La nonviolenza e' in cammino. 383



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO



Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza

Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it



Numero 383 del 13 ottobre 2002



Sommario di questo numero:

0. Una comunicazione di servizio: repetita iuvant

1. Quel che non basta

2. Tavola della pace e Rete Lilliput: a Firenze un messaggio di nonviolenza
e di giustizia

3. Coordinamento fiorentino della campagna banche armate: la scelta del
dialogo e della nonviolenza

4. "The Nation", lettera aperta ai membri del Congresso

5. Renato Solmi, riflessioni di un insegnante

6. Umberto Santino, mafia e antimafia nell'era Berlusconi

7. Angela Ales Bello: la chiarificazione della solidarieta'

8. Riletture: Paola Cavalieri, La questione animale

9. Riletture: Bernhard Haering, Nuove armi per la pace

10. Riletture: Agnes Heller, Teoria dei sentimenti

11. Riletture: Muhammad Yunus, Il banchiere dei poveri

12. La "Carta" del Movimento Nonviolento

13. Per saperne di piu'



0. UNA COMUNICAZIONE DI SERVIZIO: REPETITA IUVANT

Riproponiamo l'avviso gia' pubblicato ieri.

Da giorni ci giungono numerosissime e-mail recanti in allegato dei virus.
Alcune apparentemente provenienti da noi stessi avendo come falso mittente
l'indicazione del nostro indirizzo di posta elettronica. Lo stesso sta
accadendo a vari altri interlocutori impegnati per la pace e la nonviolenza.

Avvisiamo tutti i nostro interlocutori che noi non inviamo mai - ripetiamo:
mai - messaggi con allegati, cosicche' se vi giunge una e-mail che ci
indica come mittente e recante allegati distruggetela senza aprirla.

Invitiamo tutti ad aggiornare gli antivirus dei propri computer. E
comunque, come e' noto, nella rete telematica sono disponibili
gratuitamente dei servizi di scansione on line con antivirus aggiornati; e'
buona cosa effettuare frequenti controlli.



1. EDITORIALE. QUEL CHE NON BASTA

Non basta dire no alla guerra, il problema e' come impedirla.

Non basta voler convincere gli altri, occorre prima convincere noi stessi.

E per convincere noi stessi che impedire la guerra e' possibile occorre
riflettere sulle potenzialita' grandi della nonviolenza.

Poiche' nessun altro approccio che questo puo' darci una speranza sia pur
minima di contrastare efficacemente la guerra che si va preparando, e che
giusta la massima clausewitziana e' la prosecuzione della politica con
altri mezzi: della politica genocida dell'embargo che strazia il popolo
iracheno, della politica che condanna alla fame e alla violenza i quattro
quinti dell'umanita', della politica che sta distruggendo la biosfera.

A politica occorre contrapporre politica. Cosi' come negli scacchi a un
piano un altro piano occorre opporre.

E la nostra politica sia:

a) il ricorso a tutte le istanze istituzionali e giudiziarie nazionali e
internazionali; quand'anche non avessimo fiducia in esse, lasciare
intentata l'unica strada possibile di regolazione civile delle relazioni
internazionali su basi giuridiche sarebbe scellerato;

b) la pressione morale sui decisori, che sia la piu' diretta possibile, ma
anche indiretta (e quindi il rivolgersi alla cosiddetta opinione pubblica,
ed ancor piu' indirettamente - ma non meno decisivamente - la pressione sui
media acciocche' non si facciano propagandisti di menzogna e di morte);

c) la manifestazione visibile non solo dell'opposizione alla guerra, ma
anche e soprattutto della comprensione di cio' che la guerra e', della sua
iniquita' e crudelta' costitutiva, e degli esiti nefasti di essa;

d) lo studio delle radici (non semplificabili) della guerra e la ricerca
delle alternative e dei processi deescalativi e di gestione e risoluzione
civile e nonviolenta nelle situazioni di conflitto;

e) la proposizione di alternative onestamente discusse, senza occultarne i
limiti e senza decontestualizzarle: la nonviolenza ha ormai accumulato una
serie cospicua di esperienze storiche di intervento efficace e vincente;

f) la preparazione della resistenza civile di massa alla guerra, e per
questo l'addestramento alla nonviolenza, addestramento indispensabile se
alla guerra ci si vuole opporre con efficacia e limpidezza;

g) la preparazione di azioni dirette nonviolente per contrastare la guerra,
cercar di salvare vite umane innocenti, difendere la legalita'
costituzionale e il diritto internazionale;

h) la preparazione di campagne di disobbedienza civile di massa per
contrastare la guerra, cercar di salvare vite umane innocenti, difendere la
legalita' costituzionale e il diritto internazionale;

i) la preparazione dello sciopero generale per contrastare la guerra,
cercar di salvare vite umane innocenti, difendere la legalita'
costituzionale e il diritto internazionale;

l) i soccorsi umanitari alle vittime e l'accoglienza incondizionata dei
profughi, e di tutti gli esseri umani in fuga dalla fame e la morte;

m) una piu' intensa azione antimilitarista e disarmista (non basta voler
controllare l'esercito, occorre abolirli tutti; non basta chiedere
regolamentazioni, occorre imporre la chiusura delle fabbriche di strumenti
di morte);

n) una intransigente opposizione al razzismo, fondata sul rispetto delle
diversita' e sull'affermazione dei diritti umani per tutti gli esseri umani;

o) le mille attivita' contro l'ingiustizia globale e per un uso delle
risorse rispettoso della natura e che riconosca eguali diritti e dignita' a
tutti gli esseri umani;

p) la lotta contro i poteri criminali cosi' terribilmente avvantaggiati
dalla finanziarizzazione e globalizzazione dell'economia;

o) un lavoro su noi stessi;

q) un intenso lavoro su noi stessi;

r) un intenso profondo lavoro su noi stessi.

La nonviolenza e' un cammino. La nonviolenza e' in cammino. La nonviolenza
e' la scelta teoretica e pratica, morale e politica, dell'affermazione di
un'umanita' di liberi ed eguali. La nonviolenza e' la resistenza oggi
necessaria.



2. APPELLI. TAVOLA DELLA PACE E RETE LILLIPUT: A FIRENZE UN MESSAGGIO DI
NONVIOLENZA E DI GIUSTIZIA

[Il seguente comunicato e' stato diffuso dalla Tavola della pace, il
principale network pacifista italiano che collega centinaia di istituzioni
e movimenti, e dalla Rete Lilliput, che collega innumerevoli associazioni e
movimenti impegnati per la giustizia, la solidarieta', la nonviolenza. Lo
pubblichiamo con profondo consentimento: finalmente si fa chiarezza e si
prendono le distanze da posizioni ed iniziative provocatorie che troppo a
lungo hanno trovato copertura, mimetizzazione e complicita' in
atteggiamenti ambigui e reticenti]

Cari amici del Coordinamento del Forum Sociale Europeo,

mancano poche settimane al Forum Sociale Europeo, quando potremo verificare
se il percorso costruito in questi mesi ci avra' fatto avanzare verso quel
risultato al quale tanto teniamo: costruire un'Europa di pace e di
giustizia.

Oggi non lo possiamo prevedere.

C'e' ancora tanto lavoro da fare al quale vorremmo dedicare le nostre
risorse ed energie; vorremmo che questo ultimo mese diventasse un
costruttivo laboratorio di un metodo condiviso per parlare fra noi e con
gli altri.

Questo ad oggi non e' possibile; infatti, ignorando ed anzi demolendo il
lavoro e l'impegno di tanti, alcuni continuano a percorrere le loro strade
inseguendo una facile visibilita' con l'uso di metodi e linguaggi graditi
ai media ma che di fatto trasmettono una visione distorta se non
addirittura negativa di questo movimento dei movimenti.

