Impronta italiana e quella giapponese



Cari amici,
a proposito della mia lettera dall'Italia "Impronta del governo" pubblicata su Internazionale,
alcuni lettori me l'hanno voluto commentare come i seguenti.
Nel caso che potessero interessarvi, ve li inoltro insieme alla mia replica in
cui ho scritto sui rilievi delle impronte digitali agli stranieri in Giappone in
vigore dal 1952 al 1999. (Scusate della lunghezza della mia, ma come è ovvio,
non siete obbligati a leggerlo tutto!)
Saluto di pace,
yukari
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Confesso che il suo articolo, a commento dei fatti italiani, pubblicato sull'ultimo numero de l' Internazionale (L'impronta di Governo) non mi ha convinto molto. Avrei preferito leggere un suo report che confronta le leggi immigratorie in vigore nel suo Paese con quelle italiane, e non solo un acido commento. Da quel che ricordo non mi pare che in Giappone vi sia molta accondiscendenza
verso gli immigrati o gli stranieri in genere.
Sono sicuro che un suo articolo su come i libri di Storia, in uso nelle scuole del suo Paese, riportano i fatti dell'ultimo conflitto mondiale e dei sentimenti non amichevoli che tuttora la società nipponica nutre nei riguardi "degli altri", non darebbe un'immagine molto più positiva di
quella che Lei accorda al mio Paese.
Sarò lieto di leggerlo, se la direzione de l'Internazionale, tanto affannata a sostenere che da noi
tutto va male,  glielo consentirà.
Auguri di buon lavoro

E. P.
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La lettera della settimana di Yukari Saito sulla legge
sull'immigrazione è al tempo stesso assurda e paradossale. Assurda
perchè arriva a tacciare di nazismo una legge per molti aspetti
discutibile ma che non credo preveda internamenti in campi di
sterminio; l'obbligo delle impronte digitali, che tanto ha
scandalizzato certe anime belle, è in uso anche negli Stati Uniti e in
Spagna: c'è il nazismo anche in questi paesi? Evidentemente il tono
sensazionalista di certa sinistra nostrana contagia anche i
corrispondenti esteri. Semplicemente ridicola è poi l'affermazione che
la legge ridurrebbe gli extracomunitari a "untermenschen": le impronte
le dovranno lasciare infatti anche gli italiani. Forse l'autrice
dell'articolo dovrebbe informarsi meglio sulle leggi in vigore negli
altri paesi prima di spararle. Paradossale è poi la sua requisitoria
perchè viene da una giapponese: un cittadino americano di origine
giapponese si lamentò qualche mese fa sul New York Times del fatto che
nei bagni pubblici locali, molto frequentati dai giapponesi per le loro
abluzioni, l'ingresso agli stranieri era velatamente osteggiato, con
orientale e un po' ipocrita gentilezza, o apertamente vietato con
brutale franchezza occidentale. Le guide turistiche sull'Italia
stampate in Giappone cominciano quasi sempre con affermazioni del
tipo "l'Italia è un paese pericoloso", seguite da allarmanti
descrizioni su come le strade romane e italiane in genere siano
infestate da scippatori di cui non si nasconde l'origine Rom o
sudamericana. Qualche giorno fa i giornali italiani e esteri hanno
riferito un episodio accaduto nel centro di Roma: una troupe televisiva
giapponese voleva fare un servizio sulla piaga degli scippi che
colpiscono i turisti stranieri. Il servizio deve essere riuscito bene
perchè la giornalista stessa è stata scippata davanti alle telecamere.
Cordiali saluti.
A.N.
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La signora Saito dovrebbe fare qualche paragone, in tema
di immigrazione, fra l'Italia ed il suo paese; dove
milioni di immigrati specie coreani, sono di fatto
cittadini di serie B, e per legge dello stato anche dopo
decenni di permanenza lavorativa, a parte terroristi neri,
a nessuno è concessa la cittadinanza giapponese.
Vorrei poi ricordarle di non ignorare l'insostenibile
incidenza demografica dei paesi poveri.
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Gentili Signori,

