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La nonviolenza e' in cammino. 383
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 383
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Mon, 14 Oct 2002 09:46:25 +0200
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 383 del 13 ottobre 2002 Sommario di questo numero: 0. Una comunicazione di servizio: repetita iuvant 1. Quel che non basta 2. Tavola della pace e Rete Lilliput: a Firenze un messaggio di nonviolenza e di giustizia 3. Coordinamento fiorentino della campagna banche armate: la scelta del dialogo e della nonviolenza 4. "The Nation", lettera aperta ai membri del Congresso 5. Renato Solmi, riflessioni di un insegnante 6. Umberto Santino, mafia e antimafia nell'era Berlusconi 7. Angela Ales Bello: la chiarificazione della solidarieta' 8. Riletture: Paola Cavalieri, La questione animale 9. Riletture: Bernhard Haering, Nuove armi per la pace 10. Riletture: Agnes Heller, Teoria dei sentimenti 11. Riletture: Muhammad Yunus, Il banchiere dei poveri 12. La "Carta" del Movimento Nonviolento 13. Per saperne di piu' 0. UNA COMUNICAZIONE DI SERVIZIO: REPETITA IUVANT Riproponiamo l'avviso gia' pubblicato ieri. Da giorni ci giungono numerosissime e-mail recanti in allegato dei virus. Alcune apparentemente provenienti da noi stessi avendo come falso mittente l'indicazione del nostro indirizzo di posta elettronica. Lo stesso sta accadendo a vari altri interlocutori impegnati per la pace e la nonviolenza. Avvisiamo tutti i nostro interlocutori che noi non inviamo mai - ripetiamo: mai - messaggi con allegati, cosicche' se vi giunge una e-mail che ci indica come mittente e recante allegati distruggetela senza aprirla. Invitiamo tutti ad aggiornare gli antivirus dei propri computer. E comunque, come e' noto, nella rete telematica sono disponibili gratuitamente dei servizi di scansione on line con antivirus aggiornati; e' buona cosa effettuare frequenti controlli. 1. EDITORIALE. QUEL CHE NON BASTA Non basta dire no alla guerra, il problema e' come impedirla. Non basta voler convincere gli altri, occorre prima convincere noi stessi. E per convincere noi stessi che impedire la guerra e' possibile occorre riflettere sulle potenzialita' grandi della nonviolenza. Poiche' nessun altro approccio che questo puo' darci una speranza sia pur minima di contrastare efficacemente la guerra che si va preparando, e che giusta la massima clausewitziana e' la prosecuzione della politica con altri mezzi: della politica genocida dell'embargo che strazia il popolo iracheno, della politica che condanna alla fame e alla violenza i quattro quinti dell'umanita', della politica che sta distruggendo la biosfera. A politica occorre contrapporre politica. Cosi' come negli scacchi a un piano un altro piano occorre opporre. E la nostra politica sia: a) il ricorso a tutte le istanze istituzionali e giudiziarie nazionali e internazionali; quand'anche non avessimo fiducia in esse, lasciare intentata l'unica strada possibile di regolazione civile delle relazioni internazionali su basi giuridiche sarebbe scellerato; b) la pressione morale sui decisori, che sia la piu' diretta possibile, ma anche indiretta (e quindi il rivolgersi alla cosiddetta opinione pubblica, ed ancor piu' indirettamente - ma non meno decisivamente - la pressione sui media acciocche' non si facciano propagandisti di menzogna e di morte); c) la manifestazione visibile non solo dell'opposizione alla guerra, ma anche e soprattutto della comprensione di cio' che la guerra e', della sua iniquita' e crudelta' costitutiva, e degli esiti nefasti di essa; d) lo studio delle radici (non semplificabili) della guerra e la ricerca delle alternative e dei processi deescalativi e di gestione e risoluzione civile e nonviolenta nelle situazioni di conflitto; e) la proposizione di alternative onestamente discusse, senza occultarne i limiti e senza decontestualizzarle: la nonviolenza ha ormai accumulato una serie cospicua di esperienze storiche di intervento efficace e vincente; f) la preparazione della resistenza civile di massa alla guerra, e per questo l'addestramento alla nonviolenza, addestramento indispensabile se alla guerra ci si vuole opporre con efficacia e limpidezza; g) la preparazione di azioni dirette nonviolente per contrastare la guerra, cercar di salvare vite umane innocenti, difendere la legalita' costituzionale e il diritto internazionale; h) la preparazione di campagne di disobbedienza civile di massa per contrastare la guerra, cercar di salvare vite umane innocenti, difendere la legalita' costituzionale e il diritto internazionale; i) la preparazione dello sciopero generale per contrastare la guerra, cercar di salvare vite umane innocenti, difendere la legalita' costituzionale e il diritto internazionale; l) i soccorsi umanitari alle vittime e l'accoglienza incondizionata dei profughi, e di tutti gli esseri umani in fuga dalla fame e la morte; m) una piu' intensa azione antimilitarista e disarmista (non basta voler controllare l'esercito, occorre abolirli tutti; non basta chiedere regolamentazioni, occorre imporre la chiusura delle fabbriche di strumenti di morte); n) una intransigente opposizione al razzismo, fondata sul rispetto delle diversita' e sull'affermazione dei diritti umani per tutti gli esseri umani; o) le mille attivita' contro l'ingiustizia globale e per un uso delle risorse rispettoso della natura e che riconosca eguali diritti e dignita' a tutti gli esseri umani; p) la lotta contro i poteri criminali cosi' terribilmente avvantaggiati dalla finanziarizzazione e globalizzazione dell'economia; o) un lavoro su noi stessi; q) un intenso lavoro su noi stessi; r) un intenso profondo lavoro su noi stessi. La nonviolenza e' un cammino. La nonviolenza e' in cammino. La nonviolenza e' la scelta teoretica e pratica, morale e politica, dell'affermazione di un'umanita' di liberi ed eguali. La nonviolenza e' la resistenza oggi necessaria. 2. APPELLI. TAVOLA DELLA PACE E RETE LILLIPUT: A FIRENZE UN MESSAGGIO DI NONVIOLENZA E DI GIUSTIZIA [Il seguente comunicato e' stato diffuso dalla Tavola della pace, il principale network pacifista italiano che collega centinaia di istituzioni e movimenti, e dalla Rete Lilliput, che collega innumerevoli associazioni e movimenti impegnati per la giustizia, la solidarieta', la nonviolenza. Lo pubblichiamo con profondo consentimento: finalmente si fa chiarezza e si prendono le distanze da posizioni ed iniziative provocatorie che troppo a lungo hanno trovato copertura, mimetizzazione e complicita' in atteggiamenti ambigui e reticenti] Cari amici del Coordinamento del Forum Sociale Europeo, mancano poche settimane al Forum Sociale Europeo, quando potremo verificare se il percorso costruito in questi mesi ci avra' fatto avanzare verso quel risultato al quale tanto teniamo: costruire un'Europa di pace e di giustizia. Oggi non lo possiamo prevedere. C'e' ancora tanto lavoro da fare al quale vorremmo dedicare le nostre risorse ed energie; vorremmo che questo ultimo mese diventasse un costruttivo laboratorio di un metodo condiviso per parlare fra noi e con gli altri. Questo ad oggi non e' possibile; infatti, ignorando ed anzi demolendo il lavoro e l'impegno di tanti, alcuni continuano a percorrere le loro strade inseguendo una facile visibilita' con l'uso di metodi e linguaggi graditi ai media ma che di fatto trasmettono una visione distorta se non