E' oramai evidente che il lavoro di tanti viene messo a rischio dal
protagonismo, dalla irresponsabilita' e dalla spregiudicatezza di pochi.

Non lo possiamo accettare.

Il percorso che ci porta a Firenze non ha precedenti. Un grande impegno di
discussione e confronto che consente di lavorare insieme ad una grande rete
di associazioni anche molto diverse fra loro. Soprattutto in Italia, e'
stato raggiunto un equilibrio fra le tante anime e culture della societa'
civile, un'alleanza anche piu' vasta di quella di Genova. A nessuno e'
stata negata la possibilita' di partecipare e contare in questo processo,
come le tante riunioni alle quali hanno partecipato centinaia di persone
possono dimostrare. Non e' stato un processo perfetto ma sicuramente e'
stata esperienza inclusiva ed aperta a tutti, sulla base della Carta dei
Principi di Porto Alegre.

Oggi non e' tollerabile che questa esperienza venga snaturata da chi pensa
di potere utilizzare il Forum Europeo come il palcoscenico della propria
strategia di comunicazione.

E' un percorso aperto a tutti, anche a coloro che si sono auto-esclusi da
un lungo e faticoso confronto, nel rispetto del lavoro e del metodo
costruito e condiviso da tanti.

Noi sentiamo che se non sapremo difendere oggi l'idea e la pratica del
confronto fra diversi oltre che la comune militanza per la pace,
l'esperienza del Forum Sociale Europeo dovra' dirsi conclusa.

Sentiamo che e' necessario porre fine all'enorme pericolo che nasce
dall'uso di linguaggi irresponsabili che possono evocare scenari di
violenza e che possono essere utilizzati per favorire un clima di tensione
e di provocazione.

Sentiamo la grande necessita' di utilizzare un metodo di comunicazione che
sappia coinvolgere fortemente la societa' sui nostri temi e sugli scopi e
l'utilita' del Forum Sociale Europeo, che sappia trasmettere il nostro
messaggio di nonviolenza e di giustizia.

Dobbiamo impegnarci su questi obiettivi, con comportamenti coerenti nei
rapporti all'interno del Forum Sociale Europeo, con le istituzioni, con i
media e la societa' italiana.

Chiediamo ai tanti che credono nel Forum Sociale Europeo di unirsi in
questo impegno.

Tavola della Pace, Rete Lilliput



3. APPELLI. COORDINAMENTO FIORENTINO DELLA CAMPAGNA BANCHE ARMATE: LA
SCELTA DEL DIALOGO E DELLA NONVIOLENZA

[Riceviamo e diffondiamo con vivo consentimento anche questo comunicato del
coordinamento fiorentino della Campagna Banche Armate. Aggiungiamo che il
personaggio di cui si contestano seccamente certe provocatorie ed
irresponsabili dichiarazioni ed iniziative e' un giovane uomo politico in
carriera, alcune escogitazioni e gesta del quale a noi sembrano
inammissibili e di una irresponsabilita' estrema, che si e' conquistato
grande visibilita' sui media anche grazie ad una troppo lunga effettuale
complicita' di movimenti e personalita' che non hanno in passato stabilito
una precisa discriminante ed una esplicita' estraneita' nei confronti di
posizioni ed azioni dagli esiti nefasti]

Con la presente il Coordinamento fiorentino della Campagna Banche Armate si
dissocia totalmente da quanto affermato e proposto da Casarini in occasione
della conferenza stampa di martedi primo ottobre.

Il coordinamento fiorentino della Campagna Banche Armate afferma con forza
che i principi ispiratori della Campagna Banche Armate sono improntati sul
dialogo, sull'informazione, sulla nonviolenza e sul confronto fermo ma
sereno tra cittadini e mondo finanziario.

Ogni altra modalita' che contempli l'occupazione piu' o meno simbolica di
banche o qualsiasi altra struttura finanziaria, non e' da noi ritenuta
strumento valido, accettabile e idoneo allo spirito e alle finalita' della
campagna stessa.

Invitiamo pertanto Luca Casarini e tutti coloro che a vario titolo
appoggiano e credono nelle finalita' della campagna di astenersi da ogni
forma di occupazione, seppure simbolica, ne' durante il Forum Sociale
Europeo di Firenze, ne' mai.

Consapevoli della difficolta' dei percorsi della nonviolenza e del dialogo,
meno visibili ed eclatanti, ma sicuramente piu' fruttuosi anche se lenti,
confidiamo nel senso di responsabilita' di tutti, affinche' il percorso
intrapreso non venga vanificato da un clima di tensione che puo' favorire
atti di violenza. Violenza nei confronti della campagna stessa, di persone
o gruppi che poco hanno a che fare con la stessa e che niente di positivo
(in termini di immagine e risultati) hanno dato sino ad oggi alla campagna
stessa.

Per il Coordinamento fiorentino della Campagna Banche Armate

Francesco Fabrini



4. APPELLI. "THE NATION": LETTERA APERTA AI MEMBRI DEL CONGRESSO

[Il seguente editoriale-appello ai membri del Congresso degli Usa e' stato
pubblicato sulla testata "The Nation" il 7 ottobre 2002, abbiamo ripreso la
traduzione italiana apparsa sul quotidiano "Il manifesto" del 9 ottobre.
Come e' noto il Congresso statunitense ha invece poi scelto di sostenere le
sciagurate posizioni del presidente]

Presto vi sara' chiesto di votare su una risoluzione che autorizzerebbe gli
Stati Uniti a rovesciare il governo dell'Iraq con la forza militare. La sua
approvazione, leggiamo dappertutto, e' una conclusione scontata, come se
cio' che il paese ha ora di fronte non fosse una decisione ma la
rivelazione di un fato. Il paese marcia verso la guerra come se fosse in
trance. Alla Camera, venti di voi, guidati da Dennis Kucinich, hanno
annunciato la loro contrarieta' alla guerra. Al Senato, Robert Byrd ha
montato una campagna contro la versione della risoluzione gia' proposta
dall'amministrazione Bush. Ha dichiarato che l'incostituzionalita' della
risoluzione gli impedira' di votarla. "Ma sto scoprendo", ha aggiunto, "che
la Costituzione e' irrilevante per le persone di questa amministrazione".
Secondo il "Washington Post", i capi di stato maggiore sono contrari alla
guerra. Le telefonate e la posta che ricevete si esprimono in modo
fortemente contrario. I sondaggi e gli articoli di giornale rivelano un
pubblico diviso e incerto. Tuttavia il vostro dibattito e' limitato a
questioni periferiche, come i tempi del voto, o l'ambito preciso della
risoluzione. Siete un corpo deliberante, ma non deliberate. Siete
rappresentanti, ma non rappresentate. Il silenzio di quelli di voi che
fanno parte del Partito Democratico e' particolarmente preoccupante. Voi
siete il partito di opposizione, ma non vi opponete. Sollevare la questione
della guerra, vi dicono i vostri consiglieri politici, vi distogliera'
dalle questioni interne che favoriscono le chance del partito nelle
prossime elezioni per il Congresso. Messi davanti alla guerra preventiva
dell'amministrazione, i vostri leader hanno scelto la resa preventiva. Pur
di restare al potere, vi viene detto, non dovete esercitare il potere in
materia di guerra di cui disponete. Qual e', allora, lo scopo della vostra
rielezione? Se ci riuscirete, avrete gia' gettato via il potere che
teoricamente avreste ottenuto. Sarete membri del Congresso, ma il Congresso
non sara' il Congresso. Anche le fortune delle cause interne che promuovete
dipenderanno molto di piu' dalla decisione della guerra che dall'esito
elettorale.

