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La nonviolenza e' in cammino. 472
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 472
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Fri, 10 Jan 2003 03:52:50 +0100
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 472 del 10 gennaio 2003 Sommario di questo numero: 1. Nanni Salio, perche' le guerre? 2. Emanuela Citterio intervista Pietro Pinna 3. Maria G. Di Rienzo, Ancora sul "relativismo culturale" 4. Zvi Schuldiner, terroristi 5. Ileana Montini: Israele e Palestina, contro tutte le uccisioni 6. Mao Valpiana: Israele e Palestina, la scelta della nonviolenza 7. Un incontro con Johan Galtung a Torino 8. Mohandas Gandhi, un cammino chiaro 9. La "Carta" del Movimento Nonviolento 10. Per saperne di piu' 1. EDITORIALE. NANNI SALIO: PERCHE' LE GUERRE? [Ringraziamo Nanni Salio (per contatti: regis at arpnet.it) per questo intervento. Nanni Salio, nato a Torino, segretario dell'Ipri (Italian Peace Research Institute), si occupa da diversi anni di ricerca, educazione e azione per la pace, e' tra le voci piu' autorevoli della nonviolenza in Italia. Opere di Giovanni Salio: Difesa armata o difesa popolare nonviolenta?, Movimento Nonviolento, Perugia; Scienza e guerra (con Antonino Drago), Edizioni Gruppo Abele, Torino 1982; IPRI, Se vuoi la pace educa alla pace, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1983; Le centrali nucleari e la bomba, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1984; IPRI, I movimenti per la pace, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1986-1989; Progetto di educazione alla pace, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1985-1991; Le guerre del Golfo, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1991; Il potere della nonviolenza, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1995; Elementi di economia nonviolenta, Movimento Nonviolento, 2001] Dopo tantissime riflessioni, studi, speculazioni teoriche, la questione sembra essere ancora irrisolvibile: perche' ci sono le guerre? * Intanto, che cosa intendiamo per guerra? Il Sipri, l'autorevole istituto di ricerca per la pace svedese, individua tre diverse tipologie di conflitti armati maggiori: a bassa intensita' (o minori), a media intensita' (o intermedi), e le guerre vere e proprie. Per chi subisce la violenza della guerra l'intensita' e' sempre troppo alta, comunque la si definisca, ma e' bene distinguere tra i diversi livelli con cui essa si manifesta, per non fare di tutt'erba un fascio e rischiare di cadere nel classico dilemma del "tutto o niente", che porta molti a concludere che "le guerre ci sono sempre state...". Di qui ad accettare qualsiasi cosa il passo e' breve, ma assai pericoloso e tutt'altro che necessario. Stando alla definizione adottata dal Sipri, la guerra e' un conflitto armato nel corso del quale si verificano piu' di 1.000 vittime in un anno durante i combattimenti. In un conflitto armato intermedio si hanno piu' di 1.000 vittime complessive, ma meno di 1.000 in un singolo anno. Infine, nei conflitti armati minori vi sono piu' di 25 vittime in un anno, ma meno di 1.000 in totale. Non tutti gli istituti e i programmi di ricerca adottano queste definizioni. Le diverse scelte sono determinate dall'attenzione che si presta alle molteplici forme di violenza diretta che si possono manifestare nel corso dei conflitti armati, e alla diversa tipologia dei soggetti coinvolti (istituzionali e non, organizzati in eserciti o in formazioni irregolari). Il quadro d'insieme e' complesso e per chi voglia approfondirlo si possono consultare alcuni lavori piu' specialistici (Armed Conflict 1946-99: A New Dataste, www.pcr.uu.se/Gleditsch_Strand_Uppsala.pdf; The World Conflict and Human Rights Map 2000, www.pcr.uu.se/paperjongman.doc). * Possiamo riassumere i dati che emergono da questi lavori nei seguenti punti essenziali. Negli ultimi vent'anni le guerre (intese in senso lato, come conflitti armati maggiori che comprendono le tre categorie elencate sopra) sono diventate quasi esclusivamente guerre intrastatali (dentro lo stesso stato, o guerre civili, o meglio "guerre contro i civili") e sempre meno guerre interstatali (tra gli stati). Questo puo' essere interpretato osservando che: a) le guerre tra gli stati sono sempre piu' distruttive; b) nella seconda meta' del secolo scorso l'Onu e' riuscita a costruire un sistema di diritto internazionale che ha permesso di regolare le dispute tra gli stati senza fare ricorso alla guerra. Questo sistema di regole non e' risultato altrettanto efficace per le guerre interne e rischia ora di essere messo in discussione dalle scelte di politica estera degli Usa. Durante la prima guerra mondiale il numero di vittime fu dell'80% tra i militari e 20% tra i civili. Man mano le vittime tra i civili sono cresciute passando dal 50% nella seconda guerra mondiale sino a oltre il 90% nelle guerre interne (civili) degli anni '90. La funzione di difesa dei civili e' venuta via via meno e oggi essi sono l'obiettivo principale, non solo nelle guerre interne ma anche in quelle definite ambiguamente e strumentalmente come "guerre umanitarie". Nella guerra contro l'Iraq del 1991 e in quella contro la Serbia del 1999 furono colpite volutamente infrastrutture civili, consapevoli delle gravi conseguenze che si sarebbero verificate sulle popolazioni. Nell'impossibilita' di fronteggiare apertamente forze armate molto piu' potenti, si sono sviluppate forme di lotta armata basate sulla guerriglia e sul terrorismo. Mentre la prima e' prevalentemente orientata contro le forze militari avversarie (ma non sempre, come avviene ormai nelle situazioni piu' caotiche, per esempio in Colombia), il terrorismo colpisce direttamente anche i civili. Esistono dunque due forme di terrorismo: quello "dal basso", praticato da forze irregolari (che se un domani conquisteranno il potere non saranno piu' considerate alla stregua di terroristi, ma onorati come eroi) e quello "dall'alto", praticato da forze armate regolari, ovvero dagli stati, contro popolazioni civili (questo tipo di terrorismo fu avviato su larga scala, ben superiore a quella dal basso, con i bombardamenti della seconda guerra mondiale su Dresda, Amburgo, Tokyo, culminati con il lancio delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki). Sulle conseguenze delle guerre che durano a lungo dopo che sono formalmente terminate, con effetti disastrosi sulle popolazioni civili, si veda: Donovan Webster, Le terre di Caino. Quel che resta della guerra, Corbaccio, Milano 1999. Contrariamente a quanto sostengono i fautori della difesa militare, il mondo e' diventato via via piu' insicuro. Le dottrine strategiche e militari hanno fallito totalmente i loro obiettivi (come dimostrano in ultimo gli eventi dell'11 settembre), sperperando somme gigantesche che avrebbero potuto essere destinate a rimuovere alla base le radici autentiche dei