addirittura negativa di questo movimento dei movimenti. E' oramai evidente che il lavoro di tanti viene messo a rischio dal protagonismo, dalla irresponsabilita' e dalla spregiudicatezza di pochi. Non lo possiamo accettare. Il percorso che ci porta a Firenze non ha precedenti. Un grande impegno di discussione e confronto che consente di lavorare insieme ad una grande rete di associazioni anche molto diverse fra loro. Soprattutto in Italia, e' stato raggiunto un equilibrio fra le tante anime e culture della societa' civile, un'alleanza anche piu' vasta di quella di Genova. A nessuno e' stata negata la possibilita' di partecipare e contare in questo processo, come le tante riunioni alle quali hanno partecipato centinaia di persone possono dimostrare. Non e' stato un processo perfetto ma sicuramente e' stata esperienza inclusiva ed aperta a tutti, sulla base della Carta dei Principi di Porto Alegre. Oggi non e' tollerabile che questa esperienza venga snaturata da chi pensa di potere utilizzare il Forum Europeo come il palcoscenico della propria strategia di comunicazione. E' un percorso aperto a tutti, anche a coloro che si sono auto-esclusi da un lungo e faticoso confronto, nel rispetto del lavoro e del metodo costruito e condiviso da tanti. Noi sentiamo che se non sapremo difendere oggi l'idea e la pratica del confronto fra diversi oltre che la comune militanza per la pace, l'esperienza del Forum Sociale Europeo dovra' dirsi conclusa. Sentiamo che e' necessario porre fine all'enorme pericolo che nasce dall'uso di linguaggi irresponsabili che possono evocare scenari di violenza e che possono essere utilizzati per favorire un clima di tensione e di provocazione. Sentiamo la grande necessita' di utilizzare un metodo di comunicazione che sappia coinvolgere fortemente la societa' sui nostri temi e sugli scopi e l'utilita' del Forum Sociale Europeo, che sappia trasmettere il nostro messaggio di nonviolenza e di giustizia. Dobbiamo impegnarci su questi obiettivi, con comportamenti coerenti nei rapporti all'interno del Forum Sociale Europeo, con le istituzioni, con i media e la societa' italiana. Chiediamo ai tanti che credono nel Forum Sociale Europeo di unirsi in questo impegno. Tavola della Pace, Rete Lilliput 3. APPELLI. COORDINAMENTO FIORENTINO DELLA CAMPAGNA BANCHE ARMATE: LA SCELTA DEL DIALOGO E DELLA NONVIOLENZA [Riceviamo e diffondiamo con vivo consentimento anche questo comunicato del coordinamento fiorentino della Campagna Banche Armate. Aggiungiamo che il personaggio di cui si contestano seccamente certe provocatorie ed irresponsabili dichiarazioni ed iniziative e' un giovane uomo politico in carriera, alcune escogitazioni e gesta del quale a noi sembrano inammissibili e di una irresponsabilita' estrema, che si e' conquistato grande visibilita' sui media anche grazie ad una troppo lunga effettuale complicita' di movimenti e personalita' che non hanno in passato stabilito una precisa discriminante ed una esplicita' estraneita' nei confronti di posizioni ed azioni dagli esiti nefasti] Con la presente il Coordinamento fiorentino della Campagna Banche Armate si dissocia totalmente da quanto affermato e proposto da Casarini in occasione della conferenza stampa di martedi primo ottobre. Il coordinamento fiorentino della Campagna Banche Armate afferma con forza che i principi ispiratori della Campagna Banche Armate sono improntati sul dialogo, sull'informazione, sulla nonviolenza e sul confronto fermo ma sereno tra cittadini e mondo finanziario. Ogni altra modalita' che contempli l'occupazione piu' o meno simbolica di banche o qualsiasi altra struttura finanziaria, non e' da noi ritenuta strumento valido, accettabile e idoneo allo spirito e alle finalita' della campagna stessa. Invitiamo pertanto Luca Casarini e tutti coloro che a vario titolo appoggiano e credono nelle finalita' della campagna di astenersi da ogni forma di occupazione, seppure simbolica, ne' durante il Forum Sociale Europeo di Firenze, ne' mai. Consapevoli della difficolta' dei percorsi della nonviolenza e del dialogo, meno visibili ed eclatanti, ma sicuramente piu' fruttuosi anche se lenti, confidiamo nel senso di responsabilita' di tutti, affinche' il percorso intrapreso non venga vanificato da un clima di tensione che puo' favorire atti di violenza. Violenza nei confronti della campagna stessa, di persone o gruppi che poco hanno a che fare con la stessa e che niente di positivo (in termini di immagine e risultati) hanno dato sino ad oggi alla campagna stessa. Per il Coordinamento fiorentino della Campagna Banche Armate Francesco Fabrini 4. APPELLI. "THE NATION": LETTERA APERTA AI MEMBRI DEL CONGRESSO [Il seguente editoriale-appello ai membri del Congresso degli Usa e' stato pubblicato sulla testata "The Nation" il 7 ottobre 2002, abbiamo ripreso la traduzione italiana apparsa sul quotidiano "Il manifesto" del 9 ottobre. Come e' noto il Congresso statunitense ha invece poi scelto di sostenere le sciagurate posizioni del presidente] Presto vi sara' chiesto di votare su una risoluzione che autorizzerebbe gli Stati Uniti a rovesciare il governo dell'Iraq con la forza militare. La sua approvazione, leggiamo dappertutto, e' una conclusione scontata, come se cio' che il paese ha ora di fronte non fosse una decisione ma la rivelazione di un fato. Il paese marcia verso la guerra come se fosse in trance. Alla Camera, venti di voi, guidati da Dennis Kucinich, hanno annunciato la loro contrarieta' alla guerra. Al Senato, Robert Byrd ha montato una campagna contro la versione della risoluzione gia' proposta dall'amministrazione Bush. Ha dichiarato che l'incostituzionalita' della risoluzione gli impedira' di votarla. "Ma sto scoprendo", ha aggiunto, "che la Costituzione e' irrilevante per le persone di questa amministrazione". Secondo il "Washington Post", i capi di stato maggiore sono contrari alla guerra. Le telefonate e la posta che ricevete si esprimono in modo fortemente contrario. I sondaggi e gli articoli di giornale rivelano un pubblico diviso e incerto. Tuttavia il vostro dibattito e' limitato a questioni periferiche, come i tempi del voto, o l'ambito preciso della risoluzione. Siete un corpo deliberante, ma non deliberate. Siete rappresentanti, ma non rappresentate. Il silenzio di quelli di voi che fanno parte del Partito Democratico e' particolarmente preoccupante. Voi siete il partito di opposizione, ma non vi opponete. Sollevare la questione della guerra, vi dicono i vostri consiglieri politici, vi distogliera' dalle questioni interne che favoriscono le chance del partito nelle prossime elezioni per il Congresso. Messi davanti alla guerra preventiva dell'amministrazione, i vostri leader hanno scelto la resa preventiva. Pur di restare al potere, vi viene detto, non dovete esercitare il potere in materia di guerra di cui disponete. Qual e', allora, lo scopo della vostra rielezione? Se ci riuscirete, avrete gia' gettato via il potere che teoricamente avreste ottenuto. Sarete membri del Congresso, ma il Congresso non sara' il Congresso. Anche le fortune delle cause interne che promuovete dipenderanno molto di piu' dalla decisione della guerra che dall'esito elettorale. Il 4 aprile 1967, mentre infuriava la guerra in Vietnam, Martin Luther King jr. disse: "Arriva un momento in cui il silenzio e' un tradimento". Ed egli disse anche: "Alcuni di noi, che hanno gia' cominciato a rompere il silenzio della