Il 4 aprile 1967, mentre infuriava la guerra in Vietnam, Martin Luther King
jr. disse: "Arriva un momento in cui il silenzio e' un tradimento". Ed egli
disse anche: "Alcuni di noi, che hanno gia' cominciato a rompere il
silenzio della notte, hanno scoperto che essere chiamati a parlare e'
spesso una vocazione all'agonia, ma dobbiamo parlare. Dobbiamo parlare con
tutta l'umilta' che si addice alla limitatezza della nostra visione, ma
dobbiamo parlare". Ora il momento di parlare e' arrivato di nuovo. Noi vi
chiediamo di parlare - e, quando verra' il momento, di votare - contro la
guerra in Iraq.

Il motivo per essere contrari alla guerra e' semplice, chiaro e forte.
L'amministrazione la chiama un capitolo della guerra al terrorismo, ma
l'Iraq non ha legami dimostrati ne' con gli attacchi dell'11 settembre
contro gli Stati Uniti, ne' con la rete di Al Qaeda che li ha lanciati.
L'obiettivo della guerra e' privare il presidente Saddam Hussein di armi di
distruzioni di massa, ma la portata del suo programma per costruire queste
armi, se ancora esiste, e' oscura. Ancor meno chiara e' qualunque
intenzione da parte sua di usare tali armi. Farlo sarebbe un suicidio, come
lui ben sa. La deputata democratica californiana Anna Eshoo ha riferito che
in una sessione a porte chiuse e' stato chiesto piu' volte ai
rappresentanti dell'amministrazione se abbiano le prove di una imminente
minaccia da parte di Saddam Hussein agli Stati Uniti, e loro hanno risposto
no. Ha specificato "Non 'no, ma' o 'forse', ma 'no'". D'altra parte, se lui
le ha veramente, e rischia la deposizione e forse la morte per mano delle
forze Usa, potrebbe decidere di usarle - o, piu' probabilmente, darle a
gruppi terroristici affinche' le usino dopo la sua caduta. Potrebbe farlo
anche adesso.

Alcuni osservatori hanno paragonato la risoluzione in discussione a quella
del Golfo del Tonchino del 1964, che autorizzava il presidente Johnson a
usare la forza in Vietnam. Ma quella fu approvata solo dopo che arrivo' la
notizia di due attacchi alle forze navali Usa (oggi sappiamo che il primo
attacco fu provocato da un precedente attacco americano segreto e il
secondo era inesistente). La nuova risoluzione, che non fa riferimento ad
alcun attacco, neanche a uno fittizio, va piu' in la'. E' una risoluzione
del Golfo del Tonchino senza un incidente da Golfo del Tonchino.

Anche se Saddam possiede le armi di distruzione di massa e intende usarle,
una politica di deterrenza apparirebbe perfettamente adeguata a fermarlo,
proprio come fu adeguata, mezzo secolo fa, a fermare un dittatore molto
piu' temibile, Giuseppe Stalin. Non e' vero che la forza militare e' il
solo mezzo per impedire la proliferazione di queste armi, sia all'Iraq che
ad altri paesi. Una via alternativa e' chiaramente percorribile. Nel breve
periodo questa passa attraverso le Nazioni Unite e il loro sistema di
ispezioni, ora piu' promettente di prima perche' l'Iraq, rispondendo alle
pressioni Usa, ha aperto agli ispettori in modo incondizionato. Quantomeno,
questa via dovrebbe essere esplorata appieno prima che l'azione militare -
tradizionalmente l'ultima risorsa - venga anche solo presa in
considerazione. Una tale scelta a favore del multilateralismo, della
diplomazia e dei trattati dovrebbe essere parte di una politica molto piu'
vasta di non-proliferazione e di disarmo del tipo che ha gia' avuto grande
successo negli scorsi decenni. In base al trattato di non-proliferazione
delle armi nucleari, per esempio, 182 nazioni hanno accettato di fare a
meno di armi nucleari.

La questione piu' ampia e' se la proliferazione - non solo nei confronti
dell'Iraq, ma anche di molti altri paesi - sia affrontata meglio con mezzi
militari o politici.

Ma la decisione di andare alla guerra ha un significato che va oltre la
guerra. La guerra e' il prodotto di una piu' vasta politica, che
l'amministrazione Bush ha espresso nel modo piu' chiaro possibile. Due
altri paesi con programmi nucleari - l'Iran e la Corea del nord - sono gia'
stati identificati dal Presidente come potenziali target per un attacco
militare. Il documento recentemente pubblicato dall'amministrazione,
"National Security Strategy of the United States" esprime ambizioni anche
maggiori. Esso proclama una politica di supremazia militare su tutta la
terra - un obiettivo mai perseguito prima da nessuna potenza. Nel frattempo
i programmi militari sono vietati agli altri paesi. A tutti questi deve
essere impedito di "sorpassare o eguagliare" gli Stati Uniti. Alla Cina
viene riservato l'avvertimento che "perseguendo capacita' militari
avanzate", essa sta seguendo "un percorso sorpassato" che "minaccia i suoi
vicini". La nuova politica rovescia una lunga tradizione americana di
disprezzo per gli attacchi non provocati. Essa da' agli Stati Uniti il
diritto illimitato di attaccare altri paesi anche se non sono stati
attaccati da essi, e non stanno per esserlo. Rinuncia alla deterrenza in
cambio della prevenzione - in parole semplici, aggressione. Conferisce agli
Stati Uniti il diritto di rovesciare qualunque regime - come quello in Iraq
- qualora lo decida (il Presidente vorrebbe il sostegno internazionale e
quello del Congresso, ma afferma il suo diritto di muovere guerra senza
nessuno dei due). Dichiara che la difesa degli Stati Uniti e del mondo
contro la proliferazione nucleare e' la forza militare. E' una politica
imperiale - piu' ambiziosa di quello dell'antica Roma che, dopo tutto, si
estendeva solo fino al Mediterraneo e all'Europa. Nelson Mandela ha detto
recentemente dell'amministrazione statunitense: "Loro pensano di essere la
sola potenza al mondo... un paese vuole intimidire il mondo".

Un voto a favore della guerra in Iraq e' un voto a favore di questa
politica. La piu' importante delle questioni sollevate dalla guerra,
comunque, e' ancora piu' ampia. E' che tipo di paese gli Stati Uniti
vogliono essere nel ventunesimo secolo. L'essenza della forma di governo
dell'America e' stata la creazione di un sistema di istituzioni per
controllare e bilanciare il potere governativo e fare cosi' in modo che
esso risponda dei suoi atti alla gente. Oggi questo sistema e' minacciato
da un mostro - un potere privo di contrappesi e che non risponde dei suoi
atti -, un nuovo Leviatano che sta prendendo forma tra noi nel ramo
esecutivo del governo. Mentre minaccia una guerra infinita e non provocata,
questo Leviatano - nascosto in una segretezza che si e' creato da solo e
che diventa sempre piu' profonda, e nutrito dai fiumi di soldi delle
corporations che, come ha dimostrato il susseguirsi degli scandali, hanno
smesso esse stesse di rispondere dei propri atti - minaccia anche i diritti
civili. Tanto irrispettosa della Costituzione quanto lo e' della Carta
dell'Onu, l'amministrazione per raggiungere i suoi obiettivi si e'
allontanata dalla legge in tutte le sue espressioni e ha riposto invece la
sua fiducia su una forza enorme. Andando alla ricerca di un impero
all'estero, mette in pericolo la repubblica in casa sua. L'intimidazione
del mondo minaccia di diventare anche l'intimidazione degli americani. Gia'
ora, il dipartimento della Giustizia afferma il proprio diritto di
imprigionare dei cittadini americani indefinitamente per il solo motivo che
al Pentagono un burocrate li ha etichettati "combattenti nemici", come
vengono chiamati.

