La nonviolenza e' in cammino. 481



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 481 del 19 gennaio 2003

Sommario di questo numero:
1. Pietro Ingrao: no alla guerra
2. Viviana Vivarelli, alla pace si arriva per molte vie
3. Elettra Deiana, interrogazione parlamentare sulla missione degli alpini
in Afghanistan (con la risposta del Ministro della Difesa)
4. Benito D'Ippolito, in memoria di don Beppe Socci
5. Angela Giuffrida, ancora un contributo alla riflessione promossa da
Giancarla Codrignani
6. Cristina Bevilacqua, non disperdere la partecipazione
7. Enrico Peyretti, la giustizia e il consenso
8. Luisa Muraro, insegnare la liberta'
9. Osvaldo Caffianchi: un ricordo di Joe Strummer, in forma di lapide
10. Marina Forti, l'assenza italiana a Hyderabad
11. Severino Vardacampi: ce la sentiamo di cominciare a preparare lo
sciopero generale contro la guerra?
12. Letture: Trudi Birger, Ho sognato la cioccolata per anni
13. Letture: Stefania Limiti (a cura di), I fantasmi di Sharon
14. La "Carta" del Movimento Nonviolento
15. Per saperne di piu'

1. RIFLESSIONE. PIETRO INGRAO: NO ALLA GUERRA
[Riportiamo il testo dell'intervento di Pietro Ingrao all'iniziativa contro
la guerra in cui era relatore insieme ad Oscar Luigi Scalfaro, svoltasi a
Roma il 15 gennaio 2003. Pietro Ingrao e' nato nel 1915 a Lenola, laureato
in giurisprudenza e lettere, partecipa alla lotta clandestina antifascista e
alla Resistenza. Giornalista, direttore de "L'Unita'" dal 1947 al 1957, dal
1948 deputato del Pci al Parlamento per varie legislature e tra il 1976 e il
1979 presidente della Camera dei Deputati. Sono di grande rilievo le sue
riflessioni sui movimenti, le istituzioni, la storia contemporanea e le
tendenze globali attuali. Tra le opere di Pietro Ingrao: Masse e potere,
Editori Riuniti, Roma 1977; Tradizione e progetto, De Donato, Bari 1982; Le
cose impossibili, Editori Riuniti, Roma 1990; Interventi sul campo, Cuen,
Napoli 1990; Appuntamenti di fine secolo, Manifestolibri, Roma 1995 (con
Rossana Rossanda ed altri)]
Parto dalla domanda: perche' siamo qui stasera, in questo luogo della Camera
dei Deputati, del Parlamento italiano?
Noi pure cosi' diversi per fede politica e formazione culturale, per storia
personale e anche per eta': e vengo a parlare in questa sala anch'io, cosi'
avanti nell'eta', un vecchio che quasi lambisce i novanta anni? Che ci
muove? Che ci allarma?
Ho innanzi a me il cartoncino che annuncia questo nostro incontro, e ha in
testa un nome e una frase. Cita l'articolo 11 della Costituzione, e la frase
grave e impegnativa che lo connota: "L'Italia ripudia la guerra".
C'e' stato un momento in cui parve che quell'articolo fosse cancellato e
superato. E a chi lo evocava veniva risposto che ormai l'impegno dell'Italia
repubblicana nella guerra e nella pace era segnato da un altro codice, che
era quello delle Nazioni Unite. E anche il presidente della Camera, Casini,
sembro' aderire a questa lettura, che alla fine fatalmente sembrava
allontanare (sbiadire e confinare nel passato) la Carta costituzionale,
visto che si annullava quel suo punto cruciale, e - dico io - cosi'
significativo della volonta' che muoveva i Padri costituenti.
Davvero si poteva disporre cosi' facilmente della Costituzione repubblicana?
E come si poteva seppellire quel suo disposto sulla guerra?
Poi vennero la fine del Duemila e il discorso del presidente della
Repubblica, che tornava a leggere quell'articolo 11 e il suo "no" alla
guerra, anche se il presidente si affrettava ad evocare subito "la
partecipazione dell'Italia alle missioni per il mantenimento della pace e di
lotta al terrorismo": come a purgare quell'articolo 11 da un difetto di
provincialismo.
E invece quell'articolo da tutto nasce fuorche' da una vicenda provinciale,
figlio diretto come esso e' della terribile esperienza di due guerre
intercontinentali: e a quella tragica vicenda mondiale guardava chi l'aveva
scritto.
E in verita' ancora adesso cio' che ha riportato alla ribalta quel dettato
della Costituzione e' un evento mondiale.
A trarre dall'ombra quel brano della Costituzione italiana e' la nuova
dottrina (e la pratica, temo) enunciata dal presidente americano dinanzi al
suo Paese e al mondo: quella dottrina che afferma la necessita' e la
legittimita' della "guerra preventiva", questa nuova codificazione del
ricorso alle armi.
L'ultimo decennio del Novecento aveva visto il ritorno e via via la
"normalizzazione della guerra", piu' o meno depurata dalla sua violenza
dall'aggiunta di quegli aggettivi: "giusta" o "santa"; quasi nettata del suo
sangue da una carica di eticismo, e in ogni modo assunta come momento
"normale" dell'agire politico, e tuttavia pur sempre come ultima ratio, come
conseguenza obbligata di un agire dell'avversario non altrimenti
contenibile.
Oggi invece dalla potenza americana viene assunto come criterio l'agire
prima, il ricorso preventivo alle armi, il precedere l'avversario.
E davvero cosi' diventa arduo definire dei criteri di legittimita'. L'idea
della guerra di difesa - a cui tanto hanno fatto ricorso, nei secoli,
nazioni ed imperi - si rovescia nel suo contrario: l'attacco preventivo
diventa il criterio di una strategia fatale per governare l'irrequietezza
del mondo.
E questo a me sembra non solo una lettura agghiacciante del governo del
mondo, ma anche un regalo inaspettato fatto agli strateghi sanguinosi del
terrorismo per poter giustificare la loro cieca semina di morte, e una
spinta ai capi disperati di Hamas a predicare ancora per dire agli
adolescenti: fatti kamikaze, non hai altra via.
Domando: di fronte a questo nuovo codice mondiale a che titolo potremo dire
al dittatore nord-coreano "distruggi le tue atomiche"? Quando Stati,
nazioni, popoli si sentiranno esposti, in ogni momento, ai rischi della
iniziativa preventiva del piu' forte?
La parola disarmo gia' era scomparsa dai cieli di questo pianeta. Adesso
appare persino ridicola nel nuovo tempo della guerra preventiva.
Questo e' il nuovo scenario. Che ha a che fare con il ripudio della guerra
chiesto dall'articolo 11?
Certo se ne puo' ricavare la conseguenza che quella Costituzione e' morta.
Ma anche la Carta dell'Onu va in polvere se avanza la guerra preventiva. O
almeno diventa arduo alzare la bandiera dell'Onu e tacere sulla guerra
preventiva.
Il Parlamento italiano, se non erro, ha discusso in plenaria sulla vicenda
irachena il 25-26 di settembre. Vedo che gli ispettori dell'Onu in Iraq
chiedono tempo. Ma intanto verso quel fatale Medio Oriente gia' si muovono
flotte ed eserciti. E siamo ormai - ci dice il Capo americano - nell'era
della possibile guerra preventiva: anche rispetto alle conclusioni degli
ispettori dell'Onu.
Ho lavorato a lungo nella Camera dei deputati. In ore tristi e in ore liete.
Quel compito di rappresentare la nazione mi appassionava. Adesso sento la
responsabilita' grande che pesa su di voi - deputati del popolo - nel grave
frangente che attraversa il mondo.
Dinanzi a voi stanno domande ineludibili: in fondo su di voi pesa il compito
di appurare se regge ancora e ha valore la Costituzione di questo Paese, e
anche quanto la nazione italiana puo' incidere sulle decisioni delicatissime
che attendono il giovane Parlamento europeo.
Diciamoci la verita': c'e' chi considera ormai un pesante ingombro queste
assemblee, questi luoghi della rappresentanza di fronte al nuovo potere dei
Capi, nel tempo nuovo della guerra preventiva e dei nuovi disegni imperiali.
Non io, ne' altri nel Paese la pensiamo cosi'. Anzi crediamo ancora alla
rappresentanza larga. E pensiamo che sulla guerra e sulla pace debbano
parlare e pesare la larga rete delle assemblee: dai Comuni, alle Province,
alle Regioni. Che vengano da voi a Roma, e vi dicano i loro timori e
speranze.
Quando se non ora devono venire ad incontrarvi? Se non in questa vigilia in
cui si decide sulla pace o sulla fortuna o meno della nuova guerra
preventiva, e tutti temiamo che in Iraq torni il vento aspro della guerra.
Queste sono le domande.
Guardando ad esse si chiarisce se la Costituzione in nome della quale giura
il presidente della Repubblica e' consumata, o ancora vive e ha un domani la
sua grande domanda di pace.