notte, hanno scoperto che essere chiamati a parlare e' spesso una vocazione all'agonia, ma dobbiamo parlare. Dobbiamo parlare con tutta l'umilta' che si addice alla limitatezza della nostra visione, ma dobbiamo parlare". Ora il momento di parlare e' arrivato di nuovo. Noi vi chiediamo di parlare - e, quando verra' il momento, di votare - contro la guerra in Iraq. Il motivo per essere contrari alla guerra e' semplice, chiaro e forte. L'amministrazione la chiama un capitolo della guerra al terrorismo, ma l'Iraq non ha legami dimostrati ne' con gli attacchi dell'11 settembre contro gli Stati Uniti, ne' con la rete di Al Qaeda che li ha lanciati. L'obiettivo della guerra e' privare il presidente Saddam Hussein di armi di distruzioni di massa, ma la portata del suo programma per costruire queste armi, se ancora esiste, e' oscura. Ancor meno chiara e' qualunque intenzione da parte sua di usare tali armi. Farlo sarebbe un suicidio, come lui ben sa. La deputata democratica californiana Anna Eshoo ha riferito che in una sessione a porte chiuse e' stato chiesto piu' volte ai rappresentanti dell'amministrazione se abbiano le prove di una imminente minaccia da parte di Saddam Hussein agli Stati Uniti, e loro hanno risposto no. Ha specificato "Non 'no, ma' o 'forse', ma 'no'". D'altra parte, se lui le ha veramente, e rischia la deposizione e forse la morte per mano delle forze Usa, potrebbe decidere di usarle - o, piu' probabilmente, darle a gruppi terroristici affinche' le usino dopo la sua caduta. Potrebbe farlo anche adesso. Alcuni osservatori hanno paragonato la risoluzione in discussione a quella del Golfo del Tonchino del 1964, che autorizzava il presidente Johnson a usare la forza in Vietnam. Ma quella fu approvata solo dopo che arrivo' la notizia di due attacchi alle forze navali Usa (oggi sappiamo che il primo attacco fu provocato da un precedente attacco americano segreto e il secondo era inesistente). La nuova risoluzione, che non fa riferimento ad alcun attacco, neanche a uno fittizio, va piu' in la'. E' una risoluzione del Golfo del Tonchino senza un incidente da Golfo del Tonchino. Anche se Saddam possiede le armi di distruzione di massa e intende usarle, una politica di deterrenza apparirebbe perfettamente adeguata a fermarlo, proprio come fu adeguata, mezzo secolo fa, a fermare un dittatore molto piu' temibile, Giuseppe Stalin. Non e' vero che la forza militare e' il solo mezzo per impedire la proliferazione di queste armi, sia all'Iraq che ad altri paesi. Una via alternativa e' chiaramente percorribile. Nel breve periodo questa passa attraverso le Nazioni Unite e il loro sistema di ispezioni, ora piu' promettente di prima perche' l'Iraq, rispondendo alle pressioni Usa, ha aperto agli ispettori in modo incondizionato. Quantomeno, questa via dovrebbe essere esplorata appieno prima che l'azione militare - tradizionalmente l'ultima risorsa - venga anche solo presa in considerazione. Una tale scelta a favore del multilateralismo, della diplomazia e dei trattati dovrebbe essere parte di una politica molto piu' vasta di non-proliferazione e di disarmo del tipo che ha gia' avuto grande successo negli scorsi decenni. In base al trattato di non-proliferazione delle armi nucleari, per esempio, 182 nazioni hanno accettato di fare a meno di armi nucleari. La questione piu' ampia e' se la proliferazione - non solo nei confronti dell'Iraq, ma anche di molti altri paesi - sia affrontata meglio con mezzi militari o politici. Ma la decisione di andare alla guerra ha un significato che va oltre la guerra. La guerra e' il prodotto di una piu' vasta politica, che l'amministrazione Bush ha espresso nel modo piu' chiaro possibile. Due altri paesi con programmi nucleari - l'Iran e la Corea del nord - sono gia' stati identificati dal Presidente come potenziali target per un attacco militare. Il documento recentemente pubblicato dall'amministrazione, "National Security Strategy of the United States" esprime ambizioni anche maggiori. Esso proclama una politica di supremazia militare su tutta la terra - un obiettivo mai perseguito prima da nessuna potenza. Nel frattempo i programmi militari sono vietati agli altri paesi. A tutti questi deve essere impedito di "sorpassare o eguagliare" gli Stati Uniti. Alla Cina viene riservato l'avvertimento che "perseguendo capacita' militari avanzate", essa sta seguendo "un percorso sorpassato" che "minaccia i suoi vicini". La nuova politica rovescia una lunga tradizione americana di disprezzo per gli attacchi non provocati. Essa da' agli Stati Uniti il diritto illimitato di attaccare altri paesi anche se non sono stati attaccati da essi, e non stanno per esserlo. Rinuncia alla deterrenza in cambio della prevenzione - in parole semplici, aggressione. Conferisce agli Stati Uniti il diritto di rovesciare qualunque regime - come quello in Iraq - qualora lo decida (il Presidente vorrebbe il sostegno internazionale e quello del Congresso, ma afferma il suo diritto di muovere guerra senza nessuno dei due). Dichiara che la difesa degli Stati Uniti e del mondo contro la proliferazione nucleare e' la forza militare. E' una politica imperiale - piu' ambiziosa di quello dell'antica Roma che, dopo tutto, si estendeva solo fino al Mediterraneo e all'Europa. Nelson Mandela ha detto recentemente dell'amministrazione statunitense: "Loro pensano di essere la sola potenza al mondo... un paese vuole intimidire il mondo". Un voto a favore della guerra in Iraq e' un voto a favore di questa politica. La piu' importante delle questioni sollevate dalla guerra, comunque, e' ancora piu' ampia. E' che tipo di paese gli Stati Uniti vogliono essere nel ventunesimo secolo. L'essenza della forma di governo dell'America e' stata la creazione di un sistema di istituzioni per controllare e bilanciare il potere governativo e fare cosi' in modo che esso risponda dei suoi atti alla gente. Oggi questo sistema e' minacciato da un mostro - un potere privo di contrappesi e che non risponde dei suoi atti -, un nuovo Leviatano che sta prendendo forma tra noi nel ramo esecutivo del governo. Mentre minaccia una guerra infinita e non provocata, questo Leviatano - nascosto in una segretezza che si e' creato da solo e che diventa sempre piu' profonda, e nutrito dai fiumi di soldi delle corporations che, come ha dimostrato il susseguirsi degli scandali, hanno smesso esse stesse di rispondere dei propri atti - minaccia anche i diritti civili. Tanto irrispettosa della Costituzione quanto lo e' della Carta dell'Onu, l'amministrazione per raggiungere i suoi obiettivi si e' allontanata dalla legge in tutte le sue espressioni e ha riposto invece la sua fiducia su una forza enorme. Andando alla ricerca di un impero all'estero, mette in pericolo la repubblica in casa sua. L'intimidazione del mondo minaccia di diventare anche l'intimidazione degli americani. Gia' ora, il dipartimento della Giustizia afferma il proprio diritto di imprigionare dei cittadini americani indefinitamente per il solo motivo che al Pentagono un burocrate li ha etichettati "combattenti nemici", come vengono chiamati. Anche il sistema elettorale interno e' stato compromesso dalla debacle in Florida. Ne' le ombre gettate sulla democrazia da quelle elezioni sono ancora state cancellate. La riforma elettorale non c'e' stata. Una modesta riforma della campagna elettorale finalizzata a rallentare il flusso di denaro che dalle corporations inonda la