Anche il sistema elettorale interno e' stato compromesso dalla debacle in
Florida. Ne' le ombre gettate sulla democrazia da quelle elezioni sono
ancora state cancellate. La riforma elettorale non c'e' stata. Una modesta
riforma della campagna elettorale finalizzata a rallentare il flusso di
denaro che dalle corporations inonda la politica, anche dopo essere stata
approvata al Congresso, e' sotto approfondita valutazione delle decisioni
presidenziali. Cosa ancora piu' importante, la campagna del Congresso di
quest'anno, evitando il dibattito sulla questione fondamentale della guerra
e della pace, ha segnalato al pubblico che persino nelle questioni piu'
importanti per il paese, ne' questo ne' i suoi rappresentanti assumono
decisioni; solo il potere esecutivo lo fa.

Membri del Congresso: siate fedeli ai vostri giuramenti e alle tradizioni
del vostro ramo del governo. Pensate al paese, non alla vostra rielezione.
Affermate il vostro potere. Difendete le prerogative del Congresso.
Difendete la Costituzione. Rifiutate l'arroganza - e l'ignoranza - del
potere. Dimostrate rispetto per i vostri costituenti - essi richiedono il
vostro onesto giudizio, non la capitolazione davanti al potere esecutivo.
Dite no all'impero. Affermate la Repubblica. Preservate la pace. Votate
contro la guerra in Iraq.



5. MAESTRI. RENATO SOLMI: RIFLESSIONI DI UN INSEGNANTE

[Questa conversazione di Renato Solmi abbiamo tratto dal sito
(www.unacitta.it) del bel mensile "Una citta'", che vivamente
raccomandiamo; essa e' apparsa nel n. 98 del settembre 2001 della rivista
con titolo "La seconda meta' del mio cammino. Note e riflessioni di un
insegnante". Renato Solmi (per contatti: rsolmi at tin.it) e' uno dei piu'
grandi maestri di cultura e di impegno civile viventi in Italia]

L'insegnamento nelle scuole medie superiori, salvo un breve periodo di due
anni in cui ho avuto un incarico in una scuola media serale, ha occupato
una parte considerevole della mia vita lavorativa (e cioe', per la
precisione, trentuno anni), ma non e' stata la mia sola occupazione,
poiche' e' stata preceduta da un periodo di dodici anni in cui ho lavorato
(con qualche interruzione) presso la casa editrice Einaudi, e accompagnata
da un'attivita' di traduttore e di curatore di testi che si e' prolungata,
anche se in forma via via meno intensa, fino a questi ultimi anni.

Questo per dire che la scuola non e' stata per me una vocazione spontanea e
del tutto disinteressata, ma, in qualche modo, un ripiego, una seconda
scelta, anche se, una volta imboccata questa strada, ho cercato di
assolvere ai miei doveri nel migliore dei modi possibile, senza riuscire
peraltro mai a immedesimarmi totalmente e senza riserve nel mio ruolo
professionale e a incarnare, cosi' facendo, la figura ideale
dell'insegnante, come mi era stata data la possibilita' di conoscerla
(almeno in un singolo caso) nei miei anni di scuola, e poi soprattutto
attraverso i resoconti e le narrazioni di amici della mia eta' o piu'
giovani di me che avevano potuto usufruire della guida e dell'assistenza di
personaggi veramente conformi a questo modello.

E anche nei confronti di alcuni dei miei colleghi (o forse, soprattutto,
delle mie colleghe), che, anche senza essere circondati da un'aureola di
ammirazione di questo tipo, erano, tuttavia, del tutto a posto nel loro
ruolo, e in grado di esibire un curriculum ineccepibile, non ho potuto fare
a meno di provare qualcosa di simile a un complesso di inferiorita', come
se fossi affetto da una sorta di vizio di origine da cui non sarei mai
riuscito a liberarmi completamente (per non dire che, anzi, per una serie
di circostanze soggettive e oggettive, questo sentimento si e' venuto
accentuando proprio nel corso dei miei ultimi anni di vita scolastica).

Avevo fatto qualche esperienza di supplente a Milano nell'inverno 1950-'51,
prima di recarmi a lavorare da Einaudi, da cui ero rimasto profondamente
scioccato, e quasi terrorizzato, nonostante che si trattasse di una classe
abbastanza tranquilla degli ultimi anni del ginnasio di allora. Ero ancora
psicologicamente troppo fragile per resistere a una prova di questo genere:
insegnare il greco e il latino dopo essere uscito da poco dall'universita',
dove mi ero laureato in lettere classiche, con una tesi su Platone in
Sicilia, e avere passato un anno presso l'Istituto Storico di Napoli, nella
coscienza di non essere assolutamente in grado di farlo senza l'aiuto di un
insegnante piu' esperto, era come trovarsi all'improvviso a sopportare un
peso schiacciante, a cui non avrei mai saputo fare fronte ne' dal punto di
vista delle mie cognizioni effettive in materia ne' da quello della mia
conoscenza degli uomini, anche se si trattava solo di ragazzi quindicenni
(o poco piu'). Ricordo che, in quella classe, si trovava il figlio di un
carissimo amico di mio padre, Diego Lanza, che sarebbe diventato poi
professore di letteratura greca a Pavia, e che mi disse, qualche tempo
dopo, di avere provato un terribile senso di soggezione alla mia presenza,
che non era stato certo pari, pero', a quello che avevo provato io al
cospetto di lui e di tutta la classe.

Sarebbe stato ben diverso l'impatto che l'esperienza scolastica avrebbe
avuto su di me dodici anni dopo, quando avevo dietro le mie spalle una
lunga esperienza di lavoro editoriale, sia pure contrassegnata da periodi
di crisi e di depressioni anche acute, e - cio' che non era meno importante
- potevo contare sulla vicinanza e sul sostegno della donna con cui mi ero
sposato. L'insegnamento della filosofia, della psicologia e della pedagogia
negli istituti magistrali, e per lo piu' in classi a composizione
esclusivamente femminile, anche se comportava (e avrebbe continuato a
comportare anche in seguito) uno studio intenso e costante, era un compito
relativamente leggero, che non poteva dare luogo a nessun trauma violento.
In particolare, lo studio della storia del pensiero e della prassi
educativa e di un certo numero di classici della pedagogia moderna e
contemporanea mi sarebbe stato di grande utilita' nell'approccio ai
problemi della vita scolastica e nello sforzo di stabilire un rapporto piu'
stretto e piu' cordiale con gli studenti, che non potevano restare
insensibili a quelle tematiche e a quel tipo di ragionamenti. Insomma,
avevo scelto o trovato, per mia fortuna, la via migliore per entrare nella
scuola nel modo piu' indolore e meno frustrante che fosse possibile, e
cioe' in quello piu' congeniale ai miei interessi e alle mie capacita', e
che, inoltre, devo subito aggiungere, si veniva a trovare singolarmente in
sintonia con le tendenze che venivano maturando in quegli anni nella scuola
e nella societa' italiana (ma anche nel resto del mondo), e che sarebbero
sfociate di li' a poco nella contestazione giovanile del '68.

Cosi', per una serie di circostanze del tutto accidentali, o comunque
impreviste dal mio povero io cosciente, la mia esperienza scolastica ha
potuto situarsi, almeno nei primi tempi, in una linea di quasi perfetta
continuita' con l'impegno politico (o, se si preferisce,
politico-culturale, o politico-educativo) che mi aveva spinto ad entrare
nella casa editrice Einaudi e che era poi stato anche la causa della mia
finale estromissione da essa. Dove avrei potuto trovare, infatti, un
terreno piu' fertile per lo sviluppo delle mie riflessioni, e poi anche, a
partire da un certo momento, per iniziative pratiche concrete, di quello
rappresentato dalla scuola media superiore negli ultimi anni '60? Qui mi
trovavo in contatto, non piu' o non solo con un mondo di intellettuali e di
libri, ma con un campione rappresentativo di quella meta' delle nuove
generazioni che, a quell'epoca, era gia' in condizione di frequentare
quell'ordine complessivo di scuole, e che si sarebbe posto, in quello
stesso torno di tempo, il problema (o se lo sarebbero posto, in modo piu'
concreto, gli studenti universitari che uscivano dalle sue file) di
stabilire un rapporto di collaborazione e di solidarieta' con quell'altra
meta' che aveva imboccato la via di un'attivita' lavorativa subalterna in
vista di un rinnovamento radicale della societa' italiana e dei rapporti
fra le classi e le nazioni su scala mondiale.