2. RIFLESSIONE. VIVIANA VIVARELLI: ALLA PACE SI ARRIVA PER MOLTE VIE
[Ringraziamo Viviana Vivarelli (per contatti: viviana_v at libero.it) per
queste riflessioni che estraiamo da una lettera personale di squisita
gentilezza. Viviana Vivarelli, insegnante, e' impegnata nel movimento per la
pace, svolge un'efficace attivita' di analisi e diffusione dell'informazione
pacifista piu' qualificata, e ha profuso uno straordinario impegno
nell'iniziativa delle "bandiere di pace"]
Il pacifismo lo si puo' praticare in molti modi: informazione, lavoro
politico, lavoro educativo, manifestazioni, obiezioni e servizio civile,
convegni, media, servizio, aiuto sociale, consumo critico, vita sobria,
informazione alternativa, stampa, internet,  volantinaggio, conferenze,
lettere ai giornali, appelli ai governi, firme, interposizione pacifica,
apostolato, canzoni, preghiera, onesta' di vita, marce...
Io credo per esempio che lavorare sull'opinione pubblica, sui media e sui
partiti possa dare dei frutti.
In India si dice: "Al Gange si scende per molte scalinate", cosi' e' per la
pace, alla pace si arriva per molte vie.

3. PARLAMENTO. ELETTRA DEIANA: INTERROGAZIONE PARLAMENTARE SULLA MISSIONE
DEGLI ALPINI IN AFGHANISTAN (CON LA RISPOSTA DEL MINISTRO DELLA DIFESA)
[Ringraziamo Elettra Deiana (per contatti: deiana_e at camera.it) per averci
inviato copia della sua interrogazione e del suo intervento in aula (con la
risposta del ministro, e la sua replica ad essa) sulla missione degli alpini
in Afghanistan. Elettra Deiana e' parlamentare del Prc, da sempre impegnata
nel movimento delle donne, per la pace e i diritti]
Interrogazione del 14 gennaio 2003
Al Ministro della difesa. - Per sapere
- premesso che:
la missione del contingente degli alpini in Afghanistan e' iniziata
nell'assenza piu' totale di qualsiasi ragguaglio, contrariamente a quanto il
Governo aveva assicurato, come dimostra l'avvenuta partenza dei primi
ufficiali e del cosiddetto "gruppo di avanguardia", il cui trasferimento in
Afghanistan sara' completato a febbraio 2003 e diventera' operativo a marzo
2003;
l'intervento degli alpini, che andranno a sostituire i ranger britannici,
ritirati da qualche mese in vista dell'intervento in Iraq, sara'
direttamente sotto la guida del comando americano e a supporto delle truppe
speciali dell'esercito Usa, con compiti molto diversi da quelli di
peacekeeping con cui sono stati presentati finora i nostri interventi
militari;
gli alpini andranno ad occupare i territori tribali pashtun, al confine tra
il Pakistan e l'Afghanistan, al fine non solo di impedire l'ingresso di
bande terroristiche, ma anche di contrastare i traffici illeciti del
commercio dell'oppio, totalmente nelle mani dei signori della guerra, in
zone di estrema pericolosita';
in quella regione sono state ben 400 le vittime, tra morti e feriti, tra i
marine americani, soprattutto lungo la linea di Durand, dove si dovrebbe
schierare il contingente degli alpini;
per stessa ammissione del generale Richard Mayers, capo di stato maggiore a
Bagram, il 90 per cento degli attacchi contro gli americani avvengono in
quel territorio e, quindi, la zona della frontiera del Pakistan resta la
piu' pericolosa e difficile da controllare;
il Governo italiano aveva dato in Parlamento assicurazione che il
trasferimento di autorita' del contingente di mille alpini sarebbe avvenuto
con attenta valutazione e chiara definizione dei compiti, delle regole di
ingaggio e dei limiti di impiego -:
quali siano regole di ingaggio, finalita' e modalita' della partecipazione
del contingente italiano alla missione e se non ritenga che si configuri la
possibilita' per il nostro Paese di un coinvolgimento in un'operazione
militare con evidenti aspetti di criminalita' bellica e in aperta violazione
di tutte le regole del diritto internazionale.
*
Intervento di Elettra Deiana in aula il 15 gennaio 2003
Signor Presidente, la partenza del contingente di alpini italiani destinati
a partecipare all'operazione Enduring Freedom direttamente sul territorio
afgano solleva una serie di questioni di prima grandezza sulle quali questo
Parlamento non ha avuto modo di discutere.
Primo problema: il rischio. Gli alpini andranno ad occupare i territori
tribali al confine con il Pakistan, che sono tra i piu' pericolosi; la' le
vittime sono state moltissime, tra morti e feriti, tra le forze impegnate
nelle battaglie e nelle azioni militari.
Il secondo problema riguarda la natura della missione. Si tratta, a nostro
avviso, di una coda particolarmente ripugnante della guerra in Afghanistan,
cioe' un'azione con la quale gli Stati Uniti, le forze angloamericane, hanno
utilizzato fino ad ora gli scontri tribali tra integralisti islamisti
(pro-regime dei talebani) e integralisti dell'alleanza del nord per imporre
una pacificazione.
Le domande sono: che cosa vanno a fare gli alpini? Quali sono le modalita',
le regole di ingaggio e le finalita' dell'intera operazione, che rischia di
coinvolgere il nostro paese in una responsabilita' gravissima sul terreno
del diritto internazionale, dei diritti umani e anche del diritto di guerra?
*
Risposta del Ministro della Difesa, Antonio Martino, in aula il 15 gennaio
2003
Signor Presidente, in linea con l'impegno assunto in occasione dell'assenso
parlamentare alla missione, espresso con le risoluzioni del 3 ottobre 2002,
il Governo ha tenuto costantemente informato il Parlamento sulle finalita' e
le modalita' dell'operazione del contingente terrestre destinato in
Afghanistan.
Non solo, il Governo ha anche invitato le Commissioni ad una visita al
contingente, il 22 gennaio, nel poligono di Monte Romano. In quella
circostanza, gli onorevoli parlamentari, attraverso briefing, contatti con
gli uomini, osservazioni di significative fasi tattiche sul terreno,
potranno acquisire tutte le informazioni possibili.
Alcuni aspetti dell'operazione saranno definiti da parte del gruppo
avanzato, che ha lasciato l'Italia venerdi' scorso. Altri lo saranno al
momento del trasferimento della forza nel mese di febbraio ed altri ancora
con le attivita' di integrazione con le forze statunitensi. Comunque, il
contingente non operera' a supporto delle forze speciali Usa. Restera'
l'obbligo della riservatezza per gli aspetti afferenti ad alcune capacita'
delle unita' e alla sicurezza degli uomini.
Quanto alle regole di ingaggio, esse attengono a profili tecnico-operativi,
riguardando le modalita' pratiche che danno attuazione alla missione come
definita nelle sue finalita', e, dunque, sono espressione della
discrezionalita' tecnica della catena di comando militare, che e'
responsabile della loro applicazione. Al riguardo, ricordo che il comando
operativo delle forze resta al Capo di stato maggiore della Difesa italiana.
Nondimeno, e' ancora prematuro parlare di regole di ingaggio che, per loro
natura, dovranno essere aderenti alla situazione di fatto in cui si dovra'
operare. Quello che posso comunque garantire e' che esse autorizzeranno
l'uso della forza nel rispetto del diritto internazionale e della legge sui
conflitti armati nonche' delle leggi e regolamenti nazionali e, ancora, che
saranno congrue alle finalita' della missione assegnata e, dunque, per
concorrere alla neutralizzazione di tutte le sacche di terrorismo ancora
presenti, al fine di creare le condizioni di sicurezza e di stabilita'
necessarie alla riedificazione dell'Afghanistan ed al ristabilimento del suo
legittimo ordine interno.
Non rientra, invece, nei compiti il contrasto ai traffici illeciti di oppio.
Infine, desidero esprimere sorpresa e sdegno per espressioni quali
"criminalita' bellica" e "violazione del diritto internazionale", espresse
non solo in forma generica, ma anche certamente infondata ed oltraggiosa,
riferite alla partecipazione italiana a Enduring Freedom.
Nel ricordare l'apprezzamento e la gratitudine espresse dal Presidente
Karzai all'Italia per l'invio del contingente, respingo poi qualunque
tentativo di collegamento fra la missione e l'evoluzione della crisi
irachena.
Ricordo che l'operazione Enduring Freedom trova fondamento giuridico e
legittimazione morale nel favorevole pronunciamento delle Nazioni Unite e
negli espliciti atti di indirizzo del Parlamento italiano. Soprattutto, si
tratta di un compito di alto profilo operativo che presenta margini elevati
di rischio, peraltro mai minimizzati, che i nostri soldati sono preparati ad
affrontare, con la tradizionale professionalita'.
*
Replica di Elettra Deiana alle dichiarazioni del Ministro della Difesa in
aula il 15 gennaio 2003
Ribadisco il nostro giudizio - che personalmente ho espresso piu' volte -
sulla natura della guerra in Afghanistan. Accetto le rassicurazioni del
signor ministro sull'azione limitata del contingente italiano relativamente
ai compiti di contrasto bellico, nettamente definibili come tali. Tuttavia,
voglio ricordare al ministro che molti episodi di criminalita' militare si
sono verificati nella zona dove il contingente italiano e' destinato a
recarsi. Questi episodi si chiamano i massacri di Mazar-i-Sharif, le torture
nel carcere di Sheberghan (prima ancora che a Guantanamo) e l'episodio
terribile della morte di molti civili verificatosi nella provincia di
Uruzgan durante un banchetto di matrimonio. Sono tutti episodi che definisco
"crimini di guerra", non genericamente ma specificamente.
Gli italiani andranno ad operare in quella zona e quindi al di la' delle
buone intenzioni e delle dichiarazioni buoniste del ministro circa i
compiti, gli impegni e le regole cui i nostri soldati dovranno attenersi, il
rischio gravissimo e' che il contingente italiano venga coinvolto in episodi
di questo genere che, appunto, recano un gravissimo danno all'immagine
dell'Italia e al ruolo che questa deve svolgere anche nella lotta al
proliferare del terrorismo internazionale, a partire da ben altri strumenti,
da ben altre strategie e da ben altri meccanismi di solidarieta' tra i
popoli.
Quindi non mi ritengo affatto soddisfatta della risposta fornita dal
ministro che e' assolutamente in linea con i suoi impegni personali e di
Governo in tutta la vicenda di Enduring Freedom. Sottolineo anche, e
concludo, l'estrema negativita' politico-simbolica di questa partenza
realizzata nel momento esatto in cui si moltiplicano le tendenze e le
dinamiche di guerra in Iraq.
Siccome Bush ha piu' volte sottolineato che Enduring Freedom e la lotta agli
"Stati canaglia" sono la stessa cosa, leggo in questo un messaggio molto
negativo per il nostro paese.

4. MEMORIA. BENITO D'IPPOLITO: IN MEMORIA DI DON BEPPE SOCCI
[Ricorrendo il 19 gennaio l'anniversario della scomparsa, nel 1998, di don
Beppe Socci, prete operaio, presidente del Movimento Internazionale della
Riconciliazione, che con e come don Sirio Politi (ci e' grato ricordare qui
anche questo altro grande maestro e amico della nonviolenza) fu animatore di
tenaci e luminose esperienze di solidarieta' e di pace, il nostro buon
Benito D'Ippolito qui lo ricorda agli amici e a quanti la sua eredita' di
costruttore di pace, di amico della nonviolenza, raccogliere vorranno]

C'e' una Viareggio che non va in diretta
sui network degli assassini.
E' la Viareggio di cuore grande
la Viareggio degli animi bambini.

Don Beppe Socci, prete operaio
come don Sirio scelse la sua parte:
al fianco di chi soffre costruire
pace e giustizia fu la loro arte.

Viveva l'utopia che costruisce
mani di fabbro, e agile anima di ballerina
aveva fede nello spirito incarnato
nella piu' fonda notte recare la mattina.

Aveva quel sapere che si sa
solo se si e' insieme, la sapienza
che solo se e' coscienza vale e va
contro l'orrore e lo sconfigge, scienza
che si fa azione e comunione e gia'
ne sai tu il nome, e il nome e' nonviolenza.