politica, anche dopo essere stata approvata al Congresso, e' sotto approfondita valutazione delle decisioni presidenziali. Cosa ancora piu' importante, la campagna del Congresso di quest'anno, evitando il dibattito sulla questione fondamentale della guerra e della pace, ha segnalato al pubblico che persino nelle questioni piu' importanti per il paese, ne' questo ne' i suoi rappresentanti assumono decisioni; solo il potere esecutivo lo fa. Membri del Congresso: siate fedeli ai vostri giuramenti e alle tradizioni del vostro ramo del governo. Pensate al paese, non alla vostra rielezione. Affermate il vostro potere. Difendete le prerogative del Congresso. Difendete la Costituzione. Rifiutate l'arroganza - e l'ignoranza - del potere. Dimostrate rispetto per i vostri costituenti - essi richiedono il vostro onesto giudizio, non la capitolazione davanti al potere esecutivo. Dite no all'impero. Affermate la Repubblica. Preservate la pace. Votate contro la guerra in Iraq. 5. MAESTRI. RENATO SOLMI: RIFLESSIONI DI UN INSEGNANTE [Questa conversazione di Renato Solmi abbiamo tratto dal sito (www.unacitta.it) del bel mensile "Una citta'", che vivamente raccomandiamo; essa e' apparsa nel n. 98 del settembre 2001 della rivista con titolo "La seconda meta' del mio cammino. Note e riflessioni di un insegnante". Renato Solmi (per contatti: rsolmi at tin.it) e' uno dei piu' grandi maestri di cultura e di impegno civile viventi in Italia] L'insegnamento nelle scuole medie superiori, salvo un breve periodo di due anni in cui ho avuto un incarico in una scuola media serale, ha occupato una parte considerevole della mia vita lavorativa (e cioe', per la precisione, trentuno anni), ma non e' stata la mia sola occupazione, poiche' e' stata preceduta da un periodo di dodici anni in cui ho lavorato (con qualche interruzione) presso la casa editrice Einaudi, e accompagnata da un'attivita' di traduttore e di curatore di testi che si e' prolungata, anche se in forma via via meno intensa, fino a questi ultimi anni. Questo per dire che la scuola non e' stata per me una vocazione spontanea e del tutto disinteressata, ma, in qualche modo, un ripiego, una seconda scelta, anche se, una volta imboccata questa strada, ho cercato di assolvere ai miei doveri nel migliore dei modi possibile, senza riuscire peraltro mai a immedesimarmi totalmente e senza riserve nel mio ruolo professionale e a incarnare, cosi' facendo, la figura ideale dell'insegnante, come mi era stata data la possibilita' di conoscerla (almeno in un singolo caso) nei miei anni di scuola, e poi soprattutto attraverso i resoconti e le narrazioni di amici della mia eta' o piu' giovani di me che avevano potuto usufruire della guida e dell'assistenza di personaggi veramente conformi a questo modello. E anche nei confronti di alcuni dei miei colleghi (o forse, soprattutto, delle mie colleghe), che, anche senza essere circondati da un'aureola di ammirazione di questo tipo, erano, tuttavia, del tutto a posto nel loro ruolo, e in grado di esibire un curriculum ineccepibile, non ho potuto fare a meno di provare qualcosa di simile a un complesso di inferiorita', come se fossi affetto da una sorta di vizio di origine da cui non sarei mai riuscito a liberarmi completamente (per non dire che, anzi, per una serie di circostanze soggettive e oggettive, questo sentimento si e' venuto accentuando proprio nel corso dei miei ultimi anni di vita scolastica). Avevo fatto qualche esperienza di supplente a Milano nell'inverno 1950-'51, prima di recarmi a lavorare da Einaudi, da cui ero rimasto profondamente scioccato, e quasi terrorizzato, nonostante che si trattasse di una classe abbastanza tranquilla degli ultimi anni del ginnasio di allora. Ero ancora psicologicamente troppo fragile per resistere a una prova di questo genere: insegnare il greco e il latino dopo essere uscito da poco dall'universita', dove mi ero laureato in lettere classiche, con una tesi su Platone in Sicilia, e avere passato un anno presso l'Istituto Storico di Napoli, nella coscienza di non essere assolutamente in grado di farlo senza l'aiuto di un insegnante piu' esperto, era come trovarsi all'improvviso a sopportare un peso schiacciante, a cui non avrei mai saputo fare fronte ne' dal punto di vista delle mie cognizioni effettive in materia ne' da quello della mia conoscenza degli uomini, anche se si trattava solo di ragazzi quindicenni (o poco piu'). Ricordo che, in quella classe, si trovava il figlio di un carissimo amico di mio padre, Diego Lanza, che sarebbe diventato poi professore di letteratura greca a Pavia, e che mi disse, qualche tempo dopo, di avere provato un terribile senso di soggezione alla mia presenza, che non era stato certo pari, pero', a quello che avevo provato io al cospetto di lui e di tutta la classe. Sarebbe stato ben diverso l'impatto che l'esperienza scolastica avrebbe avuto su di me dodici anni dopo, quando avevo dietro le mie spalle una lunga esperienza di lavoro editoriale, sia pure contrassegnata da periodi di crisi e di depressioni anche acute, e - cio' che non era meno importante - potevo contare sulla vicinanza e sul sostegno della donna con cui mi ero sposato. L'insegnamento della filosofia, della psicologia e della pedagogia negli istituti magistrali, e per lo piu' in classi a composizione esclusivamente femminile, anche se comportava (e avrebbe continuato a comportare anche in seguito) uno studio intenso e costante, era un compito relativamente leggero, che non poteva dare luogo a nessun trauma violento. In particolare, lo studio della storia del pensiero e della prassi educativa e di un certo numero di classici della pedagogia moderna e contemporanea mi sarebbe stato di grande utilita' nell'approccio ai problemi della vita scolastica e nello sforzo di stabilire un rapporto piu' stretto e piu' cordiale con gli studenti, che non potevano restare insensibili a quelle tematiche e a quel tipo di ragionamenti. Insomma, avevo scelto o trovato, per mia fortuna, la via migliore per entrare nella scuola nel modo piu' indolore e meno frustrante che fosse possibile, e cioe' in quello piu' congeniale ai miei interessi e alle mie capacita', e che, inoltre, devo subito aggiungere, si veniva a trovare singolarmente in sintonia con le tendenze che venivano maturando in quegli anni nella scuola e nella societa' italiana (ma anche nel resto del mondo), e che sarebbero sfociate di li' a poco nella contestazione giovanile del '68. Cosi', per una serie di circostanze del tutto accidentali, o comunque impreviste dal mio povero io cosciente, la mia esperienza scolastica ha potuto situarsi, almeno nei primi tempi, in una linea di quasi perfetta continuita' con l'impegno politico (o, se si preferisce, politico-culturale, o politico-educativo) che mi aveva spinto ad entrare nella casa editrice Einaudi e che era poi stato anche la causa della mia finale estromissione da essa. Dove avrei potuto trovare, infatti, un terreno piu' fertile per lo sviluppo delle mie riflessioni, e poi anche, a partire da un certo momento, per iniziative pratiche concrete, di quello rappresentato dalla scuola media superiore negli ultimi anni '60? Qui mi trovavo in contatto, non piu' o non solo con un mondo di intellettuali e di libri, ma con un campione rappresentativo di quella meta' delle nuove generazioni che, a quell'epoca, era gia' in condizione di frequentare quell'ordine complessivo di scuole, e