I rapporti che avevo avuto modo di intrattenere con Raniero Panzieri e col
gruppo dei "Quaderni Rossi" nei primi anni '60, e che mi avevano ridestato
dall'apatia in cui ero caduto nella seconda meta' degli anni '50, e poi
quelli che avevo cominciato ad intrecciare coi redattori dei "Quaderni
Piacentini" e con alcuni dei loro collaboratori fra il 1964 e il 1970, mi
avevano preparato ad accogliere e a registrare con una certa prontezza i
sintomi che si venivano manifestando un po' ovunque (a cominciare dagli
Stati Uniti d'America) nel mondo della scuola e dell'universita' e negli
atteggiamenti delle nuove generazioni, che non potevano fare a meno di
ripercuotersi e di svilupparsi anche presso di noi.

Ma questa fortunata concatenazione di circostanze aveva una contropartita
non altrettanto positiva nelle ricadute che tutto cio' non poteva fare a
meno di avere sui miei rapporti con l'istituzione scolastica, o, per dir
meglio, con la dimensione propriamente professionale del mio lavoro di
insegnante. Potrei riassumere la natura di questa contraddizione, o di
questa antinomia praticamente insolubile, dicendo che mi sono trovato a
contestare il mio ruolo di insegnante prima ancora di averlo indossato e
fatto mio, di averlo assimilato e penetrato fino in fondo, in tutte le sue
implicazioni e in tutte le sue esigenze. Le cose si sarebbero configurate
diversamente se fossi entrato nella scuola una decina di anni prima, e
avessi avuto il modo e il tempo di acquisire un habitus professionale piu'
solido e possibilmente impeccabile, che avrebbe potuto consentirmi, a quel
punto, di impegnarmi a fondo in un'opera di riforma del mio stesso
insegnamento, dei suoi metodi, dei suoi contenuti, della sua stessa natura,
e quindi anche, in prospettiva, o, per dir meglio, in stretta congiunzione
con quella, in un'attivita' propositiva diretta a promuovere cambiamenti di
carattere strutturale nella direzione che mi sarebbe parsa desiderabile.

Solo in questo caso la dimensione didattica e la dimensione politica della
mia attivita' avrebbero potuto fondersi strettamente fra loro, laddove
invece, al punto in cui mi trovavo, e in conseguenza della sfasatura
temporale di cui ho parlato, non poteva fare a meno di crearsi, fra l'una e
l'altra, un dissidio praticamente insanabile, di cui gli studenti non
potevano fare a meno di rendersi conto, tanto e' vero che molti di essi,
che accoglievano con entusiasmo i miei interventi nelle assemblee (che
erano allora, e sarebbero rimasti ancora negli anni '70, molto frequenti),
e in generale mi consideravano come una guida o, per dir meglio, come un
punto di riferimento sicuro nell'attivita' di contestazione e di proposta
che si svolgeva nella scuola, mi confessavano di non essere altrettanto
entusiasti delle mie lezioni ordinarie, che erano, tutto sommato, di tipo
tradizionale, e che si attenevano abbastanza scrupolosamente ai programmi.

C'era, in esse, anche se forse non sempre, qualcosa di sforzato e insieme
di incompiuto, di rimasto, per cosi' dire, a meta', come se la materia che
insegnavo, nonostante tutti gli sforzi che avevo fatto per impadronirmene,
non fosse ancora completamente dominata e posseduta, non fosse diventata,
se si puo' dir cosi', una seconda natura, e non mi consentisse quindi
quella liberta' di movimento, quella sovranita' nella trattazione degli
argomenti, e quindi anche quella familiarita' nella conversazione con gli
studenti che puo' concedersi solo chi si sente perfettamente signore in
casa propria, che caratterizzano, o dovrebbero caratterizzare, l'insegnante
che e' diventato un virtuoso nel suo mestiere, e che, grazie a questa
"virtu'" (di cui puo' valere la pena di sottolineare il duplice
significato), e' anche in grado di attirare e di soggiogare completamente
l'attenzione degli studenti.

Si puo' spiegare cosi' come, nell'autunno del 1970, quando la forza del
movimento studentesco, e anche quella del movimento insegnanti, in cui, a
Torino, avevo svolto, insieme ad altri compagni, un ruolo abbastanza
rilevante, mostravano chiaramente i segni del declino, la volonta' di
impegnarmi fino in fondo in un'attivita' di profilo marcatamente politico
mi abbia spinto a lasciare l'Istituto Magistrale, nell'intenzione di
dedicarmi esclusivamente alla traduzione e alla cura di testi che potessero
servire in qualche modo alla causa.

E' in questo periodo che feci uscire presso Einaudi il Capitalismo militare
di Melman, preceduto da una mia lunga introduzione, e presso Feltrinelli
(insieme a Sandro Sarti, di me piu' esperto nella conoscenza dell'inglese,
e particolarmente benemerito in questo campo) il libro di Mark Lane Una
generazione nel Vietnam, che conteneva le testimonianze di reduci e di
disertori americani sulle torture e sui crimini di guerra. Ma ben presto
dovetti rendermi conto che un'attivita' di collaboratore editoriale
univocamente diretta al conseguimento di determinati risultati, e cioe' a
finalita' di ordine politico, non sarebbe stata in grado di procurarmi un
reddito sufficiente e dovetti cercare nuovamente rifugio nella scuola.

Per due anni (1972-1974) ho insegnato, con orario ridotto, in una scuola
media serale a Mirafiori Sud. Dal punto di vista pedagogico, e anche dal
punto di vista umano, e' stata forse l'esperienza piu' interessante e piu'
convincente di tutta la mia vita lavorativa. Per la prima volta avevo
l'impressione di essere veramente utile, e cioe' di poter dare ai miei
allievi (che avevano, in generale, l'eta' degli studenti liceali, e spesso
anche qualche anno di piu') qualcosa che, in quelle circostanze, essi
avrebbero potuto difficilmente ricevere da altri. Avevo molto tempo a
disposizione, ma lo passavo quasi interamente nella preparazione di
materiali che potessero aiutarli nell'attivita' di scrivere, o anche solo
in quella di leggere dei testi. Molti di quei materiali, riletti oggi a
distanza, mi sembrano quanto di meglio mi sia riuscito di fare nel corso
della mia vita.

Ma quando mi giunse l'offerta di un posto di ruolo presso il Liceo
D'Azeglio, che avrebbe posto termine all'incertezza delle mie condizioni e
che avrebbe contribuito ad assicurare un minimo di stabilita' all'esistenza
della mia famiglia, non fui in grado di dire di no e dovetti chinare la
testa, ben sapendo che quella scelta avrebbe comportato un graduale
affievolimento e isterilimento del mio impegno politico, dal momento che il
Liceo Classico, con le sue 18 ore settimanali, e con la necessita' di
insegnare, insieme alla filosofia, anche la storia, mi avrebbe costretto a
un lavoro estenuante di preparazione e di studio, che avrebbe tarpato le
ali anche a qualunque tentativo di innovazione didattica nel quadro delle
lezioni. Prima avrei dovuto mettermi in condizione di insegnare, con un
minimo di sicurezza, la storia del pensiero e del genere umano (e gia' la
semplice formulazione di questa esigenza contiene in se', come e' fin
troppo evidente, l'impossibilita' di soddisfarla in un tempo determinato, e
quindi la sostanziale assurdita', o, per dir meglio, la "cattiva
infinita'", di un proposito di questo genere), e poi si sarebbe potuto
parlare di una riforma della scuola e promuovere azioni e iniziative
rivolte al perseguimento di questo nobile fine.

