ne' si profilerebbe la nuova terribile guerra contro l'Iraq; e le crisi internazionali che con quelle guerre sono state affrontate sarebbero state risolte con ben maggiore efficacia ed autorevolezza e senza i tragici costi e i disastrosi effetti che stiamo registrando. A garanzia della pace, inoltre, dovrebbe essere ripreso il processo di progressivo disarmo, interrottosi nei primi anni novanta, attraverso rigide convenzioni internazionali sul divieto della produzione, del commercio e della detenzione di armi. Le armi, essendo destinate comunque ad uccidere, dovrebbero finalmente essere considerate quali beni illeciti, ben piu' delle sostanze stupefacenti, e come tali messe al bando della convivenza civile. E' infatti evidente che la loro sconfinata disponibilita' e' la causa prima delle guerre, oltre che del terrorismo e della criminalita'. Si dovrebbe poi far entrare rapidamente in funzione la Corte penale internazionale per i crimini contro l'umanita', il cui statuto, essendo state raggiunte le sessanta ratifiche richieste, e' in vigore fin dallo scorso luglio. E occorrerebbe pervenire quanto prima a renderne operativa la competenza anche in ordine al crimine, previsto dalla lettera d) dell'art. 2 del suo statuto, della "guerra di aggressione", formulandone una definizione rigorosa idonea a distinguerla chiaramente dalla "legittima difesa", oggi assurdamente invocata anche a titolo preventivo. E' poi evidente che dipenderanno dai finanziamenti degli Stati che l'hanno ratificata, a cominciare da quelli europei, e dal sostegno dell'opinione pubblica internazionale la sua indipendenza, la sua efficienza, la sua credibilita' e anche la sua futura accettazione da parte delle potenze che fino ad oggi, temendo di vedere incriminati loro cittadini o governanti, si sono rifiutati di approvarla: come gli Stati Uniti, la Cina e Israele. C'e' poi un altro ordine di problemi, ancor piu' gravi e difficili, che dovrebbero essere affrontati se si vuole costruire la pace: i problemi dell'alimentazione di base, dell'acqua e dell'accesso ai farmaci essenziali, che non e' sufficiente trattare con le politiche degli aiuti e che occorre invece impostare sulla base della garanzia dei diritti. E questo richiederebbe la creazione, a livello internazionale, di molte altre istituzioni di garanzia, in aggiunta alla forza di polizia dell'Onu e alla Corte penale internazionale. Andrebbero, infatti, organizzate, di fronte ai giganteschi problemi sociali della fame e della miseria generati da una globalizzazione senza regole, istituzioni deputate alla soddisfazione dei diritti sociali sanciti dai Patti del 1966. Talune di queste istituzioni, come la Fao e l'Organizzazione mondiale della sanita', esistono da tempo, e si tratterebbe di dotarle dei mezzi e dei poteri necessari alle loro funzioni di erogazione delle prestazioni alimentari e sanitarie. Altre - in materia di tutela dell'ambiente, di garanzia dell'istruzione, dell'abitazione e di altri diritti vitali - dovrebbero invece essere istituite. A tale scopo, e in generale ai fini della costruzione di una sfera pubblica internazionale, un'innovazione decisiva sarebbe infine l'introduzione di una fiscalita' mondiale, cioe' di un potere sovrastatale di tassazione volto a reperire le risorse necessarie a finanziare le istituzioni di garanzia: che e'' il presupposto indispensabile di ogni politica internazionale redistributiva, fondata sui diritti anziche' sugli aiuti. E' in questa direzione che si orienta la proposta della Tobin tax sulle transazioni internazionali, fatta propria dai movimenti "no-global". Ma non meno giustificata, sulla base di principi elementari di diritto privato, sarebbe l'imposizione di un risarcimento, o meglio di un adeguato corrispettivo per l'indebito arricchimento proveniente alle imprese dei paesi piu' ricchi dall'uso e dallo sfruttamento, quando non dal danneggiamento, dei cosiddetti beni comuni dell'umanita': come le orbite satellitari, le bande dell'etere e le risorse minerarie dei fondi oceanici, attualmente utilizzate a