che si sarebbe posto, in quello stesso torno di tempo, il problema (o se lo sarebbero posto, in modo piu' concreto, gli studenti universitari che uscivano dalle sue file) di stabilire un rapporto di collaborazione e di solidarieta' con quell'altra meta' che aveva imboccato la via di un'attivita' lavorativa subalterna in vista di un rinnovamento radicale della societa' italiana e dei rapporti fra le classi e le nazioni su scala mondiale. I rapporti che avevo avuto modo di intrattenere con Raniero Panzieri e col gruppo dei "Quaderni Rossi" nei primi anni '60, e che mi avevano ridestato dall'apatia in cui ero caduto nella seconda meta' degli anni '50, e poi quelli che avevo cominciato ad intrecciare coi redattori dei "Quaderni Piacentini" e con alcuni dei loro collaboratori fra il 1964 e il 1970, mi avevano preparato ad accogliere e a registrare con una certa prontezza i sintomi che si venivano manifestando un po' ovunque (a cominciare dagli Stati Uniti d'America) nel mondo della scuola e dell'universita' e negli atteggiamenti delle nuove generazioni, che non potevano fare a meno di ripercuotersi e di svilupparsi anche presso di noi. Ma questa fortunata concatenazione di circostanze aveva una contropartita non altrettanto positiva nelle ricadute che tutto cio' non poteva fare a meno di avere sui miei rapporti con l'istituzione scolastica, o, per dir meglio, con la dimensione propriamente professionale del mio lavoro di insegnante. Potrei riassumere la natura di questa contraddizione, o di questa antinomia praticamente insolubile, dicendo che mi sono trovato a contestare il mio ruolo di insegnante prima ancora di averlo indossato e fatto mio, di averlo assimilato e penetrato fino in fondo, in tutte le sue implicazioni e in tutte le sue esigenze. Le cose si sarebbero configurate diversamente se fossi entrato nella scuola una decina di anni prima, e avessi avuto il modo e il tempo di acquisire un habitus professionale piu' solido e possibilmente impeccabile, che avrebbe potuto consentirmi, a quel punto, di impegnarmi a fondo in un'opera di riforma del mio stesso insegnamento, dei suoi metodi, dei suoi contenuti, della sua stessa natura, e quindi anche, in prospettiva, o, per dir meglio, in stretta congiunzione con quella, in un'attivita' propositiva diretta a promuovere cambiamenti di carattere strutturale nella direzione che mi sarebbe parsa desiderabile. Solo in questo caso la dimensione didattica e la dimensione politica della mia attivita' avrebbero potuto fondersi strettamente fra loro, laddove invece, al punto in cui mi trovavo, e in conseguenza della sfasatura temporale di cui ho parlato, non poteva fare a meno di crearsi, fra l'una e l'altra, un dissidio praticamente insanabile, di cui gli studenti non potevano fare a meno di rendersi conto, tanto e' vero che molti di essi, che accoglievano con entusiasmo i miei interventi nelle assemblee (che erano allora, e sarebbero rimasti ancora negli anni '70, molto frequenti), e in generale mi consideravano come una guida o, per dir meglio, come un punto di riferimento sicuro nell'attivita' di contestazione e di proposta che si svolgeva nella scuola, mi confessavano di non essere altrettanto entusiasti delle mie lezioni ordinarie, che erano, tutto sommato, di tipo tradizionale, e che si attenevano abbastanza scrupolosamente ai programmi. C'era, in esse, anche se forse non sempre, qualcosa di sforzato e insieme di incompiuto, di rimasto, per cosi' dire, a meta', come se la materia che insegnavo, nonostante tutti gli sforzi che avevo fatto per impadronirmene, non fosse ancora completamente dominata e posseduta, non fosse diventata, se si puo' dir cosi', una seconda natura, e non mi consentisse quindi quella liberta' di movimento, quella sovranita' nella trattazione degli argomenti, e quindi anche quella familiarita' nella conversazione con gli studenti che puo' concedersi solo chi si sente perfettamente signore in casa propria, che caratterizzano, o dovrebbero caratterizzare, l'insegnante che e' diventato un virtuoso nel suo mestiere, e che, grazie a questa "virtu'" (di cui puo' valere la pena di sottolineare il duplice significato), e' anche in grado di attirare e di soggiogare completamente l'attenzione degli studenti. Si puo' spiegare cosi' come, nell'autunno del 1970, quando la forza del movimento studentesco, e anche quella del movimento insegnanti, in cui, a Torino, avevo svolto, insieme ad altri compagni, un ruolo abbastanza rilevante, mostravano chiaramente i segni del declino, la volonta' di impegnarmi fino in fondo in un'attivita' di profilo marcatamente politico mi abbia spinto a lasciare l'Istituto Magistrale, nell'intenzione di dedicarmi esclusivamente alla traduzione e alla cura di testi che potessero servire in qualche modo alla causa. E' in questo periodo che feci uscire presso Einaudi il Capitalismo militare di Melman, preceduto da una mia lunga introduzione, e presso Feltrinelli (insieme a Sandro Sarti, di me piu' esperto nella conoscenza dell'inglese, e particolarmente benemerito in questo campo) il libro di Mark Lane Una generazione nel Vietnam, che conteneva le testimonianze di reduci e di disertori americani sulle torture e sui crimini di guerra. Ma ben presto dovetti rendermi conto che un'attivita' di collaboratore editoriale univocamente diretta al conseguimento di determinati risultati, e cioe' a finalita' di ordine politico, non sarebbe stata in grado di procurarmi un reddito sufficiente e dovetti cercare nuovamente rifugio nella scuola. Per due anni (1972-1974) ho insegnato, con orario ridotto, in una scuola media serale a Mirafiori Sud. Dal punto di vista pedagogico, e anche dal punto di vista umano, e' stata forse l'esperienza piu' interessante e piu' convincente di tutta la mia vita lavorativa. Per la prima volta avevo l'impressione di essere veramente utile, e cioe' di poter dare ai miei allievi (che avevano, in generale, l'eta' degli studenti liceali, e spesso anche qualche anno di piu') qualcosa che, in quelle circostanze, essi avrebbero potuto difficilmente ricevere da altri. Avevo molto tempo a disposizione, ma lo passavo quasi interamente nella preparazione di materiali che potessero aiutarli nell'attivita' di scrivere, o anche solo in quella di leggere dei testi. Molti di quei materiali, riletti oggi a distanza, mi sembrano quanto di meglio mi sia riuscito di fare nel corso della mia vita. Ma quando mi giunse l'offerta di un posto di ruolo presso il Liceo D'Azeglio, che avrebbe posto termine all'incertezza delle mie condizioni e che avrebbe contribuito ad assicurare un minimo di stabilita' all'esistenza della mia famiglia, non fui in grado di dire di no e dovetti chinare la testa, ben sapendo che quella scelta avrebbe comportato un graduale affievolimento e isterilimento del mio impegno politico, dal momento che il Liceo Classico, con le sue 18 ore settimanali, e con la necessita' di insegnare, insieme alla filosofia, anche la storia, mi avrebbe costretto a un lavoro estenuante di preparazione e di studio, che avrebbe tarpato le ali anche a qualunque tentativo di innovazione didattica nel quadro delle lezioni. Prima avrei dovuto mettermi in condizione di insegnare, con un minimo di sicurezza, la storia del pensiero e del genere umano (e gia' la semplice formulazione di questa esigenza contiene in se', come e' fin troppo evidente, l'impossibilita' di soddisfarla in un tempo determinato, e