5. RIFLESSIONE: ANGELA GIUFFRIDA: ANCORA UN CONTRIBUTO ALLA RIFLESSIONE
PROMOSSA DA GIANCARLA CODRIGNANI
[Ringraziamo Angela Giuffrida (per contatti: frida43 at inwind.it) per questo
intervento nella riflessione promossa dall'editoriale di Giancarla
Codrignani sui "pacifisti dimezzati". Angela Giuffrida e' docente di
filosofia; tra le sue pubblicazioni: Il corpo pensa, Prospettiva Edizioni,
Roma]
A me pare che quando Giancarla afferma che ai maschi la guerra "piace" anche
nei rapporti interpersonali, sta semplicemente registrando quanto e' sotto
gli occhi di tutti, e cioe' che gli uomini fanno la guerra sempre, anche se
non impugnano le armi.
C'e' una guerra, infatti, di cui nessuno ama parlare, neanche i pacifisti,
nonostante sia in assoluto la piu' vergognosa perche' e' quella che gli
uomini fanno contro le madri della specie.
Non solo la vita della maggior parte delle donne del mondo e' un inferno
grazie alle violenze subite soprattutto tra le mura di casa, ma lo
sfruttamento femminile costituisce la struttura stessa delle comunita'
patricentriche che si reggono sulla gratuita' del lavoro di cura.
Stando cosi' le cose non e' sufficiente, anche se doveroso, dire di volersi
confrontare con la cultura femminista, magari partendo "dalla lettura e
discussione e meditazione delle Tre ghinee di Virginia Woolf", come fa
Severino Vardacampi, ne' e' sufficiente rispondere, a chi chiede come si
puo' evitare la guerra, che basta non farla, come fa Gino Strada. Il
problema ha dimensioni ben piu' vaste e profonde di quanto non si voglia
credere, se gli uomini fanno la guerra persino alla madre che da' loro
gratuitamente la vita.
Secondo me, la prima azione che essi dovrebbero fare per incamminarsi sulla
via del pacifismo, o della civilta' che e' lo stesso, e' fermarsi e
chiedersi perche' hanno bisogno di nemici.
La risposta puo' essere trovata nella forma mentis che l'uomo ha sviluppato
nel corso della sua evoluzione, portata a non assumere il reale nel suo
insieme, ma ad isolare i dati opponendoli fra loro; cosi' non soltanto i
rapporti umani sono improntati alla conflittualita', ma tutta la realta' e'
lacerata e scissa in parti contrapposte e, quel che e' peggio, la stessa
percezione di se' e' dicotomica: l'anima confligge con il corpo, la logica
si oppone all'affettivita' e cosi' via.
L'unico vero problema che il maschio umano deve risolvere al momento e',
percio', superare la parzialita' del suo sguardo sul mondo, costruendosi una
mente contenitiva.
Grazie all'esperienza materna le donne hanno sviluppato, invece, una forma
mentis inclusiva, propensa a cogliere connessioni tra le parti e adatta a
"sopportare" la ricchezza e la complessita' del reale.
Siccome la razionalita' maschile e' stata imposta come l'unica possibile, e'
necessario ora elaborare un nuovo sistema concettuale centrato sui legami e
sui nessi, anziche' sulle lacerazioni e le opposizioni, in modo da comporre
il reale in unita' e trasferire il pensare e il fare della specie dalla
competizione alla collaborazione, dalla morte alla vita.

6. RIFLESSIONE. CRISTINA BEVILACQUA: NON DISPERDERE LA PARTECIPAZIONE
[Dal sito del "Paese delle donne" (www.womenews.net) riprendiamo questo
intervento tenuto da Cristina Bevilacqua (a nome delle associazioni del
comitato promotore dei Girotondi per la democrazia di Firenze: Arci, Emily
in Italia, Firenze al Futuro, Giardino dei ciliegi, Gruppo '94, Laboratorio
Nuova Buonarroti, Legambiente e Testimonianze) all'incontro "Politica e
movimenti: costruiamo insieme un futuro diverso" del 10 gennaio 2003 al
Palasport di Firenze]
Il 2002 e' stato l'anno dei movimenti: sono cresciuti, articolandosi in
percorsi diversi, spesso intrecciati e plurali. Hanno conseguito importanti
risultati, stimolando e sostenendo l'azione dell'opposizione parlamentare e
politica, contribuendo a risollevare l'opinione pubblica dallo sconforto
della sconfitta elettorale.
Ho oggi il compito di dare voce al comitato promotore dei Girotondi per la
democrazia di Firenze, composto da otto associazioni. A partire dal maggio
del 2001 abbiamo avviato un percorso comune: l'obiettivo era ed e' quello di
offrire un contributo alla definizione dei contenuti di un solido progetto
politico alternativo alla destra, e allo sviluppo di un'efficace azione di
opposizione.
I movimenti hanno dato voce collettiva a donne e uomini che rischiavano di
restare muti. Muti e disorientati di fronte alle devastazioni del governo
Berlusconi in tema di diritti, liberta' e democrazia.
Tanti cittadini hanno cosi' individuato nella difesa della Costituzione,
nata dalla lotta di liberazione dal nazifascismo, le ragioni di un nuovo
impegno. In un anno e mezzo, il governo di centro-destra ha pesantemente
intaccato principi fondamentali dell'ordinamento democratico: l'art. 2 che
garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, con la legge Bossi-Fini; l'art.
3 che stabilisce l'uguaglianza dei cittadini davanti alla legge, con la
legge Cirami e con il moltiplicarsi di leggi per garantire l'impunita' al
capo del governo e ad un gruppo di suoi amici e, ora, anche con i condoni e
l'invito al lavoro nero che propongono l'illegalita' e l'impunita' come
situazione permanente e di massa; l'art. 21 che proclama la liberta' di
espressione e informazione, non intervenendo in materia di conflitto di
interessi, asservendo la tv pubblica alla politica del governo, cancellando
dai programmi televisivi coloro che esprimono opinioni diverse; gli art. 33
e 34 che tutelano la liberta' di insegnamento ed il diritto alla scuola,
attraverso i provvedimenti del ministro Moratti: si tagliano le risorse, si
provoca la separazione tra istruzione e formazione, si promuove la
precocita' delle scelte che accresce le differenze sociali, si ipotizza il
controllo politico dei libri di testo, si sostiene la privatizzazione del
bene pubblico dell'istruzione.
I movimenti hanno riempito il vuoto determinato dalla debolezza dei partiti,
hanno dato voce ai tanti muti e disorientati di fronte alle evidenti
difficolta' dell'Ulivo e della sinistra nell'analizzare la realta' e le
ragioni della sconfitta, costruendo con idee e fatti un'opposizione
credibile e unita. In grado, cioe', di coagulare le energie necessarie per
vincere le prossime elezioni politiche.
Il tema e' il rinnovamento della politica. Non e' in gioco la funzione dei
partiti, ma la capacita' di questi partiti di svolgere tale funzione. Non si
tratta di sostituirsi ai partiti e meno che mai di costituirne di nuovi, ma
di agire per rinnovarli.
Siamo per una politica partecipata, fatta giorno per giorno di un paziente
lavoro sul territorio, con una azione basata sulla cittadinanza attiva e non
delegata. Una partecipazione politica all'altezza delle sfide del mondo
nuovo: con una cultura e valori forti, capace di contaminare altri,
unitaria, radicale ma non settaria. E siamo contrari alla
politica-spettacolo, al leaderismo e all'inseguimento ossessivo dei media,
alla svalutazione delle assemblee elettive: tutte scorciatoie che non fanno
altro che ricalcare la cultura populista e demagogica della destra.
Chiediamo di non disperdere la forte partecipazione individuale -
trasversale ai ceti sociali e alle classi di eta' - che, grazie ai
movimenti, ha riportato a pensare e agire chi aveva cessato di farlo, ed ha
portato a manifestare chi non vi era mai andato.
Sosteniamo con convinzione la necessita' di sviluppare una rete nazionale e
locale tra diversi gruppi, associazioni e movimenti che continueranno ad
agire a livello locale, ma che potranno darsi forza reciproca costruendo di
volta in volta un'agenda di intervento su questioni di grande rilievo
(giustizia, informazione, pace, scuola, sanita'...) in nome delle quali
promuovere campagne e manifestazioni.
Promuoveremo nuove iniziative, pensiamo che il governo ce ne sta dando e ce
ne dara' ancora motivo.
Parteciperemo alla protesta che si terra' in occasione dellíinaugurazione
dell'Anno Giudiziario. Sabato 18 gennaio saremo al fianco dei magistrati che
esprimeranno il loro disagio portando con se' una copia della Costituzione.
Sosterremo i girotondi e le iniziative del 26 gennaio sulla salute come
diritto fondamentale dei cittadini, contro la reintroduzione di ticket e
tagli alla spesa sanitaria operati in undici Regioni governate dal
centro-destra, per riaffermare la necessita' di una sanita' pubblica ben
finanziata e di qualita', e per dichiarare il nostro no alla distruzione
dello stato sociale.
Infine, ma non ultimo in ordine di importanza, ci impegneremo contro la
guerra preventiva, per dire no ad ogni guerra, senza se e senza ma. La
nostra condanna nei confronti di qualunque regime autoritario, del
fondamentalismo armato e del terrorismo e' netta e chiara. Ma anche in
questo caso siamo chiamati a vigilare sull'applicazione della Costituzione.
Riempiremo ancora le piazze contro l'illusione della guerra come strumento
di risoluzione delle controversie internazionali, come e' gia' avvenuto
durante il Social Forum Europeo: la piu' grande manifestazione di sempre
contro la guerra.