la redazione di Internazionale mi ha inoltrato i vostri
messaggi riguardo alla mia lettera dall'Italia "L'impronta
del governo".
Desidero innanzi tutto ringraziarvi della vostra
attenzione e di aver voluto commentare l'articolo.
Poiché le vostre osservazioni e richieste hanno qualche
punto in comune, vogliate perdonarmi se tento una mia
risposta in unica lettera indirizzata a tutti.
* * *
Quando accettai il gentile invito della redazione a
scrivere per la rubrica, avevo in mente un'impostazione
dell'articolo assai diversa da quella che poi è venuta fuori.
Anzi, decisi di cogliere l'opportunità offertami da tempo,
proprio perché la questione dei rilievi delle impronte digitali
agli stranieri mi toccava profondamente, non tanto per
il fatto di appartenere alla categoria assoggettata alla nuova
normativa, quanto essa mi ricordava delle dure battaglie
per i diritti civili e per la conquista della parità dagli stranieri
nel mio paese. Difatti, la prima esclamazione che feci tra me
e me è stata "ecco, la colpa dei nonni che cade sui nipoti
immigrati!".
Tuttavia, rileggendo alcuni materiali sulla questione, mi
accorsi che le situazioni dei due paesi non erano così simili
come immaginavo e un confronto utile che avrei voluto
esporre sul settimanale non era possibile, almeno in uno
spazio così limitato.
Se avete la pazienza, vi racconto una storia, così avrete
qualche idea anche sui trattamenti degli stranieri in Giappone.
* * *
Dal 1952 fino a una decina di anni fa, l'ordinamento
giapponese prevedeva i rilievi delle impronte digitali a
tutti gli stranieri soggiornanti sul territorio per più di un anno.
La motivazione ufficiale era la mancanza di un'anagrafe
degli stranieri.
In realtà, si trattò di un provvedimento escogitato per
colpire gli ex sudditi dell'imperatore, i coreani e i cinesi
residenti. Erano gli immigrati o i deportati sotto
l'occupazione giapponese e i loro figli e nipoti nati in Giappone.
Dopo la caduta dell'impero, molti di loro tornarono
nelle terre d'origine, mentre gli altri scelsero di stabilirsi
nell'arcipelago. Questi, però, con l'indipendenza delle loro
patrie perdettero la cittadinanza giapponese e vennero
cancellati dall'anagrafe che in Giappone è riservata ai
cittadini giapponesi.
Volendo, avrebbero potuto ottenere la cittadinanza
giapponese senza difficoltà, ma molti - giustamente -
non accettarono la condizione postagli dal governo,
la rinuncia ai nomi coreani o cinesi sostituiti con
nuovi nomi alla giapponese.

In assenza dell'anagrafe, dunque, le autorità introdussero
la carta d'identità per i residenti stranieri, un documento
inesistente per un cittadino giapponese come non esiste
per un cittadino britannico.
Non si tratta di un permesso di soggiorno, perché, a
differenza di questo, essendo a tempo indeterminato ed
rinnovabile automaticamente a ogni scadenza, attualmente
ogni 5 anni.
(Il discorso cambia se uno straniero è residente all'estero
che vi soggiorna per motivi a tempo determinato, come
per studio o per un lavoro a contratto termine).
Qualcosa assai simile alla carta di soggiorno, introdotta
da pochi anni anche l'Italia.
* * *
 Tra parentesi, sapete che le vostre questure sono assai
avare della carta di soggiorno, più di quanto è previsto
dalla legge? La carta di soggiorno è un documento che
dura per 10 anni, rinnovabile come la carta d'identità e
consente al possessore di entrare e di uscire dal paese
liberamente. Un documento creato apposta per integrare
gli immigrati stabili "regolari", anzi si direbbero i
cittadini modelli (senza problemi giudiziari, occupati ecc.
una categoria a cui non tutti gli italiani, a cominciare da
certi parlamentari, non appartengono) che avevano
vissuto in Italia ininterrottamente per più di 5 (ora 6)
anni e intendono restarci definitivamente o quasi.
Ad esempio, anch'io ne avrei pieno diritto, ma l'ultima
volta che rinnovai il permesso di soggiorno, mi diedero
"il permesso" che dura soltanto 4 anni senza alcuna
informazione in merito, mentre al mio consorte, cittadino
comunitario che era con me, diedero "la carta" senza
alcuna sollecitazione. Ecco, uno dei motivi per cui oso
definire gli extracomunitari "Untermensch", non siamo
semplici stranieri o immigrati. Ve ne renderete conto
probabilmente anche voi, se andaste a trascorrere una
mezza giornata nell'ufficio stranieri della vostra questura.
* * *
In Giappone, tutti gli stranieri, anche quelli entrati
clandestinamente, con l'eccezione dei diplomatici e
i militari delle basi americani, se soggiornano più di
3 mesi, hanno l'obbligo di denunciarsi e chiedere una
carta di soggiorno che va portata sempre con sé.
Se la polizia vi scoprisse senza la carta, pagherete
una multa variabile, al massimo di 200 mila yen,
poco meno di uno stipendio minimo netto da
operaio alle prime armi.
Ma, rispetto al sistema attuale italiano, c'è un'altra
differenza, secondo me non irrilevante: per la
richiesta della carta si reca ad uno sportello normale
negli uffici comunali anziché in questura, né si
debba soffrire di code interminabili sotto gli
occhi severi e i manganelli.