conflitti. * A partire da questi dati, possiamo tentare di rispondere alla domanda iniziale: perche' le guerre? La risposta generale, strutturale, e' relativa al concetto di potere. Esistono quattro forme principali di potere, ciascuna delle quali puo' diventare causa di guerra: politico, militare, economico, culturale. Il caso peggiore si ha quando le quattro forme di potere sono concentrate in un unico soggetto, come nei paesi totalitari, durante il nazifascismo, e oggi con la concentrazione di potere nella ristretta elite che governa gli Usa. Si e' soliti dire che le democrazie non fanno guerre tra loro e sono in grado di controllare il potere militare attraverso il potere politico. Ma questa affermazione e' vera solo se si verificano alcune condizioni. Gli Usa, formalmente una democrazia, sono il paese piu' bellicoso del mondo: circa duecento interventi diretti o coperti nel corso della loro storia (si veda il cap. 17, Breve storia degli interventi americani nel mondo, dal 1945 a oggi, di William Blum, Con la scusa della liberta', Tropea, Milano 2002), la piu' alta spesa militare, il piu' distruttivo sistema di sterminio di massa mai esistito, responsabile della disseminazione in tutto il mondo di ogni sorta di armi convenzionali e non. Gia' Eisenhower, all'inizio degli anni '60, aveva messo in guardia dall'allora nascente complesso militare-industriale. Oggi la popolazione Usa, e indirettamente quella degli altri paesi del mondo, e' ostaggio del complesso militare-industriale-scientifico-petrolifero (si veda: Gore Vidal, Le menzogne dell'impero e altre tristi storie, Fazi, Roma 2002) che esercita un potere "fuori controllo" (Paul Rogers, Fuori controllo, Derive/Approdi, Roma 2002). Díaltro canto e' noto lo stato di incredibile ignoranza in cui viene mantenuta la popolazione statunitense in fatto di politica estera (da un potentissimo sistema mediatico di intrattenimento, istupidimento e propaganda, come si puo' vedere da Jurgen Elsausser, Menzogne di guerra, La citta' del sole, Napoli 2002) ed e' altrettanto noto il deficit di democrazia partecipativa, se si tiene conto che il loro attuale presidente e' stato eletto all'incirca con il voto di un/a cittadino/a su cinque (meno del 20%). Ciononostante, proprio dagli Usa vengono alcune delle piu' significative esperienze di dissenso e di controinformazione, che dobbiamo sostenere per costruire una nuova e piu' autentica esperienza di democrazia (Noam Chomsky e' il piu' noto e strenuo critico con un'amplissima produzione di ottimo livello. Sui temi qui trattati si veda la raccolta dei suoi saggi curata da Peter R. Mitchell e John Schoeffel, Capire il potere, Tropea, Milano 2002. Come altro esempio, si veda la newsletter on-line gratuita al sito www.truthouth.org). Se non si vuole entrare in un altro "secolo di guerre" (intervista a Gabriel Kolko, Gli Usa alla guerra totale, nel quotidiano "Il manifesto" del 4 gennaio 2003) e' necessario smantellare questo sistema di potere attraverso forme di decentramento e di costruzione di un "potere dal basso" basato sull'empowerment personale e sul people power (o potere della nonviolenza) collettivo. * Rispetto a ciascuna delle quattro forme di potere esistono delle alternative nonviolente che passano attraverso la ripresa del controllo del potere politico mediante la democrazia partecipativa. Spesso sentiamo dire che "occorre non votare". Anche se idealmente condivido l'ideale di una societa' autenticamente anarchica capace di autogovernarsi, oggi vediamo che il non voto, proprio la' dove viene praticato in massa, non fa che il gioco dei potenti. Questo non significa affatto che basta votare per cambiare le cose. Occorre contestualmente organizzarsi politicamente e usare il voto nel breve periodo come una possibilita', dando vita a esperienze partecipative capaci di impedire le derive antidemocratiche che si sono verificate negli ultimi anni. Quello del sistema sociale piu' idoneo a garantire un'autentica distribuzione decentrata del potere e' un problema aperto, di cui parla estesamente Brian Martin in Nonviolence versus capitalism (l'intero testo puo' essere scaricato da www.uow.edu.au/arts/sts/bmartin/pubs/01nvc). Secondo la formula classica di La Boetie (ripresa da Gene Sharp in Politica dell'azione nonviolenta, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1986, vol. 1), il potere si regge sul consenso, che oggi viene costruito astutamente mediante il sistema mediatico. Per scalzare questo sistema e' necessario al contempo promuovere forme di disobbedienza civile sui vari fronti: da quella al servizio militare e alla ricerca militare, alla disobbedienza che si manifesta con il "consumo critico e responsabile", alla disobbedienza nei confronti del sistema televisivo imperante, all'acquisizione di un grado maggiore di autonomia e autogoverno (anche economico) con forme di vita piu' comunitarie e autocentrate. Eí, in breve, il programma della "campagna di obiezione/opzione di coscienza del/la cittadino/a" lanciata dal Movimento Internazionale della Riconciliazione, dal Movimento Nonviolento e dalla Rete di Lilliput, la cui segreteria operativa e' presso il MIR-MN, via Garibaldi 13, 10122 Torino con uno specifico sito Internet all'indirizzo www.retelilliput.org/scelgolanonviolenza.asp 2. MAESTRI. EMANUELA CITTERIO INTERVISTA PIETRO PINNA [La seguente intervista a Pietro Pinna compare nell'ultimo numero del settimanale "Vita" (consultabile anche in rete: www.vita.it). Ringraziamo Mao Valpiana per avercene inviato copia. Emanela Citterio e' giornalista di "Vita" (per contatti: e.citterio at vita.it). Pietro Pinna, primo obiettore di coscienza nel 1950, collaboratore di Aldo Capitini e di Danilo Dolci, infaticabile promotore della nonviolenza, e' una delle figure di riferimento per i movimenti e le iniziative per la pace. Opere di Pietro Pinna: fondamentale e' La mia obiezione di coscienza, Edizioni del Movimento Nonviolento; numerosi suoi contributi sono stati pubblicati in vari volumi] Pietro Pinna e' stato il primo obiettore di coscienza italiano. Ha pagato questa sua scelta anche con il carcere. Il suo rifiuto alla guerra e' ancora assoluto, testardo, appassionato. Le sue parole hanno conservato la lucidita' e la freschezza di tanto tempo fa, quando, a soli vent'anni, divenne il primo vero "caso" di obiezione di coscienza in Italia. Pietro Pinna, il primo obiettore, oggi ha 75 anni. Nonostante da qualche tempo abbia scelto la solitudine e la lontananza da ogni movimento pubblico, ha accettato di parlare ancora. In favore della pace. - "Vita": Quest'anno si festeggiano trent'anni di obiezione di coscienza in Italia, dopo l'approvazione della prima legge del 1972. Per lei che e' stato il primo, che significato ha l'obiezione alle armi? - Pietro Pinna: Il mio e' stato il primo caso con il quale il problema dell'obiezione di coscienza e' entrato nell'opinione pubblica italiana. Prima, i soli casi