E cosi', a 47 anni di eta', ho dovuto firmare la mia resa di fronte al
destino, dopo avere cercato di procrastinarla oltre i limiti del possibile
e forse anche del lecito. Qualcuno ha detto che, nella mia vita, non sono
mai stato in grado di tenere il debito conto di quel fattore essenziale che
e' costituito dal tempo. E temo che, purtroppo, chi si e' espresso in
questi termini avesse almeno parzialmente ragione.

Al D'Azeglio, dove sono rimasto solo cinque anni, perche', nel 1979, sono
stato costretto a trasferirmi ad Aosta per seguire la mia famiglia che, nel
frattempo, si era spostata in quella localita', ho vissuto ancora una
stagione di lotte scolastiche, che hanno avuto luogo soprattutto sul tema
della riforma degli organi di gestione della scuola, e cioe' della
creazione dei cosiddetti organi collegiali, alcuni dei quali gia'
esistenti, e altri, invece, frutto tutt'altro che irrilevante (anche se
poi, a poco a poco, svuotato internamente dei suoi contenuti e ridotto a
poco piu' di un guscio vuoto e formale) della rivolta studentesca del
decennio precedente. Su questo tema, insieme a Francesco Coppellotti e a un
gruppo di altri insegnanti torinesi attivamente impegnati sui problemi
della riforma della scuola, abbiamo fatto uscire un opuscolo di una
quarantina di pagine in cui la versione che sarebbe poi stata definitiva
dei cosiddetti decreti delegati veniva sottoposta a una critica rigorosa
dal punto di vista di una democrazia assembleare di base come quella
prevista e auspicata dal movimento studentesco. Un altro tema di
discussione degli insegnanti del D'Azeglio e' stato rappresentato, in
quegli anni, da un progetto di sperimentazione generale a livello di
istituto alla cui stesura e formulazione ho contribuito attivamente per la
mia parte, ma che non e' passato, a mio giudizio, per la resistenza
conservatrice e corporativa di molti insegnanti (fra cui anche una parte
notevole di quelli che si dicevano di sinistra). Dal punto di vista della
qualita' media degli studenti (e anche del valore degli insegnanti), il
D'Azeglio e' stato certamente la scuola migliore in cui abbia avuto modo di
lavorare. Ma, purtroppo, al mio ritorno da Aosta, tutti i posti di ruolo
erano impegnati e ho dovuto trasferirmi altrove.

Non diro' nulla delle scuole dove ho lavorato successivamente (il Liceo
Scientifico Berard di Aosta, il Cattaneo di Torino e infine il Galileo
Ferraris nella stessa citta'), se non che erano tutte licei scientifici,
dove, quindi, ho insegnato complessivamente per 18 anni sui 31 della mia
carriera scolastica. Nel primo caso, e, per certi aspetti, anche nel
secondo, la mia scelta e' stata obbligata, ma, a poco a poco, ho finito per
convincermi che il Liceo Scientifico fosse la sede migliore in cui operare
in vista dell'attuazione di un tentativo di scuola media superiore
unitaria, sul modello della scuola media superiore inglese, creata dai
laburisti, in cui avrebbero dovuto essere previsti indirizzi diversi, fra i
quali, tuttavia, il passaggio avrebbe dovuto essere relativamente facile e
non avrebbe dovuto comportare necessariamente la perdita di uno o piu' anni
(come accadeva invece, almeno fino a poco tempo fa, in Italia). Il Liceo
Scientifico e' il tipo di scuola che si presta maggiormente a fungere da
base di un esperimento di questo genere, poiche', a differenza del
Classico, di cui conserva diverse caratteristiche, non e' sbilanciato
eccessivamente verso un determinato gruppo di materie e consente la
convivenza, su piede di parita', delle "due culture" di cui ha parlato
Charles Snow nel suo noto libretto. Il suo solo (o, per dir meglio, il suo
principale) difetto e' quello di non fare posto alle scienze sociali
(economia, diritto, e forse anche psicologia e sociologia), che dovrebbero
costituire l'anello mancante, il vincolo di connessione strutturale fra le
materie umanistiche e scientifiche, che, altrimenti, rimangono separate fra
loro da un abisso incolmabile. E poiche' il Liceo Ferraris, che e', forse,
in termini di fama e di risultati, il primo liceo scientifico di Torino, e'
sito nello stesso palazzo in cui si trova anche l'Istituto Tecnico
Commerciale Sommeiller, che occupa piu' o meno lo stesso posto fra gli
istituti della sua categoria, e il passaggio (fisico, beninteso) fra l'uno
e l'altro e' del tutto agevole e comodo, al punto che puo' dare luogo, a
volte, a episodi di rivalita' o addirittura ad incidenti fra gli studenti
delle due scuole, mi sembrava che un'idea di questo genere avrebbe potuto e
dovuto affacciarsi alla mente degli insegnanti progressisti dell'uno e
dell'altro istituto, e piu' in generale di Torino, ed essere presa in
considerazione anche dalle autorita' che dovrebbero sovrintendere
all'organizzazione generale delle scuole e all'elaborazione di nuovi
progetti.

Che cio' non sia accaduto, e cioe' che non se ne sia nemmeno discusso,
dimostra, se ce ne fosse bisogno, che, purtroppo, gli intenti riformatori
che dovrebbero essere il naturale prodotto di un pensiero orientato verso
la creazione delle condizioni di una democrazia egualitaria e di una
cultura veramente universale e omogenea siano del tutto estranei alla
grande maggioranza degli insegnanti come degli uomini politici, e non si
presentano neppure come ipotesi alla mente degli interessati e degli
addetti ai lavori in questo campo. Quando sono arrivato al Galileo
Ferraris, c'era una preside che era certo una degnissima persona, ma da cui
non ci si poteva aspettare nessuna collaborazione in questo senso, e quando
poi arrivo' il preside attuale, su cui forse avrei potuto anche fare
assegnamento, i lavori della Commissione Brocca erano terminati, o si erano
gia' arenati completamente, ed era chiaro che non sarebbe stato piu'
nemmeno possibile anche solo avanzare seriamente una proposta di questo
genere. Inoltre, la data del mio distacco dalla scuola si avvicinava ormai
a grandi passi, e avrebbe avuto poco senso, per me personalmente,
impegnarmi per un'iniziativa di cui non avrei potuto, anche nella migliore
delle ipotesi, seguire e assecondare la realizzazione neppure nei suoi
stadi iniziali.

Questa era la prospettiva in cui avrei voluto muovermi, se le circostanze
non fossero state del tutto avverse, e se non lo fossero diventate sempre
di piu' nel corso degli anni; ma, in mancanza di meglio, e cercando di
capire che cosa avrei potuto fare anche da solo, ho accolto con favore, e
ho cercato di valorizzare al massimo, le possibilita' offerte dal nuovo
Concordato stipulato fra Stato e Chiesa sotto il governo di Craxi, e
precisamente quella di propormi come insegnante dell'ora alternativa
all'insegnamento della religione cattolica per gli studenti che ne avessero
fatto spontaneamente richiesta. A mio avviso, l'idea scaturita dal cervello
di Craxi, di cui detestavo la politica sotto ogni altro rispetto, non era
priva, nella sua estrosita', di una valenza politica potenziale e anche di
una carica culturale tutt'altro che ovvia, che sarebbe stato il caso di
accogliere e di attualizzare, in linea di principio, nella realta'
effettiva della scuola. Un'ora sola alla settimana era poco (anche se nei
primi due o tre anni, quando l'interesse degli studenti era al massimo, ho
potuto farmene assegnare anche piu' di una, che avevano luogo, beninteso,
in classi diverse, e che prendevano il posto delle ore destinate alle
supplenze, quasi sempre vuote e noiose nelle grandi citta', mentre le cose
possono andare altrimenti in provincia, come ho potuto constatare con mia
grande sorpresa ad Aosta), ma era pur sempre meglio che niente, e il
rapporto che potevo stabilire con gli studenti in questa attivita' di tipo
seminariale bastava a consolarmi dell'aridita' e della pesantezza delle ore
che ero costretto a dedicare allo svolgimento dei programmi ministeriali.