quindi la sostanziale assurdita', o, per dir meglio, la "cattiva infinita'", di un proposito di questo genere), e poi si sarebbe potuto parlare di una riforma della scuola e promuovere azioni e iniziative rivolte al perseguimento di questo nobile fine. E cosi', a 47 anni di eta', ho dovuto firmare la mia resa di fronte al destino, dopo avere cercato di procrastinarla oltre i limiti del possibile e forse anche del lecito. Qualcuno ha detto che, nella mia vita, non sono mai stato in grado di tenere il debito conto di quel fattore essenziale che e' costituito dal tempo. E temo che, purtroppo, chi si e' espresso in questi termini avesse almeno parzialmente ragione. Al D'Azeglio, dove sono rimasto solo cinque anni, perche', nel 1979, sono stato costretto a trasferirmi ad Aosta per seguire la mia famiglia che, nel frattempo, si era spostata in quella localita', ho vissuto ancora una stagione di lotte scolastiche, che hanno avuto luogo soprattutto sul tema della riforma degli organi di gestione della scuola, e cioe' della creazione dei cosiddetti organi collegiali, alcuni dei quali gia' esistenti, e altri, invece, frutto tutt'altro che irrilevante (anche se poi, a poco a poco, svuotato internamente dei suoi contenuti e ridotto a poco piu' di un guscio vuoto e formale) della rivolta studentesca del decennio precedente. Su questo tema, insieme a Francesco Coppellotti e a un gruppo di altri insegnanti torinesi attivamente impegnati sui problemi della riforma della scuola, abbiamo fatto uscire un opuscolo di una quarantina di pagine in cui la versione che sarebbe poi stata definitiva dei cosiddetti decreti delegati veniva sottoposta a una critica rigorosa dal punto di vista di una democrazia assembleare di base come quella prevista e auspicata dal movimento studentesco. Un altro tema di discussione degli insegnanti del D'Azeglio e' stato rappresentato, in quegli anni, da un progetto di sperimentazione generale a livello di istituto alla cui stesura e formulazione ho contribuito attivamente per la mia parte, ma che non e' passato, a mio giudizio, per la resistenza conservatrice e corporativa di molti insegnanti (fra cui anche una parte notevole di quelli che si dicevano di sinistra). Dal punto di vista della qualita' media degli studenti (e anche del valore degli insegnanti), il D'Azeglio e' stato certamente la scuola migliore in cui abbia avuto modo di lavorare. Ma, purtroppo, al mio ritorno da Aosta, tutti i posti di ruolo erano impegnati e ho dovuto trasferirmi altrove. Non diro' nulla delle scuole dove ho lavorato successivamente (il Liceo Scientifico Berard di Aosta, il Cattaneo di Torino e infine il Galileo Ferraris nella stessa citta'), se non che erano tutte licei scientifici, dove, quindi, ho insegnato complessivamente per 18 anni sui 31 della mia carriera scolastica. Nel primo caso, e, per certi aspetti, anche nel secondo, la mia scelta e' stata obbligata, ma, a poco a poco, ho finito per convincermi che il Liceo Scientifico fosse la sede migliore in cui operare in vista dell'attuazione di un tentativo di scuola media superiore unitaria, sul modello della scuola media superiore inglese, creata dai laburisti, in cui avrebbero dovuto essere previsti indirizzi diversi, fra i quali, tuttavia, il passaggio avrebbe dovuto essere relativamente facile e non avrebbe dovuto comportare necessariamente la perdita di uno o piu' anni (come accadeva invece, almeno fino a poco tempo fa, in Italia). Il Liceo Scientifico e' il tipo di scuola che si presta maggiormente a fungere da base di un esperimento di questo genere, poiche', a differenza del Classico, di cui conserva diverse caratteristiche, non e' sbilanciato eccessivamente verso un determinato gruppo di materie e consente la convivenza, su piede di parita', delle "due culture" di cui ha parlato Charles Snow nel suo noto libretto. Il suo solo (o, per dir meglio, il suo principale) difetto e' quello di non fare posto alle scienze sociali (economia, diritto, e forse anche psicologia e sociologia), che dovrebbero costituire l'anello mancante, il vincolo di connessione strutturale fra le materie umanistiche e scientifiche, che, altrimenti, rimangono separate fra loro da un abisso incolmabile. E poiche' il Liceo Ferraris, che e', forse, in termini di fama e di risultati, il primo liceo scientifico di Torino, e' sito nello stesso palazzo in cui si trova anche l'Istituto Tecnico Commerciale Sommeiller, che occupa piu' o meno lo stesso posto fra gli istituti della sua categoria, e il passaggio (fisico, beninteso) fra l'uno e l'altro e' del tutto agevole e comodo, al punto che puo' dare luogo, a volte, a episodi di rivalita' o addirittura ad incidenti fra gli studenti delle due scuole, mi sembrava che un'idea di questo genere avrebbe potuto e dovuto affacciarsi alla mente degli insegnanti progressisti dell'uno e dell'altro istituto, e piu' in generale di Torino, ed essere presa in considerazione anche dalle autorita' che dovrebbero sovrintendere all'organizzazione generale delle scuole e all'elaborazione di nuovi progetti. Che cio' non sia accaduto, e cioe' che non se ne sia nemmeno discusso, dimostra, se ce ne fosse bisogno, che, purtroppo, gli intenti riformatori che dovrebbero essere il naturale prodotto di un pensiero orientato verso la creazione delle condizioni di una democrazia egualitaria e di una cultura veramente universale e omogenea siano del tutto estranei alla grande maggioranza degli insegnanti come degli uomini politici, e non si presentano neppure come ipotesi alla mente degli interessati e degli addetti ai lavori in questo campo. Quando sono arrivato al Galileo Ferraris, c'era una preside che era certo una degnissima persona, ma da cui non ci si poteva aspettare nessuna collaborazione in questo senso, e quando poi arrivo' il preside attuale, su cui forse avrei potuto anche fare assegnamento, i lavori della Commissione Brocca erano terminati, o si erano gia' arenati completamente, ed era chiaro che non sarebbe stato piu' nemmeno possibile anche solo avanzare seriamente una proposta di questo genere. Inoltre, la data del mio distacco dalla scuola si avvicinava ormai a grandi passi, e avrebbe avuto poco senso, per me personalmente, impegnarmi per un'iniziativa di cui non avrei potuto, anche nella migliore delle ipotesi, seguire e assecondare la realizzazione neppure nei suoi stadi iniziali. Questa era la prospettiva in cui avrei voluto muovermi, se le circostanze non fossero state del tutto avverse, e se non lo fossero diventate sempre di piu' nel corso degli anni; ma, in mancanza di meglio, e cercando di capire che cosa avrei potuto fare anche da solo, ho accolto con favore, e ho cercato di valorizzare al massimo, le possibilita' offerte dal nuovo Concordato stipulato fra Stato e Chiesa sotto il governo di Craxi, e precisamente quella di propormi come insegnante dell'ora alternativa all'insegnamento della religione cattolica per gli studenti che ne avessero fatto spontaneamente richiesta. A mio avviso, l'idea scaturita dal cervello di Craxi, di cui detestavo la politica sotto ogni altro rispetto, non era priva, nella sua estrosita', di una valenza politica potenziale e anche di una carica culturale tutt'altro che ovvia, che sarebbe stato il caso di accogliere e di attualizzare, in linea di principio, nella realta' effettiva della scuola. Un'ora sola alla settimana era poco (anche se nei primi due o tre anni, quando l'interesse