noti erano quelli dei testimoni di Geova. La loro obiezione pero' aveva una dimensione solo personale e religiosa, escludevano di farne una questione politica. Io invece impostai la mia obiezione come gesto pubblico. Obiezione di coscienza significa ripudio assoluto della guerra. Intende? Assoluto. Significa di ogni guerra e fatta da chiunque e per qualsiasi ragione. Si tratti anche dei valori piu' nobili. Per nessuna ragione l'obiettore di coscienza intende tenere in piedi la realta' della guerra. - "Vita": Quindi nemmeno le guerre preventive di oggi? - Pietro Pinna: Eh, se mi comincia a mettere degli aggettivi siamo fritti. Scriva la definizione che le ho detto: "ogni guerra", "fatta da chiunque per qualsiasi ragione". E aggiunga: "combattuta con qualsiasi arma". Prendiamo le bombe a tappeto, quelle sono legittime, no? Non vengono considerate armi di distruzione di massa, anche se usate comportano la morte di centinaia di migliaia di persone, come e' accaduto durante la seconda guerra mondiale a Dresda, Monaco, Tokyo. E anche oggi: le armi di distruzione di massa che si suppone abbia Saddam sono da condannare, mentre le altre no, sono benedette da Dio e dalla Costituzione americana. Il rifiuto assoluto della guerra implica il disarmo u-ni-la-te-ra-le. Il rifiuto non solo delle armi nucleari o di distruzione di massa, ma di tutte le armi. Anche delle frecce e delle cerbottane. Dunque, riscrivo la formula: disarmo unilaterale, integrale, immediato. Cioe' a partire da qui e subito. Non domani, perche' il domani non esiste. Noi viviamo solo nel presente, no? E poi unilaterale. Perche' attendendo il disarmo multilaterale, cioe' concordato, abbiamo avuto una prima guerra mondiale, una seconda e ne stiamo preparando una terza. Piu' tutta una serie di guerre locali che ci cadono dalle tasche come tanti spiccioli da un buco nei pantaloni. Se ripudiamo la guerra, come sta scritto nella nostra Costituzione, dobbiamo ripudiarne lo strumento principale, cioe' l'esercito. Questo e' il senso e la portata dell'obiezione di coscienza. - "Vita": In che clima maturo' la sua scelta di obiezione? - Pietro Pinna: La mia scelta nacque in una condizione di assoluta ignoranza. Io stesso non usai il termine di obiezione di coscienza, perche' non lo conoscevo. Nacque da ragioni morali, religiose e politiche. Questo e' quanto dichiarai in seguito per motivare la mia decisione. Una volta che si comincio' a comprendere cosa significasse "obiezione di coscienza", ci fu all'inizio irrisione, poi rifiuto, quindi disprezzo e solo dopo almeno un ventennio si diffuse una certa considerazione. - "Vita": Come reagi' la sua famiglia? - Pietro Pinna: In un certo senso fui fortunato. I miei genitori erano illetterati. Mio padre veniva da una famiglia di braccianti, mia madre era analfabeta. Non opposero delle ragioni. Sapevano che mi ero comportato onestamente fino ad allora e mi diedero fiducia anche in questa scelta. - "Vita": Da quali incontri nacque la sua consapevolezza di voler obiettare al servizio militare? Dove trovava i valori spirituali di cui parla? - Pietro Pinna: Fondamentalmente nella religione cattolica. Proprio per questo non potevo tollerare che il nome di Dio fosse mischiato con una faccenda impura come la guerra. Nelle chiese, invece, si levavano preghiere per la vittoria della patria in armi, a favore del nostro re, e cosi' via. Nel Natale del '42 mi capito' di sentire per radio che il presidente degli Stati Uniti, l'odiata potenza contro cui stavamo combattendo quella guerra benedetta da Dio, aveva invitato il popolo a levare una preghiera a Dio per la vittoria della patria. Che imbarazzo! Ognuno chiedeva a Dio di prendere la parte di un popolo nello sterminio di altri suoi figli. Avevo solo 15 anni e i miei furono forse ragionamenti infantili. Ma anche oggi non mi sembrano tanto sbagliati. - "Vita": Come arrivo' a prendere una posizione inedita senza il sostegno di nessuno? - Pietro Pinna: Fu naturale per me, almeno dal punto di vista spirituale. Dal punto di vista intellettuale fu invece molto difficile. A quel tempo l'obiezione di coscienza era una posizione non conosciuta, per di piu' sembrava sovvertire tutti i principi e gli orientamenti della societa'. Anche la posizione della Chiesa nei confronti della guerra era quella di una realta' "dolorosa ma necessaria". Questo era cio' che i cappellani militari mi riferivano quando venivano a trovarmi in carcere. Allora, nella mia cella, parlavo a Dio e gli dicevo: "I tuoi rappresentanti mi dicono che tu la pensi cosi'. Ma io sento altrimenti, sono qui e non posso fare diversamente". E cosi' ho continuato. - "Vita": Il suo gesto di obiezione come e' avvenuto? - Pietro Pinna: Avvenne al momento del giuramento, dopo due mesi dal mio ingresso al corso allievi ufficiali. Il fatto di essermi trovato la' merita qualche spiegazione: avevo appena cominciato a lavorare quando mi chiamarono per il servizio militare. Grazie al mio stipendio la mia famiglia, che era molto povera, si stava risollevando. Avevamo comprato la legna per l'inverno, dei mobili, la prima bicicletta. La richiesta per il corso ufficiali mi aveva permesso di ottenere la proroga di un anno e di saldare i debiti. Anche se da anni maturavo il pensiero del rifiuto del servizio militare, non ero ancora giunto a una decisione effettiva. Fu il giuramento a farmi fare il passo decisivo. In me il senso di lealta' era molto forte. E sentii che non potevo dichiarare solennemente la mia fedelta' a un impegno in cui non credevo. Quello stesso giorno andai dal comandante dicendogli che rifiutavo il servizio militare. - "Vita": Come reagirono le gerarchie militari? - Pietro Pinna: Il comandante mi tratto' paternamente. Mi disse che avrebbe fatto di tutto per spostarmi a un servizio nell'infermeria dell'esercito. Credeva che la mia decisione fosse motivata solo da una repulsione per l'uso delle armi. Mi consiglio' di tornare a casa per Natale (mi trovavo a Lecce) e di parlare con il confessore spirituale. Dopo quindici giorni ritornai e a quel punto, vedendomi determinato, mi fece dimettere dal corso e fui richiamato come soldato semplice. - "Vita": Quella scelta le costo' due processi e un anno di prigione. Come li visse? - Pietro Pinna: Fui gia' fortunato. Ad altri, come i testimoni di Geova, ando' peggio. Attorno al mio caso si creo' un interessamento a livello internazionale. Alcuni parlamentari inglesi interpellarono De Gasperi, facendo notare che in Inghilterra l'obiezione era da tempo un diritto. Ci fu l'appoggio di Aldo Capitini e di altri intellettuali. - "Vita": Chi, fra Chiesa, intellettuali e forze politiche vi segui' su questa strada? - Pietro Pinna: La Chiesa all'inizio sosteneva una posizione di avversione all'obiezione di coscienza. Quando il parlamentare democristiano Igino Giordani accetto' di firmare con il socialista Calosso il primo progetto di legge sull'obiezione di coscienza, "La