Il difetto principale della "trovata" di Craxi, che, nelle condizioni date,
era destinato a causarne il fallimento, era quello di non avere provveduto
a introdurre il minimo incentivo di carattere economico per gli insegnanti
che fossero disposti ad assumersi l'onere di tenere un corso apposito, sia
pure di un'ora sola, su una tematica spesso del tutto estranea, e sempre
comunque trasversale, rispetto ai programmi abituali, che richiedeva,
pertanto, una preparazione ad hoc e una certa capacita' di invenzione e di
costruzione originale di una "traccia", o di un itinerario didattico, che
doveva essere riempito, per lo piu', con materiali e notizie tratti da
fonti diverse e irreperibili nella maggior parte dei manuali scolastici.

Solo chi, come il sottoscritto, fosse motivato da un interesse particolare
per le possibilita' implicite in un lavoro di questo genere, e potesse
quindi mettere nel calcolo dei costi e dei benefici dell'impresa anche i
vantaggi indiretti che ne sarebbero potuti derivare per se stesso e per gli
sviluppi futuri della sua attivita', nella forma di una maggiore chiarezza
di idee su questioni di importanza nodale e decisiva, di progressi
sensibili nella comprensione della logica interna e dei requisiti
essenziali di una trattazione soddisfacente dell'argomento, a prescindere
dalla gratificazione intrinseca che tutte queste illuminazioni e scoperte
avrebbero potuto procurare all'insegnante e, almeno in una certa misura,
anche agli studenti, che partecipavano attivamente, con la loro attenzione
e con le loro domande, alla dinamica produttiva della loro genesi, avrebbe
potuto sobbarcarsi a cuor leggero ad uno sforzo che, a tutta prima, avrebbe
anche potuto apparire del tutto gratuito e supererogatorio. Ma, una volta
che fossero state date queste condizioni, la scelta meritava certamente di
essere fatta.

Lo svolgimento dell'ora alternativa era quindi per me, quasi sempre, tranne
che forse negli ultimi anni, come il socchiudersi di uno spiraglio su
quella che avrebbe potuto essere una scuola diversa, caratterizzata da un
rapporto del tutto diverso fra insegnanti e studenti, e ricco tesoro di
conoscenze inesplorate che, pur essendo potenzialmente presenti nel
patrimonio complessivo delle mie letture e delle mie riflessioni (cosi'
come il desiderio di partecipare ad esse era potenzialmente presente
nell'animo degli studenti), non mi era dato di far venire alla luce, per
tutte le ragioni che non e' difficile immaginare, nel corso delle ore
ordinarie di insegnamento.

Era nel corso dell'ora alternativa che sentivo rivivere in me, in forma
continuativa e consistente, quello che si potrebbe chiamare lo spirito del
'68, e cioe' quella possibilita' di comunicazione diretta con gli studenti
e, in linea potenziale, con "tutti", che rimaneva come soffocata e repressa
nel corso dello svolgimento dei programmi normali e della verifica piu' o
meno meccanica e quantitativa dei risultati conseguiti dagli allievi. Credo
che non solo per me, ma anche per loro, questa esperienza costituisse una
sorta di liberazione, che ci permetteva di toccare, per cosi' dire, con
mano cio' che sarebbe stato possibile fare ed apprendere in una scuola
emancipata dall'incantesimo della repressione e del dominio di classe.

Un'altra esperienza di cui vorrei riferire qui, e che e' stata anch'essa un
hors-d'ouvre isolato nel grigiore delle giornate dedicate alla routine del
lavoro scolastico, e' stata rappresentata da un'inchiesta fatta in due
classi del Liceo Cattaneo (una quarta e una quinta) sulle materie studiate
nel Liceo Scientifico, in cui gli studenti venivano invitati a dire quali
di esse avrebbero voluto espungere dal curriculum e quali invece mettere al
loro posto, quali modifiche avrebbero voluto introdurre nei contenuti
dell'una e dell'altra e nei metodi adottati nella loro trattazione, e a
formulare, in generale, tutte le idee e le esigenze che potevano avere
concepito o provato nel corso dello studio e della riflessione su di esse.
L'insegnamento della storia e della filosofia era stato oggetto, com'e'
ovvio, di un'attenzione e di una cura particolare nella formulazione del
questionario, anche perche' le domande ad esse relative avevano gia'
costituito un tema frequente di riflessioni e di discussioni nel corso
delle lezioni. Le risposte potevano andare da un semplice si' o no a un
discorsetto relativamente lungo in cui gli studenti (spesso i migliori e i
piu' provveduti) esprimevano i loro dubbi e le loro incertezze, e cioe', in
altri termini, i pro e i contro che si potevano addurre a favore dell'uno o
dell'altro corno del dilemma enunciato. Un elenco statistico delle risposte
e una sintesi ragionata delle risultanze che scaturivano da ogni gruppo di
esse, con una serie di considerazioni introduttive e conclusive da parte di
chi aveva programmato e condotto l'inchiesta (a cui aveva partecipato anche
una valente collega della mia scuola), sono stati pubblicati come allegato
al numero di ottobre del 1985 della rivista "Rossoscuola", edita a quel
tempo a Torino; e devo dire che questa inchiesta e' una delle cose che sono
piu' orgoglioso di essere riuscito a impostare e a condurre a termine nel
corso della mia abbastanza lunga carriera scolastica, poiche' mi sembra che
da essa si possa vedere che cosa si dovrebbe far emergere dalle teste degli
studenti, da quello che si potrebbe chiamare il cervello collettivo di una
classe o di una comunita', che, nel suo insieme, e in tutta la varieta'
delle sue inclinazioni e delle sue sfumature, mostra di poter essere un
giudice e un critico piu' acuto di qualunque ispettore scolastico o
consulente ministeriale (con tutto il rispetto che posso avere per gli uni
e per gli altri), se non altro perche' gli studenti sono le cavie
involontarie che vengono sottoposte quotidianamente a questa prova e
avrebbero quindi il diritto di esprimersi e di pronunciarsi su tutti i suoi
aspetti e su tutte le sue modalita', di cui hanno una conoscenza e
un'esperienza piu' diretta di chiunque altro, dal momento che soltanto loro
sono in grado, almeno in potenza, di produrre una sintesi complessiva dei
suoi vari elementi e di stabilire i confronti e le relazioni necessarie,
mentre gli insegnanti, nella maggior parte dei casi, almeno nelle scuole
medie superiori, che soffrono in modo particolare di questa mancanza di
coordinamento e di ricomposizione unitaria del corpo docente, tendono a
chiudersi ciascuno nel proprio ruolo e non sono in grado di valutare, e
spesso nemmeno di concepire, l'effetto cumulativo delle loro azioni
separate e disgiunte.