titolo gratuito come se fossero res nullius anziche', secondo quanto stabilito dalle convenzioni internazionali sul mare e sugli spazi extra-atmosferici, "patrimonio comune dell'umanita'" (9). Ovviamente non possiamo fare previsioni. Ne' d'altra parte hanno rilevanza e neppure interesse il nostro personale pessimismo o ottimismo. Cio' che e' certo e' che non ha senso la tesi sedicente "realistica", secondo cui l'odierna crisi dell'Onu sta dimostrando che il suo disegno universalistico e' un'utopia ed e' comunque fallito a causa della sua impotenza, per carenza di mezzi e di poteri. L'Onu non e' un'istituzione extra-terrestre. La sua attuale impotenza, cosi' come il suo futuro e con esso il futuro della pace e dei diritti umani, non dipendono dalla sua natura, ma unicamente dalla volonta' delle grandi potenze dell'Occidente, a cominciare dagli Stati Uniti, e dalla loro indisponibilita' a rinunciare al loro ruolo incontrastato di dominio militare, economico e politico e ad assoggettarsi anch'esse al diritto internazionale. Sarebbe nell'interesse di tutti - non solo del Sud del mondo ma anche dell'Occidente - riabilitare l'Onu e rafforzarne le funzioni di garanzia della pace e dei diritti: se non per ragioni morali o giuridiche, a tutela della nostra stessa sicurezza e della sopravvivenza delle nostre stesse democrazie. Per non dover tornare a riscoprire i nessi indissolubili tra diritto e pace e tra diritto e ragione, all'indomani di nuove catastrofi provocate dalla nuova guerra infinita. * Note Questo testo riprende in gran parte la relazione alla XXXI sessione del Tribunale permanente dei popoli, svoltasi a Roma nei giorni 14-16 dicembre 2002 su "Il diritto internazionale e le nuove guerre", i cui atti saranno presto pubblicati presso gli Editori Riuniti. 1. Neanche l'Onu puo', in "La rivista del manifesto", n. 34, dicembre 2002, pp. 20-25. 2. Si veda, su questo caso e in generale sull'inammissibilita' della guerra preventiva, A. Di Blase, Guerra al terrorismo e guerra preventiva nel diritto internazionale, relazione alla sessione sopra citata del Tribunale permanente dei popoli. 3. R. La Valle, Gli anni Novanta: la restaurazione di fine secolo, relazione alla sessione sopra citata del Tribunale permanente dei popoli. 4. M. Foucault, Corso del 17 marzo 1976, in Il faut defendre la societe' (1997), tr. it. a cura di M. Bertani e A. Fontana, Bisogna difendere la societa', Feltrinelli, Milano 1998, pp. 220-221. 5. R. Falk, Che cosa e' cambiato negli Usa dopo l'11 settembre, relazione alla sessione sopra citata del Tribunale permanente dei popoli. 6. "Con la fine dell'equilibrio del terrore", ha scritto Habermas, "sembra che sul piano della politica internazionale della sicurezza e dei diritti umani si sia dischiusa - nonostante tutti i contraccolpi - una prospettiva per cio' che C. F. von Weizsaecker ha definito 'politica interna del mondo' [Weltinnenpolitik]" (Die Einbeziehung des Anderen (1996), tr. it. di L. Ceppa, L'inclusione dell'altro. Studi di teoria politica, Feltrinelli, Milano 1998, p. 139. L'espressione e' ripresa in J. Habermas, Die postnationale Konstellation (1998), tr. it. di L. Ceppa, La costellazione post-nazionale. Mercato globale, nazioni e democrazia, Feltrinelli, Milano 1999, pp. 26 e 90-101. Si veda inoltre L. Bonanate, 2001: la politica interna del mondo, in "Teoria politica", XVII, 2001, n.1, pp. 20-21. 7. T. Hobbes, Leviatano, con testo inglese del 1651 a fronte, tr. it. a cura di R. Santi, Bompiani, Milano 2001, cap. XIII, 1, p. 203. 8. Rinvio al mio Per una sfera pubblica del mondo, in "Teoria politica", XVII, 2001, n. 3, pp. 3-21. 