civilta' cattolica" usci' con un articolo di condanna. Poi avvenne che alcuni cattolici, come Giuseppe Gozzini, fecero obiezione motivando la scelta da un punto di vista cristiano. Allora la posizione della Chiesa fu quella di lasciare la decisione all'iniziativa individuale. Fu solo con il Concilio vaticano II che l'apertura divenne piu' esplicita. Ma in sostanza fu la posizione coraggiosa di persone come don Milani e La Pira a portare l'obiezione nel mondo cattolico. - "Vita": Che clima si respirava in quegli anni? - Pietro Pinna: Gradualmente il tema pacifista aveva suscitato interesse. Negli anni '60 i movimenti nati attorno ai processi riuscivano a radunare per una manifestazione qualche migliaio di persone. E questo impensieriva. Persino i tribunali militari si trovavano a disagio a mandare in galera ragazzi stimabili per le motivazioni che portavano alla loro scelta, e invitavano le forze politiche a prendere in considerazione il problema. Ci fu una corsa da parte di tutti i partiti, per presentare progetti di legge, salvo il Partito comunista a sinistra e il Movimento sociale a destra. - "Vita": A trent'anni di distanza, di tutto quel fervore cosa e' rimasto? - Pietro Pinna: Quasi niente. Oggi vado cercando un parlamentare che parli di antimilitarismo e non lo trovo. - "Vita": E i movimenti pacifisti? - Pietro Pinna: Il Movimento nonviolento ha un patrimonio di idee, di esperienze, di cultura. Produce pubblicazioni molto valide e rimane un punto di riferimento. Ma non ha avuto la forza di crescere adeguatamente e ha ridotto progressivamente il suo spirito di iniziativa. Oggi a parlare, nei momenti critici, sono alcuni politici o i rappresentanti di altre associazioni. Che pero' si mobilitano solo in occasione dei venti di guerra, non sono antimilaristi in senso assoluto. Io dico che sono pacifisti relativi. L'ideale della nonviolenza, dell'obiezione di coscienza, implica l'opposizione alla preparazione della guerra, agli eserciti. - "Vita": Eppure in occasione della guerra contro l'Iraq sono in molti a chiedere la pace... - Pietro Pinna: Il guaio e' che nessuno si mobilita per il disarmo in tempo di pace. Di fronte ai venti di guerra, i gruppi si mobilitano per cercare di arrestarli. Ma come si puo' presumere oramai di arrestare le forze immani che ci sono in campo? A me capita di rimanere impressionato nel vedere solo le immagini di preparazione dell'eventuale guerra all'Iraq: aerei, navi, poi finanze, poi interessi... immani forze, militari, politiche, economiche. Crede che si possano arrestare con una petizione, una marcetta, una manifestazione, cioe' quello che possono fare laggiu' questi movimenti per la pace? E' come voler arrestare un turbine con una reticella da farfalle. - "Vita": Qual e' l'alternativa? - Pietro Pinna: Creare dal basso. Partire dalla singola persona. Che dice: la guerra e' una cosa orribile, abominevole sul piano umano. Appellarsi ai governi non e' mai servito. Bisogna partire dalle scelte individuali. Con la consapevolezza che, se e' vero che la guerra e' il massimo dei mali, qualunque cosa sara' un male minore. 3. RIFLESSIONE. MARIA G. DI RIENZO: ANCORA SUL "RELATIVISMO CULTURALE" [Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: dirienzo at tvol.it) per questo intervento, che prosegue una comune riflessione avviata da un intervento dell'intellettuale iraniana Maryam Namazie pubblicato nel n. 464 di questo foglio. Maria G. Di Rienzo e' una prestigiosa intellettuale femminista, saggista, giornalista, regista teatrale e commediografa, ha svolto rilevanti ricerche storiche sulle donne italiane per conto del Dipartimento di Storia Economica dell'Universita' di Sidney (Australia); e' impegnata nel movimento delle donne, nella Rete di Lilliput, in esperienze di solidarieta' e in difesa dei diritti umani, per la pace e la nonviolenza] "Fui portata in una stanza buia, e spogliata. Mi bendarono. Fui costretta con la forza a giacere sulla schiena da quattro donne, di cui due mi tenevano ferme le gambe. Un'altra donna mi si sedette sul petto, per impedire alla parte superiore del mio corpo di muoversi. Un pezzo di stoffa mi fu ficcato in bocca per farmi smettere di gridare... Quando cominciarono a tagliare il dolore fu terribile. Io continuavo a lottare per liberarmi, percio' fui tagliata male ed in altre parti. Persi moltissimo sangue. Tutte le donne che presero parte all'operazione erano mezzo ubriache". Hannah Koroma, ghanese, membro di Amnesty International, aveva dieci anni quando le accadde questo. Zeinab e Nafisa, sudanesi, di anni ne avevano sei. Soraya Mire, somala, ne contava tredici. Tutte queste donne, oggi, si battono contro la pratica delle mutilazioni genitali nei loro paesi. In Eritrea il 96% dei musulmani e l'83% dei cristiani praticano la mutilazione genitale delle donne; i protestanti, che sono la comunita' religiosa di minoranza, sono contrari. La stessa situazione si presenta in Kenya. * Ricerche effettuate da organismi internazionali (Onu, Inter-African Committee, Oms) hanno riscontrato che i principi e le autorita' religiose hanno ben poco a che fare con le motivazioni di chi e' favorevole a tali pratiche. La risposta piu' frequente e' che si tratterebbe di "una buona tradizione" (dal 70% al 90% sul totale delle risposte). Perche' sia buona, al di la' delle fedi, giacche' ne' la Bibbia ne' il Corano ne parlano (negli hadith, i detti attribuiti al Profeta, vi e' invece la testimonianza contraria: "Non distruggere - dice in essi Maometto -. Non distruggere e' meglio per l'uomo e rende luminoso il volto di una donna"), lo spiegano gli intervistati durante le ricerche citate: "Le parti che vengono tagliate via sono disgustose e generano ribrezzo in chi le guarda. La sutura e' molto piu' bella"; "In questo modo la donna conservera' un buon profumo e suo marito sara' contento. Se non fosse mutilata, puzzerebbe e le crescerebbero i vermi nella vagina"; "Una donna mutilata e' molto piu' attraente, sessualmente, per il marito. Piu' e' cucita stretta, piu' piacere lui prova". * Le piu' alte percentuali di mortalita' infantile si registrano nelle regioni dove la mutilazione e' maggiormente praticata. Le donne sottoposte all'operazione hanno il doppio di probabilita', rispetto alle altre, di morire durante il parto, o di dare alla luce nati morti. La seconda fase del travaglio di una donna infibulata dura, mediamente, 5 volte piu' del normale e causa danni cerebrali al nascituro per mancanza di ossigeno. Ogni 33 madri che partoriscono all'Ospedale di Benadir, in Somalia, 5 bambini nascono morti e 21 soffrono di danni cerebrali. Giovera' anche ricordare che, fino agli anni Cinquanta del secolo appena concluso, la mutilazione genitale era comunemente usata in Europa e negli Usa come "trattamento" per il lesbismo, l'isteria, la masturbazione, l'epilessia e, in genere, le "deviazioni comportamentali femminili": la medicina e la scienza prescrivevano