degli studenti era al massimo, ho potuto farmene assegnare anche piu' di una, che avevano luogo, beninteso, in classi diverse, e che prendevano il posto delle ore destinate alle supplenze, quasi sempre vuote e noiose nelle grandi citta', mentre le cose possono andare altrimenti in provincia, come ho potuto constatare con mia grande sorpresa ad Aosta), ma era pur sempre meglio che niente, e il rapporto che potevo stabilire con gli studenti in questa attivita' di tipo seminariale bastava a consolarmi dell'aridita' e della pesantezza delle ore che ero costretto a dedicare allo svolgimento dei programmi ministeriali. Il difetto principale della "trovata" di Craxi, che, nelle condizioni date, era destinato a causarne il fallimento, era quello di non avere provveduto a introdurre il minimo incentivo di carattere economico per gli insegnanti che fossero disposti ad assumersi l'onere di tenere un corso apposito, sia pure di un'ora sola, su una tematica spesso del tutto estranea, e sempre comunque trasversale, rispetto ai programmi abituali, che richiedeva, pertanto, una preparazione ad hoc e una certa capacita' di invenzione e di costruzione originale di una "traccia", o di un itinerario didattico, che doveva essere riempito, per lo piu', con materiali e notizie tratti da fonti diverse e irreperibili nella maggior parte dei manuali scolastici. Solo chi, come il sottoscritto, fosse motivato da un interesse particolare per le possibilita' implicite in un lavoro di questo genere, e potesse quindi mettere nel calcolo dei costi e dei benefici dell'impresa anche i vantaggi indiretti che ne sarebbero potuti derivare per se stesso e per gli sviluppi futuri della sua attivita', nella forma di una maggiore chiarezza di idee su questioni di importanza nodale e decisiva, di progressi sensibili nella comprensione della logica interna e dei requisiti essenziali di una trattazione soddisfacente dell'argomento, a prescindere dalla gratificazione intrinseca che tutte queste illuminazioni e scoperte avrebbero potuto procurare all'insegnante e, almeno in una certa misura, anche agli studenti, che partecipavano attivamente, con la loro attenzione e con le loro domande, alla dinamica produttiva della loro genesi, avrebbe potuto sobbarcarsi a cuor leggero ad uno sforzo che, a tutta prima, avrebbe anche potuto apparire del tutto gratuito e supererogatorio. Ma, una volta che fossero state date queste condizioni, la scelta meritava certamente di essere fatta. Lo svolgimento dell'ora alternativa era quindi per me, quasi sempre, tranne che forse negli ultimi anni, come il socchiudersi di uno spiraglio su quella che avrebbe potuto essere una scuola diversa, caratterizzata da un rapporto del tutto diverso fra insegnanti e studenti, e ricco tesoro di conoscenze inesplorate che, pur essendo potenzialmente presenti nel patrimonio complessivo delle mie letture e delle mie riflessioni (cosi' come il desiderio di partecipare ad esse era potenzialmente presente nell'animo degli studenti), non mi era dato di far venire alla luce, per tutte le ragioni che non e' difficile immaginare, nel corso delle ore ordinarie di insegnamento. Era nel corso dell'ora alternativa che sentivo rivivere in me, in forma continuativa e consistente, quello che si potrebbe chiamare lo spirito del '68, e cioe' quella possibilita' di comunicazione diretta con gli studenti e, in linea potenziale, con "tutti", che rimaneva come soffocata e repressa nel corso dello svolgimento dei programmi normali e della verifica piu' o meno meccanica e quantitativa dei risultati conseguiti dagli allievi. Credo che non solo per me, ma anche per loro, questa esperienza costituisse una sorta di liberazione, che ci permetteva di toccare, per cosi' dire, con mano cio' che sarebbe stato possibile fare ed apprendere in una scuola emancipata dall'incantesimo della repressione e del dominio di classe. Un'altra esperienza di cui vorrei riferire qui, e che e' stata anch'essa un hors-d'ouvre isolato nel grigiore delle giornate dedicate alla routine del lavoro scolastico, e' stata rappresentata da un'inchiesta fatta in due classi del Liceo Cattaneo (una quarta e una quinta) sulle materie studiate nel Liceo Scientifico, in cui gli studenti venivano invitati a dire quali di esse avrebbero voluto espungere dal curriculum e quali invece mettere al loro posto, quali modifiche avrebbero voluto introdurre nei contenuti dell'una e dell'altra e nei metodi adottati nella loro trattazione, e a formulare, in generale, tutte le idee e le esigenze che potevano avere concepito o provato nel corso dello studio e della riflessione su di esse. L'insegnamento della storia e della filosofia era stato oggetto, com'e' ovvio, di un'attenzione e di una cura particolare nella formulazione del questionario, anche perche' le domande ad esse relative avevano gia' costituito un tema frequente di riflessioni e di discussioni nel corso delle lezioni. Le risposte potevano andare da un semplice si' o no a un discorsetto relativamente lungo in cui gli studenti (spesso i migliori e i piu' provveduti) esprimevano i loro dubbi e le loro incertezze, e cioe', in altri termini, i pro e i contro che si potevano addurre a favore dell'uno o dell'altro corno del dilemma enunciato. Un elenco statistico delle risposte e una sintesi ragionata delle risultanze che scaturivano da ogni gruppo di esse, con una serie di considerazioni introduttive e conclusive da parte di chi aveva programmato e condotto l'inchiesta (a cui aveva partecipato anche una valente collega della mia scuola), sono stati pubblicati come allegato al numero di ottobre del 1985 della rivista "Rossoscuola", edita a quel tempo a Torino; e devo dire che questa inchiesta e' una delle cose che sono piu' orgoglioso di essere riuscito a impostare e a condurre a termine nel corso della mia abbastanza lunga carriera scolastica, poiche' mi sembra che da essa si possa vedere che cosa si dovrebbe far emergere dalle teste degli studenti, da quello che si potrebbe chiamare il cervello collettivo di una classe o di una comunita', che, nel suo insieme, e in tutta la varieta' delle sue inclinazioni e delle sue sfumature, mostra di poter essere un giudice e un critico piu' acuto di qualunque ispettore scolastico o consulente ministeriale (con tutto il rispetto che posso avere per gli uni e per gli altri), se non altro perche' gli studenti sono le cavie involontarie che vengono sottoposte quotidianamente a questa prova e avrebbero quindi il diritto di esprimersi e di pronunciarsi su tutti i suoi aspetti e su tutte le sue modalita', di cui hanno una conoscenza e un'esperienza piu' diretta di chiunque altro, dal momento che soltanto loro sono in grado, almeno in potenza, di produrre una sintesi complessiva dei suoi vari elementi e di stabilire i confronti e le relazioni necessarie, mentre gli insegnanti, nella maggior parte dei casi, almeno nelle scuole medie superiori, che soffrono in modo particolare di questa mancanza di coordinamento e di ricomposizione unitaria del corpo docente, tendono a chiudersi ciascuno nel proprio ruolo e non sono in grado di valutare, e spesso nemmeno di concepire, l'effetto cumulativo delle loro azioni separate e disgiunte. 