9. L'art.1 del Trattato sugli spazi extra-atmosferici del 27.1.1967 qualifica tali spazi come "appannaggio dell'umanita' intera", imponendone l'"utilizzazione per il bene e nell'interesse di tutti i paesi, quale che sia lo stadio del loro sviluppo economico o scientifico". Analogamente, gli artt. 136-140 della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 10.12.1982 affermano che "l'Area (di alto mare) e le sue risorse sono patrimonio comune dell'umanita'", che "le attivita' nell'Area sono condotte a beneficio di tutta l'umanita', tenuto particolarmente conto degli interessi e delle necessita' degli Stati in via di sviluppo" e che va "assicurata l'equa ripartizione dei vantaggi che ne derivano su base non discriminatoria". Su queste basi, e' stata proposta una tassazione internazionale per lo sfruttamento delle risorse minerarie dei fondi oceanici (cfr. D. E. Marko, A. Kinder, Gentler Moon Treaty: a Critical Review of the Treaty and proposed Alternative, in "Journal of Natural Resources and Environmental Law", 1992), nonche' per l'uso delle orbite satellitari intorno alla terra e delle bande dell'etere (cfr. G. Franzoni, Anche il cielo e' di Dio. Il credito dei poveri, Edup, Roma 2000, pp. 91-113). 3. RIFLESSIONE. "UNA CITTA'" INTERVISTA DONATELLA DELLA PORTA SUL MOVIMENTO NEW GLOBAL [Dalla bella rivista "Una citta'", n. 108 del novembre 2002 (sito: www.unacitta.it), riprendiamo questa intervista a Donatella Della Porta, docente all'universita' di Firenze, e attenta studiosa dei movimenti sociali. Naturalmente non tutti i giudizi qui espressi ci sembrano condivisibili (ed i lettori sanno che ad esempio per noi l'opposizione alla violenza e' una discriminante rigorosa, e che certe sottovalutazioni e ambiguita' anche da parte di autorevoli studiosi ci paiono assai gravi)] Un movimento, quello new-global, plurale da un punto di vista politico, delle pratiche quotidiane, della composizione sociale e generazionale. Il rifiuto della denominazione no-global, in nome di una globalizzazione dal basso, dei diritti, della democrazia. Un movimento in cui confluiscono anche vecchie ideologie e si riciclano vecchi gruppi, ma in cui a prevalere sono comunque gli elementi di novita'. * - "Una citta'": Lei sta facendo una ricerca sul movimento new-global. Ci puo' dire quali sono, secondo lei, le caratteristiche nuove di questo movimento? - Donatella Della Porta: Il discorso sulla novita' dei movimenti e' sempre difficile da affrontare perche' in genere anche i movimenti tendono a costruirsi sul passato, quindi ci sono senz'altro molti aspetti di continuita', altrettanto interessanti da mettere in evidenza rispetto agli elementi di novita'. Dal punto di vista dell'innovazione direi che la novita' forse piu' rilevante e' la capacita' di mettere in rete, di collegare delle identita' molto diverse dal punto di vista sia organizzativo sia di classe sociale, sia generazionale, e che in passato si erano espresse attraverso movimenti, proteste, strutture organizzative diverse, qualche volta anche con qualche tensione tra loro. Per esempio, in passato tra il movimento ambientalista e i sindacati c'erano stati anche momenti di tensione, quando i temi della protezione dell'ambiente venivano contrapposti allo sviluppo e all'occupazione. Nel movimento c'e' una grande attenzione al sud del mondo e ci sono movimenti nel nord del mondo che cercano di sviluppare un collegamento: da questo punto di vista anche in passato c'erano movimenti che si dicevano internazionalisti e cercavano di mettere in collegamento parti del mondo diverse, pero' in questo caso la consapevolezza che l'azione sui temi della globalizzazione debba essere globale, mi sembra molto piu' forte. Un altro dato interessante, in relazione ai movimenti del passato, e' che negli anni Settanta erano emersi alcuni movimenti, come quello delle donne e quello ecologista, che erano stati definiti post-materialisti, perche' ritenevano prioritari temi come quello delle liberta', della difesa della soggettivita' rispetto al problema della giustizia sociale, che forse sentivano un po' in via di risoluzione. Adesso invece in questi movimenti si e' creato un ponte, un'interazione tra i temi classici della sinistra tradizionale, in particolare la giustizia sociale, e temi che erano stati avanzati da movimenti sociali nuovi, in particolare la ricerca di forme nuove di democrazia. E' interessante vedere anche come queste diversita' vengono percepite dall'interno del movimento