cio', ma esse, come le societa' e le culture, fortunatamente possono cambiare (e chi e' amico della nonviolenza lotta proprio perche' societa' e culture cambino). Ecco perche' il paragone fra la sterilizzazione volontaria di un'adulta o di un adulto e la mutilazione di una bambina di 6 anni non regge. Ho un'amica che e' un concentrato di tatuaggi e piercing e, devo ammettere che a volte trovo inquietante la sua sola immagine, ma nessuno l'ha costretta: maggiorenne e vaccinata, come si usa dire, ha scelto, ed io rispetto la sua scelta anche se non la imiterei. La nostra cultura italiana, occidentale e patriarcale, ha prodotto ovviamente la mia stessa famiglia d'origine, in cui la violenza e l'abuso erano all'ordine al giorno e in cui un padre-padrone ha fatto impazzire due figli su tre (e la terza, la scrivente, e' fuggita di casa per evitare quella sorte). * Ho sentito il bisogno di puntualizzare sul tema delle mutilazioni, ma la semplice riflessione di Maryam, il punto di partenza del nostro dialogo, non ne parlava. La questione che lei poneva era in sintesi un'altra: possiamo giustificare la violenza, la morte, l'abuso, e in che casi, e come? In nome delle culture, del sacro, della tradizione? Ma queste, perdonatemi, sono parole, per quante maiuscole vogliamo metterci. La fanciulla che mori' bruciata in Germania era un corpo vivo, una mente viva, un seme di speranze e di potenzialita' che ora non c'e' piu'. E tanto piu' derubata e povera mi sento io. 4. RIFLESSIONE. ZVI SCHULDINER: TERRORISTI [Dal quotidiano "Il manifesto" del 7 gennaio 2003. Zvi Schuldiner e' un prestigioso intellettuale che interviene spesso sul quotidiano italiano] Fino a poche ore prima, la scena politica israeliana era dominata dalle truffe scoperte nel Likud. La corruzione, i voti comprati, i probabili implicati, tutto sembrava una versione israeliana della "mani pulite" italiana. Il Likud nelle ultime settimane cominciava a perdere voti e gia' si pensava a chi avrebbe potuto trarne profitto. Su tutto questo si agitava il velo dell'apartheid e la discussione sulla discussione di vari rapprensentanti arabi israeliani si e' convertita nel campo di battaglia della sinistra e delle forze liberali del paese. * Tutto e' passato in secondo piano quando due palestinesi si sono suicidati a Tel Aviv, nelle vicinanze della vecchia stazione degli autobus. Il primo bilancio parla di 23 morti, oltre cento feriti, di cui 68 ancora ricoverati in ospedali, alcuni in gravi condizioni. E' difficile sapere quanti sono realmente i feriti per una ragione semplice e terribile: le bombe sono esplose in una parte della citta' dove la maggior parte dei passanti sono lavoratori stranieri, molti illegali. Alcuni hanno collaborato a recuperare i feriti, li hanno portati all'ospedale e poi sono fuggiti. La polizia e i ministri promettono che non saranno espulsi o arrestati e li invitano a ricorrere all'assistenza sanitaria, ma alcuni di loro temono le conseguenze. L'Autorita' palestinese ha criticato energicamente l'attentato ma questo non vuol dire che la rappresaglia israeliana sara' meno feroce. * Nelle ultime settimane il terrorismo di stato israeliano si e' rafforzato e i morti palestinesi sono la routine quotidiana. Israele occupa tutti i territori e Arafat praticamente non ha nessun controllo sulla societa' palestinese. Hamas e il Jihad islamico - entrambi si disputano l'attentato ma sembra che la vera rivendicazione lo attribuisca al Jihad - non credono ad un cessate il fuoco e sostengono che a loro non importa se gli israeliani espellono Arafat e tanto meno sono interessati agli effetti del terrorismo sulle elezioni israeliane. Peggio ancora, mentre scriviamo si sta diffondendo una nuova attribuzione seria dell'attentato alle Brigate al Aqsa di al Fatah. Secondo militanti politici palestinesi di questi movimenti, non c'e' differenza tra destra e sinistra in Israele e la scelta del terrorismo e' un'opzione strategica e non tattica, che portera' gli israeliani alla disperazione e alla resa. * Per il momento pagano tutti, israeliani, palestinesi e lavoratori stranieri. Ma il prezzo piu' alto sicuramente lo paga la societa' palestinese. Il terrorismo, che sembrava il prodotto di bande sporadiche in una societa' palestinese estremamente frammentata, si sta trasformando in un fenomeno organizzato. La necessita' politica creata dalle campagna elettorale rende ancora piu' probabile una reazione militare di grandi proporzioni. L'unica garanzia per la sopravvivenza di Arafat in questi giorni sarebbe rappresentata dalla promessa che gli americani sarebbero riusciti ad ottenere da Sharon, che si e' visto costretto da Bush a rinunciare al tentativo di espellere Arafat. L'interesse bellicista del presidente americano, che non desidera irritare ulteriormente i suoi fragili alleati nella regione prima dell'attacco all'Iraq, lo porta a moderare il premier israeliano. Ma con 23 morti e decine di feriti gravi, e' difficile sapere quale sara' il peso di questo compromesso tra i due "uomini di pace", Bush e Sharon. L'istinto criminale di entrambi potrebbe portare all'autorizzazione di qualsiasi avventura nei territori occupati. * La destra israeliana puo' inviare un telegramma di ringraziamenti ai fondamentalisti che hanno ordinato l'attentato di domenica. Nei prossimi giorni potremo dimenticarci la corruzione del Likud, si discutera' meno dell'apartheid che stava preparando la destra e le forze che avevano iniziato a reagire energicamente contro l'ondata della destra si vedranno ulteriormente indebolite. Nella Commissione elettorale centrale la settimana scorsa si e' arrivati alla cancellazione dall'iscrizione alle elezioni della lista del deputato arabo israeliano Azmi Bishara. E' stata annullata anche la candidatura di Ahmad Tibi, che era entrato a far parte della coalizione con il Partito comunista israeliano. Il calcolo della destra e' molto semplice e non nuovo. Negli ultimi due anni e' stata portata avanti una campagna per l'esclusione degli arabi dal sistema politico israeliano. L'annullamento delle candidature di cui abbiamo parlato potrebbe provocare la grande astensione dell'elettorato arabo in Israele e questo indebolirebbe la sinistra e il suo bacino elettorale, mentre rafforzerebbe la destra. Gli effetti della cancellazione di queste candidature saranno enormi. Solo la Corte suprema potrebbe annullare questa decisione. Se non lo fara', si stabilira' di fatto un apartheid dalle pesanti conseguenze. L'intidafa nei territori occupati sarebbe il preludio a uno sgretolamento dei vincoli fondamentali nello stato e porterebbe a uno scontro serio all'interno di Israele. La popolazione araba in Israele, esclusa dal sistema democratico, prendera' altre strade che potranno portare a un caos che il paese non ha ancora conosciuto. * Negli ultimi giorni diverse forze democratiche hanno organizzato una campagna contro la decisione del Comitato