7. RIFLESSIONE. ENRICO PEYRETTI; LA GIUSTIZIA E IL CONSENSO
[Ringraziamo Enrico Peyretti (per contatti: peyretti at tiscalinet.it) per
questa riflessione (che e' la conclusione di un piu' ampio intervento di
resoconto e di commento critico di un'iniziativa svoltasi a Torino il 10
gennaio). Enrico Peyretti e' uno dei principali collaboratori di questo
foglio, ed uno dei maestri piu' nitidi della cultura e dell'impegno di pace
e di nonviolenza. Tra le sue opere: (a cura di), Al di la' del "non
uccidere", Cens, Liscate 1989; Dall'albero dei giorni, Servitium, Sotto il
Monte 1998; La politica e' pace, Cittadella, Assisi 1998; Per perdere la
guerra, Beppe Grande, Torino 1999. E' diffusa attraverso la rete telematica
(ed abbiamo recentemente ripresentato in questo notiziario) la sua
fondamentale ricerca bibliografica Difesa senza guerra. Bibliografia storica
delle lotte nonarmate  e nonviolente]
Ci sono almeno due tipi di politica: quella del necessario e quella del
possibile. Le due posizioni, con riferimento a valori opposti, si trovano
sia nella destra che nella sinistra.
Nella sinistra, la prima posizione ha di mira la giustizia, l'utopia (nel
senso positivo e concreto di Bloch, l'opposto dell'utopismo), il dovere
etico, la verita' umana da realizzare, un passo oltre la realta' effettuale.
La seconda posizione si attiene alla realta' e considera questo il suo
merito, diffida degli idealismi e quindi anche un po' degli ideali, non vede
la necessita' o la possibilita' di andare oltre il miglioramento (i
"miglioristi") nei limiti del possibile.
Hanno entrambe le loro ragioni. La prima e' detta radicale, o estremista, la
seconda moderata (da modus = misura, limite). In una linea politica possono
esservi entrambi gli aspetti, ma uno dei due prevale e la caratterizza.
D'Alema e Fassino fanno oggi la politica del possibile, Cofferati
rappresenta una sperata politica del necessario. I primi sono meno
intransigenti con Berlusconi, che e' la realta', e sperano di condizionarlo
e contenerlo; chi sta con Cofferati e' piu' intransigente e vuole solo
sostituirlo. I primi rischiano forte di legittimarlo, i secondi di lasciarlo
fare nell'attesa di sconfiggerlo nelle urne. I primi dicono di poter avere
piu' consensi nell'elettorato e in parte della maggioranza attuale. I
secondi di poter fare una politica piu' giusta.
Il consenso bisogna che sia giusto. La giustizia ha bisogno di consenso. Io
(un sessantamilionesimo d'Italia) penso: prima la giustizia, poi il
consenso.
Balducci diceva, riguardo alla pace, una cosa che puo' valere per tutta la
politica: la pace e' "il realismo dell'utopia"; cioe', l'utopia della pace
e' realistica, salva il mondo e l'umanita', e' necessaria, mentre la
"realpolitik" della guerra e' utopistica, non risolve nulla e rende
impossibile la sopravvivenza generale. E' sensato scommettere, nella
situazione locale e mondiale di oggi, che solo l'utopia sia realistica.
L'esigenza etica e quella realistica, sotto la minaccia atomica e imperiale,
coincidono, oggi piu' che mai, nell'etica.