e dalle diverse anime e aree in cui il movimento si articola, come una ricchezza. Anche in passato i movimenti sociali erano stati caratterizzati dalla compresenza di identita' diverse, pero' c'era stata sempre un'aspirazione a una unicita', alla ricerca di una struttura organizzativa unitaria e, soprattutto, di un'identita' unitaria. Ora invece tutto cio' sembra superato da un'accettazione della molteplicita' come espressione positiva per il movimento. L'elemento di continuita' che anche la nostra ricerca ha individuato consiste nel fatto che questo movimento mette insieme un attivismo, una partecipazione politica, che si erano espressi gia' in passato. Le persone che abbiamo intervistato, che avevano partecipato alla manifestazione di Genova o anche ad altre successive, sono persone che avevano vissuto in passato esperienze in diverse realta' associative, da quelle di tipo solidaristico, le organizzazioni del cosiddetto terzo settore, le associazioni di volontariato, ad associazioni legate piu' ai movimenti sociali, delle donne, dell'ambiente. E questo anche e' interessante: sempre di piu' le manifestazioni vengono promosse da centinaia e centinaia di sigle. A Genova la protesta contro il G8 era stata promossa da un grande cartello di circa 800 organizzazioni. Un aspetto interessante e' che queste organizzazioni sono anche estremamente eterogenee come forme d'azione, come strumenti organizzativi, ma riescono - e questa e' una novita' - a incontrarsi, a mettersi in rete, spesso anche utilizzando la cosiddetta "rete delle reti", internet, per entrare in contatto, privilegiando, appunto, un'identita' molteplice ma coordinandosi su alcuni temi centrali per il movimento. * - "Una citta'": Anche una certa confusione, chiamiamola ideologica, si puo' ricondurre a questa pluralita'? La confusione del nome, ormai evoluto da "no" a "new", in qualche modo testimonia una complessita' della realta', per cui si e' tutti un po' amanti delle differenze, ma allo stesso tempo ancora tutti molto universalisti... - Donatella Della Porta: Nelle interviste che abbiamo fatto con gli attivisti ci e' sembrato che emergesse in maniera abbastanza chiara che il "no" e' una componente molto minoritaria del movimento. Non a caso il movimento tende a rifiutare l'etichetta di no-global, ma abbiamo notato che anche gli attivisti tendono a pensare a un'altra globalizzazione, piuttosto che a una contrapposizione a tutte le forme di globalizzazione. Il "no" netto e' a un tipo di globalizzazione, cioe' a una globalizzazione neoliberista, alla globalizzazione dei mercati, che ha voluto dire riduzione della capacita' della politica di intervenire rispetto alle disuguaglianze economiche. La percezione che, soprattutto negli anni '80 e '90, la globalizzazione sia stata sponsorizzata, portata avanti da alcune organizzazioni internazionali che hanno privilegiato la liberalizzazione degli scambi rispetto ad ogni obiettivo di sviluppo eco-sostenibile, di difesa dell'ambiente, ma soprattutto di difesa dei diritti sociali e' un tema unificante che tiene insieme un'area che va dai gruppi della Rete Lilliput, alcuni anche vicini a un attivismo di tipo cattolico, ai gruppi dei centri sociali. Li' c'e' un "no" netto, li' c'e' un'identita' che si contrappone, e anche delle richieste articolate che si contrappongono a questa forma di globalizzazione. Pero', per il resto, il movimento e gli attivisti si percepiscono come attivisti di un mondo globale, dove i problemi non possano essere affrontati in maniera localizzata, ma collegando ricerche di soluzioni locali e globali in nome di una globalizzazione dei diritti. Quindi c'e' anche la consapevolezza che alcuni aspetti della globalizzazione rappresentano risorse piuttosto che vincoli. La definizione del movimento "no-global" era presente solo nel 5% dei nostri intervistati. Nella maggior parte dei casi quello che unificava era la richiesta di una globalizzazione diversa, di un altro mondo possibile, dove gli slogan, che sono abbastanza indicativi delle richieste del movimento, sono