elettorale. Questa mattina e' convocata una manifestazione davanti alla Corte suprema. L'ottimismo che alcuni nutrono lascera' spazio ai prevedibili effetti dell'attentato. Molti resteranno a casa e non parteciperanno a una protesta che segna una nuova mobilitazione di liberali e pacifisti. Diverse organizzazioni hanno dato la loro adesione a un manifesto che sara' pubblicato oggi. Centinaia di dimostranti hanno gia' partecipato sabato a una manifestazione indetta da Peace now e altre organizzazioni a Gerusalemme, il giorno prima una vasta partecipazione, di israeliani e arabi, si era vista in un appuntamento simile a Nazareth. * Il terrorismo ha colpito ancora una volta e come al solito non solo scorre il sangue ma aumenta il prezzo che le due societa' devono pagare. Mentre Bush prosegue la sfrenata corsa verso una guerra criminale guidata e basata su cinici, sinistri calcoli imperiali, quando sembrava che nessuno volesse scatenare una guerra dalle conseguenze dolorose per tutta la regione e non solo per l'Iraq, l'attacco di al Aqsa o del Jihad, o di Hamas, non e' altro che un contributo criminale e sanguinoso alla recrudescenza del fuoco. Come se non si fossero gia' sparsi fiumi di sangue a sufficienza, la viscerale sensazione di vendetta ha aggiunto un altro anello alla catena tragica della azione e reazione, terrore e controterrore. Per il momento questo consolida solo la brutale occupazione di Israele, aumenta la violenza dell'esercito, aiuta la crescita dell'odio per alimentare questa catena di vendetta e controvendetta. 5. RIFLESSIONE. ILEANA MONTINI: ISRAELE E PALESTINA, CONTRO TUTTE LE UCCISIONI [Ringraziamo Ileana Montini (per contatti: ileana.montini at tin.it) per questo intervento. Questo foglio, come e' noto, fin dalla sua nascita sostiene la tesi che il conflitto israelo-palestinese richiede da parte nostra piena solidarieta' e sostegno a tutte le forze di pace in Israele e in Palestina; ci siamo sembre battuti contro chi assume atteggiamenti ambigui sulla violenza, ed abbiamo sempre espresso un'opposizione assoluta ad ogni ideologia sacrificale e ad ogni prassi assassina. Un omicidio e' sempre un omicidio, ogni vita umana e' unica e preziosa, tutti i popoli e tutte le persone hanno diritto a vivere in pace, liberta', dignita', sicurezza. Di Ileana Montini, prestigiosa intellettuale femminista, riproduciamo qui di seguito una breve autopresentazione che ebbe la gentilezza di scrivere su nostra richiesta nel dicembre scorso: "Sono nata nel 1940 da genitori romagnoli. Ho studiato a Ravenna e all'Universita' di Urbino, presso la prima scuola di giornalismo in Italia e poi sociologia. Ho cominciato tra i 23-24 anni a collaborare, come corrispondente e in terza pagina, sul quotidiano cattolico "L'Avvenire d'Italia" che si stampava a Bologna, diretto, negli anni sessanta, da Raniero La Valle. Sono stata, fino al 1971, nella DC, per poi uscire e aderire al Manifesto. Nella DC ho ricoperto cariche regionali nel Movimento Femminile e ho fatto parte del Comitato Nazionale. Appartenevo alla sinistra di Donat Cattin. Ho collaborato e fatto parte di varie redazioni di periodici. Per esempio: della rivista di ricerca e studio del Movimento Femminile DC, insieme a Tina Anselmi, a Lidia Menapace, a Rosa Russo Jervolino, a Paola Gaiotti. Ho condiviso il lavoro redazionale di "Per la lotta" del Circolo "Jacques Maritain" di Rimini. Ho collaborato a "Nuova Ecologia" diretta da A. Poggio. Ma ho fatto parte anche della redazione della rivista "Jesus Charitas" della "famiglia dei piccoli fratelli e delle piccole sorelle" insieme a fratel Carlo Carretto. Ho poi collaborato al "Manifesto". Attualmente collaboro al "Paese delle donne". Il mio primo libro, edito da Bertani, e' stato La bambola rotta. Famiglia, chiesa, scuola nella formazione delle identita' maschile e femminile (1975), cui ha fatto seguito Parlare con Dacia Maraini. Nel 1978 e' uscito, presso Ottaviano, Comunione e liberazione nella cultura della disperazione. Nel 1992, edito dal Cite lombardo, e' uscito un libro che racconta un'esperienza per la prevenzione dei drop-out di cui avevo fatto il progetto e curato la supervisione delle operatrici: titolo: "... ho qualche cosa anch'io di bello: affezionatrice di ogni cosa". Recentemente e' uscito un libro d'arte della editrice Stellecadenti di un paese della provincia di Viterbo, che racconta (mia e' la prefazione) l'esperienza del Laboratorio psicopedagogico delle differenze di Brescia, luogo di formazione psicopedagogica delle insegnanti e delle donne che operano nelle relazioni d'aiuto; titolo: Attraverso il silenzio, di Nicoletta Crocella. Il Laboratorio e' nato a Brescia da un mio progetto e con alcune donne alla fine degli anni ottanta. Era stato preceduto dalla fondazione, insieme ad altre donne, della "Universita' delle donne Simone de Beauvoir". Un'esperienza come altre all'interno dell'universo femminista. Nel 1987 sono stata capolista alle elezioni per la Camera dei deputati per il collegio di Brescia/Bergamo per la prima lista dei Verdi. Da anni, conclusa la professione d'insegnante, sono psicologa-psicoterapeuta"] Mi e' accaduto di ricevere o leggere documenti e appelli intonati alla scelta della nonviolenza che mi hanno sollecitato qualche perplessita'. Dopo l'ultimo attentato degli uomini-bomba in Israele, vorrei che se ne discutesse di nuovo. Mi riferisco a quei documenti (o appelli) a favore incondizionato della causa palestinese, dove si denuncia (giustamente) l'insensata violenza guerresca degli israeliani. Questi appelli, o documenti, sono prodighi nell'elencare le nefandezze israeliane nei territori palestinesi, anche per affermare la propria risoluta opposizione a questi strumenti per dirimere questioni territoriali e altro. Contestualmente pero' evitano di esprimersi nei riguardi delle modalita' di difesa assunte dalla seconda Intifada con il ricorso alle "azioni di martirio". Se interpellati rispondono, per esempio, che i palestinesi sono nettamente meno potenti in quanto a mezzi e strumenti militari. E quindi che altro dovrebbero fare se non usare qualsiasi strumento, compreso il corpo, per difendersi e costringere alla negoziazione? Ho anche letto un articolo dove si tentava un paragone tra il martirio dei cristiani e il "martirio" dei giovani palestinesi. Ne deduco che anche nell'ambito di aree che si ritengono vicine alla nonviolenza vi sia chi e' propenso a fare qualche sconto. In quanto ci si identifica, tout court, con le tesi degli interessati i quali sostengono che l'esasperazione nella quale si trovano, induce per forza a questa reazione che comporta l'uccisione di civili, non importa se bambini, vecchi, donne o uomini inermi. Chiedo: allora non sempre e comunque e' possibile sostenere un'azione collettiva nonviolenta? E ancora: e' doveroso comprendere la psicologia degli altri, cioe' capire che l'esasperazione puo' produrre reazioni anche collettive e su