Ma torniamo ai rilievi digitali in Giappone.
Dopo molte polemiche e protesta, nel 1952
entrano in vigore i rilievi per tutti gli stranieri di
età maggiore ai 14 anni che soggiornano
nel paese per più di un anno (le pratiche, però,
partirono soltanto dal 1955).
Secondo le autorità era l'unico modo efficace
per riconoscere l'identità.
Ma questo è una vera frottola. Volevano
soltanto umiliare gli ex sudditi dell'Impero.
I veri obiettivi erano, naturalmente, i cinesi
e i coreani. Tanto è che dopo l'abolizione
dell'obbligo per gli residenti permanenti
(che erano appunto loro) nel 1993, ci volle poco
a eliminarlo per tutti gli stranieri (1999).
E oggi, gli basta una firma.

Anche la modalità dei rilievi ha subito alcuni
cambiamenti nel corso degli anni; da tutte le
dieci dita con l'inchiostro nero da criminali
(fino al 1884) a soltanto un dito con l'uso
dell'apparecchio tecnologico senza sporcare
le mani. E nel 1882 l'età minima fu innalzata
ai 16 anni, mentre dal 1987 un rilievo basta
per tutta la vita. Infine nel 1999, l'abolizione completa.
Tutto ciò, stando ai vari statistici, non ebbe
alcuna incidenza sulla sicurezza dei cittadini,
come d'altronde era prevedibili.

E gli stranieri come reagirono ai rilievi?
Ci furono non pochi obiettori, ai quali non era
prevista l'espulsione ma una carta a scadenza più
breve e eventualmente un processo che, però,
spesso veniva accolto dallo straniero come
un'opportunità per denunciare i mali del sistema.
Il maggiore inconveniente per loro era, invece,
la difficoltà di rientrare nel paese una volta usciti.
Non gli venivano, infatti, rilasciati i permessi di
rientro che di solito si ottiene nel momento della
partenza. (A causa di questo, un prete francese,
leader degli obiettori di coscienza ai rilievi, non
poté partire per la Francia per partecipare ai funerali
della mamma).

E' vero, come dite voi, il Giappone, storicamente
parlando, non è un paese accogliente verso gli stranieri.
Si può cercare diverse spiegazioni, culturali, geografiche,
psicologiche, sociali ecc. Tuttavia, per quanto concerne
la politica sull'immigrazione negli ultimi decenni, è
controtendenza rispetto all'Europa, sta andando verso
l'apertura pur lentamente.
Un fatto curioso è che il primo passo verso l'apertura
fu compiuto negli anni 1975-1978, proprio nei momenti
in cui arrivarono sulle coste giapponesi parecchi rifugiati,
i cosiddetti "boat people" vietnamiti. Il governo
giapponese, sotto le forti pressioni degli altri G4 dell'epoca,
dovette rivedere la propria politica in materia
dell'immigrazione per poter accogliere nella società
un numero maggiore dei rifugiati. Di conseguenza,
fu costretto a mitigare la discriminazione verso gli
stranieri residenti da tempo.
La semplificazione dei rilievi di cui ho appena scritto fu
una conquista anche grazie alla gente arrivata in gommone.

Come vedete, la storia giapponese non aiuta molto
gli italiani, almeno chi vuole cercarvi delle giustificazione
per la nuova legge.
Cari signori, se vi fa sentire un poco meglio ascoltare
i guai altrui, non mi costa niente ammettere che anche
in Giappone ci sono tanti xenofobi o parlare del revisionismo
storico che esiste anche nel mio paese d'origine.
Ho preferito, invece, rallegrarmi con voi, cittadini italiani,
perché questa brutta legge fece scoprire a molti di noi
extracomunitari che ci sono tanti italiani generosi e solidali
come le persone disposte a adottare un colf o a consegnare
le proprie impronte digitali a cui la mia lettera fa un cenno.
Per questo vorrei assicurarvi che io non credo affatto
che in Italia tutto vada male, anzi.

In ogni caso, il tema del mio articolo non era la mentalità
o i pregiudizi della gente, bensì la politica, la legislazione e
il meccanismo economico che aggravano i problemi
inerenti all'immigrazione.
Sono i due aspetti che vanno distinti e il secondo ha
un'aggravante di condizionare il primo.
Appunto, per questo trovo gravissimo il sostegno o
l'accettazione indifferente della nuova normativa che
incoraggia molti italiani a desiderare di collocarsi un
gradino sopra rispetto agli altri esseri umani, negandogli
l'umanità di considerare uno straniero come il loro prossimo.

Infine, per rispondere a chi crede che il nazismo inizi e
finisca nei campi di sterminio, mi limito a citare il famoso
monito di Martin Niemoller lanciato durante il nazismo:

Essi vennero contro i comunisti
e io nulla obiettai
perché non ero comunista;
essi vennero contro i socialisti
e io nulla obiettai
perché non ero socialista
essi vennero contro i dirigenti sindacali
e io nulla obiettai perché non ero dirigente sindacale;
essi vennero contro gli ebrei
e io nulla obiettai
perché non ero ebreo;
essi vennero contro di me
e non era rimasto
nessuno a obiettare.
* * *
Grazie di avermi letto anche questa volta, vi saluto molto cordialmente,
y.s.