appunto "globalizzazione dal basso", "globalizzazione dei diritti", che ancora riportano a questi due nodi che mi sembrano centrali in questo movimento: richiesta appunto di giustizia sociale, globalizzazione dei diritti e di democratizzazione con la ricerca di forme di democrazia nuove. * - "Una citta'": A chi esprime diffidenza verso il cosiddetto antagonismo di alcune parti consistenti del movimento, responsabile in parte dello "scontro" genovese, altri osservatori replicano: "State attenti perche' c'e' una novitq', a parte gli antagonisti di professione, la maggior parte delle persone va alla manifestazione, si contrappone ma poi, rientrando nel quotidiano, fa delle cose, la bottega dell'equo-solidale, l'associazione, e li' c'e' la proposta, c'e' il "riformismo" in qualche modo... - Donatella Della Porta: Intanto bisogna dire che a Genova erano presenti due tipi di gruppi fra i piu' radicali: da un lato i black block, un gruppo considerato anche dal movimento come piuttosto esterno, sempre piu' antagonista anche del movimento stesso, le cui iniziative vengono percepite come forme di azione sbagliate e con effetti negativi. Invece un'altra componente, presente e visibile a Genova, che fa parte a tutti gli effetti della rete, del movimento, e' quella dei "disobbedienti", dei centri sociali, delle allora "tute bianche". Io credo che ci sia stata un'evoluzione interessante all'interno dei centri sociali, che li ha portati progressivamente ad allontanarsi da forme di protesta piu' violente verso una ritualizzazione simbolica dello scontro, che prevedeva piu' che una militarizzazione effettiva, lo spostamento a un livello simbolico, quasi mitologico, del conflitto. E sotto questo profilo credo che sia un'evoluzione che puo' aiutare una descalation piuttosto che un'escalation dei conflitti. E dopo Genova credo ci sia ancora piu' attenzione, da parte del movimento, a evitare di dare un'impressione di un movimento violento. Per esempio a Firenze questa attenzione e' stata molto forte. Sembrava che in tutto il movimento, inclusa l'ala dei disobbedienti, ci fosse una consapevolezza del rischio di farsi percepire come parte di gruppi radicali. E quindi l'evoluzione che c'e' stata, soprattutto nel corso degli anni Novanta, ha facilitato una riduzione dell'utilizzazione effettiva della violenza. Genova, per esempio, avrebbe potuto riavviare un processo di radicalizzazione, e invece per il movimento e' diventato un campanello d'allarme: dopo Genova non ci sono stati episodi di radicalismo nelle forme d'azione. Quindi diciamo che da questo punto di vista ho l'impressione, e anche i dati che abbiamo raccolto lo confermano, che questo e' un movimento molto convinto della nonviolenza, sia del valore simbolico piu' profondo, soprattutto in alcune componenti del movimento che teorizzano la nonviolenza gandhiana, che definiscono la nonviolenza con la enne maiuscola, ma anche nelle altre ali del movimento, quelle che non sono convinte della nonviolenza come valore in se', ma sono fortemente convinte che in questo momento sia sbagliato, in paesi democratici, utilizzare forme d'azione radicali. Questo non deve far pensare che i movimenti sociali rinunzino del tutto a forme di protesta non convenzionali. Cosi', per esempio, l'occupazione o il cosiddetto smontaggio dei centri di permanenza temporanea degli immigrati senza documenti sono forme di azione sicuramente non convenzionali, pero' analoghe, in qualche modo, agli scioperi del passato, le occupazioni, i blocchi stradali, a forme di protesta, cioe', che, credo sarebbe molto pericoloso considerare solo sotto il profilo dei problemi di ordine pubblico. La protesta e' di per se' dirompente, e' di per se' un'azione che esce dalla routine, pero' ci sono forme di protesta che sono momenti in cui si cerca di acquisire visibilita', ma una buona gestione dell'ordine pubblico consiste nel non far degenerare queste forme non convenzionali in forme d'azione violenta. Io credo che su questo ci sia, sia da parte delle forze di polizia che da parte dei