6. RIFLESSIONE. UMBERTO SANTINO: MAFIA E ANTIMAFIA NELL'ERA BERLUSCONI

[Questo articolo e' apparso su "Confronti" n. 6, del giugno 2002. Umberto
Santino e' il presidente del "Centro siciliano di documentazione Giuseppe
Impastato" (per contatti: via Villa Sperlinga 15, 90144 Palermo, tel.
0916259789, fax: 091348997, e-mail: csdgi at tin.it, sito:
www.centroimpastato.it), il massimo studioso dei poteri criminali, e una
delle figure piu' luminose del movimento antimafia]

Ormai il ricordo delle stragi del '92 e del '93 si e' affievolito e la
mafia non fa piu' notizia. Si e' parlato e si continua a parlare di mafia
invisibile, sommersa o inabissata, ma per molti questi aggettivi sono
sinonimi di inesistente. Se, come pensano in tanti, la mafia esiste solo
quando spara ed e' un fenomeno di cui preoccuparsi solo quando uccide
personaggi noti o notissimi, una mafia che non spara piu' e non produce
"cadaveri eccellenti", ammesso che ci sia ancora, comunque non merita
attenzione.

Lo stereotipo della mafia come emergenza, misurata con il numero dei morti
ammazzati, continua a imperare nel nostro Paese. Era forte gia' prima e nel
nome dell'emergenza e' stata elaborata tutta la legislazione antimafia,
dalla legge del 1982 con cui per la prima volta con piu' di un secolo di
ritardo veniva definita l'associazione di tipo mafioso, una settimana dopo
l'assassinio di Dalla Chiesa, alle leggi e ai provvedimenti sfornati dopo
le stragi del '92 e del '93, in cui sono caduti Falcone e Borsellino. Una
volta che i mafiosi hanno rinfoderato le armi, gia' con il centro-sinistra
era cominciato lo smantellamento della legislazione emergenziale.

Qualche esempio: la legge costituzionale sul "giusto processo" (art. 111
della Costituzione) ha aperto le porte alla possibilita' di rivedere anche
processi con sentenze definitive e la nuova regolazione del pentitismo ha
reso sempre piu' difficili e rare le collaborazioni.

Con il centro-destra la situazione non solo si e' aggravata ma assistiamo a
un salto di qualita'. I fatti parlano da soli. Si comincia con le elezioni,
in cui vengono candidati ed eletti personaggi sotto processo per mafia,
come Marcello Dell'Utri e Gaspare Giudice. Non poteva essere dato un
segnale piu' chiaro di spregio della legalita'. Si continua con i primi
cento giorni del governo Berlusconi: la depenalizzazione del falso in
bilancio, l'inutilizzabilita' delle rogatorie internazionali per banali
vizi formali, tutelano in primo luogo interessi personali del capo del
governo e dei suoi familiari. E questo non era mai avvenuto in piu' di
mezzo secolo di Repubblica. Berlusconi e' uno dei 358 superricchi che da
soli possiedono quanto il 45 per cento della popolazione mondiale, ma come
detentore di un cumulo di interessi, economici, politici, mediatici, e' un
caso unico nel panorama dei paesi occidentali. E' stato un gravissimo
errore dei governi di centro-sinistra non avere regolato il conflitto
d'interessi e non ci si puo' scandalizzare se ora il magnate di Arcore lo
regola a suo modo.

Non passa giorno che non ci sia un attacco alla magistratura e l'estate
scorsa ha destato scandalo una dichiarazione del ministro Lunardi che
diceva che bisogna "convivere con la mafia", come se fosse un fenomeno
naturale. Ma gli attacchi alla magistratura e i progetti di abolirne o
ridurne l'indipendenza non sono frutto di intemperanze verbali o di carenze
nel galateo istituzionale di alcuni ministri, decisamente impresentabili,
ma rispondono a una precisa esigenza: il governo Berlusconi ha un modello
istituzionale e un modello di accumulazione e sviluppo fondati
sull'abolizione o riduzione dei controlli di legalita'. Anzi: richiedono
una ridefinizione della legalita' che e' una vera e propria legalizzazione
dell'illegalita'. Il modello istituzionale si fonda sul rafforzamento del
potere esecutivo, l'asservimento del legislativo e la dipendenza del
giudiziario, smantellando lo Stato di diritto; il modello di sviluppo mira
all'incremento dei capitali, a prescindere dalla loro provenienza (cosi' si
spiegano le facilitazioni per il rientro dei capitali dall'estero), e al
rilancio delle grandi opere pubbliche, da fare in gran fretta, saltando i
controlli. Pazienza se su molte di esse metteranno le mani i mafiosi. Siamo
ben oltre la convivenza con la mafia.

Il centro-destra coagula un blocco sociale e propone un modello
antropologico fondati sulla competitivita' con ogni mezzo e sul successo a
ogni costo. E qui ci sono forti consonanze con il modello mafioso. Anche se
parecchi personaggi del governo e della maggioranza rappresentano la
continuita', c'e' una buona dose di discontinuita' con il potere
democristiano. Per avere un'idea basta guardare a come si sono comportati
Andreotti e Previti. Il primo, l'uomo piu' discusso della prima Repubblica,
accusato di reati gravissimi (mafia e omicidio), si e' presentato
regolarmente alle udienze dei processi; il secondo fa di tutto per sfuggire
ai giudici, perche' si ritiene un perseguitato dalle "toghe rosse", dai
"comunisti". Il quadro e' davvero preoccupante e per ridisegnare
un'alternativa non bastano i girotondi e le manifestazioni di piazza. Anche
se sono il segnale di un risveglio e di una volonta' di rinnovare il quadro
dirigente del centro-sinistra, che non ha perso occasione per mostrare la
propria incapacita' e inadeguatezza.



7. MAESTRE. ANGELA ALES BELLO: LA CHIARIFICAZIONE DELLA SOLIDARIETA'

[Da Angela Ales Bello, Edith Stein, Piemme, Casale Monferrato (Al) 2000, p.
56. Angela Ales Bello, decano della Facolta' di Filosofia dell'Universita'
Lateranense a Roma, e' tra le piu' grandi studiose del pensiero
fenomenologico; Edith Stein, tra le pensatrici somme del Novecento, fu
assassinata dai nazisti ad Auschwitz]

Per Edith Stein, la chiarificazione della solidarieta' e' possibile solo al
termine di una lunga analisi sull'essere umano.



8. RILETTURE. PAOLA CAVALIERI: LA QUESTIONE ANIMALE

Paola Cavalieri, La questione animale, Bollati Boringhieri, Torino 1999,
pp. 192, lire 24.000. Una attenta riflessione su etica e animali non-umani.



9. RILETTURE. BERNHARD HAERING: NUOVE ARMI PER LA PACE

Bernhard Haering, Nuove armi per la pace, Edizioni Paoline, Roma 1984, pp.
104, lire 5.000. Il grande teologo morale per la pace e la nonviolenza.



10. RILETTURE. AGNES HELLER: TEORIA DEI SENTIMENTI

Agnes Heller, Teoria dei sentimenti, Editori Riuniti, Roma 1980, 1981, pp.
304. Una fine riflessione fenomenologica e sociologica sui sentimenti della
grande pensatrice ungherese.



11. RILETTURE. MUHAMMAD YUNUS: IL BANCHIERE DEI POVERI

Muhammad Yunus, Il banchiere dei poveri, Feltrinelli, Milano 1998, 1999,
pp. 272, lire 35.000 (ma ci dovrebbe essere anche un'edizione economica
successiva). La rilfessione e l'azione del promotore della straordinaria
esperienza della Grameen Bank.



12. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO

Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova
il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.

Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:

1. l'opposizione integrale alla guerra;

2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;

3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;

4. la salvaguardia dei valori di cultura e dellâambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dellâuomo.

Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.

Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio,
l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.



13. PER SAPERNE DI PIU'

* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: http://www.nonviolenti.org;
per contatti, la e-mail e': azionenonviolenta at sis.it

* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in
Italia: http://www.peacelink.it/users/mir; per contatti: lucben at libero.it;
angelaebeppe at libero.it; mir at peacelink.it, sudest at iol.it

* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: http://www.peacelink.it. Per
contatti: info at peacelink.it



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO



Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza

Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
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Numero 383 del 13 ottobre 2002