6. RIFLESSIONE. UMBERTO SANTINO: MAFIA E ANTIMAFIA NELL'ERA BERLUSCONI [Questo articolo e' apparso su "Confronti" n. 6, del giugno 2002. Umberto Santino e' il presidente del "Centro siciliano di documentazione Giuseppe Impastato" (per contatti: via Villa Sperlinga 15, 90144 Palermo, tel. 0916259789, fax: 091348997, e-mail: csdgi at tin.it, sito: www.centroimpastato.it), il massimo studioso dei poteri criminali, e una delle figure piu' luminose del movimento antimafia] Ormai il ricordo delle stragi del '92 e del '93 si e' affievolito e la mafia non fa piu' notizia. Si e' parlato e si continua a parlare di mafia invisibile, sommersa o inabissata, ma per molti questi aggettivi sono sinonimi di inesistente. Se, come pensano in tanti, la mafia esiste solo quando spara ed e' un fenomeno di cui preoccuparsi solo quando uccide personaggi noti o notissimi, una mafia che non spara piu' e non produce "cadaveri eccellenti", ammesso che ci sia ancora, comunque non merita attenzione. Lo stereotipo della mafia come emergenza, misurata con il numero dei morti ammazzati, continua a imperare nel nostro Paese. Era forte gia' prima e nel nome dell'emergenza e' stata elaborata tutta la legislazione antimafia, dalla legge del 1982 con cui per la prima volta con piu' di un secolo di ritardo veniva definita l'associazione di tipo mafioso, una settimana dopo l'assassinio di Dalla Chiesa, alle leggi e ai provvedimenti sfornati dopo le stragi del '92 e del '93, in cui sono caduti Falcone e Borsellino. Una volta che i mafiosi hanno rinfoderato le armi, gia' con il centro-sinistra era cominciato lo smantellamento della legislazione emergenziale. Qualche esempio: la legge costituzionale sul "giusto processo" (art. 111 della Costituzione) ha aperto le porte alla possibilita' di rivedere anche processi con sentenze definitive e la nuova regolazione del pentitismo ha reso sempre piu' difficili e rare le collaborazioni. Con il centro-destra la situazione non solo si e' aggravata ma assistiamo a un salto di qualita'. I fatti parlano da soli. Si comincia con le elezioni, in cui vengono candidati ed eletti personaggi sotto processo per mafia, come Marcello Dell'Utri e Gaspare Giudice. Non poteva essere dato un segnale piu' chiaro di spregio della legalita'. Si continua con i primi cento giorni del governo Berlusconi: la depenalizzazione del falso in bilancio, l'inutilizzabilita' delle rogatorie internazionali per banali vizi formali, tutelano in primo luogo interessi personali del capo del governo e dei suoi familiari. E questo non era mai avvenuto in piu' di mezzo secolo di Repubblica. Berlusconi e' uno dei 358 superricchi che da soli possiedono quanto il 45 per cento della popolazione mondiale, ma come detentore di un cumulo di interessi, economici, politici, mediatici, e' un caso unico nel panorama dei paesi occidentali. E' stato un gravissimo errore dei governi di centro-sinistra non avere regolato il conflitto d'interessi e non ci si puo' scandalizzare se ora il magnate di Arcore lo regola a suo modo. Non passa giorno che non ci sia un attacco alla magistratura e l'estate scorsa ha destato scandalo una dichiarazione del ministro Lunardi che diceva che bisogna "convivere con la mafia", come se fosse un fenomeno naturale. Ma gli attacchi alla magistratura e i progetti di abolirne o ridurne l'indipendenza non sono frutto di intemperanze verbali o di carenze nel galateo istituzionale di alcuni ministri, decisamente impresentabili, ma rispondono a una precisa esigenza: il governo Berlusconi ha un modello istituzionale e un modello di accumulazione e sviluppo fondati sull'abolizione o riduzione dei controlli di legalita'. Anzi: richiedono una ridefinizione della legalita' che e' una vera e propria legalizzazione dell'illegalita'. Il modello istituzionale si fonda sul rafforzamento del potere esecutivo, l'asservimento del legislativo e la dipendenza del giudiziario, smantellando lo Stato di diritto; il modello di sviluppo mira all'incremento dei capitali, a prescindere dalla loro provenienza (cosi' si spiegano le facilitazioni per il rientro dei capitali dall'estero), e al rilancio delle grandi opere pubbliche, da fare in gran fretta, saltando i controlli. Pazienza se su molte di esse metteranno le mani i mafiosi. Siamo ben oltre la convivenza con la mafia. Il centro-destra coagula un blocco sociale e propone un modello antropologico fondati sulla competitivita' con ogni mezzo e sul successo a ogni costo. E qui ci sono forti consonanze con il modello mafioso. Anche se parecchi personaggi del governo e della maggioranza rappresentano la continuita', c'e' una buona dose di discontinuita' con il potere democristiano. Per avere un'idea basta guardare a come si sono comportati Andreotti e Previti. Il primo, l'uomo piu' discusso della prima Repubblica, accusato di reati gravissimi (mafia e omicidio), si e' presentato regolarmente alle udienze dei processi; il secondo fa di tutto per sfuggire ai giudici, perche' si ritiene un perseguitato dalle "toghe rosse", dai "comunisti". Il quadro e' davvero preoccupante e per ridisegnare un'alternativa non bastano i girotondi e le manifestazioni di piazza. Anche se sono il segnale di un risveglio e di una volonta' di rinnovare il quadro dirigente del centro-sinistra, che non ha perso occasione per mostrare la propria incapacita' e inadeguatezza. 7. MAESTRE. ANGELA ALES BELLO: LA CHIARIFICAZIONE DELLA SOLIDARIETA' [Da Angela Ales Bello, Edith Stein, Piemme, Casale Monferrato (Al) 2000, p. 56. Angela Ales Bello, decano della Facolta' di Filosofia dell'Universita' Lateranense a Roma, e' tra le piu' grandi studiose del pensiero fenomenologico; Edith Stein, tra le pensatrici somme del Novecento, fu assassinata dai nazisti ad Auschwitz] Per Edith Stein, la chiarificazione della solidarieta' e' possibile solo al termine di una lunga analisi sull'essere umano. 8. RILETTURE. PAOLA CAVALIERI: LA QUESTIONE ANIMALE Paola Cavalieri, La questione animale, Bollati Boringhieri, Torino 1999, pp. 192, lire 24.000. Una attenta riflessione su etica e animali non-umani. 9. RILETTURE. BERNHARD HAERING: NUOVE ARMI PER LA PACE Bernhard Haering, Nuove armi per la pace, Edizioni Paoline, Roma 1984, pp. 104, lire 5.000. Il grande teologo morale per la pace e la nonviolenza. 10. RILETTURE. AGNES HELLER: TEORIA DEI SENTIMENTI Agnes Heller, Teoria dei sentimenti, Editori Riuniti, Roma 1980, 1981, pp. 304. Una fine riflessione fenomenologica e sociologica sui sentimenti della grande pensatrice ungherese. 11. RILETTURE. MUHAMMAD YUNUS: IL BANCHIERE DEI POVERI Muhammad Yunus, Il banchiere dei poveri, Feltrinelli, Milano 1998, 1999, pp. 272, lire 35.000 (ma ci dovrebbe essere anche un'edizione economica successiva). La rilfessione e l'azione del promotore della straordinaria esperienza della Grameen Bank. 12. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dellâambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dellâuomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 13. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: http://www.nonviolenti.org; per contatti, la e-mail e': azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: http://www.peacelink.it/users/mir; per contatti: lucben at libero.it; angelaebeppe at libero.it; mir at peacelink.it, sudest at iol.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: http://www.peacelink.it. Per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Per non ricevere piu' questo notiziario e' sufficiente inviare un messaggio con richiesta di rimozione a: nbawac at tin.it Numero 383 del 13 ottobre 2002
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