manifestanti, una certa pratica che si e' sviluppata negli ultimi due decenni, che a Genova non e' stata sostenuta, ma che poi mi sembra abbia dato buoni risultati successivamente, sia a Firenze, che nelle manifestazioni precedenti al Social Forum Europeo e successive alla contestazione del G8. * - "Una citta'": E rispetto al retroterra quotidiano? - Donatella Della Porta: Questo e' una novita' degli ultimi dieci anni, e il movimento new-global o globalizzazione dal basso, come lo vogliamo chiamare, e' riuscito a rendere visibili una serie di esperienze che si erano mosse soprattutto nell'ambito sociale, delle pratiche dell'obiettivo, di crescita della consapevolezza, senza, pero', acquisire visibilita' politica: le banche etiche, il commercio solidale, la proposta di bilanci alternativi, ma anche la vita quotidiana dei centri sociali, che spesso e' fatta di attivita' di sostegno a gruppi marginali, attivita' di volontariato sociale. Diciamo che il passaggio rispetto agli anni Settanta, che e' ancora visibile nel movimento, e' stata la ricerca di un impegno concreto, anche di forme d'azione che permettessero di cominciare a cambiare se stessi e il proprio ambiente, a partire dalla vita quotidiana. Questo c'e' molto, fa parte un po' dell'esperienza di testimonianza cattolica, ma anche dell'evoluzione di movimenti come quello delle donne, che avevano sottolineato l'importanza di cambiare le coscienze, piuttosto che di prendere il potere politico. C'e' poi un'altra novita' importante, anche se e' in qualche modo un'evoluzione dei movimenti precedenti: l'attenzione alla formazione di un contro-sapere, di una nuova cultura, di informazione, che si esprime spesso attraverso i forum sociali, che sono gigantesche conferenze con relazioni spesso ad alti livelli di contenuto scientifico, spesso con un linguaggio anche piu' da addetti ai lavori che da politici. Si privilegia l'attenzione alle informazioni, al sapere, a non costruire delle grandi ideologie, ma a costruire partendo da una conoscenza delle cose. Con questo non voglio certo idealizzare questi incontri, dove c'e' anche molta presentazione di discorsi identitari, organizzativi, legati a temi ideologici degli anni '60 e '70. Pero' quello che e' nuovo, che stupisce, e' che nei Forum sociali, i grandi leader non sono i politici ma piuttosto gli studiosi. Al Forum sociale di Porto Alegre erano in 3.000 ad aspettare Noam Chomsky, che faceva una relazione da esperto delle comunicazioni di massa. Anche questo e' un aspetto abbastanza nuovo rispetto ai movimenti degli anni '60. * - "Una citta'": E rispetto alla composizione sociale del movimento? - Donatella Della Porta: In questi questionari che abbiamo distribuito a Genova e poi ad altre manifestazioni, alla Perugia-Assisi, e poi adesso al Social forum europeo, c'era anche una domanda sulla base sociale. Anche li' la novita' sembra essere la pluralita'. E' un movimento senz'altro multi-classe. Anche questa e' una novita' rispetto ai tipici movimenti sociali degli anni Settanta, Ottanta che erano stati dei movimenti prevalentemente di ceti medi, di nuovi ceti medi, da una parte, e un movimento sindacale prevalentemente di classe operaia e di ceti medi dipendenti. Il movimento new-global vede una presenza fortissima di giovani, e quindi di studenti, con livelli di istruzione elevati, e poi, pero', di operai, di lavoratori, della nuova classe operaia del lavoro interinale, magari non manuale, pero' sicuramente estremamente precario. Quindi, dal punto di vista della base sociale, emerge questa presenza caratteristica multi-classe e multi-generazionale, che pure e' nuova rispetto al passato. Al momento sto studiando lo stesso movimento qui in Francia, e stiamo iniziando una ricerca anche sulla Germania, e questo sembra essere un dato comune, quindi non solo italiano, ma anche degli altri movimenti in Europa. * - "Una citta'": Questo fatto degli adulti e dei giovani insieme fa impressione. Non c'e' alcun problema generazionale? - Donatella Della Porta: Infatti, non c'e' scontro generazionale. A