8. MAESTRE. LUISA MURARO: INSEGNARE LA LIBERTA'
[Dal sito della Libreria delle donne di Milano (www.libreriadelledonne.it)
riprendiamo la relazione di Luisa Muraro al decimo simposio
dell'Associazione internazionale delle filosofe, svoltosi a Barcellona, dal
2 al 5 ottobre 2002. Luisa Muraro insegna all'Universita' di Verona, fa
parte della comunita' filosofica femminile di "Diotima". Dal sito delle sue
"Lezioni sul femminismo" riportiamo una sua scheda biobibliografica: "Luisa
Muraro, sesta di undici figli, sei sorelle e cinque fratelli, e' nata nel
1940 a Montecchio Maggiore (Vicenza), in una regione allora povera. Si e'
laureata in filosofia all'Universita' Cattolica di Milano e la', su invito
di Gustavo Bontadini, ha iniziato una carriera accademica presto interrotta
dal Sessantotto. Passata ad insegnare nella scuola dell'obbligo, dal 1976
lavora nel dipartimento di filosofia dell'Universita' di Verona. Ha
partecipato al progetto conosciuto come Erba Voglio, di Elvio Fachinelli.
Poco dopo coinvolta nel movimento femminista dal gruppo "Demau" di Lia
Cigarini e Daniela Pellegrini e' rimasta fedele al femminismo delle origini,
che poi sara' chiamato femminismo della differenza, al quale si ispira buona
parte della sua produzione successiva: La Signora del gioco (Feltrinelli,
Milano 1976), Maglia o uncinetto (1981, ristampato nel 1998 dalla
Manifestolibri), Guglielma e Maifreda (La Tartaruga, Milano 1985), L'ordine
simbolico della madre (Editori Riuniti, Roma 1991), Lingua materna scienza
divina (D'Auria, Napoli 1995), La folla nel cuore (Pratiche, Milano 2000).
Con altre, ha dato vita alla Libreria delle Donne di Milano (1975), che
pubblica la rivista trimestrale "Via Dogana" e il foglio "Sottosopra", ed
alla comunita' filosofica Diotima (1984), di cui sono finora usciti sei
volumi collettanei (da Il pensiero della differenza sessuale, La Tartaruga,
Milano 1987, a Il profumo della maestra, Liguori, Napoli 1999). E' diventata
madre nel 1966 e nonna nel 1997"]
Premessa sulla scelta di questo tema per questo incontro
In questo momento storico, nelle societa' ricche del mondo occidentale, le
donne conoscono una specie di promozione sociale senza liberta'. Di
conseguenza, succede che la crescente presenza di donne nella vita pubblica,
si traduca in un meno di liberta'. Il femminismo stesso diventa un fattore
di omologazione invece che di liberta'.
La mia risposta e' che riflettiamo sull'esperienza di liberta' fatta con il
femminismo, un'esperienza che non ha riscontri nella cultura politica e
filosofica. E, secondo, che ci chiediamo se questa liberta' possiamo
insegnarla. Mi riferisco alla scuola e all'universita', ma non soltanto.
*
Insegnare la liberta'
Insegnare la liberta', se queste parole indicano qualcosa di possibile e di
praticabile, vuol dire fare si' che l'insegnare sia un'esperienza di
liberta'.
Ho dato una traduzione piu' che una definizione. Una traduzione ci voleva
perche', nelle lingue che parliamo (indoeuropee), il significato dipende non
tanto dall'accostamento delle parole quanto dalla loro posizione. Nel nostro
caso, la liberta' si trova nella posizione del nome oggetto di un'attivita',
l'insegnare, svolta da un determinato soggetto, l'insegnante, ma la liberta'
non e' un oggetto d'insegnamento. Se dico che io v'insegnero' la liberta',
la frase e' grammaticalmente corretta e ha un significato chiaro, ma noi
sentiamo che nasconde (cioe', manifesta) un pericolo di illusione o di
arroganza. La liberta', per essere insegnata, bisogna che essa sia
l'in-segnante, ossia che segni di se' il cosiddetto insegnamento.
Ma riconosco che la mia traduzione e' molto forte, perche' introduce una
parola, esperienza, che sfida ogni definizione, e per di piu' la mette in
combinazione con liberta', creando un sintagma, esperienza di liberta', che
non e' aggirabile e fa un taglio netto su tutto il tema.
Se pero' siamo d'accordo con la condizione appena enunciata - bisogna che
sia essa, la liberta', che in-segna, che fa il segno - ci accorgiamo che
questo taglio netto ci fa stare nella condizione detta.
La mia traduzione ("insegnare la liberta' vuol dire fare si' che l'insegnare
sia un'esperienza di liberta'") risponde all'esigenza che sentivamo giusta
per evitare l'inganno e l'arroganza dei discorsi sulla liberta': l'esigenza
di farci segnare dalla liberta', sottostare al suo segno, se c'e',
altrimenti non c'e', per quante belle parole diciamo, belle e vuote. Questo
si applica in primo luogo, a me e noi qui.
Insomma, non c'e' liberta' senza esperienza e la liberta' di cui posso
parlare (che posso insegnare) e' quella di cui c'e' esperienza parlando
(insegnando).
*
Ora vorrei vedere che segno e' quello che fa l'esperienza della liberta'.
Un filosofo che ha il merito di aver tematizzato l'esperienza della
liberta', ha scritto che "L'esperienza della liberta' e' l'esperienza del
fatto che la liberta' e' l'esperienza", e si e' spinto fino ad affermare che
"Tutto quello che occorre pensare della liberta' e' questa affermazione
della propria esperienza" (Jean-Luc Nancy, p. 90).
La semplicita' di questa formula e' affascinante. Ma nasconde (manifesta)
una semplificazione, che si puo' riassumere dicendo, un po' rudemente, che,
in realta', non esiste niente che possiamo chiamare "affermazione della
propria esperienza", a meno di aver tacitato l'im-proprio che c'era
nell'esperienza che si vive, il non-mio che c'era nell'esperienza che chiamo
mia, e che non la rendeva piu' opaca al brillio della liberta'. Voglio dire
che la liberta' non c'entra affatto con l'eventuale scomparsa del non-mio
che faceva parte integrante della mia esperienza, scomparsa che si ottiene
in tanti modi: sopprimendo, assimilando, superando, purificando,
idealizzando... Questa non sono operazioni della liberta', ma della logica
dell'identita'.
E quello che si e' sostenuto, che il simbolo e' la morte della cosa (Lacan,
Scritti, I, p. 313), sembra dettato da un'esperienza che, nel significarsi,
sopprime l'altro e ne prende il posto, in una affermazione di se' che
rispecchia il privilegio della metafora sulla metonimia nella produzione del
significato.
C'e' un'esperienza della liberta' (a meno che non sia questa la liberta' che
consiste nella sua esperienza...) che si rinforza con il senso di una
mancata coincidenza, potremmo quasi parlare di un crescente distacco,
un'esperienza che puo' sentirsi (in colei o colui che la fa) inadeguata nei