larga scala, organizzate e pianificate; ma identificarsi e' un'altra cosa. Identificarsi tanto dal poter fare un paragone con un pezzo della propria cultura storica, quella dei martiri cristiani, vuol dire addirittura annullare le differenze, cosa che non e' mai utile a nessuno. In un dizionario della lingua italiana alla voce "martire" leggo: "testimone della fede"; cristiano dei primi secoli che, sopportando le persecuzioni e la morte, testimoniava la sua fede. Chi si sacrifica e soffre o muore per un ideale (i martiri del Risorgimento). Chi sopporta con rassegnazione dolori, sofferenze, ingiustizie...". Il martire e' dunque, nella nostra storia collettiva, un individuo che assume un certo comportamento passivo, di non rifiuto della sofferenza fino all'estremo del dare la vita per una causa. Ma non s'intende mai uno che sacrifica la propria vita, sacrificando anche quella di altri. Ora credo che sarebbe piu' aderente a un convincimento nonviolento evitare l'identificazione con questa parte dei palestinesi e assumere invece la responsabilita' (e il limite) della propria storia e identita' collettiva, condannando senza mezzi termini anche tali strumenti di lotta e invitando ad azione nonviolente. 6. RIFLESSIONE. MAO VALPIANA: ISRAELE E PALESTINA, LA SCELTA DELLA NONVIOLENZA [Ringraziamo Mao Valpiana, amico carissimo e direttore di "Azione nonviolenta" (per contatti: e-mail: azionenonviolenta at sis.it, sito: www.nonviolenti.org) per averci inviato questo suo articolo che compare nel numero di gennaio della rivista "Popoli", mensile internazionale della Compagnia di Gesu', consultabile anche nel sito: www.gesuiti.it/popoli] Ogni sera, nelle nostre case, attraverso la televisione, entra la violenza sempre piu' feroce e cruda di cio' che accade in quella che una volta era la Terra Santa, e oggi rischia di diventare una "terra maledetta". Da una parte la follia omicida/suicida dei kamikaze palestinesi che colpiscono vigliaccamente, dall'altra la follia militare dell'esercito israeliano che umilia un popolo, abbatte le case e spara sui bambini: una spirale di violenza che sembra non avere fine. I mezzi blindati dell'esercito israeliano e i kamikaze palestinesi sono le due facce della stessa medaglia. In questo quadro dovremmo rifiutarci di dare ascolto a giornalisti improvvisati, inviati di guerra che parlano dallo loro stanza d'albergo, politologi che non hanno mai messo piede in un villaggio dei territori occupati, ed organizzare una obiezione televisiva per dare invece la voce ai protagonisti della tragedia: far parlare loro, le migliori forze di Israele e le migliori forze della Palestina che oggi sono le "donne in nero" che da una parte e dall'altra cercano il dialogo e la solidarieta'. Il primo passo da fare e' quello di rimettere al centro le persone, la gente, i popoli di quella Terra. * Il metodo nonviolento: capire Un intellettuale ebreo, David Mehnagi, dice che "occorre prima sapere e capire, anche perche' si puo' fare del male pensando di fare del bene. E la prima massima per chi vuole fare del bene e' capire, cioe' la cosa piu' dolorosa che esista". E' per questo che dobbiamo sforzarci di affrontare seriamente l'analisi del conflitto in corso. Dobbiamo comprendere bene le ragioni dell'una e dell'altra parte. Senza pregiudizi e senza i retaggi della storia; senza schieramenti e senza ideologie. E' una premessa fondamentale senza la quale non si puo' costruire una verita' e non si potra' mai comprendere perche' due popoli fratelli cosi' vicini, sono oggi cosi' lontani. Lo scrittore pacifista israeliano Amos Oz dice dice: "Loro vogliono questa terra perche' credono sia loro, e noi vogliamo questa stessa terra perche' crediamo sia nostra". Sette anni fa veniva ammazzato Yitzhak Rabin, il primo ministro che diceva di voler conquistare la pace piuttosto che i territori. Ma il suo sogno fu spezzato dall'estremismo fanatico. Un altro sogno svanito e' quello dell'Intifada che in lingua araba significa "risveglio". Quindici anni fa essa aveva portato la speranza di un nuovo corso. E' ricordata come la guerra delle pietre, ma fu in realta' una vera e propria strategia preparata anche grazie al lavoro del Centro Palestinese per la Nonviolenza di Mubarak Awad. Furono messe in atto forme nonviolente di resistenza: il boicottaggio, lo sciopero, la serrata dei commercianti, l'obiezione fiscale, il non pagamento degli affitti, i piccoli orti domestici come forma di economia di guerra. Fu un movimento che conquisto' la simpatia del mondo, perche' ricordava la lotta di Davide contro Golia. Se non proprio la nonviolenza, in quei mesi si raggiunse certamente l'esercizio piu' basso possibile della violenza nell'ambito di un conflitto. Ma la strategia di lotta nonviolenta prevede tempi lunghi, e nelle organizzazioni politiche palestinesi prevalsero i falchi, che volevano vedere risultati immediati. Gli amici della nonviolenza furono presto messi ai margini, e poi perfino additati come traditori, espulsi. La scena e' tornata ad essere occupata dal terrorismo. * 11 settembre 2001: non tutti in Palestina hanno fatto festa Mentre il mondo rabbrividiva di fronte all'attacco contro le torri gemelle, tv e giornali ci hanno mostrato alcune manifestazioni di giubilo in Palestina. Nessuno ci ha informato invece delle manifestazioni pacifiche di fronte al consolato americano di Gerusalemme, ognuno con una candela accesa in segno di solidarieta' per le vittime, mentre dal Comune di Beit Sahour, nei territori occupati, giungeva una dichiarazione di cordoglio e solidarieta': "Esprimiamo il dolore piu' profondo all'intero popolo americano. Condividiamo il cordoglio di tutte le famiglie delle vittime e preghiamo Dio affinche' lasci che si lavori insieme per fermare questi atti di terrorismo in tutto il mondo, mano nella mano per stabilire un mondo sicuro in cui vivere". Cio' che la stampa non dice mai, sono le testimonianze sempre piu' numerose del desiderio di pace che si propaga in entrambi i popoli, di resistenza nonviolenta, dalla distribuzione di aiuti nei piccoli villaggi superando l'appartenenza etnica e religiosa, fino alla raccolta comune delle olive. I semi posti anni fa dall'Intifada hanno dato ora i loro frutti. La nonviolenza, si sa, fa bene a chi la fa ma anche a chi la riceve. Cosi' in Israele oggi stanno crescendo generazioni di pacifisti seriamente impegnati, non solo a parole. Sono i cosiddetti refusnik: i soldati che si rifiutano di obbedire a comandi ingiusti contro il popolo palestinese. Questa la dichiarazione che sottoscrivono con la conseguenza di essere processati ed incarcerati: "Noi sottoscritti, giovani cresciuti e educati in Israele resisteremo con forza alla distruzione dei diritti umani da parte di Israele. La sicurezza personale dei cittadini sara' raggiunta solo attraverso un giusto accordo di pace tra il governo israeliano e il popolo palestinese. Percio' noi obbediremo alla nostra