Firenze, oltre al questionario, abbiamo utilizzato un'altra tecnica di ricerca che si chiama "focus group", quindi con interviste piu' in profondita', piu' utile proprio per approfondire alcuni temi, l'identita' del movimento in particolare. E li', per esempio, e' emerso che nei Forum sociali locali sono presenti almeno cinque diverse generazioni: i giovanissimi, la generazione universitaria, i settantasettini, i sessantottini, ma poi anche la generazione degli anni Cinquanta, del dopoguerra. Quindi sono tante le generazioni compresenti. Non solo padri e figli, come hanno detto i giornali a proposito di alcune manifestazioni dell'ultimo anno, ma spesso anche i nonni. Non c'e' conflitto, non sembra emergere conflitto, sembra emergere piu' dialogo che scontro; mentre per esempio nel '68 c'era stato anche l'aspetto di una generazione che si contrapponeva a un'altra, questo nel movimento new-global non c'e'. Certo, c'e' una difficolta' spesso a trovare un linguaggio, trovarsi, trovare e riuscire a darsi delle strutture di coordinamento per una base organizzativa cosi' frastagliata, ma ecco, sicuramente non c'e' una dimensione di conflitto generazionale. * - "Una citta'": Per concludere, un movimento come questo ovviamente diventa anche contenitore di tutto, anche delle vecchie ideologie, un certo anti-americanismo pregiudiziale, un certo tipo terzomondismo, o le stesse varie correnti comuniste. Ecco, secondo lei le vecchie storie quanto peso hanno? O prevalgono gli aspetti di novita'? - Donatella Della Porta: E' una domanda che si pone spesso qui in Francia, in maniera anche evidente, perche' molti dei personaggi piu' visibili del movimento sono persone con un passato nei gruppi trotzkisti, o anche nel partito comunista francese, che era un partito comunista con un'identita' particolarmente chiusa. Io ho l'impressione che questo aspetto del "contenitore" di tante cose differenti si veda anche in Italia. E pero' non mi sembra l'aspetto piu' dinamico del movimento. Se si guarda nelle riunioni, non c'e' dubbio che c'e' un po' l'effetto palcoscenico, dove attivisti di organizzazioni sopravvissute al passato, al riflusso dei movimenti, di gruppi piu' tradizionali, e spesso burocratizzati, trovano un momento per ripresentarsi e cercano di entrare, pero' mi sembra che non esercitino una forte capacita' di attrazione, soprattutto rispetto alle generazioni nuove. Queste, che rappresentano il numero piu' consistente e crescente, mi sembra non si facciano condizionare o coinvolgere da questi possibili rischi di cooptazione. E mi sembra che siano soprattutto loro a dare il tono al movimento. 4. RILETTURE. NORBERTO BOBBIO: LA MIA ITALIA Norberto Bobbio, La mia Italia, Passigli, Firenze 2000, pp. 448, euro 11,90. Quarto volume di profili di maestri ed amici (dopo Italia civile, Maestri e compagni, Italia fedele); dell'immensa opera di Bobbio le limpide ed intense testimonianze di questa tetralogia di ritratti sono una delle gemme piu' belle. 5. RILETTURE. OSCAR CULLMANN: IL NUOVO TESTAMENTO Oscar Cullmann, Il Nuovo Testamento, Il Mulino, Bologna 1968, 1979, pp. 174. Una nitida monografia introduttiva, dell'indimenticabile illustre teologo e straordinario promotore del dialogo. 6. RILETTURE. LU HSUN: FUGA SULLA LUNA Lu Hsun, Fuga sulla luna, De Donato, Bari 1969, Garzanti, Milano 1973, pp. XVIII + 478. L'opera piu' propriamente narrativa del grande intellettuale democratico cinese, con alcuni capolavori assoluti. 7. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 8. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti, la e-mail e': azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: lucben at libero.it; angelaebeppe at libero.it; mir at peacelink.it, sudest at iol.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it. Per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Per non ricevere piu' questo notiziario e' sufficiente inviare un messaggio con richiesta di rimozione a: nbawac at tin.it Numero 504 dell'11 febbraio 2003
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