confronti di ogni possibile interpretazione, per uno scarto che, cessando
gli sforzi di rendersi adeguata, di farsi comprendere (nel pieno significato
della parola), diventa il luogo di una presa di coscienza di se' nella
differenza (nella non coincidenza di se' con se').
Il segno della liberta' - ossia la liberta' stessa, in quanto questa fa
segno, in quanto agisce simbolicamente - si riconosce nel senso (senso
libero) che prende l'improprio e il non mio che erano parte della mia
esperienza. Si riconosce, per esprimermi semplicemente, nel poter dire che
io sono anche altra da quella che sono, e che vivo anche nel mio morire, per
esempio (che e' piu' che un esempio), e che senza l'altro da me, senza le
altre e gli altri, io non sono io. La liberta' si presenta allora come la
possibilita' di altro (inutile dire che la liberta' ha molti nomi) e come la
possibilita' degli altri presso di me, in relazione a me, in relazione con
me.
"L'esperienza e' una storia del soggetto", ha scritto la storica femminista
Joan W. Scott verso la fine di un articolo sul nodo esperienza, linguaggio e
spiegazione storica (p. 107). Con quelle parole lei riassume il suo
ragionamento secondo cui non si puo' separare l'esperienza dal linguaggio. I
soggetti, scrive, si costituiscono discorsivamente e l'esperienza e' un
fatto linguistico (non succede fuori dai significati stabiliti), ma, grazie
al linguaggio che e' relazionale, non resta chiusa in un ordine simbolico
fisso. (luogo cit., pp. 107-108, io sottolineo; per la precisione, J. W.
Scott parla di "discorso" e dice che e' "collettivo").
Che cosa c'e' di nuovo rispetto alla posizione del filosofo che fa
coincidere la liberta', per l'essenziale ("tutto quello che occorre
pensare"), con l'affermazione della propria esperienza? Che la liberta' qui
si configura piu' come un passaggio che come un inizio, piu' come
possibilita' che come affermazione, piu' come una pratica che come una
teoria (una visione), e che, per pensare la liberta', occorre, anche,
pensare la non liberta': non in un rapporto dialettico, ma come parte
integrante dell'esperienza che e' storia, della liberta' che e' apertura ad
altro.
*
Al pensiero della liberta' come possibilita' di altro e degli altri, siamo
arrivati, donne e uomini (o non siamo arrivati: si tratta di una
possibilita') con il femminismo, e piu' precisamente con le pratiche del
femminismo: quella della relazione e quella del partire da se'.
La tradizione filosofica e politica conosce la condizione di chi vive
un'esperienza che, per sapersi, per affermarsi, sfugge a chi la vive, in
quanto si significa con parole che non la dicono ma la interpretano, le
danno un significato in cui colei o colui che vive l'esperienza si vede ma
come visto da fuori di se', da un punto di vista non suo. Nella tradizione
che ammette la possibilita' di uscire da questa alienazione (che ammette la
liberta'), l'uscita da questa alienazione si ha con un processo di
riappropriazione dell'esperienza e di affermazione di se' (che non e'
necessariamente un io, puo' essere un noi o un'entita' impersonale) come
unico punto di vista valido sulla propria esperienza. Cosa che non si puo'
conseguire, lo ripeto, senza assimilare o espellere il non-io, il
non-proprio, l'altro, che pure era nell'esperienza (altrimenti, non si
potrebbe vivere ne' pensare in uno stato di soggezione). E, dunque, con il
risultato di far esistere un soggetto libero idealizzato.
Con il femminismo abbiamo fatto un'esperienza di liberta' differente. Le
pratiche del femminismo nascono interrogando l'esperienza che era muta. Non
la sopprimono ma la ascoltano, nel senso che fanno silenzio, fanno vuoto.
Non la sostituiscono con l'affermazione, ma la iscrivono, con la sua
mutezza, nel discorso, cosi' che il movimento della logica identitaria si
arresta e la mancata coincidenza di se' con se' diventa o puo' diventare
significativa: il varco da cui passa la possibilita' di altro e la relazione
con gli altri, come una possibilita' di liberta' per me.
Questo discorso risultera' oscuro a chi, donna o uomo, e' diventato
femminista a contatto con il femminismo che non pensa il senso libero della
differenza. Questo femminismo non e' distinguibile da un qualsiasi movimento
di liberazione: e' un movimento di liberazione fra i tanti e mira alla
conquista dell'identita' sopprimendo l'esperienza della soggezione. Mette
l'esperienza della soggezione sul conto della volonta' di dominio del
dominatore, e della complicita', volontaria o involontaria, della vittima, e
la tratta come qualcosa che bisogna superare. In questo modo, il soggetto si
trova invalidato nella sua esperienza e nella possibilita' di essere libero:
puo' essere liberato, in caso puo' liberarsi, ma non essere libero. Pensiamo
al linguaggio delle campagne femministe contro la violenza sessuale:
quest'ultima viene presentata come qualcosa da eliminare, sradicare; non si
considera che la violenza sessuale, per chi la patisce, diventa parte della
sua storia.
*
Con il movimento di liberazione accade dunque che l'io (o il noi) si mette
al posto dell'altro. Al contrario, con le pratiche del femminismo, accade
che l'altro fa breccia nell'io. Non diventa io ne' mio, ma qualcosa (o
qualcuno) che trova posto nei miei discorsi, fosse pure un posto che resta
vuoto, e con il quale ho una relazione di scambio. Detto schematicamente:
l'altro, che prima definiva negativamente la mia identita', ora la
in-definisce, la apre indefinitamente.
L'esperienza della soggezione diventa cosi' fonte di uno speciale sapere, il
sapere che c'e' altro. E' un sapere senza contenuti e nondimeno e' un sapere
che fa luce sulla realta', non meno di quella che fa la teoria della
relativita' sulla realta' fisica, perche' la sprigiona dai falsi assolutismi
dei discorsi dominanti e la mostra nella sua inesauribile possibilita' di
farsi e disfarsi. C'e' qualcosa di meglio da insegnare?
*
Bibliografia
- Jean-Luc Nancy, L'esperienza della liberta', Introduzione di Roberto
Esposito, Traduzione di Davide Tarizzo, Einaudi, Torino 2000 (or.
L'experience de la liberte', Galilee, Paris 1988);
- Joan W. Scott, La experiencia como prueba, Traduccion de Eva Espasa, in
Neus Carbonell y Meri Torras (cur.), Feminismos literarios, Arco/Libros,
Madrid 1999, pp. 77-112 (or. The Evidence of Experience, "Critical Inquiry",
17 (1991), pp. 773-797).