coscienza e rifiuteremo di prendere parte ad atti di oppressione contro il popolo palestinese. Invitiamo le persone della nostra eta', i giovani di leva, i soldati in servizio e i riservisti a fare lo stesso". Solo se queste forze di pace riusciranno, anche con il sostegno internazionale, a persuadere i loro popoli sulla necessita' storica della nonviolenza, quella Terra tornera' davvero ad essere Santa. Informazioni aggiornate quotidianamente sulle iniziative di pace in Israele e Palestina, sono consultabile sul sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org 7. INCONTRI. UN INCONTRO CON JOHAN GALTUNG A TORINO [Dal Centro studi "Sereno Regis" di Torino (per contatti: regis at arpnet.it) riceviamo e diffondiamo. Johan Galtung e' nato in Norvegia nel 1930, fondatore e primo direttore dell'Istituto di ricerca per la pace di Oslo, docente, consulente dell'Onu, e' a livello mondiale il più noto studioso di peace research; tra le molte opere di Johan Galtung segnaliamo almeno le seguenti: Ambiente, sviluppo e attivita' militare; Ci sono alternative; Gandhi oggi; Buddhismo. Una via per la pace; tutti presso le Edizioni Gruppo Abele, Torino; Sulla educazione alla pace, Quaderni degli Insegnanti Nonviolenti, Torino; Palestina-Israele: una soluzione nonviolenta?, Sonda, Torino; I diritti umani, Esperia, Milano. Marco Revelli e' docente alla facolta' di scienze politiche dell'Universita' di Torino; tra le sue opere: Lavorare in Fiat, Garzanti, Milano; Le due destre, Bollati Boringhieri, Torino; La sinistra sociale, Bollati Boringhieri, Torino; Fascismo/antifascismo (con Giovanni De Luna), La Nuova Italia, Firenze; un suo importante saggio e' in Ingrao, Rossanda, Appuntamenti di fine secolo, Manifestolibri, Roma; i sembra molto interessante anche la sua "cronaca da un campo rom", Fuori luogo, Bollati Boringhieri, Torino; recentemente ha pubblicato Oltre il Novecento, Einaudi, Torino] Martedi 14 gennaio 2003, alle ore 17,30, presso la sala del Consiglio di facolta' del Politecnico di Torino, in Corso duca degli Abruzzi 24, si terra' una conferenza di Johan Galtung sul tema: "Iraq: una guerra annunciata". Moderatore Marco Revelli. Organizza il Centro Studi Sereno Regis in collaborazione con il Centro Interateneo di Studi per la Pace e il Master in Peacekeeping Management dell'Universita' di Torino. Per informazioni: Centro Studi Sereno Regis, via Garibaldi 13, 10122 Torino, tel. 011532824; fax: 0115158000, e-mail: regis at arpnet.it, sito: www.arpnet.it/regis 8. MAESTRI. MOHANDAS GANDHI: UN CAMMINO CHIARO [Da Mohandas Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, Einaudi, Torino 1973, 1996, p. 121. Mohandas Gandhi e' il fondatore della nonviolenza. Nato a Portbandar in India nel 1869, studi legali a Londra, avvocato, nel 1893 in Sud Africa, qui divenne il leader della lotta contro la discriminazione degli immigrati indiani ed elaboro' le tecniche della nonviolenza. Nel 1915 torno' in India e divenne uno dei leader del Partito del Congresso che si batteva per la liberazione dal colonialismo britannico. Guido' grandi lotte politiche e sociali affinando sempre piu' la teoria-prassi nonviolenta e sviluppando precise proposte di organizzazione economica e sociale in direzione solidale ed egualitaria. Fu assassinato il 30 gennaio del 1948. Sono tanti i meriti ed e' tale la grandezza di quest'uomo che una volta di piu' occorre ricordare che non va mitizzato, e che quindi non vanno occultati limiti, contraddizioni, ed alcuni aspetti discutibili - che pure vi sono - della sua figura, della sua riflessione, della sua opera. Opere di Gandhi: essendo Gandhi un organizzatore, un giornalista, un politico, un avvocato, un uomo d'azione, oltre che una natura profondamente religiosa, i suoi scritti devono sempre essere contestualizzati per non fraintenderli; Gandhi considerava la sua riflessione in continuo sviluppo, e alla sua autobiografia diede significativamente il titolo Storia dei miei esperimenti con la verita'. In italiano l'antologia migliore e' Teoria e pratica della nonviolenza, Einaudi; si vedano anche: La forza della verita', vol. I, Sonda; Villaggio e autonomia, Lef; l'autobiografia tradotta col titolo La mia vita per la liberta', Newton Compton; La resistenza nonviolenta, Newton Compton; Civilta' occidentale e rinascita dell'India, Movimento Nonviolento; La cura della natura, Lef. Altri volumi sono stati pubblicati da Comunita': la nota e discutibile raccolta di frammenti Antiche come le montagne; da Sellerio: Tempio di verita'; da Newton Compton: e tra essi segnaliamo particolarmente Il mio credo, il mio pensiero, e La voce della verita'. Altri volumi ancora sono stati pubblicati dagli stessi e da vari altri editori. I materiali della drammatica polemica tra Gandhi, Martin Buber e Judah L. Magnes sono stati pubblicati sotto il titolo complessivo Devono gli ebrei farsi massacrare?, in "Micromega" n. 2 del 1991 (ma su questo argomento si veda anche la riflessione di Giuliano Pontara in uno dei suoi ultimi libri). Opere su Gandhi: tra le biografie cfr. B. R. Nanda, Gandhi il mahatma, Mondadori; il recente accurato lavoro di Judith M. Brown, Gandhi, Il Mulino; il recentissimo libro di Yogesh Chadha, Gandhi, Mondadori. Tra gli studi cfr. Johan Galtung, Gandhi oggi, Edizioni Gruppo Abele; Icilio Vecchiotti, Che cosa ha veramente detto Gandhi, Ubaldini; ed i volumi di Gianni Sofri: Gandhi e Tolstoj, Il Mulino (in collaborazione con Pier Cesare Bori); Gandhi in Italia, Il Mulino; Gandhi e l'India, Giunti. Cfr. inoltre: Dennis Dalton, Gandhi, il Mahatma. Il potere della nonviolenza, Ecig. Una importante testimonianza e' quella di Vinoba, Gandhi, la via del maestro, Paoline. Per la bibliografia cfr. anche Gabriele Rossi (a cura di), Mahatma Gandhi; materiali esistenti nelle biblioteche di Bologna, Comune di Bologna. Altri libri utili disponibili in italiano sono quelli di Lanza del Vasto, William L. Shirer, Ignatius Jesudasan, George Woodcock, Giorgio Borsa, Enrica Collotti Pischel, Louis Fischer. Un'agile introduzione e' quella di Ernesto Balducci, Gandhi, Edizioni cultura della pace. Una interessante sintesi e' quella di Giulio Girardi, Riscoprire Gandhi, Anterem] Nei miei metodi non c'e' niente di segreto. Non conosco altra diplomazia che quella della verita'. Non ho altra arma che quella della nonviolenza. 9. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 10. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti, la e-mail e': azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: lucben at libero.it; angelaebeppe at libero.it; mir at peacelink.it, sudest at iol.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it. Per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Per non ricevere piu' questo notiziario e' sufficiente inviare un messaggio con richiesta di rimozione a: nbawac at tin.it Numero 472 del 10 gennaio 2003
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