9. MEMORIA. OSVALDO CAFFIANCHI: UN RICORDO DI JOE STRUMMER, IN FORMA DI
LAPIDE
[E' deceduto qualche tempo fa Joe Strummer, chitarrista dei Clash, che a noi
poveri vecchierelli dice pur qualcosa. Il nostro collaboratore Osvaldo
Caffianchi cosi' lo ricorda]

Non era un gran musicista
Joe Strummer,
ma un militante si'.

E mi pare che questo
conti di piu'.

10. RIFLESSIONE. MARINA FORTI: L'ASSENZA ITALIANA A HYDERABAD
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 18 gennaio 2003. Marina Forti e' una
esperta di questioni ecologiche globali]
Perche' gli italiani hanno ignorato il Forum sociale asiatico, che
all'inizio di gennaio ha portato quattordicimila persone da tutta l'Asia
nella citta' indiana di Hyderabad?
Nessuna forza organizzata di movimento ha mandato suoi rappresentanti.
Eppure dall'Italia centinaia di persone si preparano a partecipare al grande
pellegrinaggio laico verso Porto Alegre, Brasile, dove il Forum sociale
mondiale e' alla terza edizione.
Un po' iniziativa individuale, un po' presenza organizzata, l'anno scorso
dal nostro paese si erano mosse circa 600 persone, la piu' numerosa
delegazione dopo quella brasiliana: e quest'anno non saranno di meno.
Giusto: i pellegrinaggi sono importanti, servono a costruire una "comunita'"
su valori condivisi al di la' delle provenienze e traiettorie diverse. Il
Forum sociale mondiale e' uno spazio dove si incontrano movimenti e
individui e gruppi con retroterra e storie politiche diversi, a volte
incomparabili, ma valori in gran parte comuni. Qui trovano obiettivi da
condividere, tessono reti e contatti, discutono strategie comuni.
A Hyderabad sono arrivate persone e movimenti organizzati da 41 paesi
asiatici (anche se la parte del leone e' stata del paese ospite, l'India).
Per sei giorni si e' parlato di pace e guerra, di fondamentalismi, di
commercio e debito e critica alle organizzazioni finanziarie che governano
l'economia mondiale, di democrazia ed esclusione, di risorse naturali e
saperi popolari e costruzione di alternative. Sono i temi comuni ai
movimenti di tutto il mondo contro una globalizzazione trainata dalla
religione del libero mercato.
Certo, nella tappa asiatica sono risuonati linguaggi forse meno familiari a
"no-global" abituati a guardare piu' a occidente (e a Nord) che a oriente (e
Sud). A Hyderabad si parlava di grandi dighe e di sfollati ambientali, di
lotte per i diritti dei Dalit (fuoricasta), di sovranita' alimentare, di
furto delle risorse naturali, di comunalismo (i conflitti identitari e
religiosi e il loro uso politico), di come le leggi antiterrorismo post-11
settembre 2001 stanno svuotando la democrazia, dell'incombente guerra in
Iraq, il riarmo nucleare alla frontiera indo-pakistana, la protesta contro
le basi americane in Corea...
Anche nel caso di Hyderabad il "pellegrinaggio" e' stato importante in se',
oltre le enunciazioni e i comunicati (interessanti, pero': quello finale
elenca sei obiettivi: far fallire il prossimo vertice del Wto a Cancun;
resistere alla penetrazione delle multinazionali; affermare la sovranita'
alimentare; promuovere gli eguali diritti e dignita' delle donne;
distruggere la cultura del fondamentalismo; opporsi alla "guerra al
terrorismo" degli Stati Uniti). Per la prima volta hanno interagito forze
molto diverse: la sinistra marxista, che in India conserva una forza
importante; i "socialisti gandhiani" e in genere i movimenti popolari; le
organizzazioni non governative di vario tipo.
Se si fossero spinti a Hyderabad, gli italiani avrebbero scoperto prassi e
tradizioni politiche diverse, movimenti popolari sorprendenti, e
un'articolazione diversa dei temi che mobilitano tutti noi. Peccato che non
c'erano.

11. APPELLI. SEVERINO VARDACAMPI: CE LA SENTIAMO DI COMINCIARE A PREPARARE
LO SCIOPERO GENERALE CONTRO LA GUERRA?
I governanti che avessero in animo di precipitare l'Italia in guerra devono
saperlo: che non la passeranno liscia.
Che dovranno rispondere del loro delitto nelle corti di giustizia: il
delitto grave quanto altri mai che consiste nel rendersi colpevoli di
crimini di guerra e di crimini contro l'umanita', a tal fine avendo violato
la Costituzione della Repubblica Italiana stessa cui hanno giurato fedelta'
e su cui si fonda la legittimita' del loro potere e ruolo istituzionale.
Che troveranno un'opposizione popolare in nome della legge fondamentale del
nostro ordinamento ed in nome di quel principio che fonda la civilta' umana
da quando un'umana civilta', una civile convivenza esiste: tu non uccidere.
Devono saperlo fin d'ora, che alla guerra ci opporremo: e ci opporremo non
pro forma, non tanto per fare una passeggiata in quel di Roma un fine
settimana, non ammiccando e dando di gomito come nel consueto gioco delle
parti che consente dipoi ai prepotenti di commettere ogni sorta di crimini
purche' le apparenze sian salve. No. Ci opporremo con l'intenzione e col
convincimento di riuscire a fermarla. Con la forza della ragione e della
volonta'. Con la forza della nonviolenza.
Devono saperlo i felloni che volessero far carta straccia della Costituzione
e reiterare le stragi di cui gia' si macchiarono i loro predecessori nel '91
come nel '99 come nel 2001, che non la passeranno liscia. E che agiremo per
fermarli. In nome della legge, con la nonviolenza.
*
Che agiremo in modo limpido ed intransigente. Con la forza della
nonviolenza.
E che tra le azioni che cercheremo di mettere in campo ci potra' essere
anche questa, ci dovra' essere anche questa - se ne avremo la capacita' -:
lo sciopero generale contro la guerra.
Ma uno sciopero generale contro la guerra, che dovra' essere a oltranza fino
alle dimissioni dei golpisti stragisti al potere che l'Italia in guerra
precipitassero, richiede preparazione, consapevolezza, impegno grandi. Si
tratta di cominciare fin d'ora a prepararlo. Con la discussione piu' franca
e piu' attenta, piu' ampia e piu' profonda, cercando di coinvolgere tutte le
persone di volonta' buona.
Cominciamo dunque a lavorarci.
*
Ma per cominciare a lavorarci occorre innanzitutto sgombrare il campo dagli
equivoci e dalle ambiguita'; liberarci delle travi e delle pagliuzze che
oggi come oggi ancora accecano e destituiscono di credibilita' la gran parte
del movimento che pur dichiara di volersi opporre alla guerra.
E per esser chiari: non si puo' un giorno dichiarare che "siamo tutti
sovversivi" e il giorno dopo chiedere agli altri "di rispettare la
legalita'"; per la contradizion che nol consente.
Non si puo' un giorno fare le "dichiarazioni di guerra" sia pur per finta o
sottovalutar le stragi dei terroristi suicidi, e il giorno dopo sostenere
credibilmente che si e' contro tutte le guerre; per la contradizion che nol
consente.
Non si puo' sperare di convincere gli incerti con uno slogan cosi' ambiguo e
rozzo - e quindi inetto e agevolmente fraintendibile - come "no alla guerra
senza se e senza ma" quando invece si tratta di considerare, esaminare,
discutere, affrontare, smontare e confutare proprio tutti i "se" e i "ma"
che la situazione ineludibilmente propone. Per dire no alla guerra sempre,
ma tutti i "se" e i "ma" considerando;  e il no alla guerra assoluto - il
nostro persuaso assoluto "no alla guerra" di amici della nonviolenza, gli
altri "no" sono solo relativi e non persuasivi - adeguatamente argomentando.
Non si puo' essere contro la guerra quando si e' all'opposizione, ed essere
a favore quando si e' al governo.
Non si puo' essere contro la guerra e far finta di niente sulle leggi
razziste con cui il nostro paese condanna a vessazioni inaudite e ad esiti
di morte tanti innocenti (la Bossi-Fini, ma gia' prima la Turco-Napolitano).
Non si puo' essere contro la guerra ed essere a favore degli eserciti e
delle armi.
Non si puo' pensare di opporsi alla guerra se non si fa una scelta
inequivocabile per la pace. E perche' la scelta di pace sia inequivocabile
occorre che essa si traduca nella scelta della nonviolenza (non c'e' bisogno
di aggiungere l'aggettivo "attiva", la nonviolenza o e' attiva o non e'
niente; la nonviolenza e' lotta o non e' niente; la noviolenza combatte
contro la violenza o non e' niente).
La scelta teorica e pratica della nonviolenza: e' il varco se non si supera
il quale si resta complici della guerra.

12. LETTURE. TRUDI BIRGER: HO SOGNATO LA CIOCCOLATA PER ANNI
Trudi Birger, Ho sognato la cioccolata per anni, Piemme, Casale Monferrato
(Al) 2000, 2002, pp. 224, euro 6,90. La testimonianza di una bambina nella
Shoah.

13. LETTURE. STEFANIA LIMITI (A CURA DI): I FANTASMI DI SHARON
Stefania Limiti (a cura di), I fantasmi di Sharon, Sinnos, Roma 2002, pp.
144, euro 12. Un volume di autori vari "per non dimenticare Sabra e
Chatila", il massacro dei circa tremila civili palestinesi inermi avvenuto
in quei campi profughi il 16-18 settembre 1982.

14. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

15. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti, la e-mail e': azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: lucben at libero.it;
angelaebeppe at libero.it; mir at peacelink.it, sudest at iol.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it. Per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Per non ricevere piu' questo notiziario e' sufficiente inviare un messaggio
con richiesta di rimozione a: nbawac at tin.it

Numero 481 del 19 gennaio 2003